Lacrime nascoste
Autore: Ely79
Titolo: Lacrime nascoste
Personaggi: Petunia Dursley, Lily Evans, Harry Potter.
Avvertimenti: one shot, missing moment
Genere: introspettivo
Rating: verde
Introduzione: Due momenti della
vita di Petunia Dursley. I suoi pensieri, da bambina e da madre, nei
confronti di una realtà che non può e non vuole accettare.
Pacchetto: Infanzia
Personaggi: Harry Potter, Petunia Dursley
Colore: Arancione
Un'infanzia felice è una cattiva preparazione ai contatti umani. Colette, in Michèle Sarde, Una vita libera e condizionata, 1978
Manic Street Preachers – If you tolerate this (your children will be next)
Prompt: acqua.
NdA: le
citazioni della canzone sono indicate in grassetto. Petunia ragazzina
è descritta spaventata dai poteri della sorella, ma arriva a
scrivere una lettera a Silente per farsi accettare a Hogwarts. Da
adulta è una ficcanaso, maniaca dell’ordine, che tratta
malissimo Harry, pur avendo acconsentito a tenerlo con sé. In
questa fiction ho cercato di immaginare la situazione dal su punto di
vista. Da nessuna parte viene fatta menzione di eventuali incontri con
Silente, quindi quelli riportati qui sono solo una mia ipotesi.
24 settembre 1969
Il pomeriggio volge alla sera, il
sole cala oltre le cime degli alberi e dietro i tetti delle case. Una
brezza lieve fa vibrare le prime foglie ingiallite. Alcune si staccano
e fluttuano via, rincorrendo i refoli impertinenti che s’infilano
nelle finestre socchiuse. Una bambina cammina quasi a ridosso del muro
di un’abitazione. É rigida, impettita, fredda. La sua
espressione parla di sgomento e rabbia repressa, di paura e dolore
dissimulato. Troppo per una bambina della sua età. Canticchia
sottovoce, fingendo di contemplare gli ultimi fiori rimasti nei vasi
sul davanzale della sala da pranzo, ma in realtà scruta di
sottecchi l’angolo opposto del giardino.
C’è una sedia appoggiata
alla staccionata e, sopra questa, è inginocchiata un’altra
bambina. Parla con qualcuno nella stradina di servizio. Ride. Scuote i
capelli rossi, un’allegra fiamma nelle prime ombre della sera.
D’un tratto, si volta verso la più grande, le fa cenno
d’avvicinarsi, ma questa le volta le spalle, sdegnosa, e riprende
a camminare.
Qui è tutto arancione. L’erba, i muri di casa, il
viottolo, la porta sghemba e un po’ scrostata del ripostiglio.
Quanto odio quella vernice piena di crepe che si sbriciola sempre e
sporca per terra. Anche l’acqua nei sottovasi della mamma
è arancione. Una volta ci intingevamo la punta delle dita per
scoprire se le fate l’avevano trasformata in aranciata. Erano
solo giochi di bambine. Giochi senza alcun fine. Giochi da abbandonare
per poter crescere. Io l’ho già fatto, sono grande. Lo
sono sempre stata, lo dice anche papà. Dice che sono più
grande della mia età. Troppo più grande. Ha addirittura
detto che, a volte, ragiono da vecchia. E questo perché guarda a
te, continuamente.
Prendo un sottovaso e lo vuoto. L’acqua cade in una cascatella,
scintillando e gorgogliando. Per un istante si mescola alla tua risata.
Ridi sempre, anche adesso che sai di non essere normale.
Anzi, ridi ancora di più, sembra farti piacere. Nonna Dahlia
dice una cosa, la ripete in continuazione, ma figurarsi se le dai
retta, tu:
«Solo due persone ridono ogni giorno : gli sciocchi e gli infelici».
Ha ragione, ridi sempre perché stupidamente hai accettato quello
che c’è di sbagliato dentro di te. Crescendo te ne
accorgerai: il tuo essere diversa, che tanto ti fa sentire amata e
superiore a tutti adesso, ti terrà lontana dalle persone vere,
dalla gente a modo, da chi ti vuole bene. Guarda il padre di Helen
Jacobson: non parla mai con nessuno, veste sempre con gli abiti da
lavoro, spaventa chi se lo trova vicino, anche sua figlia. Io
però ho sentito la mamma di Tilly Mayer dire che fin da
ragazzino era amato e benvoluto da tutti, qui nel quartiere. Era un
esempio per chiunque, ma quando crescendo ha cominciato a cambiare,
ecco che si è trovato solo, con una famiglia che lo tollera a
stento e i vecchi amici che lo salutano a malapena. Helen è
sempre triste quando parla di suo padre. Io sto smettendo di parlare di
te, perché non voglio diventare come lei. Vuoi proprio che ti
capiti la stessa cosa? Vuoi farci vergognare di te? Vuoi che la gente
ti volti le spalle? Ma che senso ha? Sei infelice già oggi,
perché nessuno deve sapere cosa sei, ti hanno detto che devi
stare zitta, che è pericoloso rivelare quel segreto.
Per questo ridi, per far finta che sia tutto come prima. Invece le cose stanno in un altro modo.
Mamma e papà sono orgogliosi di te, del fatto che
c’è tu possegga qualcosa che ti distingua dagli altri. Io
invece, sono diventata insignificante, più di quanto già
non fossi. Ti indicano e mi chiedono se sono felice che tu sia… quella roba.
No, non lo sono. Provano a spiegarmi che non devo essere gelosa del
fatto che tu sia “speciale”, che sia toccata a te questa
“fortuna”, ma si sbagliano. Mi ferisce che siano tanto
ciechi e che mi sbattano in faccia quanto poco valga per loro.
Rifiutano di capire che a me non importa che tu sappia fare quelle
assurdità. Non sono gelosa, detesto quelle cose.
Io ho paura. Mi fai paura perché non ti riconosco più.
Chi è la bambina con cui divido la camera? Chi è che
siede di fronte a me a tavola? Chi finge di aver preso per errore i
miei calzini per avere una scusa per rivolgermi la parola? È
ancora una bambina?
Nelle favole che leggeva mamma, le streghe erano tutte perfide
brutte, facevano del male alle bambine buone. Quelle che eravamo noi
due. Credo lo facessero per invidia, perché loro avevano una
vita orribile e, alla fine, morivano. Perché ti vuoi ridurre
come loro? Pensavamo che le favole fossero chiuse nei libri illustrati,
ma ora che sono realtà, preferisci guardare alla vita triste e
grigia delle megere, piuttosto che quella spensierata e luminosa delle
principesse.
Quando eri piccola piccola, ti tenevo per mano e tu mi seguivi felice.
Volevi fare quello che facevo io, mi imitavi. Dicevi ti saresti
comportata come me, perché volevi diventare come me. Ora stai
scappando in una direzione che ti porterà lontano. Perché
non vuoi essere più la mia sorellina? Perché vuoi
diventare qualcun’altra?
La sera si avvicina, le ombre si allungano. È un tramonto
d’autunno che sembra fatto di bucce d’arancia. Quelle che
io e te mettevamo sui termosifoni del soggiorno, perché il loro
profumo fosse una sorpresa per mamma e papà quando vi avessero
messo piede dopo cena. Non lo faremo più. Mi rifiuto di farlo,
perché significherebbe che il tempo e le cose hanno continuato a
scorrere come il fiumiciattolo dietro la siepe. Non è vero.
C’è stato un buco, un’interruzione, che ha stravolto
tutto. Proprio come l’acqua del sottovaso, che se ne stava
placida a rispecchiare il fondo del vaso ed ora si allarga in una
pozza. Una pozza che sta già sparendo nella terra e di cui non
rimarrà niente. È questo che rimarrà di mia
sorella: niente. Ci sarà una persona che non conosco, che mi
sorride dalla tua faccia ma che non sei tu.
Hai stravolto tutto, Lily.
È colpa tua.
Come hai potuto farci questo?
Sei in fondo al giardino, inginocchiata scomposta sulla sedia. Dondoli
i piedi e le tue scarpe, un po’ sporche di fango, sono del colore
dell’ambra. Sorridi e anche il tuo sorriso prende quel colore.
Sei così felice del tuo essere diversa, della considerazione che mamma e papà ti stanno dando da quando hanno scoperto che sei strana.
Ma non lo vedi quanto è sbagliato quello che vuoi diventare?
Perché per te, la nostra vita di prima, ora è vuota e
senza senso? La routine ha fatto posto a novità che hanno
stravolto le nostre giornate.
Oggi a scuola abbiamo avuto l’ora di scienze della terra. La
maestra ha spiegato cos’è la forza di gravità. Ho
pensato subito che la gravità ci fa tenere la testa bassa. O forse è solo la vergogna di essere giovani ed essere così inutili, perché non posso fare niente per riavere indietro mia sorella. Quella vera. Quella normale. Quella con cui giocavo in questo giardino.
Possibile che non ci sia un modo per riaverti com’eri? Mi manchi,
anche se ti vedo ogni giorno. Forse hai solo bisogno di capire che quel
mondo non ti appartiene, che non sei veramente come loro. Se ti accorgessi che non ti piace essere così, che non hai niente in comune con quelli...
magari torneresti come prima. Hanno detto che fra due anni dovrai
andare ad una scuola speciale. Potrei venire con te, mostrarti che hai
sbagliato, che hai capito male quello che ti hanno raccontato, che sono
cattivi e non ti amano. Ti convincerei che è giusto tornare a
casa con mamma e papà e dimenticare questa storia della…
questa faccenda.
Tu però non mi ascolti mai. Ascolti solo la voce di quel vecchio, che ha lodato le tue capacità.
Aveva la barba lunga e bianca, occhialetti ridicoli, un cappello a
punta sghembo e un vestito che sembrava la vestaglia di nonna Dahlia
– quella con i girasoli e le spighe di grano -. Se fosse stato
vestito di rosso, l’avresti preso per Babbo Natale. È
sbucato dal niente, davanti alla porta di casa, parlando di te come se
ti conoscesse da sempre. La verità è che di te non sa un
accidente e ti ha ficcato in testa un mare di scemenze. Pericolose
scemenze. Sei piccola e sicura che ciò che ti ha raccontato sia
giusto, che sia quello che ti serve. Ho provato a spiegarti che sbagli,
che quelle cose ce le avevi già e che queste non servono a nulla, tranne a farmi soffrire.
Scuoti la testa quando dico che devi smetterla di girare con quello sgorbio nero del tuo nuovo “amico”, un altro strambo
come quelli che vuoi seguire. Gira attorno a casa nostra, da solo, con
le spalle curve e lo sguardo cattivo. Scappa via come i cani randagi se
qualcuno cerca di avvicinarlo. Gliel’ha insegnato sua madre, lo
sanno tutti. Credo che pure quella donna sia strana:
lui le somiglia, è dalla madre che ha preso. Chissà suo
padre come si dispera, potrebbe capire come mi sento. E tu vuoi stargli
vicino, dici che è speciale perché siete uguali.
Sì, è vero. Siete uguali: il futuro vi insegna ad essere soli. Il presente ad essere raggelati ed impauriti. Perché siete degli anormali
e potete stare solo fra di voi. Dovete nascondervi perché noi
non possiamo capirvi. Mamma diceva qualcosa di uno Statuto di
Segretezza. Gliene aveva parlato quel vecchio e l’altro uomo che
era venuto con lui. Si sono raccomandati con insistenza che solo noi
sapessimo. Noi e nessun altro. È una bugia, io lo so. Non
è vero che non vi capiamo. È che voi avete paura. Paura
perché sapete di essere sbagliati.
La ragazzina si ferma. La sua ombra
si mescola a quella dei cespugli, mentre il cielo sopra la sua testa
comincia ad assumere un colore rossastro. Raccoglie qualche bacca dalla
siepe, minuscole palline nere, alcune secche e rugose.
«Tunia?» chiama una voce lì accanto, facendola trasalire.
Non si volta, sa a chi appartiene.
«Hai bisogno di me?» le domanda la piccola, allungando la mano accanto alla sua.
Vorrebbe partecipare a qual piccolo rito che precede la cena, ormai da anni.
Ma a quelle parole, la ragazzina
ritrae il braccio. Fissa perplessa il suo sorriso innocente e sincero,
da cui traspare il desiderio di volerle stare accanto.
Getta i frutti a terra e si
allontana, irritata. Non riesce a capire perché quella bambina,
che finge di essere sua sorella, si ostini a porle quella domanda. Sa
perfettamente che non le serve nulla da una diversa. Nella sua testa,
la bambina dovrebbe chiedere aiuto anziché offrirne.
Sale di corsa le scale, ignorando la
madre che le chiama per la cena. Non le importa se verrà
sgridata, ha deciso che non mangerà questa sera. Vuole trovare
un modo per far sparire la magia da quella casa. Vuole riavere sua
sorella.
In giardino, Lily raccoglie da terra
le bacche. Le rigira fra le dita, pensierosa, per lasciarle cadere
nella pozzanghera con piccoli tonfi. Chissà perché, quel
suono la fa pensare alle lacrime che Petunia nasconde.
***
24 settembre 1989
Una donna si muove
nell’oscurità della propria casa. Cammina in punta di
piedi, le orecchie tese a cogliere qualsiasi suono giunga dalle camere
da letto. Passa accanto ad una porta, da cui intravede un grosso
fagotto di lenzuola, da cui sporgono mani e piedi. È suo figlio,
che dorme profondamente, il respiro pesante e ritmato come una marcia
militare. Gli abiti per la scuola sono sparsi sul pavimento. Lei
entra, silenziosa; li raccoglie, ripiegandoli con cura e posandoli
sulla scrivania. Si avvicina al letto. Una smorfia a metà tra il
corrucciato ed il severo piega i tratti del volto tondo e roseo
che fa capolino dal groviglio di stoffa. Lo osserva carica
d’orgoglio. Ha un’aria decisa, sicura, molto più
matura dei suoi nove anni. La stessa di suo padre.
Scende al piano inferiore ed apre la
porticina che dà sul sottoscala. C’è un minuscolo
ripostiglio buio, niente più che un ritaglio di spazio fra i
muri. In basso, quasi sul pavimento, un grumo di oscurità si
muove un poco. La donna accende una piccola luce di fronte alla
porticina. È un altro bambino. Magro, capelli arruffati, dorme
raggomitolato come un gattino su una branda che lo ospita a stento.
Eppure il suo volto è tranquillo, quasi sereno. Se non ci fosse
quella maledetta cicatrice sulla sua fronte, potrebbe sembrare un
bambino qualunque. Il riflesso dell’acqua nel bicchiere posto su
una traballante mensola disegna una lacrima pallida sulla guancia del
piccolo.
Sembra piangere nel sonno, questo poverino. Mi viene da pensare che, da
qualche parte dentro di lui, si annidi la consapevolezza di vivere una
vita orrenda e che, di riflesso, la faccia vivere a noi. Sì, a
volte credo sappia che sarà perennemente infelice. Meglio che lo
capisca sin da ora: tu eri piena di gioia e felicità, una
girandola di sorrisi. Ti amavano tutti, era sempre la preferita. E poi
che cosa è successo? Da adulta hai vissuto come una fuggiasca,
senza amici. Quando sei morta, chi ti ha pianto? Se fossi stata come me
- silenziosa e schiva -, se fossi stata più a modo – meno
risate, meno allegria -, se avessi rinunciato a quello che papà
chiamava “dono”, saresti diventata una donna rispettabile.
Avresti avuto una famiglia degna di questo nome. Una casa, dei vicini
che ti avrebbero osservato con invidia. Ciò che ho io.
«E se potete tollerare tutto questo, i vostri figli saranno i prossimi a patire quello che ora tocca a voi!» ho gridato nella mia mente, il giorno in cui hai sposato quel Potter.
Mi guardavi sorridendo, nonostante sapessi che non avrei partecipato
alle tue nozze. Speravi di farmi cambiare idea, ma sbagliavi. I tuoi
poteri di diversa non ti permettevano di ascoltare le mie parole. Io
avrei voluto aiutarti. Probabilmente non t’importava. Sì,
deve essere così. Hai scelto di rovinarci tutti,
consapevolmente. Me, mamma, papà. Persino tuo figlio. Hai
rifiutato di essere come noi. Hai scelto di essere un’altra.
«Egoista» mormoro a denti stretti.
Lo hai marchiato ed ora tocca a me sopportare le sue stranezze. Tocca a me vivere cercando di nascondere il fatto che è diverso
e sta diventando sempre più difficile. Inoltre sta sviluppando
un brutto carattere, indolente, ribelle, capriccioso. Vernon vorrebbe
mandarlo via, in un collegio lontano da qui. Ma cosa accadrebbe se
cominciasse a fare quello che facevi tu? La gente lo guarda già
adesso in maniera strana. Sembrano non aver creduto alla storia
dell’incidente, alla nostra bontà d’animo
nell’accoglierlo. Sembrano sospettare che in lui si annidi
l’errore e aspettino solo il momento adatto per rinfacciarcelo.
Anche se lo costringo a giocare sul retro, nascosto ai vicini, indovino
i loro sguardi dietro le finestre, che frugano tra le feritoie della
staccionata e le fronde delle piante, in cerca di un segno rivelatore.
Gli ho dovuto persino proibire di rivolgere la parola a chi tenta di
avvicinarlo, per evitare che dica qualcosa a sproposito.
Non voglio guai in casa mia, la gente deve impicciarsi dei fatti
propri. Non sono come quella Normann, che si è lasciata sfuggire
che suo figlio fa ancora la pipì a letto, anche se ha sette
anni! O come i Cosworth, che fingono d’essere tanto per bene, ma
so che non portano mai fuori l’immondizia nel giorno della
raccolta e che neppure legano bene i sacchi. O ancora il signor
Willoughby, che fuma di continuo anche se il medico gliel’ha
proibito tassativamente. Nessuno deve sapere che lui è diverso.
Non ha mai fatto nulla di bislacco, è sempre stato simile ad un
bambino qualunque, solo più freddo, capriccioso e scostante. Ma
non sarà mai come il mio Dudley e io devo evitare che tutti
sappiano. Devo prevenire le possibili dicerie sul suo conto.
A volte, quando era poco più che un neonato e lo tenevo in
braccio, ho pensato che stando con noi avrebbe potuto diventare una
persona per bene. Con il buon esempio mio e di Vernon sarebbe potuto
crescere decentemente, essere quantomeno accettabile per la
società. Invece no. È chiaro che certe macchie sono
indelebili. Se sapessi che quella cosa
può essere lavata via con un colpo di spugna, passerei mesi
interi a strofinarlo. Lo terrei a bagno notte e giorno pur di
strappargli di dosso l’abominio che tu gli hai trasmesso. Tu e
quell’altro.
«Zia Petunia?»
Non è la voce di Harry a riscuotermi dai miei pensieri. Sono i
suoi occhi. I tuoi occhi. Anche così assonnati, socchiusi in
quel viso da diverso che era
quello di tuo marito, sono i tuoi. Gli occhi di quella che era mia
sorella, quella con cui chiacchieravo, con cui andavo a scuola. Una
persona ben lontana da quella che mamma e papà lodavano e
apprezzavano, ma di cui non potevano vantarsi.
«Hai bisogno di me, zia?» pigola, sbadigliando.
Mi domanda se ho bisogno di lui. Io non lo volevo affatto. Pur essendo
innocente, pur non essendo stata sua la scelta di venire al mondo così, porta comunque addosso le bizzarrie di chi l’ha generato.
«No» rimbrotto. «Stai russando, dai fastidio a tutti.
Smettila. Le persone per bene dormono di notte, diversamente da
te» intimo, chiudendo rapida la porta.
Non ho una scusa migliore in questo momento. Nemmeno tu sei mai stata
capace di inventarne, per mascherare ciò che eri. Avresti dovuto
tacere, dimenticare tutto. Restare mia sorella.
Mi allontano dalla scala, sperando di scacciare quegli inutili ricordi.
Scorgo qualcuno nella via. Immagino sia la signora Figg in cerca di una
delle sue palle di pelo, ma mi scopro a fissare disgustata un
accattone, avvolto in stracci che spazzano il marciapiede. Tiene in
mano qualcosa di sgualcito e, sicuramente, lurido. Facciamo tanto per
mantenere l’ordine a il decoro, e nella nostra strada, questa notte un vecchio gioca con ritagli di giornale. Non
oso pensare alla faccia di Vernon domattina, quando troverà le
tracce di questo passaggio. La società sta davvero cadendo in
basso.
Il mendicante si muove senza fretta, piegando di tanto in tanto un
pezzo di carta che se ne va poi libero nell’aria. Si ferma sotto
quel dannato lampione che ha una luce arancione, liquida e irritante.
Perché non può emanare la stessa luce degli altri? Vernon
ha chiesto tante volte all’amministrazione che mandasse qualcuno
a sistemarlo. Non si può avere un sol lampione arancione.
Un groppo mi stringe la gola. Quello che ha appena lasciato la mano del
vecchio è una specie di bizzarro animaletto: ha quattro zampe,
il collo lungo e un’appendice sulla testa. Attraversa il prato
correndo verso di me. Guardo intorno terrorizzata. Se qualcuno
vedesse… No, no. Per fortuna dormono tutti. La brava gente di
qui non ha i miei stessi problemi. Però non posso sentirmi
sollevata. Forse sono io a non vederli, forse sono appostati dietro le
tende, pronti a puntare il dito domattina, a farmi notare quella
stramberia nel mio giardino.
Un ticchettio alla finestra mi fa chinare il capo. Tremo. Non posso
crederci. Quel minuscolo oggetto bianco mi ha raggiunta davvero e punta
sul vetro quelle che dovrebbero essere zampe. Batte sulla superficie
come se chiedesse di entrare. Quello è… è…
Unicorno.
La parola riecheggia nella mia testa per mille volte.
Harry ne aveva portato uno in casa settimane fa. Diceva di averlo
trovato per strada. Ovviamente non gli abbiamo creduto: aveva le scarpe
sporche di terra ed erba, mentre l’origami era lindo e pulito. Lo
conservava gelosamente accanto al suo letto e Dudley ha cercato di
convincerlo a dividerlo con lui, per giocare insieme. Com’era
prevedibile, la testardaggine di quel bambino ha avuto la meglio e il
cavallino è finito in coriandoli. Ha accusato Diddy
d’averlo fatto a pezzi, ma perché mai avrebbe dovuto? Mio
figlio è un bravo bambino, vorrebbe solo un cuginetto degno di
questo nome, piuttosto che un esserino strampalato e arrogante. I suoi
tentativi di star vicino ad Harry sono così lodevoli!
Perché tuo figlio non è come il mio? Sarebbe tutto
più semplice.
Il vecchio mi osserva. So che mi ha vista, perché si è
voltato verso di me. Fa un cenno col capo, un saluto. Lo riconosco.
È uno di loro, aveva
parlato ai nostri genitori quando cominciasti a cambiare. Perché
è qui? Vuole distruggere la nostra tranquillità? Il
nostro buon nome? Vuol far credere a tutti che siamo dei diversi? Dei mostri? Non bastano tutti i pensieri che ci siamo dovuti accollare?
All’improvviso, partono gli irrigatori.
Chiudo gli occhi e do le spalle alla strada, al giardino, al mondo.
Saprò di non averlo visto quando, riaprendoli, lui non
sarà più lì, sul marciapiede. Cancellato dagli
spruzzi. Scacciato dal silenzio di questa casa.
La mia casa.
La nostra casa.
La casa della famiglia Dursley.
Una nebbiolina sottile invade la
notte di Privet Drive. Dietro la finestra del soggiorno, al numero
quattro, non c’è più nessuno. L’acqua
nebulizzata si posa ovunque, inzuppando lentamente le cose. Fiori,
viottoli, un palloncino ormai sgonfio, una macchinina fracassata, un
chewing gum sputato giorni addietro nel terriccio dell’aiuola.
Una patina lucida riveste tutto, spezzettando la luce dei lampioni in
minuscoli arcobaleni.
A poco a poco, l’unicorno sul
davanzale della finestra si flette, si accascia. L’inchiostro
delle parole stampate sbava e si allarga, mentre la magia lo abbandona.
Accenna solo un ultima volta a sollevare il capo, in cerca del bambino
a cui era destinato, prima che un minuscolo rigagnolo lo trascini
giù, nell’erba. Al sorgere del sole, sarà solo una
piccola chiazza di poltiglia pallida.
Nella sua camera, Vernon Dursley
bofonchia qualcosa d’incomprensibile mentre la moglie si infila
sotto le coperte con un sospiro. Il piccolo Dudley sogna con rabbia di
un vecchio dalla lunga barba bianca, vestito d’arancione, che gli
lancia contro maestri di carta che lo sgridano di continuo e che lui fa
a pezzi.
Il piccolo Harry è rimasto
sveglio. Siede con le ginocchia al petto nel suo lettino, le lenzuola
strette attorno, gli occhi chiusi. Ascolta il ticchettare delle gocce
che cadono dalla gronda della veranda della sala da pranzo.
C’è un irrigatore, che Dudley ha quasi sradicato, che
getta acqua proprio lì sopra. E sa che c’è un punto
dove il canale è arrugginito e l’acqua cola piano,
battendo sul pluviale di latta. Chissà perché, quel suono
lo fa pensare alle lacrime che la zia nasconde.
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