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Ok, ci ho messo una vita per questo terzo
capitolo... chiedo venia ai miei 4 fedelissimi lettori! Però, fedelissimi, oltre
alla pazienza voglio chidervi ance qualcos'altro stavolta: ho una gran paura di
avere fatto un bel casino con la mia "Galadriel" (e in realtà temo anche di
avere mandato un po' OOC Dean...) mi dite voi cosa ne pensate? Aspetto i vostri
commenti con trepidazione! Grazie a tutti!
Ah Gwanath ned i Gûr
(Con la Morte nel Cuore)
*
“Non
dirò, non piangete, perché non tutte le lacrime sono un male”
"I will not say, do not weep, for not all tears are an evil."*
[J.R.R.
Tolkien, Il Signore degli Anelli _ Il Ritorno del Re]
Macchie di verde e d’argento su di un cielo notturno. Facevano a gara con le
stelle in splendore e magnificenza. Ondeggiavano leggermente alla silenziosa e
tiepida brezza di una primavera inoltrata, guardando con invidia le sorelle che
già tingevano il loro manto dell’oro che avrebbe rivestito il bosco di lì a poco
tempo. Lòrien pareva vestirsi a festa per i suoi visitatori, salutando con gesti
lenti delle sue fronde possenti, il primo piede mortale che calpestava il suo
suolo in secoli e secoli di esistenza, e schiudendo i suoi tesori segreti per
ornare il sentiero del nuovo Re degli uomini. Sussurri sembravano correre tra le
foglie dei Mellyrn, come se gli alberi stessi volessero raccontare del dolore
che vedevano seguire come una cupa ombra questo figlio degli uomini, come se si
accingessero ad un tratto a cantare il dolore di un cuore vuoto.
Dean sedeva sull’erba soffice, la schiena, coperta solo da una soffice maglia
bianca, poggiata all’enorme tronco argentato di uno degli alberi, cercando di
sentire la vita che batteva sommessa ma forte in questo bosco che pareva
incantato; riuscendo solo a percepire il dolore sordo e costante che continuava
ad assordargli il cuore. Neppure le limpide acque del Nimrodel, il conforto di
ogni viaggiatore, avevano potuto scacciare da lui la stanchezza invincibile che
uccideva ogni suo passo, come fosse già sconfitto, già avvolto in un’ombra
mortifera. Ed ora sedeva lì, una mano abbandonata stancamente su di un fodero
ornato che pareva ormai solo un inutile fardello, e gli occhi rivolti all’insù,
ad un cielo indifferente che sembrava osservarlo da lontano, con le sue fredde
lucciole pronte a giudicare la sua debolezza e condannare lui e tutte le vane
speranze che in lui erano state riposte.
Non c’era stato tempo per fermarsi e piangere, non c’era stato tempo per
chiedersi cosa fare, a chi dare la colpa, non c’era stato tempo neppure per
rendersi conto di ciò che era irrimediabilmente perduto. Gli orchetti li
inseguivano e malgrado la magia di Bobby avesse sbarrato le porte di Moria
dietro di loro, non c’era stato tempo per fare nulla se non correre, lasciare
quelle montagne nefaste che si erano tramutate in una orribile tomba, volare
sull’erba verde alle loro pendici per cercare il rifugio degli alberi d’oro di
Lothlorien e dei suoi Galadhrim. Cercare rifugio dagli Elfi, in questo reame
incantato e bellissimo, per sfuggire all’occhio oscuro dei nemici, per
nascondere al loro sguardo malizioso la spada e una speranza, morta con un grido
e un lampo d’azzurro che si spegne nel buio, e andare avanti, ancora avanti,
sempre avanti, un passo dopo l’altro come il cammino di un sonnambulo che
arranca verso il burrone.
Non c’era stato tempo neppure per pensare, fino a che non avevano raggiunto i
cancelli di Caras Galadhon, la città degli Elfi nel cuore del reame d’oro della
Dama, e Dean ne era stato grato. Grato di poter semplicemente portare un piede
davanti all’altro, seguendo Bobby e Sam ciecamente, senza pensare ad un futuro
che i suoi occhi non volevano più vedere, ad un presente appeso sulla sua testa
e pronto a schiacciarlo.
Ma ora… ora era solo sotto quel tronco imponente, che lo faceva sentire tanto
piccolo da parere insignificante: guardava distrattamente le piccole luci che
illuminavano i flet, le case degli Elfi costruite tra i Mellyrn, e benché
l’avessero abbigliato come un principe degli Eldar, non riusciva a sentirsi
parte di quel luogo, di quella realtà ancora capace di sorridere e gioire della
relativa sicurezza ovattata di un mondo di foglie e argento. Il cibo, il
giaciglio promesso e cercato, perfino la lunga strada che ancora si srotolava
davanti ai suoi piedi parevano ricordi effimeri, lontani ed insignificanti.
Canti distanti riempivano, senza disturbarla, l’aria della notte: melodie dolci
che inducevano a riposare, ma che si ostinavano a suonare al suo orecchio come
inni funebri, innalzati da voci angeliche nelle parole di una lingua da lungo
tempo dimenticata per piangere la scomparsa del più candido fra i primogeniti di
Iluvatar.
Non ricordava più per quante notti, quando era solo un fanciullo, era rimasto a
sentire la voce di Castiel che gli raccontava del grande mondo: delle terre
Selvagge e dei suoi boschi, oscuri ma amati, nel lontano Nord; della luce sempre
calda e dorata, come in un eterno tramonto autunnale, che le foglie degli alberi
di Lòrien riflettevano sul suo terreno incantato. Lo aveva ascoltato narrare la
storia di Lòrien, il Vala che amò tanto quella terra da stendersi su di essa e
divenirne parte, facendovi germogliare l’oro dei Mellyrn; e quando lo aveva
sentito descrivere come le nuove foglie spuntassero ogni primavera su quei rami
millenari, verdi e argentate al tempo stesso, aveva desiderato camminare fra
quei fusti, arrampicarsi nelle alte case degli Elfi ed ammirare il giallo fiore
degli Elanor e il bianco candore dei Niphredil, mentre divideva il pane Elfico
con la Dama in persona.
Anche per questo era partito, dieci anni prima, per il ricordo di quei racconti
aveva percorso instancabile i sentieri della Terra di Mezzo, e grazie a quel
ricordo la lontananza gli era sembrata a volte meno pensante e la solitudine
meno terribile. Ma ora che finalmente si trovava seduto su quel manto d’oro, ad
osservare le foglie d’argento tingersi per la primavera, ogni desiderio ardente
di fanciullezza si era spento, e non rimaneva altro che un vuoto che faceva
orrore, e una paura innominabile, in agguato appena oltre il limite della sua
coscienza. C’era una strada che conduceva nell’ombra, davanti a lui, e la luce
cui si era appoggiato per percorrerla gli era stata strappata con il fragore di
un mondo che crolla.
Poteva ancora rivedere i suoi occhi, il suo sorriso rassegnato ma audace, se
solo si azzardava ad abbassare le palpebre: un’immagine che si stagliava su di
uno sfondo di fiamma, e ombre che divoravano ogni cosa, bruciandogli l’anima
fino a consumarla. Eppure, se passava la lingua sulle labbra, il suo sapore era
ancora lì, indugiava sulla sua pelle come un fantasma che non voleva lasciarlo,
circondandolo di un ricordo che gli scavava nel cuore fino a farlo sanguinare.
Avrebbe voluto dimenticare tutto, e al tempo stesso si aggrappava a
quell’immagine, a quel sapore, a quel sentore sommesso di amore ed eternità, e
forse solo immaginato con la forza di un disperato.
Dean chinò il capo e lo sprofondò fra le proprie mani, mentre le dita si
intrecciavano ai corti capelli castani, stringendosi a pugno fino a farsi del
male, e una lacrima bagnava le sue ciglia, per poi correre veloce a confondersi
fra l’oro delle foglie sul terreno. Avrebbe voluto strapparsi il cuore dal
petto, per quanto vuoto, e pesante, e doloroso gli sembrasse, ma non voleva
dimenticare, accarezzava il suo dolore come un amante, perché era tutto ciò che
gli restava di lui.
- Dean – lo chiamò ad un tratto una voce che riconobbe subito, malgrado l’avesse
udita solo una volta: dolce nelle sue note quanto era perentoria nel tono.
Il giovane uomo non si preoccupò di asciugare il viso e cancellare le tracce
delle lacrime come avrebbe fatto solo qualche tempo prima, ma semplicemente alzò
i suoi occhi verdi resi gemme brillanti dal dolore, per fissarli sull’Elfa di
fronte a lui.
I suoi lunghi capelli neri gli ricordavano subito Lisa, ma c’era qualcosa di
profondamente diverso nella creatura che aveva innanzi, qualcosa di antico e
potente, che lo faceva tremare e al tempo stesso lo rincuorava. Dean scrutò i
lineamenti severi ma piacevoli del volto della Dama, e la sua figura alta e
snella, avvolta nei morbidi veli bianchi del suo lungo abito di seta, ma furono
gli occhi, i suoi chiarissimi e fermi occhi azzurri ad incatenare il suo sguardo
senza più lasciarlo andare. Quando la Dama gli sorrise, un sorriso caldo e senza
sotterfugi, il ramingo sentì finalmente scivolare via un po’ della stanchezza
che sembrava volerlo uccidere lentamente, e per un secondo benedetto nella sua
mente non ci furono più visioni di fiamma ed oscurità, ma un vuoto piacevole e
calmo. Nessun sorriso e nessuna magia gli avrebbero portato via la pena che gli
bruciava al centro del petto, tanto saldamente vi si era aggrappato, ma quando
la Dama gli tese una mano, in un chiaro invito ad alzarsi e camminare con lei,
Dean obbedì immediatamente, muovendosi lento ma deciso, all’interno della strana
pace malinconica che aveva avvolto il suo dolore.
“Seguimi, Dean. Ci sono cose che devi vedere” disse la Dama sorridendogli
ancora, e il ramingo si trovò a pensare che non era come l’aveva immaginata, la
creatura eterea e sfuggente che si era aspettato: c’era qualcosa di concreto e
schietto in lei, che la rendeva come più presente, e al tempo stesso
completamente distante dai suoi simili.
“Voi siete la Dama, la signora del Bosco d’Oro…” non sapeva bene se quella che
aveva appena pronunciato fosse una domanda oppure no: malgrado fosse diversa da
come l’aveva sognata, Dean non aveva dubbi di trovarsi di fronte a quella che
gli uomini aveva spesso chiamato una strega, una veggente.
La signora annuì con decisione, mentre lo conduceva con passo sicuro fra gli
alberi, aggirando la collina di Caras Galadhon, fino a raggiungere l’ampia
radura dove un ruscello scorreva allegramente in un piccola cascata, accanto
alla quale riposava un’anfora d’argento e quello che pareva un tondo bacile di
pietra. “Dama Pamela è il mio nome, Dean di Nùmenor, e da molte ere veglio e
proteggo questo luogo” rispose infine la Dama, voltandosi per indirizzare uno
sguardo orgoglioso al giovane uomo “La tua gente mi ha chiamato strega, e molti
mi temono” proseguì mentre raccoglieva l’anfora, portandola a riempirsi tra le
acque chiare del torrente “Ma non tu. Il tuo cuore è tanto vuoto che nemmeno la
paura vi trova più spazio, eppure c’è ancora una lunga strada davanti a te…”
l’Elfa si fermò davanti al bacile e fissò gli occhi di ghiaccio in quelli di
Dean “Ci sono cose che hai bisogno di vedere, ma non sarò io a costringerti.
Vuoi guardare nello specchio, Dean di Nùmenor?”
Il ragazzo osservò l’acqua scivolare lentamente dal bordo incurvato dell’anfora
fino a riempire il grosso bacile di pietra chiara. Si sentiva come ipnotizzato
dai gesti delle mani dell’Elfa, tanto quanto il suo sguardo era attirato dalla
superficie increspata dell’acqua: temeva ciò che avrebbe potuto vedere, perché
che fosse stata vittoria o disfatta, non c’era in lui più desiderio di
percorrere quello o alcun sentiero.
“Cosa vedrò?” chiese d’improvviso, spinto dall’impulso di rimandare ancora la
decisione, il momento in cui, inevitabilmente, avrebbe abbassato lo sguardo e
scrutato nelle acque.
“Nemmeno il più saggio può dirlo. Lo specchio mostra molte cose: cose che sono,
cose che furono, e alcune cose che devono ancora verificarsi. Lo specchio ti
mostrerà ciò che hai bisogno di vedere” rispose la Dama pacata, riponendo
l’anfora senza mai staccare le iridi azzurre da quelle dell’uomo. Sembrava che
stesse leggendo l’anima stessa del ragazzo, e Dean percepiva che era davvero
così, ma era troppo stanco per sentirsi minacciato o per pensare di fuggire.
Dean sapeva cosa aveva bisogno di vedere, quello che non sapeva era se lo
specchio glielo avrebbe davvero mostrato, o se sarebbe stato in grado di
sopportarne la vista. In ogni caso, l’unica cosa di cui era sicuro era che non
si sarebbe allontanato senza tentare, senza provare almeno a recuperare un
qualche significato per ciò che stava facendo. Il ragazzo prese un profondo
sospiro, poi i suoi occhi verdi si abbassarono lentamente sulla superficie
perfettamente quieta dell’acqua sotto di lui, e si ritrovò a fissare il nero
liquido del cielo punteggiato di stelle. Aveva quasi iniziato a credere che il
suo cuore fosse troppo vuoto perfino per essere letto dalla magia delle strega
del Bosco d’Oro, quando finalmente un’immagine iniziò ad apparire sul fondo di
pietra.
Alberi, e macchie di un sole freddo, spento. Il verde mantello irregolare di un
bosco che non aveva mai visto, e poi il correre veloce di un cavallo affannato,
montato da un uomo fiero con gli occhi verdi. Un Re fiero con gli occhi verdi. E
poi urla, sangue, buio e gorgoglio di morte. Le bianche pietre scintillanti di
una torre nel sole velato di un mezzogiorno invernale, e le fiamme che si alzano
da due corpi sulle loro pire. Lacrime, e dolore, e oscurità, e morte. E una fuga
nel cuore della notte, e un sorriso freddo che non sa rincorrerlo.
E una fanciulla vestita di bianco: il suo abito si agita come un vessillo
catturato dal vento mentre osserva orde nere correre incontro alla sua casa. E’
fiero il suo sguardo, velato dai fili dorati della sua chioma bionda, e la sua
mano non trema ma regge una spada, pronta a combattere, pronta a morire insieme
ai suoi amici, ai suoi soldati in groppa a splendidi cavalli che fremono ai
primi sentori della battaglia. Fiamme, sangue e morte si dipingono sul chiaro
volto giovane adorno di scompigliati capelli biondi, e spaccato da un’orrenda
ferita sanguinante.
Un fulgore nel buio, il lampo di una lama scintillante di fredda vita che beve
il cremisi orribile di sangue innocente, mischiato al nero osceno di creature
rovinate dall’oscurità. Un bagliore, una corona, un trono vuoto che attende in
silenzio, già imbrattato di sangue. Una speranza così esigua da parere follia,
eppure ancora viva, bruciante di vita.
E poi azzurro, il blu intenso di cieli d’estate avvolti da un’ombra troppo nera
per essere contrastata. E il lampo rosso di sangue e fiamma su di un’armatura
candida, risplendente in mezzo alla morte.
Dean ansimava vistosamente, e le sue mani stringevano tanto forte il bordo di
pietra del bacile da farsi male. Non si accorse delle lacrime che erano tornate
a rigargli il viso, fino a che non le vide cadere a mischiarsi con l’acqua,
spezzando quell’ultima abbagliante visione di bianco. Aveva voglia di prendere a
pugni quello strano altare di pietra, di scuoterlo fino ad estirparlo dalle
radici della terra e ridurlo a pezzi, voleva gridare, e correre fino a sentire i
polmoni bruciargli nel petto. Crollò in ginocchio ed afferrò manciate della
tenera erba verde che indifferente cresceva nell’autunno d’oro di Lorièn. Voleva
ferire il cielo stesso, perché non era giusto che potesse esserci ancora tanta
bellezza intorno a lui mentre il suo cuore era un paese straziato.
“Dean” lo chiamò la voce gentile ma ferma della Dama, e quando la sua mano si
posò sulla sua schiena, proprio all’altezza del cuore, qualcosa dentro di lui si
riscosse e il dolore impotente diventò rabbia, e poi qualcosa di ancora diverso.
Non poteva strappare i Valar dai loro troni indifferenti, come non poteva far
cessare la pena bruciante che colava come sangue infetto dal suo cuore, ma forse
poteva ancora salvare una fanciulla dallo sguardo indomito e i capelli biondi.
“Rohan, devo andare a Rohan” |