The silence of death.

di Estiefone
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Silenzio.

Buio.

Claustrofobia.

Aiuto.

Aiuto.

Aiuto.

Quattro parole. Quattro parole mi risuonavano nella mente, possenti e irresistibili. Non ero certo del luogo in cui mi trovavo. Eppure, tastando con le mani, sapevo di essere in uno spazio angusto, buio, umido. Il sangue mi colava dalle unghie frantumate, lentamente. Potevo sentire, nell’assoluto silenzio, quando quel liquido compatto si schiantava contro il terreno duro. Un sonoro Plik. Il momento di pazzie era passato, avevo riso, pianto, urlato, gemito abbastanza. Ora aspettavo. Ma aspettavo che cosa? Che cosa diavolo aspettavo? La morte? La luce? Un briciolo di vita?

Risi.

Mi sorpresi da solo, era da tanto, troppo tempo, che non sentivo la mia voce. Il tempo.

Da quanto tempo ero li? Quanti minuti? Quante ore? Quanti giorni? Quanti mesi?

Strinsi le mani a pungo, e un dolore lancinante mi colpì ai polpartelli. Mi stesi a terra, in preda alla disperazione, e mi rannicchiai in posizione fetale. Per un attimo pensai a quando ero piccolo, quando piangevo, urlavo come un bambino. E mi ritrovai a singhiozzare, come quando ero piccolo. Pregai il Signore di Salvarmi da quella trappola, gli dissi che avevo paura, ma niente. Solo quel maledettissimo silenzio.

Poi, nel mezzo della disperazione più assoluta, quando il sonno stava per impadronirsi di me, sentii qualcosa, e non ero io, non era il sangue che cadeva nel pavimento, no. NO! Erano passi. Passi di qualcuno. Qualcuno di vivo. Con tutte le forze che avevo in corpo mi misi in ginocchio, e urlai. Inizialmente con voce roca, poi quando le corde vocali si abituarono, la richiesta di aiuto si espanse per tutto la stanza. Attessi in silenzio, i passi si erano fermati. Contai.

Un secondo.

Due secondi.

Tre secondi.

Quattro secondi.

Altri passi, più vicini. Ero libero, potevo uscire. Mi aveva sentito, e ora stava venendo a liberarmi. Mi distesi a terra, e cominciai a contare.

Cinque.

Sei.

Sette secondi. I passi continuavano ad avvicinarsi.

Otto.

Nove.

Perchè non aveva chiesto chi ero?

Dieci.

Perchè non si era preoccupato?

Undici.

Magari stava chiamanda la polizia.

Dodici.

Passi più vicini, scanditi dal tempo, lenti e dolorosi, come una coltellata al cuore.

Tredici.

Libertà.

Quattordicici secondi.

Luce.

Quindici secondi.

Vita.

Sedici secondi.

I passi più vicini.

Diciassette secondi.

Poi si fermarono. “E’ vicino alla porta. Sta per aprire la porta. Sta per salvarmi”

Diciotto.

Un sonoro Clank mi giunse alle orecchie. Capii subito: Un Lucchetto. Un lucchetto? Cosa se ne facecva di un lucchetto? E perchè aveva la chiave “Del” lucchetto?

Diciannove.

La porta si aprì. La luce mi accecò, mi abituai poco dopo. Lo vidi alzare pian piano il braccio.

Venti.

-Mi aiut...-

Poi mi resi conto, in quel millesecondo che mi rimaneva. Aveva la chiave del lucchetto, e nella mano teneva qualcosa. “Una pistola. Una pistola? Una pistola? Merda! Merda! Che cosa se ne fa di una pistola? NO! NO! Non può essere! Signore Mio Dio, non farmi questo, che cosa ho fatto per meritarmi questo? Signore, aiutami! Aiutam..”

“Bang”

Ma non come nei film, dove la pistola è carcicata a salve. Quella fù estremamente dolorosa. Ma fù istantanea. Il filo dei pensieri si interruppe. Una luce. Finalmente la luce, la libertà, la vita, la speranza.  Poi, di nuovo quell’orribile, pauroso buio.





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