Michele
Non riesco a dormire ancora. Non
così, non più, non dopo quel sogno. Mi rotolo sul fianco e scendo dal letto dal
lato destro. Avrei potuto scendere da quello sinistro semplicemente tirando giù
i piedi dal letto, ma volevo scendere dal lato destro. Faccio scendere i piedi
che incontrano subito le piastrelle fredde. Le mani vanno a grattare un po’ le
palpebre, ma appena riesco ad aprire gli occhi mi trovo a specchiarmi nel vetro
della finestra. La mia pelle bianca si contrappone alle poche auto che girano.
L’orologio analogico sul comodino segna le quattro del mattino. In Italia
devono essere … uhm … Le dieci del mattino, circa. Chissà cosa fa Michele. Il
pensiero di Michele mi fa sospirare. Decido finalmente di alzarmi, a piedi
scalzi vado in bagno. Non mi voglio guardare allo specchio. Tanto so già di
avere un bel paio di occhiaie e gli occhi più gialli del solito. Ripeterei solo
l’esperimento delle ultime, beh, due settimane, più o meno. Lascio riscaldare
l’acqua in doccia, nel mentre vado in cucina e metto a scaldare dell’acqua per
il caffè. Per fortuna il bollitore si spegnerà al momento opportuno. Prevedo di
stare un bel po’ in doccia. Che giorno è più? Uh, 25 novembre. Il mio
compleanno. Fantastico. Inizio ad insaponarmi.
Cerco di lisciare il più possibile i capelli, se no quando uscirò dalla doccia
sarò pieno di nodi. I capelli ricci non aiutano in proposito. L’odore di menta
dello shampoo è soffocante. Ogni volta mi riprometto di cambiarlo, ma finisce
sempre che tengo questo stupido shampoo. Inizio a tossire, al solito. Devo
scostare sempre la tenda di plastica, e finisce che come al solito si bagnerà
il pavimento. Sbuffo mettendo fuori dalla doccia la testa. Si gela. I capelli
mi si appiccicano alla fronte e mi danno un fastidio cane. Con la mano li scosto.
Il pigiama giace accanto al gabinetto, i boxer un paio di passi accanto. Non ho
preso il cambio, cazzo. Per fortuna l’odore di menta si è dissolto e posso
dedicarmi al corpo. Ho freddo, quindi per prima cosa mi bagno di nuovo con
dell’acqua calda. In stanza suona il telefono. Lascio stare, tanto c’è la
segreteria. Probabilmente è Giuliano. O Daniela. Il bagnoschiuma produce delle
bollicine sulla spugna. Malgrado non ne abbia di bisogno gratto molto sulle
braccia. Quel leggero dolorino sulla pelle è come una sicurezza per me. Tutto
cambia, tranne il fatto che quando gratti forte le braccia poi ti fanno male.
Che scoperta, huh? Ogni volta che entro n doccia mi riprometto di restarci a
lungo. Ma finisce che me la sbrigo sempre in meno di un’ora. Ovviamente in
un’ora è compreso l’asciugarsi i capelli, dare loro una forma, che non è sempre
la cosa più semplice del mondo. Esco dalla doccia e raccolgo i vestiti sporchi.
Davanti al lavandino c’è l’acqua di quando ho aperto la tenda per respirare.
Fantastico. Mi fascio dentro l’accappatoio bordeaux e lo chiudo in vita. Esco
dal bagno con delle falcate ampie. Per prima cosa vado al telefono ed avvio la
segreteria. Mamma mi ha chiamato per farmi gli auguri. Strano, solitamente
chiama più tardi. Per lo meno, l’anno scorso ha aspettato che qui fossero
almeno le otto. Si sarà dimenticata del fuso. Aggiunge che il nostro cane,
Cicerone, è morto. Sbuffo. A tal proposito preparo del cibo per Catullo, il mio
gatto. Mia madre mi ha trasmesso il gusto per i nomi di celebrità del mondo
romano da dare agli animali. Precisiamo, avevo avuto anche una gatta di nome
Saffo, ma era molto acida come tipo. Quando mi chino col pacco di croccantini
in mano e li verso nella ciotola di metallo la figurina di Catullo accorre. Gli
carezzo il pelo rosso della schiena. Ha il pelo corto e gli occhi gialli come i
miei, anzi, ancora più gialli. Entro in stanza e guardo l’orologio. 4:35. Il
cielo è più buio. Fra poco arriverà l’aurora. Accendo la luce e prendo un paio
di boxer, un jeans ed un maglione. Manco a farlo apposta il maglione è giallo.
Lo ripongo con cura. Dove sarà finito il lupetto nero? Cerco un po’ nel
cassetto ed alla fine lo trovo. Ho ancora i capelli bagnati. Per forza di cose
mi guardo allo specchio: essendo sopra i cassetti rialzandomi è la prima cosa
che vedo, ed evitarlo è quasi impossibile. Dall’alto il lampadario illumina di
luce bianca la stanza e parte del salotto. L’accappatoio è in netto contrasto
con la mia pelle. In particolare le guance sono pallide, poco sopra due simpatiche
occhiaie mi ricordano che sono due settimane che dormo sì e no quattro ore.
Sbadiglio. Dagli occhi gialli scende una lacrima. I capelli appaiono più scuri
del solito. Ovvio sono ancora bagnati. Sì, decisamente come ieri. Un forte
brivido mi ricorda che devo ancora finire di asciugarmi. Entro in bagno. In un
angolo c’è il moccio, lo prendo e tolgo l’acqua dal pavimento. Inizio ad
asciugarmi i capelli. Non bado alla forma. Non mi interessa, oggi apparirò più
Frankenstein che mai. Più o meno li tiro indietro. A causa della loro natura si
gonfiano. Fantastico, veramente fantastico. Mi infilo il lupetto, i boxer ed i
jeans. Corro in stanza. 4:59. Il profilo dei grattacieli di Toronto parrebbe
quasi volermi nascondere l’alba che, ostinata, inizia a sorgere, con quel blu
che la precede. E’ il momento più bello della giornata, almeno per me. Tutto si
risveglia, pian piano. La memoria corre a due mesi fa, la mia prima vera alba.
Ne avevo già viste, ma l’alba del 23 settembre non la scorderò mai. Ma facciamo
un passo indietro: 19 settembre. Ero in visita in Italia ai miei, c’era ancora
un caldo terribile, anche se di quando in quando un acquazzone rinfrescava
l’aria. Era anche il compleanno di Giuliano, mio cugino. Trent’anni, un gran
bel traguardo. Ovviamente i miei zii avevano organizzato un bel rinfresco in
uno dei ristoranti, nulla di enorme, niente di pomposo, ma comunque qualcosa di
tranquillo. Era come una tradizione, anche quando eravamo bambini si è sempre
organizzato al ristorante, ricavato da un vecchio casolare. Nell’aia antistante
giocavamo sempre a rincorrerci, o a nascondino. Quando l’ho rivisto quest’anno
ho trovato l’aia più piccola di quanto non ricordassi. E poi c’è anche un
albero, sulla destra, credo di limoni, ma non ne sono certo. Il fusto è abbastanza
grosso, quindi doveva esserci anche quando ero piccolo, sebbene non lo ricordi.
Insomma, ero uscito a fumare una sigaretta quando mi si avvicina un ragazzo.
Michele.
< Sei il cugino di Giuliano,
vero? Quello del Canada>
< Sì. Piacere, Matteo, ma
chiamami pure Matt.>
< Michele. Hai da
accendere?>
Non erano pochi i biondi in
paese. Ma in linea di massima erano quel biondo molto scuro, accompagnato da
occhi marroni scuri e spesso la pelle abbronzata. Invece Michele era diverso.
Insomma, i capelli erano biondi ma tendevano leggermente al rosso. Gli occhi
erano azzurri scuri, coperti da un paio di occhiali con la montatura fine,
quasi da professore. E poi la pelle, molto chiara. Lo ammetto, due mesi fa
anche la mia pelle era leggermente più scura. Ora è andata a farsi benedire ma
amen. Una leggera barbetta gli incorniciava le labbra fini e rosa. Comunque
iniziammo a parlare. Entro sera scherzavamo amabilmente. Scoprii che era di
Milano, ciò spiegava anche un certo accento che, in provincia di Prato, stonava
alquanto. Il suo compleanno? 15 marzo, un anno più grande di me. Penso potrei
descrivere tutto di quell’incontro. Aveva mezzo grado di miopia dall’occhio
sinistro e due da quello destro. Una T-Shirt azzurra copriva il busto, le gambe
fasciate in un paio di jeans a tre quarti scuri, ai piedi sandali neri da
trekking. Una cicatrice sotto il ginocchio ricordava una volta che, a tredici
anni, era caduto da un ramo. Io gli raccontai di quando mia nonna pensava fossi
indemoniato per gli occhi. Alla fine ci scambiammo anche i numeri di cellulare.
Quella sera parlai con mia madre. Meglio, come al solito, lei parlò con me.
< E’ simpatico Michele, non
trovi?>
< Sì, molto>
< Sta proprio bene con
Benedetta …>
< Benedetta?>
< Sì, la figlia di Vittoria e
Sandro.>
Si dà il caso che fosse anche la
mia ex ragazza. Nonché, questo ovviamente mia madre non lo poteva sapere, colei
con cui avevo perso la verginità. Una ragazza con un bel fisico, non c’è che
dire. Peccato per il cervello di dimensioni ridotte …
Che spreco, tanto cervello come
quello di Michele accoppiato a tanta stupidità quanta era di Benedetta. Quella
notte mio padre cadde dalle scale rompendosi il femore. Ciò mi portò a spostare
il volo di rientro a Toronto. Primo posto disponibile: 20 Ottobre. E vabbeh.
Passai in ospedale tutto il 21 e parte del 22.
Casa nostra era un po’ fuori dal
paese. Anche questa era un tempo un casolare, ed era anche molto grande. Con
estrema pazienza mia madre continuava a mantenere tutte le stanze in ordine e
pulite. Avevamo qualcosa come tre stanze in eccesso, quattro quando io ero a
Toronto. Quella sera mia sorella Caterina era con mia madre da mio padre.
Michele venne a casa con Benedetta. Non parlò lui, bensì lei.
< Oh, Matt, mi spiace così
tanto per quel che è successo!>
< Non è stata colpa tua,
comunque grazie.>
Le sorrisi e lei mi abbracciò.
Sarà stata pure un’oca giuliva ma voleva molto bene a mio padre, ed immagino
che anche lei si fosse presa un bello spavento. Infatti mentre mi abbracciava
attaccò a piangere. Io la stringevo un poco, sentendo il calore del suo corpo
sotto le mie mani anche attraverso il suo vestitino di mussolina. E mentre lei
mi inzuppava la manica della maglietta con le sue lacrime ed i suoi capelli
marroni mi facevano il solletico al labbro inferiore, io mi sentivo un po’
fuori luogo; inutile dire che anche Michele doveva sentirsi decisamente inadatto.
Ed intanto Benedetta continuava a piangere.
< Ehi, ragazzi, avete già
cenato? Se vi va potremmo mangiare assieme>
Provai la strada del cibo per
calmarla. Funzionò solo in parte. Alla fine li sistemai nella stanza con letto
matrimoniale libera. Mia madre e Caterina quella sera non sarebbero tornate,
erano a Prato, all’Ospedale, e le ospitava la sorella di mio padre, mia zia
Adele.
23 Settembre, l’alba. Ero
convinto che lui e Benedetta stessero dormendo. Saranno state più o meno le
quattro/quattro e mezza Non avevo chiuso occhio, non c’ero riuscito. Ero
preoccupato per papà e non avevo ancora detto a mia madre che mi ero messo con
una ragazza, a Toronto. In quel momento il cellulare nella tasca vibrò. Elise
mi aveva mandato un messaggio chiedendomi come stesse mio padre. Risposta “ Don’t know yet, I’m going
to visit him later, here it’s 4:40 a.m. How are you sweetie?”. Avevo
lasciato la porta aperta e dopo aprii anche la finestra. La brezza mattutina,
gravida di umidità, mi sfiorava il viso entrando in casa, mi spostava i capelli
dalla fronte e mi graffiava dolcemente le palpebre. Avevo sonno ma non riuscivo
a dormire. Chissà, forse un presagio di quella che sarebbe stata da allora la
mia vita, o qualcosa di simile. Nell’aia Cicerone dormiva pesantemente. La
temperatura doveva essere calata perché il suo fiato faceva condensare l’aria
davanti al suo muso. < Matt?> Una voce dietro di me mi distolse
dall’osservare attentamente i muscoli di Cicerone contrarsi e rilassarsi.
Illuminato dalla luce bluastra dell’abat-jour sul comodino, Michele stava fermo
sulla porta, con addosso solo la sua biancheria. Non avevano previsto di
fermarsi e non avevo pensato di dare loro qualcosa. Alla luce della lampadina
blu la sua pelle appariva ancora più pallida del solito. < Dimmi> Mi
girai completamente, stringendomi a causa di un brivido nella mia vestaglia.
< Volevo chiederti dove fosse il bagno …> alzabandiera mattutino. Un
classico. < E’ in fondo al corridoio.> Una macchiolina più scura al
centro del paio di mutande bianche confermò dei sospetti che avevo avuto quella
sera a causa di alcuni rumori sospetti. < Ti serve un cambio?>. Avevo
imparato a non chiedere ma trattare tutto con naturalezza. < Oh …> la
cosa evidentemente lo imbarazzava. < Se fossi così gentile da prestarmi un
paio di boxer …> Anche con le condizioni di luce nelle quali si stava si
vedeva chiaramente che era arrossito. La cosa lo imbarazzava < Vai
tranquillo in bagno, ti porto subito i boxer.> Gli sorrisi per rassicurarlo.
< Oh, grazie> Si avviò silenziosamente verso il bagno. Mi inginocchiai
davanti al cassetto della biancheria e cercai il paio di boxer più bello che
avessi. Trovai quelli di Capodanno, rossissimi ed attillati. Sorrisi. Prima
volta che avevo fatto sesso con la mia ex, Elisabetta, il Capodanno di due anni
prima. Attraversai il corridoio velocemente. Non pensai a bussare ed entrai
direttamente. Davanti a me Michele completamente nudo con ancora un mezzo
alzabandiera. In quel momento uscì dalla stanza anche Benedetta. Io arrossii
completamente < Scusa> dissi alla svelta, poggiai sulla lavatrice
attaccata alla porta il paio di boxer e richiusi la porta. Michele non aveva
avuto la prontezza di reagire. Era rimasto a guardarmi così, in piedi. Ed io lo
stesso. E Benedetta ci fissava entrambi. Che situazione del cavolo. < Matt,
ma … non capisco, che stavate facendo?> Aveva una faccia letteralmente
sconvolta. Io immagino di esser parso come minimo rosso pomodoro < Niente,
assolutamente niente. Vuoi una vestaglia?> Anche lei in lingerie e la pelle
d’oca. < Sì, grazie. Ma che stavate facendo?>. Non so perché la
situazione mi creasse tanto disagio. Insomma, non era la prima volta che vedevo
qualcuno nudo. Forse un po’ sapevo perché mi sentivo così, quasi in colpa. Il
mio coinquilino si era affacciato. Pregai che Benedetta non se ne accorgesse
< Nulla, assolutamente nulla! Vieni, ti do quella di Caterina. E’ molto
calda>. Intanto sentivo le mie guance andare a fuoco. Non entrai in stanza
di mia sorella, semplicemente allungai il braccio dietro la porta e tirai giù
la vestaglia. Era di pile caldo, rosa antico decorato con fiorellini più scuri.
Affacciandomi un attimo alla mia stanza presi anche la mia vestaglia di
ricambio, fatta tipo kimono di seta nera
con disegni verdi scuri. Dragoni e nuvole, classici motivi giapponesi, insomma.
< Portala a Michele> Dissi a Benedetta a mezza voce. Io mi strinsi nella
mia vestaglia blu ed aspettai che sparisse in bagno prima di scendere le scale
di legno scuro. Arrivai in cucina e cominciai a preparare il caffè. Dalla
finestra che dava sul retro della casa potevo vedere il cielo schiarirsi piano
piano, diventare prima giallognolo e quindi azzurro. Mi poggiai sul pianale di
granito chiaro. Il freddo della pietra contro la mia pelle mi diede un brivido
tutto sommato piacevole. Sentii che qualcuno stava scendendo le scale. Il legno
di cui erano fatte ogni volta faceva molto rumore. Sbuffai abbandonando la mia
posizione e poggiandomi con la schiena agli armadietti. Il caffè stava
diffondendo un buon profumo mentre le uova erano ancora abbandonate nel loro
recipiente di plastica. Appena sceso avevo pensato di preparare anche i
pancakes ma avevo cambiato idea. Procedura troppo lunga, troppo rumore, poca
voglia. Michele entrò in cucina. Si stringeva nella vestaglia mentre procedeva
a piedi nudi sul pavimento freddo della cucina. Non doveva essere amante dei
brividi come me
< Benedetta si sta facendo una
doccia.>
Mi informò a mezza voce, gli
occhiali ancora un po’ appannati dal vapore del bagno, i capelli tirati
indietro ed ancora umidi.
< Ok. Vuoi del caffè?>
Mi staccai dal granito e mi
avvicinai alla caffettiera. Michele scosse un poco la testa ed un ciuffetto di
capelli, rimasto in precedenza attaccato agli altri più che altro per
l’umidità, ricadde in avanti.
< Se magari hai del tè
…>
Posai gli occhi sul caffè ed
intanto annuii.
Gli davo le spalle ma avvertii
che sorrideva, specie dopo la mia risatina stupida. Dall’alto delle scale
arrivò la voce un po’ acuta di Benedetta. Anche se attutita dalla porta del
bagno risultava comunque chiara e quasi fastidiosa. Mi stava chiamando. Spensi
la caffettiera ed aprii un armadietto in alto. Quando ero bambino lì mia madre
ci teneva il cacao e la cioccolata. C’era il tè, per fortuna.
< Non è per fare l’inospitale
ma serviti pure, vado a vedere Benedetta. Quello è il bollitore, se vuoi che ci
metta di meno>.
Michele annuì e sorrise appena.
Gli sorrisi indietro e corsi verso il bagno.
Il campanello suona e mi riprendo
da questa sorta di torpore. I ricordi. Una delle poche cose capaci di farti
sorridere e piangere al contempo, di farti vivere ed ucciderti. Mi stringo
nelle spalle.
Joan, la mia dirimpettaia.
Trent’anni portati abbastanza bene. Madre single di un bambino di quattro mesi.
Il compagno frequenta anche locali gay ma fa di tutto per essere un compagno
modello. Lei fa di tutto per apparire la casalinga che non è. Profuma di
violetta. I capelli scuri sono tenuti su da uno chignon la cui rigidità è dissimulata dalla dolcezza
dei lineamenti e dei colori degli abiti. Non puoi dire, in realtà, come è Joan.
Joan è Joan, indescrivibile nella sua essenza.
< Hi Joan, do you want to come in?>
So già che rifiuterà. Dirà come
al solito che non vuole che il bambino si svegli e non la trovi a casa. Questa
notte il compagno non è tornato a casa: a testimoniarlo le sue occhiaie. C’ho
quasi fatto l’abitudine. In mano ha una torta ancora calda.
< Oh, I’d like but I want to be there when
Ryan wakes up. I made this for you, happy birthday!>
Posso senza dubbio dire che Joan
è la vicina perfetta. La torta al cioccolato è decorata con scorzette di
arancia candite.
< Thank you so much Jo, normally none
remembers about my birthday … Where’s Thomas?>
< Thom? I think he’s at James’. He’s so
inattentive, he forgot to tell me>
Ridacchia un poco. E’ nervosa.
James è un amico di Thomas, il suo convivente. Non ne son certo, ma è probabile
che sia tipo il suo amante fisso. L’ho visto un paio di volte. E’ carino, bel
fisico.
< I see. If you want you can come here with
Ryan. You know I love children.>
< Don’t worry. Thanks anyway. Have a nice
day>
Prima di andarsene mi consegna un piatto di vetro rosato con
sopra la torta. E mi sorride, come sempre. E’ il primo sorriso di questa
deprimente giornata che non ha ancora visto in il sole. Già, il cielo è
nuvoloso. L’alba è stata un’illusione. Sono le sette e sta iniziando a piovere.
Ho lezione ma non ho voglia di andare in facoltà. Tutta quella gente che non
riesce a capire quanto stai male. E’ in giornate come questa che capisci quanto
ti possa mancare veramente qualcuno. Abbandono il piatto con la torta sul
piatto. Recupero il computer dalla borsa. Lo apro ed accendo quasi in
contemporanea MSN e FaceBook. Cerco il suo contatto. Offline. Il suo nome
scritto in grigio. Un groppo mi assale la gola. Non avevo speranze, ma a volte
anche un’ennesima riconferma ti butta giù. Ora guardo FaceBook. Sulla mia
bacheca gli auguri dei ragazzi del paese. Anche di qualcuno qui di Toronto ed
un paio di ragazzi dalla West Virginia che hanno deciso di fare le ore piccole
e mi hanno scritto gli auguri. Di nuovo non compare il suo nome. Guardo nei
messaggi, come per aggrapparmi all’ultima speranza. Ultimo messaggio datato primo
novembre. Lo sconforto più totale prende il sopravvento. Sono uno sciocco, solo
uno sciocco può mettersi a piangere per una situazione simile. Dove, poi? Sulla
tastiera del proprio portatile. Geniale, no? Mi sento male, mi sento un inetto,
mi odio. Non riesco ad odiare ciò che, razionalmente, andrebbe odiato. Non sono
io la causa della sofferenza, eppure odio me. E non lui. Non ci riesco. Sono
inibito. Sono un idiota inibito emozionalmente. Richiudo violentemente lo
schermo del computer e vado in cucina. Catullo mi si striscia sulle gambe.
Quasi lo calcio, per errore. Le lacrime mi inondano gli occhi e la testa. E’
come se fossi ubriaco. Raccatto un calmante dal cassetto dei medicinali. Mi
tremano le mani e ci impiego un po’ ad aprire la scatola. Ciò mi snerva, molto.
Alla fine riesco a tirar fuori il blister bianco. Le capsule all’interno sono
rosse e verdi, come a voler dare allegria. Che allegria può provare un
depresso? Come può un colore provocargli gioia? Come può non ferirgli gli occhi
con quell’allegria indifferente tipica dei colori accesi? Prendo un bicchiere e
ci metto dentro un po’ d’acqua dal rubinetto. Un singhiozzo più forte a momenti
mi fa cadere la capsula. In bocca. Giù nell’esofago. Respiro profondamente. “E’
tutto finito” mi rassicuro “Ora starò meglio”. Mi attacco con una mano al bordo
del bancone, con l’altra cerco la sedia. Tengo gli occhi chiusi. “Ora starò
meglio. Devo solo sedermi”. Non faccio in tempo a cercare ad occhi chiusi la
sedia. L’esofago mi si contrae. Vomito. Fa male, senza contare il fatto che il
calmante non fa effetto, ovviamente, essendo stato espulso subito. Apro gli
occhi. Il cielo che entra dalla porta-finestra del salotto è abbagliante e
grigio. Fa quasi male agli occhi. La cena di ieri mi è finita in parte sulla scarpa.
Cazzo. Mi tremano le labbra. Non so più in che stato versi la mia faccia, a
causa del pianto eccetera. Mi trascino in stanza. Otto del mattino. Devo andare
in facoltà. O ci vado o muoio. Non ho voglia ma devo, per non abbandonarmi qui.
Con la punta della scarpa destra levo la sinistra. Mi metto un paio di
Converse. Ci metto troppo, mi tremano le dita e la vista non è precisa. Corro
in bagno e mi lavo la faccia, di nuovo. A parte gli occhi arrossati non sono
messo male. Recupero il moccio e vado a pulire quel casino in cucina. Nove meno
un quarto. Recupero la borsa del computer con dentro anche i copioni. Una
sistemata al volo ai capelli e giù per le scale.
Falsità. Devo sempre dire che ho sempre avuto un rapporto
strano con la falsità. Da una parte la odiavo, nella forma in cui mi portava a
sorridere a gente che avrei volentieri eliminato dalla faccia della terra. Poi
ho imparato ad apprezzarla, nella sua forma di riuscire a celare agli altri il
dolore ed il rancore che si hanno dentro. Poi l’ho provata, come una droga.
Inizialmente ti piace, ti senti anzi quasi un eroe: aiuti gli altri, non chiedi
nulla in cambio e non ti accorgi che in realtà cerchi i guai altrui per evitare
di pensare ai tuoi. E non ti accorgi che ciò ti inabissa, perché hai il peso dei
tuoi guai e quello degli altri; inoltre non puoi poi fare finta di nulla, la
maschera della falsità, della disponibilità, della gentilezza, tutto ciò ti si
è ormai attaccato addosso. Non puoi farne a meno. Come una droga. Come Michele.
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