Chijou My heart is dancing.
Il verso delle cicale era
talmente vicino ed insistente, che sembrava stessero bussando alla
tapparella per metà abbassata. La finestra aperta lasciava
entrare, di tanto in tanto, una brezza vagamente fresca che dava
altrettanto vagamente una sensazione di sollievo. Il caldo era troppo e
non c’era alcun rimedio. Quello era il suo settimo anno in
quella casa, ed era la prima estate così bollente.
A venticinque anni, lei
rimaneva sdraiata sul suo letto ad una piazza e mezzo prendendo, uno
dietro l’altro, i marshmellow dal sacchetto che aveva
accanto. Ascoltava della musica che era uno strano miscuglio di indie
rock, jazz e funk, a tratti c’era del grunge, e scorreva
delle immagini sul suo cellulare con un lieve tocco del polpastrello.
Dita lunghe e magre su cui spiccavano delle unghie lucide, ben curate e
laccate di argento. E si presentava così, ogni sera
d’estate, dopo essersi rinfrescata sotto l’acqua,
con delle goccioline che scorrevano silenziose e provocatorie sulle
gambe nivee, magre e dritte, che a momenti sembravano essere state
staccate da una perfetta statua di qualche dea greca.
Pullulava di provocazione, quella donna, con la maglietta nera
larghissima il cui bordo disattento aveva quasi completamente scoperto
il seno sinistro ed i capelli rossi che non avevano alcuna traccia di
ordine. E lei pareva non accorgersi di tutti questi particolari. Li
portava su di sé con un’innocenza ed una
distrazione tali da far credere che invece lo stesse facendo apposta,
ma non avrebbe comunque avuto ragione di preoccuparsi.
La ventottenne
entrò in stanza facendo cigolare la porta. Teneva la testa
bassa, ferma sulla soglia, mentre cercava di rimettere al suo posto un
gancetto del reggiseno bianco che avrebbe dovuto mettere. Lei
ostentava, invece, quelle gocce che continuavano a scendere
giù per il collo, per il ventre e che poi sparivano sul
bordo degli slip chiari. Ostentava le ciocche corvine ribelli, ed
ostentava, a suo piacimento, un’inaccessibile riservatezza o
una pericolosa audacia. Così, il corpo che si ritrovava lei,
aveva un sapore più adulto e più aspro.
«Non riesci ad
aggiustarlo?» domandò la rossa, che aveva dato
solo una veloce occhiata all’amica. «No. Tieni» L’altra
andò a sedersi al bordo del letto, porgendole il reggiseno,
che poi la più piccola si apprestò a sistemare. «Mi fai un
favore?» Nel suo tono c’era
una punta di timore, percepibile anche da un sommesso sospiro finale. «Che
favore?» «Sto male»
e sospirò di nuovo, la rossa. «Stai male? In che
senso?» Non ricevette risposta. L’altra le diede
indietro il reggiseno con fare quasi brusco, mentre portava la sua
attenzione nuovamente al telefono. Se doveva sbagliare, e sentirsi
amata, sapeva di doverlo fare con qualcuno con cui poteva concedersi un
lusso del genere senza troppa paura delle conseguenze. Qualcuno che
fosse cosciente di ciò che aveva per la testa. Qualcuno che,
magari, viveva la sua stessa situazione. «E’ bello,
vero?» domandò d’un tratto la corvina
che, dopo aver allacciato i gancetti, stava guardando una foto poggiata
sul comodino lì accanto. «Lui?»
l’altra si voltò appena a guardare la cornice
«Ah sì, lo so» «Lo so che lo
sai» «Eh» «Ti manca?» «Molto» «Che altro ti
manca?» «Tante cose che
già sai» «Cosa volevi
chiedermi?» «Se ti andava di
sbagliare di nuovo» La più grande
sospirò pesantemente, portando lentamente lo sguardo verso
la finestra senza effettivamente osservarla. «In fondo,
è meglio che sia così» disse poi,
mentre si alzava per arrivare giusto accanto all’altra,
rimanendo a fissarla. Stesa, guardava da
tutt’altra parte, con gli occhi apparentemente rivolti alla
parete di un bordeaux intenso, fin quando non sentì il peso
della più grande sul letto mentre si posizionava a
cavalcioni su di lei, come si posa, a dire il vero, un petalo di fiori
di ciliegio sull’acqua cristallina di un laghetto. «Quante altre volte
è successo?» domandò la corvina che
già, come se fosse un gesto abituale, aveva posato le labbra
sul collo dell’altra. «Non lo so» «No?» «No...» «Ti avevo chiesto di
non dimenticarlo» L’evidente aria
severa della più grande la fece intimorire per un attimo. «Scusa» «Quattro
volte» «Ah» «E l’hai
sempre chiesto tu. Perché devo chiederti io di non
dimenticare?» «Perché
voglio dimenticare. Per questo te lo chiedo, no?» Non ricevette alcuna risposta. Scivolandole lentamente
accanto, la più grande lasciò, con un modo da
fare quasi impietosito, che l’altra potesse prendere il suo
posto. Doveva lasciare che lei compensasse
l’impossibilità di avere l’uomo amato
col possederla. Erano pensieri contorti che, se qualcuno avesse
ascoltato una storia del genere, a malapena avrebbe potuto capire. La
corvina aveva fatto la stessa richiesta della più piccola
solo una volta. Riusciva a reprimere quella sorta di scontentezza molto
meglio dell’altra. La faceva tacere, la calpestava, le urlava
contro. E poi, scacciava l’uomo che amava,
tant’è che non riusciva più a
ricordarne il nome. Riusciva solo a ricordare i suoi occhi. La più piccola,
invece alimentava il fuoco di un amore dal quale lei stessa veniva
lentamente bruciata ogni giorno.
«Contali,
d’accordo?» «Cosa?» «I sospiri.
Contali» Rimanendo interdetta da quella
seconda richiesta, la corvina poi rispose «Me ne
ricorderò» cercando di assumere un’aria
quantomeno rassicurante. All’altra
importavano solo le parole, non il modo in cui venivano dette,
tant’era impegnata, ormai, a pensare di poter comandare a suo
piacimento, per una volta, quello stesso uomo della fotografia. «Non
voltarti» le diceva fissandola, mentre i polpastrelli
scorrevano sui seni ormai scoperti dell’altra. «Guarda me» «Mh» E si sforzò di
farlo fin quando sentì le dita della più piccola
infilarsi negli slip. Portò lo sguardo alla parete
vermiglia, scordando di sbattere le palpebre. A poco a poco, il suo
respiro si fece sempre più affannoso. Non appena emise, con
una certa riluttanza, il primo sommesso verso, l’altra si
avventò sulle sue labbra, come a volerle far trattenere
qualsiasi altro suono che, per un motivo o per l’altro, lei
non voleva assolutamente sentire. I primi spasmi, la pelle che
bruciava, il torace che si gonfiava e contraeva sempre più
velocemente, e la più piccola cui non pareva importare, ma
le teneva una ciocca di capelli con una mano, stretta. Poi la schiena
incurvata, l’odore acre, le labbra lasciate libere, lacrime
di vergogna e frustrazione che bagnavano il viso della rossa ricadendo
sul petto dell’altra.
E tutto daccapo, una, due od
infinite volte, in cui era impossibile per loro definire a cosa si
aggrappassero, cosa cercassero e cosa volessero. Il petto soppresso da
un senso di mancanza incolmabile mentre continuavano ad annaspare.
Mugolii che non riuscivano a dare spazio alle urla che non attendevano
altro se non la loro entrata in scena, pensando di poter attirare
ciò che chiamavano. Volendo credere di non essere
da sole, si dicevano «Sì, infatti... questa non
è solitudine». Ma come erano senza ascoltatori le
urla delle loro anime, così era senza il giusto destinatario
il loro amore.
NdA Mi fa
schifo, non ha senso, il
finale è inconcludente e... e non so che altro. Fra le altre
cose non mi sembra rende il senso della canzone. Cioè, non
lo rende affatto, almeno non il senso oggettivo. Beh, alla fine penso
che il bello dei testi dei the GazettE è che sono di libera
interpretazione, e quello di Chijou mi ha colpita particolarmente, non
tanto per l'argomento, ma per com'è esposto. Ruki tanto
è un genio, non c'è nulla da fare. Passando
alla storia...
ero partita che avrei voluto scrivere qualcosa a rating
rosso, ma quella sera in cui l'ho iniziata ero completamente fatta
quindi pace -e si vede una certa differenza fra l'inizio e la fine,
secondo me-. E poi, generalmente, non mi piace scrivere a rating rosso.
Primo, perché mi pare che lo scritto perda
credibilità se quel pezzo non è scritto in un
certo modo; secondo, siccome in quel certo modo io non so scrivere, ho
preferito non rischiare. E poi, scrivendo qualcosa di troppo
dettagliato, penso che l'attenzione sarebbe stata distolta da quello
che è il succo della one shot, scritto nel finale, appunto. Detto
questo, mi dileguo.
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