When you crash in the clouds - capitolo 20
Capitolo 20
Good life (hopelessly)
soundtrack
“Tyler?! Tyler mi ascolti?”
“Eh?! Sì, che c’è?”
“È da un paio di giorni che sei strano … si può sapere che hai?”
E come te lo faccio a
spiegare amore mio? Come te lo dico, anche se probabilmente sei
abbastanza intelligente da averlo già capito, che dietro alla
mia distrazione c’è quello stramaledetto pomeriggio
nell’ufficio di mio padre?! Il tuo di padre, invece, mia amata
Allie, il grande uomo che amavi e ami ancora così tanto, in una
maniera che io non oso nemmeno sperare, è vivo e ti sta cercando.
E so che sono un mostro,
ma sai che c’è? Che non oso dirtelo, perché temo,
anzi sono sicuro, che firmerei la mia condanna e sarei costretto a
lasciarti andare. E non sono disposto a farlo, non ora che ti sento
tanto vicina.
“Mi ricordi per
piacere il motivo per cui siamo qui?” risposi con un’altra
domanda, inventando la prima cosa che mi passava per la mente,
buttandola sul ridere, dispersi nel reparto maschile di un non meglio
per me identificato negozio di intimo all’interno del Manhattan
Mall, in cui lei mi aveva trascinato a forza un’oretta prima.
“Perché non
posso tollerare che stasera non indosserai niente di rosso”
rispose calma e seria. “E dal momento che non vuoi mettere il
maglione che ti ha regalato tua zia, un paio di boxer non dovrebbero
costarti tanta fatica”
“Ascolta
bene” rimbeccai “il Natale è passato ormai e non ho
intenzione di travestirmi da Babbo Natale con il maglione di mia zia
…” la vidi ridere di gusto e dimenticai tutti i crucci che
mi affollavano la mente, ogni nuvola che mi annebbiava il cervello e mi
impediva di godermi appieno il presente, anziché calcolare e
pianificare il futuro maniacalmente. Evidentemente anche lei concordava
con me che quella maglia era un orrore, mancavano i folletti e il
Grinch e avremmo avuto un film di Natale perfetto su un maglione di
lana: orribile, nemmeno le associazioni caritatevoli lo avrebbero
voluto!
“E comunque”
proseguii “non comprerò un paio di boxer che so già
indosserò solo per un paio di ore, dal momento che
c’è un’alta percentuale di possibilità che tu
me li strapperai di dosso”
Non so se a provocare la
sua reazione stizzita furono le mie parole, oppure il mio ammiccare
volutamente accentuato e squallido. Ma adoravo persino vederla andare
in bestia, perché era allora che diventava adorabile: possedeva
una carica energica invidiabile, ed era uno spettacolo vederla
scatenarsi.
“Pensi che non
sappia resisterti?” domandò, cercando invano di non
scomporsi troppo. I luoghi pubblici erano la cosa migliore che potesse
capitarci in molto circostanze: in molti casi erano la sola ragione per
cui avevamo evitato di essere arrestati per atti osceni in luogo
pubblico, contenendoci in nome della pubblica decenza.
“No”
l’affrontai, arrogante e pungente “penso che io non
saprò resisterti … specialmente se hai intenzione di
indossare quel completino sexy che ho sbirciato in camera tua”
Come risposta mi arrivò un bel ceffone in piena guancia: beh, quello un po’ me lo meritavo.
“Quanto sei
stronzo!” fece l’offesa, ma era evidente che non riusciva a
trattenere le risate “ti hanno mai detto di non ficcare il naso
negli affari e nei guardaroba delle signore?”
“Seeee … ha parlato Jacqueline Kennedy …”
Quella era la cosa
più bella e straordinaria tra noi, che con fatica e un bel
po’ di musi lunghi, stavamo conquistando e gustando sempre di
più: potevamo permetterci anche il lusso di sfotterci e
prenderci a parolacce, sicuri di ridere anziché sentirsi offesi
alla fine del gioco.
Si poteva anche parlare
di sesso pur non stando insieme. Avrei certo preferito qualcosa di
più, ma ero un uomo e non una stupida liceale. Anche se molto
lentamente, iniziavo a non farne più un dramma: me la godevo
finché potevo così com’era, soprattutto dal momento
che probabilmente molto presto avrei dovuto salutarla
In fondo, a ben vedere,
ci mancava solo l’etichetta, e a me nemmeno serviva: eravamo a
tutti gli effetti una coppia, migliore anche di quelle vanno in giro a
sbandierare il loro amore ai quattro venti e poi alla prima
difficoltà gettano la spugna invece che sedersi a tavolino e
discutere, cosa che invece noi facevamo praticamente tutti i giorni.
Eravamo una coppia
… ma chi prendevo in giro, non c’era mai stato un noi
… e per quanto ne sapevo non c’era alcuna speranza che ci
sarebbe mai stato; perché lei sarebbe tornata ad Indianapolis ed
anche a voler fare i romantici: quanto sarebbe potuta durare una
storia, un’amicizia, a miglia e miglia di distanza? La risposta:
neanche il tempo di dirsi ciao.
“Comunque”
riprese lei, dondolando un paio di boxer rossi sotto il mio naso
“prova questi. Non c’è nessuna scritta stupida e
dovrebbero essere della tua taglia, corri a provarli che voglio uscire
da qui!”
Quando le feci notare che
non era colpa mia, che io nemmeno ci volevo entrare in quel centro
commerciale, mi ritrovai sotto il fuoco incrociato di maledizioni,
occhiatacce e percosse con borsa che mi ricordarono la prima regola per
la sopravvivenza da shopping: annuire sempre e comunque, anche se la
ragione era dalla nostra. Quanto era vero che le donne cadevano in
trance durante la caccia al saldo, come fossero davvero felini in cerca
della preda migliore. Ed Allison non era da meno, pur dando il suo
tocco un po’ rock e maschiaccio all’intera faccenda.
Riuscii a trascinarla
fuori da lì solo dopo aver sventolato bandiera bianca ed aver
accettato la resa. Sembrava una bambina di cinque anni davanti al suo
dolce preferito quando le dissi che potevamo prendere quei boxer, per
quanto inutili continuassero a sembrarmi. In realtà, tutto quel
tira e molla aveva avuto anche dei benefici, al meno a giudicare dai
miei ormoni, ormai da un mesetto con residenza ufficiale su Venere: dal
camerino, e sbirciandola dalle tendine notai che si era buttata a
capofitto su una cesta di felpe maschili scontatissime, ma che
probabilmente o erano Made in China o erano di 20 anni fa e nessuno le
voleva più. Ma a lei facevano impazzire, le avrebbe messe anche
per uscire, e più erano vecchie e malandate e più le
piacevano, soprattutto se avevano le maniche lunghissime da poter
tirare e nasconderci dentro le mani. Un segno ulteriore di quella sua
sensualità un po’ naif e un po’ inconsapevole che
adoravo. Da quando poi era fuori dal giro di malaffare in cui
l’avevo scoperta, infatti, molto del suo savoir faire era andato
perso, a favore però di quella dolcezza e quel romanticismo che
non speravo quasi più di trovare in lei.
Era una ragazzina
maleducata e mascolina che giocava a fare la femmina, quando
l’avevo conosciuta, sboccata e goffa; smuoveva l’ormone,
certo, ma non era Miss Eleganza. Sembrava un’altra persona,
quella che avevo ora davanti a me; mi sembrava impossibile, e non mi
sembrava quasi vero che potevo attribuirmene il merito, ma
l’esserci incontrati ci aveva cambiati, tanto: lei era sempre
più donna, ancora ragazza, ma sicuramente conscia di sé
molto più di prima, non solo dei suoi doveri, ma anche e
soprattutto dei suoi diritti, come essere pensate e con un cuore pieno
di emozioni.
Era una sorpresa continua
quel volto mutevole e capriccioso, con una scala di espressioni diverse
che si alternavano ad ogni nuovo stimolo; e a me piaceva stare
lì a fissarla, senza dire una parola, magari di nascosto,
guardala passare dal pensieroso al felice, per una pagina bella di
qualche libro, dal serio al triste, per qualche notizia del
telegiornale, dall’eccitato al completamente rapito, quando
eravamo solo io e lei, e ad entrambi sembrava di toccare il cielo con
un dito. Era in quei momenti che riuscivo a convincermi che anche lei
mi amava ed era solo questione di tempo. Ma poi, al mattino, ecco la
sveglia e la doccia fredda.
“Ti ha chiamato
Caroline?” le chiesi, fermi ad un chioschetto di hot dog sulla
35sima West di Manhattan; ormai era lei a tenersi in contatto con la
mia famiglia, abitando con loro e occupandosi della casa. Mia sorella,
mia madre e Les erano partiti da un paio di giorni e, per niente
dispiaciuto di passare per un cafone, non mi mancavano. Non mi ero
trasferito da Allison solo perché sapevo che l’avrei messa
a disagio e mi bastava andarmene via tardi, o riaccompagnarla a casa
dopo essere stati fuori tutta la sera. Portarla da me, non era il caso,
Aidan era l’altra ragione per cui non potevo permettermi di
dormire fuori casa: con il capodanno già nelle vene, ossia con
una dose massiccia di alcool in corpo, mi avrebbe ridotto casa in un
cumulo di immondizia, merda e vomito senza rendersene conto: aveva
bisogno di una balia e di un’infermiera. Lui c’era stato
per me ed io dovevo estinguere il mio debito nei suoi confronti.
“Sì,
stamattina” rispose lei “era contenta perché
c’era una bufera di neve e non se ne vedeva via d’uscita.
Il che significava che non avrebbe messo piede fuori dall’albergo
per un bel po’ ”
Non c’era nulla da
dire, io e mia sorella eravamo fatti della stessa pasta su quel fronte:
dateci una poltrona e saremmo campioni mondiali di stampa del sedere
sul cuscino, ma farci praticare alcuno sport è pari ad una
condanna capitale.
“Quanto è
stupida!” commentò Allison “Diane le aveva proposto
di andare a pattinare nella pista privata del Resort e ha detto di no!
Se ci fossi stata io non le avrei nemmeno fatto finire la frase che ero
già a bordo pista”
“Davvero?”
domandai, mentre sentivo già l’omino del cervello
accendere l’interruttore e la lampadina accendersi in ogni
singolo neurone.
“Mm mm”
annuì. La presi per mano ed iniziai a correre. La sua presa era
salda, fiduciosa, seppure le sue parole inducessero a pensare al
contrario: “Si può sapere dove andiamo? Tyler vuoi
rispondermi?!!!”
Correvo a perdifiato e mi al contempo cercai di godermi ogni secondo che, senza malizia, quelle dita erano intrecciate alle mie.
Scendemmo nella stazione
della metro ad Herald Square e ci infilammo in uno dei vagoni della
linea B colma di gente come solo durante le feste può esserlo:
turisti, lavoratori in ferie, ragazzini in vacanza dalla scuola.
Trovare un posto era impossibile, così mi curai almeno che Allie
fosse al sicuro da mani leste o morte, non avevamo tempo per la
comodità. Le feci scudo tra le mie braccia e lei sembrò
apprezzare, anche se era ancora un po’ interdetta per questo
cambio repentino di programma, per lei oltretutto ancora sconosciuto
… il che, sono sicuro, la rendeva ancora più nervoso e
scostante. Mi piaceva prenderla alla sprovvista, dal momento che
generalmente non era mai contenta se non metteva bocca in tutto e ci
mettesse la firma, dando l’ultima parola. Era bello chiuderle
quel becco ogni tanto, per adorabile che fosse.
La vidi drizzare le
orecchie e farsi più attenta quando le dissi che Rockefeller
Plaza sarebbe stata la nostra fermata e dovemmo scendere.
La folla per strada era
immensa e quasi le correnti di aria gelida avevano difficoltà a
diffondersi con tutte quelle persone che pullulavano per la via: i
giornali e in tv non si sentiva altro che parlare di crisi, di crescita
zero, di mancanza di soldi per le famiglie, eppure attorno a me vedevo
solo una marea di gente con buste e pacchi straripanti. Ed i negozi
sono tutti pieni, dalle 9 alle 20, orario continuato.
Valli a capire gli Americani…
Finalmente vidi aprirsi
davanti a noi un varco tra la folla e la grande statua dorata di
Prometeo del Rockefeller Center si presentò di fronte a noi in
tutto il suo splendore, troneggiando e risplendendo al contrasto con il
bianco della pista di pattinaggio.
“Oh My Gosh!”
urlò Allison in un esplosione di gioia che non le avevo mai
visto prima. Era estasiata, non c’erano parole per descrivere il
suo stato d’animo. Un bambino all’ingresso di Disney World
ad Orlando si sarebbe comportato con maggior contegno a mio parere. Ma
lei era così, una donna d’estremi. Ed era bellissimo
poterla vedere risplendere per la sorpresa e l’emozione. Non la
smetteva di fare la sua scatenata Happy Dance. “Ty! Ty!
Ty!” ripeté saltellando sul posto, aggrappata al mio
braccio che ormai non sentivo più. “Io … io ti
adoro! … mio Dio! Non credo ti renda conto di quanto io sia
felice in questo momento!!!”
May Day May Day … l’abbiamo persa, è ufficiale.
“Direi che una vaga
idea me la sono fa…” ma non feci in tempo a terminare la
frase che mi ritrovai le sue labbra stampate, spalmate sulle mie, con
le braccia arpionate al mio collo a non darmi scampo. E chi ci pensava
a scansarsi?
Le cinsi la vita con le
mie braccia e ricambiai il suo esuberante modo per dirmi grazie. Sapevo
che non significava per lei quello che significava per me, ed è
strano a dirsi ma lo sentivo, percepivo la differenza delle sue
attenzioni rispetto al mio modo di pormi. Ma cercavo di farmi scivolare
di dosso quei fantasmi.
In “Dead poets
society” il professor Keating invitava i suoi ragazzi al Carpe
Diem ed io avevo tutta l’intenzione di cogliere l’attimo,
dal momento che vedevo sempre più chiaro davanti a me che era
davvero questione di giorni per me ed Allison. I miei sforzi non
sarebbero serviti a nulla, non sarei mai riuscito a farla davvero mia.
Tanto valeva lasciarci un buon ricordo di quei pochi giorni che ci
erano stati concessi.
E quello era certamente
uno dei ricordi che avrei sempre conservato di lei: il suo sorriso
dolce e raggiante, il naso rosso e gelato dal freddo, il paraorecchie
di peluche per proteggere le orecchie e le sue mani con i guanti di
lana intrecciate alle mie.
Peccato che
l’euforia contagiosa venne presto smorzata dalla lunga fila che
si prospettava davanti a noi, a dimostrazione che
l’estemporaneità non sempre paga, soprattutto se abiti a
New York e durante le feste vuoi appropriarti di una delle mete
più gettonate dai turisti. Per fortuna in pista sembrava ancora
esserci un minimo di spazio per scivolare in pace con i pattini.
“una volta venni
qui con mia madre e Michael … portammo Caroline a pattinare per
la prima volta, aveva due anni, non si reggeva in piedi
all’asciutto figurati sulle lame” raccontai divertito
“solo che la pista era talmente stracolma di gente che in
realtà sembravamo una colonia di pinguini che giravano
intorno.”
La sua risatina timida e
quasi nervosa si diffuse per tutta la coda, o molto più
semplicemente le mie orecchie avevano ormai imparato ad escludere tutte
le voci della folla, ad esclusione della sua. Non c’era altro che
vedessi né sentissi. Un po’ deprimente, un po’
folle, ma non potevo farci proprio nulla.
“Non era
esattamente un bello spettacolo …” ne convenni, ancora un
po’ traumatizzato da quel ricordo, grattandomi la testa. Per
salvare la mia reputazione, lungi da me raccontare dell’incontro
ravvicinato del mio naso prima e del mio deretano poi con il pavimento
ghiacciato. Non era colpa mia … il ghiaccio che era scivoloso!!!
Dopo
un’interminabile attesa, ingannata perfettamente in compagnia di
Allison, tra cioccolata calda e i pretzel giganti presi quasi al volo
da uno stand vicino, ci furono consegnati i pattini e fummo
letteralmente buttati in pista per l’intera ora successiva.
Coscienziosamente non
avevano riempito la pista fino all’inverosimile, come quella sera
di qualche anno prima, ma in ogni caso prima di mettere le lame sul
ghiaccio invocai mentalmente Dio, Jahvé, Allah, Krishna o
chiunque altro ci fosse al piano di sopra, di non farmi fare una figura
beghina con Allison e farmi rimanere in piedi.
Sembrava avermi
ascoltato, chiunque fosse, perché non solo non caddi ma mi
sembrava anche di essere piuttosto sicuro … e non sembrare un
pinguino era piuttosto un miracolo per me. Non si poteva dire la stessa
cosa di Allison, che passò i primi cinque minuti a litigare con
la pista, attaccata alla barriera. Mi obbligò a lasciarla da
sola per un po’, con la scusa che doveva riprenderci la mano da
sola, ma lo vedevo che non era esattamente il suo genere di sport. Non
resistetti lontano da lei che per due giri di pista e la raggiunsi,
spiaccicandomi anche io sulla recinzione, a seguito di una frenata
sborona finita male.
“È la prima
volta, vero?” le chiesi, ma senza intenzione di colpevolizzarla o
prenderla in giro e per fortuna lei lo capì. Annuì,
timidamente.
“Sul ghiaccio
sì” chiarì “da piccola avevo un paio di
rollerblade, ma non è esattamente la stessa cosa … e
comunque è passata una vita da allora”
La cinsi per i fianchi con un braccio, pur tenendomi di lato, a distanza di sicurezza.
“Vediamo se in due si cade meglio” ironizzai, prendendo con la mia mano libera la sua.
Piano piano avanzammo,
cadenzando il ritmo delle nostre pattinate, la sua un po’
più impacciata della mia. Eravamo quasi praticamente fermi e
sempre sull’orlo del precipizio, ma sembrava di volare comunque.
“Ah! Aiuto
Ty!” urlava Allie di tanto in tanto, quando voleva fare di testa
sua e non seguire le mie istruzioni. “Che ti ho detto?” la
rimproverai, bonariamente “la schiena non la devi tirare troppo
su, o finirai per andartene all’indietro!”
Allo scadere
dell’ora eravamo accaldati, stanchi e nemmeno c’eravamo
accorti che la notte era scesa già a New York e tutte le luci
delle feste si erano accese, nonostante fossero solo le cinque del
pomeriggio.
Le strade iniziavano a
riempirsi di tipi alla Aidan, che passano il veglione di Capodanno per
strada, sperando di far colpo su qualche bella ragazza e poterla
baciare a mezzanotte sotto le luci della quinta strada. Ai bordi della
strade c’erano già i poliziotti con lo sguardo arcigno,
pronti a sbatterti dentro appena sgarri. E poi c’erano le prime
bottiglie di birra vuote abbandonate sui marciapiedi, perché fa
freddo e si crede ancora alla teoria che l’alcool riscaldi.
Domani mattina saranno centinaia di migliaia, come coloro che
barcolleranno per le strade e sarà un miracolo se troveranno di
nuovo la via di casa, e le bestemmie di chi dovrà pulire si
sprecheranno. Ma è la notte più lunga dell’anno e
si riesce a perdonare anche il vomito del post-sbronza.
Ed era in quella notte
che avrei detto ad Allison di suo padre, perché avevo atteso
abbastanza e non avevo il diritto di trattenerla oltre. Non ero nessuno
per lei, se non uno che aveva provato a fare l’eroe per un
po’, non mi doveva niente ed era un suo sacrosanto diritto
tornare da suo padre e sua madre. Perché non c’erano altre
strade plausibili, neanche nei miei sogni più belli esiste la
versione in cui lei decide di rimanere a New York con me, al di
là di tutto. Perché io non ero nessuno.
Non ero nessuno anche se
seduta nel vagone del metrò aveva la testa sulla mia spalla e
sonnecchiava nonostante il baccano e la folla attorno a noi, anche se
le sue mani erano racchiuse nelle mie, perché cadendo sul
ghiaccio i guanti di lana erano bagnati e gelidi.
“Che vuoi fare
stasera?” le chiesi, cercando di tenerla sveglia con le
chiacchiere; lo avrei fatto molto volentieri, ma era logisticamente un
po’ difficile imbracciarla e portarla via in quella bolgia.
“Possiamo raggiungere Aidan e stare con lui ed i suoi amici in
strada … oppure stare da soli a casa e aggiornarci sul count
down con qualche programma trash in tv”
“Stiamo a
casa” mi disse, con la stessa voce lagnosa che mia sorella ha al
mattino quando non vuole alzarsi dal letto ed andare a scuola
“cucino qualcosa ed aspettiamo la mezzanotte sotto le coperte
… ho sonno!!!”
Per quanto potesse
suonare innocente, e sono sicuro che lo fosse veramente, visto lo stato
in cui era ridotta, l’omino del mio cervello ed il suo amichetto
del piano inferiori si misero a ballare la Samba al pensiero di
ritrovarsi sotto le coperte con Allison, che non era particolarmente
avvezza all’uso del pigiama. Anzi, il mio fratellino ricordo
anche all’omino del cervello del completino intimo famoso e fui
costretto a pensare alle cose più brutte del mondo per evitare
di andarmene in giro col pacco lievitato.
Era dalla vigilia di
Natale che non stavamo insieme-insieme ed ero sempre più
convinto che stare a fissarci negli occhi castamente non era
contemplata come ipotesi da nessuno dei due. Allison si sarebbe
ridestata con un bel caffè e sarebbe andata avanti sveglia come
un treno fino all’alba. Ok … forse meglio evitare questi
doppi sensi, non aiutano affatto il fratellino …
“Mancano solo 2 minuti al nuovo anno New York!!!”
Il vecchio Dick Clark
della ABC, presentatore della diretta da Times Square, annunciò
orgoglioso alla folla radunata e a tutti i suoi megaospiti che era ora
di preparare le bottiglie di champagne e gli scintillanti, che il 2009
era proprio agli sgoccioli.
In tutto questo io ero
pronto con la mia bottiglia di spumante dolce italiano, Allison aveva
in mano i bicchieri e davanti a noi, una distesa sterminata di persone,
tutte pronte e cariche per dare il benvenuto al 2010.
Alla fine eravamo scesi
anche noi in strada, trascinati da un Aidan trasfigurato
dall’euforia per la nottata di bagordi che lo aspettava. Ci
eravamo uniti alla sua compagnia di matti, ma non avevo ancora ben
chiaro da dove sbucassero quelle persone, dove le avesse conosciute o
se le andava raccattando per strada a patto che portassero fiumi di
alcool e facessero un casino della malora.
Non era stata poi una
brutta serata, anche se avrei preferito starmene al caldo tra le
lenzuola solo con Allie e forse anche lei lo voleva, perché in
piedi davanti alla torre del New York Times dove il conto alla rovescia
era evidenziato dai led dei cartelloni animati che riempiono la strada.
Tra noi due, lei era
sicuramente quella più impaziente di lasciarsi il vecchio anno
alle spalle, e buttare via tutto quello che di brutto e vecchio aveva
con sé: la vecchia vita, le sue brutture, le paure, ma anche e
soprattutto la vecchia Allison. In un certo senso anch’io avevo
qualcosa da salutare una volta per tutte: il Tyler complicato e
depresso era ormai un ricordo, anche se continuava a seguirmi come
un’ombra e non ero sicuro che, cambiato il calendario, mi avrebbe
abbandonato. Bastava poco per farlo tornare alla carica, bastava che
quella splendida ragazza che era con me fosse andata via.
Non la smettemmo un
attimo di ridere quella sera: sicuramente eravamo entrambi brilli ed
eccitati, la birra con cui innaffiamo la cena in piedi a base di pizza
take away aveva fatto il suo effetto, e ad ogni stupida melodia che
sentivamo risuonare dagli altoparlanti, dagli stacchi pubblicitari alle
performance live di qualche artista, prendevamo fuoco e ballavamo, o
per meglio dire saltavamo, considerando che eravamo serrati tra le
transenne come sardine, ridendo come due idioti insieme alla compagnia
di matti che ci portavamo appresso.
Ma stavamo bene, felici,
senza il minimo pensiero a turbarci la serata. Non eravamo stati
disturbati né da Aidan, né da mia madre, quindi non
potevamo chiedere di meglio.
“5 … 4 … 3 … 2 … 1 … BUON ANNO!!!”
Un tripudio di luci e
colori esplose nella piazza, insieme ai fuochi d’artificio che
partivano dai grattacieli intorno a noi e da lontano rimbombavano
quelli che scoppiavano sulle rive dell’Hudson. Un boato di gioia
generale risuonò per tutte le strade e migliaia di tappi di
spumante e champagne saltarono via all’unisono. Era uno
spettacolo senza precedenti né uguali, che valeva il freddo e la
noia di starsene in piedi per ore ad aspettare.
Non la smettevamo di
urlare nemmeno noi e sembravamo fatti di qualcosa di davvero potente
perché avevamo davvero fatto il pieno di carica di vita quella
sera, sarei potuto andare per strada nudo e scalzo che non avrei
sentito né freddo né dolore. Personalmente ero in uno
stato di felicità perfetta da farmi quasi schifo, perché
una cosa del genere non mi era mai successa prima: forse era trovarmi
lì con Allison, forse perché sentivo che molte cose erano
andate al loro posto, forse perché non sentivo più la
mancanza di Michael come assenza di una parte di me stesso.
Ed Allison come me non la
smetteva di ridere, sorridere e gridare, e sicuramente aveva più
motivi di me per credere che quello sarebbe stato di sicuro un anno
migliore.
Avrei voluto contemplare
quell’immagine in eterno ma non era quello il momento per
immagini slow motion e musica soft. La presi e la baciai, perché
non c’era niente di meglio da fare, perché volevo che
quell’anno cominciasse con lei e con il suo sapore sulle mie
labbra, il suo profumo tutt’intorno a me e speravo
quell’aura di allegria e gioia pure che emanava potesse
accompagnarci per il resto dell’anno.
“Oh vi prego
… sono di stomaco debole io!” commentò sarcastico
Aidan, con una bottiglia di Vodka liscia vuota tra le mani, ma ancora
sufficientemente sobrio da restare in piedi. Ce ne voleva di alcol per
atterrarlo ormai …
Sentii Allison ridere sulle mie labbra, ed era una cosa che mi faceva impazzire, contagiando anche me.
“Invece di stare a
guardare noi come uno squallido voyeur” gli fece eco Allison,
staccatasi per un attimo da me “perché non ti trovi anche
tu una ragazza da baciare!”
“Ubriaca
magari” mi venne da aggiungere, ridacchiando “così
domani mattina non ricorderà nulla di quella tragica
esperienza!”
Ci congedò con un
dito medio e si buttò nella calca che non demordeva nei
festeggiamenti. Era passata mezz’ora dall’inizio del nuovo
anno, ma per me erano solo cinque minuti. Allison volle baciarmi
ancora, con la scusa che a stare vicini ci si riscalda meglio.
“Vorrei tornare a
casa” mi urlò all’orecchio, mentre l’ennesima
popstar si esibiva sul palco ed i fan isterici cantavano a squarciagola
ogni rima della canzone.
Fu un’impresa
raggiungere la metropolitana e la parte più bella fu sicuramente
tenerla per mano o abbracciata a me, la sensazione straordinaria di
proteggerla e l’emozione che mi regalava sempre la certezza che
lei, con me, si sentiva protetta e sicura.
soundtrack2
“Ti giuro … mi venne vicino e disse: tu, con me, nel mio
letto!” Allison non la smetteva di ridere al mio racconto del mio
primo capodanno passato in compagnia di Aidan a casa di Trisha, una
bruttona con una marea di soldi che lo aveva invitato in questa villona
un po’ fuori mano solo perché mi aveva adocchiato a scuola
e voleva portarmi a letto ed Aidan era l’unico punto di contatto
che aveva con me. Molte delle mie avventure erano nate così e
lei stentava a credere che davvero non me ne cercavo una ma, al
contrario, cadevano tutte ai miei piedi.
“E tu?” chiese curiosa, a quel punto.
Io iniziai a ridere
nervosamente, perché quella, da uomo, non era una parte di cui
andare molto orgogliosi: “Beh … per quanto mi fossi
sforzato a pensare a Pamela Anderson … niente da fare!”
“Cosa?!!!”
era sconvolta. Come darle torto, avevo 16 anni e fui compatito dai miei
compagni di scuola per il resto dell’anno. Non bastò
un’estate di conquiste a riabilitarmi. La povera Trisha, per
quanto ne so, dovette ricorrere alla chirurgia plastica appena compiuti
18 anni per rimediare.
“Voi uomini
… siete tutti uguali” cosa? Ora era colpa mia? Quella era
un cesso e la colpa del mancato alzabandiera è mia??? “se
una non ha le tette di Pamela Anderson e il culo di Jennifer Lopez non
siete contenti…”
“Non è vero!” provai a ribattere “a parte il fatto che così mi offendi…”
“Ah ti senti pure offeso, dopo quello che hai fatto alla povera Trisha!”
“Sì
…” risposi, riflessivo, mentre lei era seduta cavalcioni
su di me. Approfittando dell’assenza degli altri inquilini non
c’eravamo presi troppo la briga di arrivare in camera da letto e
chiuderci dentro. Così gli abiti erano sparpagliati tra il
pavimento e le poltrone, e noi distesi sul divano, nudi e un po’
sudati, ci godevamo quegli attimi di calma e distensione post orgasmica
tra una chiacchiera e l’altra, giocando e ridendo come due
ragazzini.
La casa era buia e le
uniche luci provenivano dalle luci ancora accese ancora a pieno regime
in tutte le abitazioni del vicinato. Mi piaceva starla a guardare in
quella semioscurità, quando i barlumi della strada e il pallore
argenteo della luna, nascosta tra i palazzi, si riflettevano sulla sua
pelle perfetta e candida.
Con le mani ancora
caldissime e pregne di lei accarezzai la linea perfetta del suo collo,
fino ad afferrare il suo mento in una mano, così da potermi
sporgere e baciarla. Anche lei sapeva ancora di me, e quella
commistione di sapori ed umori mi dava alla testa; noi, insieme, il
privilegio che avevo avuto ad incontrata e le libertà che troppo
spesso mi concedevo nell’averla, erano dei pensieri che mi
turbavano. Lei non era mia, non voleva essere mia, eppure era sopra di
me, nuda e bella come una Venere.
Con la mente intrappolata
ancora in quelle elucubrazioni negative, ripresi a percorrere una
strada immaginaria sul corpo di Allie, scendendo dal collo fino al
petto, dove incontrai i suoi seni e li racchiusi tra le mie mani.
La perfezione di quelle
curve, la loro semplicità eppure al contempo la loro
sensualità mi lasciavano ogni volta senza fiato: ne conoscevo
ormai ogni linea, ma .mi portavano sempre alla scoperta di mondi nuovi
ed incontaminati. Una volta era la calda ed assolata africa,
un’altra l’esotica e mistica Asia, un’altra la
selvaggia Australia; oppure poteva essere semplicemente una culla ed
una casa, l’anziana e colta Europa o l’accogliente e
fiorente America.
“Che c’è?” chiese lei, mite e materna, sussurrando.
La guardai negli occhi e
vidi quanto era bella. Lo sapevo già, ma c’era qualcosa
che in lei non avevo mai notato prima, una nuova sfumatura di donna, ad
ulteriore riprova della mia teoria.
“Dimmi cosa stai
pensando?” continuò “deve essere qualcosa di
particolarmente importante perché corrughi sempre le
sopracciglia quando c’è qualcosa che non va … e
diventi un cucciolo adorabile”
“Niente” risposi “solo che sei bellissima …”
Dolcemente guidai le mie
labbra su una di quelle coppe e ve le posai, sperando che potesse
capire a quale punto potesse arrivare la mia dedizione nei suoi
confronti. Le sue mani si afferrarono ai miei capelli e la sentii
posare un bacio sul mio capo.
“Non è vero” ribatté, modesta “porto una mezza di reggiseno e”
“il tuo seno
è perfetto” non la feci finire di parlare “e poi
compensi alla grande con altre curve importanti”
Ammiccai e spostai le mie
mani a palparle quel sedere da paura che si ritrovava: “JLo ti fa
una pippa proprio…”
“Quanto sei
volgare!” mi riprese, spintonandomi e rigettandomi sul divano
“a forza di passare tempo con Aidan sei diventato un porco come
lui”
E di nuovo punto e a
capo, non c’era discorso o appunto romantico che potesse essere
portato a buon fine tra noi; ma era bello anche così,
perché non eravamo come i personaggi di Anna Karenina, depressi
e tenebrosi, né come i protagonisti di Beautiful, con quei primi
piani in silenzio pieni di suspance.
Eravamo solo Tyler e
Allison, due ragazzi di 22 e 17 anni che stavano provando a rimettere
insieme i cocci di due vite disastrate.
“Ehi! Ma qui
qualcuno diventerà maggiorenne a breve?!!!” esclamai,
portandola sotto di me e solleticandola leggermente. Adoravo vederla
ridere e ne approfittavo in ogni modo possibile.
“Mmmmmm … ti prego non ricordarmelo!!!”
“C’è qualcosa che vorresti? Stavo pensando ad un regalo speciale ma non mi veniva nulla in mente”
“Tu cosa hai fatto
per i tuoi 18 anni?” domandò. “Non vorresti saperlo,
fidati. Ti basti pensare che furono organizzati da Aidan e mio fratello
… allora insieme non facevano per una persona!!!”
“Non c’è niente che io voglia … tu mi hai dato tutto quello che potessi desiderare …”
Quando si dice che uno fa una santa morte. Se solo avessi avuto la certezza che le sue parole andassero ben oltre il materiale.
Non mi andava di rovinare
l’atmosfera che si era creata tra noi, il precario equilibrio tra
amicizia e desiderio fisico che si sarebbe potuto sgretolare con una
sola parola. Non le avrei mai più ripetuto quelle dichiarazioni
che parlavano d’amore e della speranza di un futuro insieme. In
più quei giorni di divertimento stavano per finire e stava solo
a me decidere quando.
“Una cosa però ci sarebbe” dichiarò, timidamente.
“Dimmi … lo
sai che non c’è niente che ti negherei” le dissi,
incoraggiandola “e non voglio che tu mi nasconda nulla”
“Non è proprio un regalo … è un sogno che ho, ma so che è impossibile …”
“E chi lo ha
detto?” la sfidai, sereno, aggiustandole i lunghi capelli castani
che scendevano sulle spalle e sul seno, lievemente increspati
dall’umidità.
Lei buttò lo
sguardo altrove, fissando un punto non ben definito del camino spento
davanti a noi. Sentivo che quello era in uno di quei suoi momenti in
cui apriva totalmente il suo cuore, quando non riusciva a reggere lo
sguardo del suo interlocutore per paura di rivelare quanto fragile
fosse dentro.
“Ehi
…” mormorai, carezzandole con la punta dell’indice
la guancia. Eppure le non tolse lo sguardo dal vuoto.
“Vorrei tornare ad
Indianapolis … vorrei portare dei fiori alla tomba di mia
sorella” la sua voce si ruppe per il trasporto ed il carico di
ricordi che quella sola semplice frase portava con sé. “Ma
non posso chiedere a nessuno di voi di esaudire i deliri di una
ragazzina”
“Non sei una
ragazzina” obiettai “ed è giusto che tu voglia
andare da tua sorella in un giorno speciale come il tuo compleanno. Se
te la senti, noi non possiamo impedirtelo”
Presi un respiro profondo e continuai: “Però c’è una cosa che devi sapere …”
Era arrivato il momento: avrebbe ascoltato con attenzione e forse era abbastanza calma da non avere un crollo di nervi.
“Non mi spaventare
Tyler” esclamò, corrucciata. Dovevo aver usato un tono di
voce troppo greve e averla terrorizzata inutilmente.
“No, stai
tranquilla … è una buona notizia” risposi,
mettendomi a sedere “però è una cosa un po’
delicata”
Lei mi seguì a
ruota, alzandosi e sedendosi di fianco a me, coprendoci con una coperta
che mia madre teneva sempre su una delle poltrone del salotto, per
scaldarsi a sera guardando la tv. Eravamo in un piccolo bozzolo, caldi
e protetti, e quel tepore non solo mi diede la forza per andare avanti,
ma portò con sé anche una flebile speranza che la sua
reazione non sarebbe stata negativa.
“È una cosa
che ho scoperto da pochi giorni … solo che non sapevo come
dirtelo e ho aspettato un po’” in più ho voluto
trascorrere le ultime feste con te, prima del tuo sicuro addio.
“Si tratta di tuo padre Allison … è vivo, è uscito dal coma”
Il suo sguardo non era
mai stato tanto imperscrutabile prima di allora; lei mi fissava, in uno
stato tra lo shockato, il terrorizzato e l’euforico. Era
incredula, di sicuro, perché forse non era quella la notizia che
si aspettava, non aveva messo in conto un tale sviluppo della
situazione.
“C-come? Cosa? Io … io … non capisco”
Allora, nella maniera
più cauta che potessi, passai ad illustrarle tutta la trafila di
eventi che portarono mio padre alla conclusione che lei era quella
Allison che il suo dipendente andava cercando per mezza America insieme
a sua moglie e che, di conseguenza, era sopravvissuto
all’incidente.
Allison era rimasta in
silenzio per tutto il tempo e avrei giurato che fosse morta di
crepacuore se non fosse stato per il respiro a bocca aperta, un
po’ pesante, a cui era costretta da quando quel pomeriggio si era
raffreddata sui pattini.
Speechless è il
modo più opportuno per descrivere il suo stato d’animo e
dal canto mio non riuscivo a levarmi dalla mente il terrore che potesse
prendersela con me per non averglielo detto subito; e in più,
una volta che si fosse ripresa dallo shock cosa avrebbe fatto? Mi
avrebbe allontanato? Mi avrebbe mandato via? … forse era meglio
se fossi stato da solo a fare quel passo, di mia spontanea
volontà.
“Senti” presi
la parola, lasciandola sotto il plaid e iniziando a rivestirmi
“forse è meglio che io ti lasci da sola, ora avrai bisogno
di rimettere in ordine le idee. Puoi chiamarmi però, a qualsiasi
ora e per qualsiasi cosa. Ok?”
La vidi annuire
passivamente e poi battere rapidamente gli occhi, svegliandosi dallo
stato catatonico in cui si era rifugiata, probabilmente per difendersi
da quegli sconvolgimenti troppo repentini di una stabilità che
aveva difficoltosamente conquistato nelle ultime settimane.
“Sì … cioè no!” si corresse “tu non vai da nessuna parte! Ho bisogno di te!”
Quella affermazione mi
rinfrancò ancora una volta. Perché la sapevo essere
onesta più che mai e sapevo che mi voleva nella sua vita. Quasi
certamente non nel ruolo che andavo reclamando, ma qualcosa dovevo pur
contare a questo punto.
Si alzò dal divano
e si avvicinò a me, ancora avvolta nella coperta: “Io
… io credo che a questo punto devo proprio andare ad
Indianapolis”
Annuii. Beh era il minimo, sapevo che era una cosa necessaria, naturale e non potevo contrappormi al richiamo della famiglia.
“Però”
continuò lei “non voglio andarci da sola … non
posso andarci da sola. Vieni con me”
L’abbracciai,
perché questa volta era stata lei a volermi partecipe di
qualcosa di tanto personale. Lei non mi aveva lasciato solo a
combattere quell’orco di mio padre e io non l’avrei
lasciata sola. Tornare ad Indianapolis non significava solo rivedere
suo padre, ma anche affrontare sua madre: non era solo una battaglia,
probabilmente sarebbe stata la soluzione finale.
E poi, una volta rimesse apposto le cose, avrei dovuto trovare il coraggio per dirle addio.
NOTE FINALI
Comunque ... la dolcezza e il buon'umore nella vita reale come in
quella fantastica possono essere soppiantati dalla malinconia in un
battibaleno. Sta a noi trovare la forza e lo spunto per vedere nelle
cose sempre il lato positivo, non si può stare sempre lì
a deprimersi.
Ed è esattamente quello che Tyler sta facendo ora, seppur con molta difficoltà.
Allison sta subendo una lenta trasformazione, non è più
la ragazza che abbiamo conosciuto nei primi capitoli, ora in lei
c'è più un mix tra una donna matura e una ragazzina
ingenua alle prese con il primo amore. Eppure il fantasma di Mallory
c'è ancora, molto in profondità. Non sono sicura che si
lascerà completamente andare se quel fantasma non andrà
via.
Non
mi uccidete per quanto vi faccio aspettare ogni volta, vero? Vi do
capitoli lunghi apposta, così potete leggerli a più riprese e non vi
manco!!! XD
Ragazze mi raccomando, lo so che la scuola vi porta via molto tempo, ma vi sarei grata se lasciaste tutte un commentino.
E venite a trovarmi sulle mie pagine di FB e Twitter
à bientot
Federica
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