A
Klara, la mia musa ispiratrice di GaaNaru,
nella
speranza che questa storia non disattenda le sue aspettative.
After
the Fall
1149
d.C.,
Provenza
I
campi brillavano al sole come distese di oro filato.
Una
stradicciola di terra battuta, bagnata di rosso dalla luce del
tramonto, serpeggiava tra gli appezzamenti di grano maturo e
scompariva all’orizzonte, inerpicandosi su un gruppo di
colline
boscose; il Sole, occhio di fiamma prossima a spegnersi, calava a
poco a poco oltre la terra, sprofondando tra le spighe ondeggianti
nella brezza della sera.
Tutto
era silenzio, tutto partecipava di una quiete statica e lieta che
è
tipica di quei luoghi che poco sovente soffrono della presenza umana;
nei campi non c’erano contadini, e solo una era la figura
che, a
cavallo, procedeva lentamente lungo la strada, diretta ad occidente.
Immobile
sulla sua cavalcatura, sobbalzando insieme con essa ad ogni ostacolo
superato, sembrava si fosse abbandonata al sonno senza scendere dalla
sella; in realtà, come testimoniavano gli occhi aperti,
seppur fissi
nel vuoto, la figura era quella di un ragazzo perfettamente sveglio.
Era basso, di corporatura sottile, vestito come si conveniva ad un
cavaliere: una cotta di maglia leggera gli copriva le braccia, il
petto e la testa, mentre le gambe erano protette da schinieri e
pantaloni di cuoio pesante. Sul capo, malamente calcato, portava un
elmo ormai ammaccato e graffiato, dimentico dei colori un tempo
splendidi che lo avevano ricoperto; tutto il suo vestiario, del
resto, aveva un aspetto liso, e non poche erano le macchie di sangue
che insozzavano la stoffa del mantello di lana bianca.
Più
di tutto, però, erano due i particolari che caratterizzavano
il suo
aspetto.
Lo
spadone a due mani appeso al fianco, ancora splendente nonostante le
tacche che ne rovinavano la lama, suggeriva origini abbienti, forse
persino nobili.
Sullo
scudo che teneva attaccato alla schiena, poi, campeggiava una croce
scarlatta.
E
quello era un simbolo alla cui vista molti rabbrividivano.
Il
cavaliere crociato, con un gesto vago della mano coperta
d’acciaio,
rassettò un ciuffo di capelli ramati che, sfuggito alla rete
della
cotta di maglia, gli si era incollato alla fronte per il sudore. I
suoi occhi chiari, di un colore che somigliava a quello delle
acquemarine, vagarono a lungo sul paesaggio circostante, sempre
mantenendo un’impressione di vacuità disperata,
quasi stesse
cercando di concentrarsi sui campi per non pensare a ricordi ben
peggiori.
Sobbalzò
quando udì il grido tetro di un corvo sulla sua testa.
Alzò
lo sguardo, pensieroso, e seguì il volo
dell’uccello finché non
scomparve, troppo lontano perché potesse vederlo ancora;
stringeva
qualcosa tra gli artigli, forse un pulcino sottratto al nido di
qualche creatura più debole.
A
quella vista, il crociato sorrise.
Una
lacrima gli rotolò lungo lo zigomo, fino a toccare il bordo
delle
sue labbra sottili.
***
1147
d.C., Provenza
«Pare
che re Luigi VII stia cercando uomini per la sua crociata».
Kankuro
sorrise malamente al fratello, titillando con le dita un fuscello
mentre aspettava la sua reazione; Gaara sedeva sulla staccionata che
delimitava il campo d’avena – maggior possedimento
della loro
famiglia – e sembrava non aver sentito quanto gli era stato
appena
detto. Fissava, senza realmente vederlo, il percorso di una gallina
che, beccando pigramente il terreno, andava a zig-zag sulla stradina
della fattoria.
«Gli
servono uomini che sappiano combattere, Gaara. E tu sei sempre stato
il migliore tra noi».
Che
Gaara fosse effettivamente il guerriero migliore della famiglia
Sabaku, era un dato di fatto; si era sempre dimostrato abile
nell’equitazione, e, per quanto riguardava il combattimento,
a
volte nemmeno suo padre – che pure era stato, in
gioventù, un
grande cavaliere – riusciva a batterlo. Tuttavia, la ragione
per
cui Kankuro gli proponeva di partire per la Terra Santa non
riguardava soltanto l’ammirazione per le doti atletiche del
fratello.
«Credi
che la mamma l’avrebbe voluto?» Rispose
strascicando le parole
com’era suo solito, il tono annoiato. Kankuro
rabbrividì,
spezzando il fuscello per la troppa tensione.
I
medici ritenevano che le complicazioni avvenute durante il parto
della madre, oltre ad averne determinata la morte, avessero inciso
negativamente sullo spirito di Gaara. Il fatto di esser nato
contestualmente ad una morte – dicevano, nel tentativo di
spiegare
l’instabilità emotiva del ragazzo e i suoi
continui scatti d’ira
– aveva fatto sì che la sua anima fosse insozzata
da un peccato
insostenibile, per un ragazzo così giovane.
«Certo
che l’avrebbe voluto. N-non te l’avrei nemmeno
detto,
altrimenti».
Il
fatto era che Kankuro odiava Gaara.
Lo
detestava perché aveva causato la morte di Karura, sua
madre, e
perché, agli occhi del padre, era sempre stato migliore dei
suoi due
fratelli nonostante quella terribile colpa; lui e Temari avevano
tentato invano di riscattarsi agli occhi del genitore, ma come
potevano? La crudeltà di Gaara, che veniva tanto apprezzata
dal
padre, loro di sicuro non la possedevano, e nemmeno la sua
capacità
di uccidere a sangue freddo chiunque gli venisse ordinato.
Aveva
diciotto anni, e le sue mani già erano sporche di sangue.
Gaara
si staccò dalla staccionata con un sospiro, poi rivolse
un’occhiata
dubbiosa al fratello.
«Le
Crociate offrono la possibilità do redimere la propria anima
dai
peccati commessi. Quindi, anche tu... potresti... potresti cancellare
la colpa della morte della mamm-»
«Taci».
La voce del ragazzo, fattasi tagliente, smorzò sul nascere
la sua
arringa.
Dopo
qualche attimo di silenzio, Gaara riprese a parlare.
«Se
parteciperò a questa Crociata potrò ottenere
delle terre... forse
persino una regione da governare. Potrò vivere lontano da
qui e fare
ciò che preferisco».
«Q-questo,
se la Crociata sarà vinta».
«Sarà
vinta, a sentire ciò che dice il Papa. Gli infedeli meritano
la
morte assieme al loro dio bastardo, sbaglio?»
Accarezzò il pomolo
della spada, che portava appesa al fianco – se ne liberava
soltanto
per dormire, e di notte la appoggiava comunque accanto al cuscino,
per potersi difendere in ogni situazione. Kankuro deglutì,
osservando le dita sottili e pallide del fratello indugiare
più del
necessario sul codolo istoriato.
«No,
non sbagli. Hai intenzione di partire?»
«Sì,
credo che partirò. Nostro padre ha avuto la sfortuna di
avere più
figlie femmine di quel che credeva, a quanto pare, quindi non ho
molta scelta. Un cavaliere ha bisogno di qualcuno che tenga alto il
buon nome della famiglia».
Kankuro
contrasse il viso in una smorfia piccata, poi assunse una posa
leggermente ingobbita e si appoggiò a sua volta alla
staccionata.
Aveva provato, altre volte, a contrastare le frecciate velenose e le
minacce del fratello con un'alzata di testa, e ne aveva ricavato
soltanto alcune grosse, brutte cicatrici in varie parti del corpo. La
prima gli era stata inferta all'età di dieci anni.
«E
se dovessi morire? Ci hai pensato, a questo?» Non che avesse
intenzione di dissuaderlo dal partire, per carità.
Semplicemente, e
in un modo che lo stesso Kankuro stentava a capire, ascoltare le
risposte di Gaara su certi argomenti gli interessava in maniera quasi
morbosa: sentirlo parlare di sé - ed era, quello, un evento
più
unico che raro - era come affacciarsi alla soglia di un profondissimo
baratro buio, in cui lui non sarebbe mai potuto entrare. Lo
incuriosiva e allo stesso tempo gli suscitava una genuina repulsione.
«Se
anche dovessi cadere,» Gaara sorrise, con quel suo tipico
ghigno
estatico che il fratello aveva imparato ad odiare «sono certo
che la
mia morte verrà vendicata. E poi, è meglio morire
divertendosi,
che marcire come un qualsiasi contadino provenzale per il resto della
mia vita».
«"Divertendosi"?»
«Lascia
stare. A dopo, fratello».
E
dopo un cenno del capo, più derisorio che altro, Gaara si
avviò
verso la grande casa patronale che svettava alla fine della via.
*
Lo
studio del padre, come sempre, era umido e pieno di polvere.
Le
pareti di pietra sembravano quasi assorbire il calore dell'aria,
rendendo l'ambiente freddo e poco confortevole, mentre, per contro,
le pile di documenti e libri impilati disordinatamente in ogni angolo
contribuivano a dare un'impressione di soffocamento.
Gaara
aveva sempre detestato quella tendenza all'incuria: un libro era un
oggetto prezioso, facile all'usura, e gettarlo su un pavimento che
l'avrebbe reso preda di topi e scarafaggi non era una mossa saggia. E
nemmeno lungimirante, per dirla tutta, visto che il futuro padrone
della tenuta avrebbe dovuto basare la propria amministrazione su
documenti distrutti dal tempo.
«Padre».
Il
padre di Gaara sedeva su una seggiola impagliata, dietro una
massiccia scrivania di legno d'abete. Appariva intento nella
compilazione di alcuni documenti, la fronte corrugata nel tentativo
di decifrare i caratteri su pergamena alla luce delle poche lanterne
che illuminavano lo studiolo.
Si
avvertiva un'atmosfera strana in quel luogo, quasi fosse sacro:
l'uomo difficilmente ne usciva, e aveva finito per trasferire la
propria essenza ad ogni frammento di carta, ad ogni pezzo di mobilio,
creando un sancta sanctorum in cui perfino Gaara,
alle volte,
si sentiva a disagio. E in quel momento più che mai,
interrompendolo
in quello che sembrava un passaggio particolarmente critico del suo
lavoro, il ragazzo si chiese se non fosse il caso attendere che
avesse finito.
Poi,
com'era ovvio, il suo egoismo prese il sopravvento.
«Padre».
E si schiarì rumorosamente la voce, drizzando la schiena.
L'uomo
alzò gli occhi dalle sue carte, ferendolo, come ogni volta,
con la
profonda acutezza del suo sguardo castano; poi, dopo un sospiro
infastidito, mise da parte la penna d'oca e gli dedicò la
sua
completa attenzione.
«Che
cosa vuoi, Gaara?»
«Luigi
VII cerca uomini per la sua Crociata in Terra Santa. Chiedo la vostra
benedizione per questa impresa».
«Non
il permesso?»
Gaara
esitò per un attimo. Poi ghignò.
«No,
non il permesso. Se non sarete voi a concedermi i mezzi, me li
procurerò personalmente».
«Posso
sapere da cosa deriva questo desiderio improvviso di partire?»
«Nell'ultimo
anno il nostro patrimonio si è notevolmente assottigliato.
Le tasse
dello stato crescono ogni mese, e da tempo ormai i campi non
producono frutto come facevano un tempo. Quante offerte di acquisto
avete già ricevuto?»
«Molte.
Ma ciò non significa che tu debba partire per questo
massacro alla
ricerca di nuove terre».
«Non
mi avete permesso di andare, tre anni fa, quando Edessa
cadde».
«Avevi
quindici anni. Troppo pochi per una guerra...»
«Ora
ne ho diciotto, e molti dei miei coetanei sono partiti. Forse che vi
aspettate qualcosa di diverso da me? Credete che prenderò
moglie?»
«Lo
spero».
«Non
accadrà mai». L'espressione del ragazzo si fece
improvvisamente
aspra, quasi rabbiosa «Ora, mi concedete la vostra
benedizione?»
«Non
prima di qualche altra domanda». Il padre ghignò,
arricciando le
labbra con fare compiaciuto. Scalfire il rigido autocontrollo del
figlio era difficile, ma piuttosto piacevole.
«Sarebbe?»
«Queste
"Crociate" vengono promosse dalla chiesa, se non sbaglio...
condanniamo la "guerra santa" dei pagani, eppure facciamo
lo stesso contro di loro, seppur con un altro nome. Come ti
giustifichi?»
«Bernard
de Clairvaux sostiene che non è peccato uccidere colui che
compie
eresia opponendosi a Cristo. E così gli
infedeli...»
«Conosco
le parole di Bernard meglio di te, figlio mio. So cosa dice, so della
sua bizzarra teoria del "malicidium". "Il
Cavaliere di Cristo uccide in piena coscienza e muore tranquillo:
morendo si salva, uccidendo lavora per il Cristo", sbaglio
forse? Credi davvero in ideali come questi?».
Gaara
rimase in silenzio, e l'uomo ridacchiò.
«Non
è necessario che tu mi risponda, figlio mio... in questo
siamo così
simili che già conosco la risposta. Lascia gli ideali a
uomini più
sprovveduti, lascia le promesse di pace e gloria alla carne da
macello. Se vuoi sopravvivere credi solo in te stesso, ma soprattutto
ama solo te stesso».
«Me
lo ricorderò».
«Bene.
Hai la mia benedizione, figliolo, e il mio equipaggiamento, se
vorrai. Per quando intendi predisporre la partenza?»
«Quanto
occorre per trovare un buon cavallo e il resto del
necessario?»
«Una
settimana. Organizzerò anche il tuo viaggio fino alla Terra
Santa,
se me lo permetti... ho buoni amici a cui affidarti. Dunque... la
prossima spedizione parte da Brindisi tra cinque settimane. Se
cavalcherai velocemente riuscirai ad arrivare in tempo».
«Lo
spero, padre».
*
Gli
erano state procurate un'armatura completa e un cavallo di razza
pura, oltre ad una scorta che lo proteggesse durante il viaggio. La
spada, appartenuta a suo padre e a suo nonno prima di lui, gli era
stata affidata sotto la solenne promessa che la sua lama sarebbe
stata bagnata col sangue di centinaia di infedeli. Nel momento in cui
l'aveva stretta tra le mani, bella e pesante e completamente diversa
da qualsiasi arma avesse mai visto prima, aveva capito per la prima
volta l'importanza di ciò che si accingeva a fare.
E
aveva sorriso, stringendo il palmo sulla lama fino a graffiarlo.
Lui
e la scorta, composta da sette cavalieri di poco conto, avevano
percorso le innumerevoli miglia che li separavano dal porto di
Brindisi in appena tre settimane e mezzo. Dopo aver varcato le Alpi,
si erano spinti per le grandi strade lastricate della splendida
Italia, dove pareva che il tempo si fosse fermato e, al contempo,
scorresse veloce, praticamente inafferrabile: Gaara si era domandato,
guardando con stupore le enormi, nuove costruzioni del Nord e le
rovine dell'antica Roma, come facessero due mondi così
opposti a
coesistere in un paese tanto armonico. Ed era dolce il profumo degli
alberi, nell'aria tiepida dell'estate, e caldo il sole che picchiava
sui campi di grano e gli oliveti, illuminando paesaggi incredibili
per la loro bellezza. Gli ricordava la Provenza, ma era ancor
più
florida e ricca e colma di meraviglie d'ogni tipo.
L’azzurro
del mare, che luccicava in lontananza come un gioiello di raro
splendore, si era fatto a poco a poco più vicino, fino a
troneggiare
sull’orizzonte infinito in tutta la sua immensità.
Gaara aveva
riconosciuto il colore dei propri occhi nell’acqua delle cale
basse, nel riverbero del sole sulla sabbia candida, e aveva storto il
naso quando, abbandonata la costa bassa e sabbiosa, si erano
addentrati nella grande Brindisi.
Era
una città portuale, ampia, calda e incredibilmente affollata.
Cinta
da un anello di mura sbiancate dal sole, si sviluppava tutta attorno
ad un molo imponente, occupato da centinaia di barche; le abitazioni,
dai palazzi più sontuosi alle baracche dei miserabili, erano
dipinte
di colori chiarissimi: bianco per le case basse, popolari, avana
riccamente stuccato per gli alloggi nobiliari. Le vie erano strette,
ingombre di persone, animali da soma e banchi d’ogni genere;
il
caldo soffocante rendeva il terreno simile ad un oceano di polvere, e
la lieve brezza marina che spirava senza sosta la sollevava in nuvole
compatte che si incollavano alla pelle e penetravano nella gola,
seccandola. Gaara, per sua natura sensibile alla luce eccessiva, si
era calcato in testa il cappuccio del mantello da viaggio, inadatto a
quella calura. Il sudore, impietoso, gli incollava i capelli alla
fronte.
Nel
porto brulicava una calca tale che persino per quei cavalieri armati
fu difficile farsi largo, seppur a suon di vituperi e minacce ben
poco fraintendibili. Gaara, rapito, lasciò che fosse il
seguito ad
occuparsi di sgombrare la via, mentre lui si perdeva con lo sguardo
in quel turbinio di vita e colori che gli scorreva davanti come un
fiume: imponenti uomini dalla pelle d’ebano che conducevano
per la
cavezza animali fieri ed esotici, simili a cavalli ricoperti di una
corta pelliccia bionda, donne dagli occhi allungati che vagavano con
le braccia piene di monili e strani pendenti. E ancora cavalieri con
le più disparate insegne e armature, mercenari dalle armi di
fattura
orientale, prostitute dalle labbra dipinte di rosso che mostravano
senza pudore la mercanzia, schiavi e schiave di tutte le età
che, in
un angolo del porto, incatenati, fissavano i passanti con sguardi
confusi e terrorizzati.
Le navi attraccavano in continuazione ed
erano, anche quelle, una moltitudine formidabile per
diversità e
bellezza. Tuttavia, Gaara non ci mise molto a riconoscere quella che
lo attendeva.
«Quella
galea laggiù».
«Una
splendida nave». Commentò un uomo del seguito,
sorridendo.
Era,
effettivamente, un esempio perfetto della sua categoria. Lunga circa
quaranta metri, affusolata ed elegante, aveva il corpo di travi
incatramate, su cui qualcuno aveva dipinto due enormi croci rosse; le
vele, arcuate e biancheggianti, tremavano e sbattevano al vento,
anche loro ornate dallo stemma dell’armata santa. Tutto
intorno
alla nave si poteva notare il costante lavorio degli addetti al
carico, che trasportavano casse all’interno della stiva
e ne
uscivano portando grandi quantità di vecchie gomene
arrotolate; sul
molo, di fronte alla barca, c’erano alcune panche disposte in
circolo.
Sulle
panche, a bivaccare in maniche di camicia o a torso nudo, un gruppo
di crociati.
Gaara
si avvicinò, lasciando indietro il seguito.
«È
questa la nave in partenza per Durazzo? Sono qui per il Duca di
Pisa».
I
soldati si voltarono, immobili, troncando bruscamente le chiacchiere
gioviali che li avevano impegnati fino a qualche secondo prima.
Fissarono la sua armatura splendente, il suo stallone il razza pura,
il seguito armato e, più di tutto, lo strano, chiarissimo
viso di
quel cavaliere che parlava francese meglio di tutti loro, con
un’inflessione tipicamente aristocratica.
Il
primo a riscuotersi aveva i capelli castani, gli occhi dorati e due
orribili cicatrici da bruciatura sulle guance; quando si rivolse a
Gaara, la sua espressione trasmetteva spavalderia e strafottenza.
«Hai
un lasciapassare?»
«Ho
un lasciapassare. Tu sai leggere?»
Dagli
uomini seduti si levò un coro di risate. Un ragazzo alto,
con i
capelli scuri raccolti in una coda, si alzò e si
avvicinò al
compagno.
«No,
non sa leggere. Io però me la cavo, fai vedere».
E
tese la mano – una mano sporca, annerita dal sudiciume
–
rivolgendo a Gaara un’occhiata interessata. Aveva uno sguardo
profondamente intelligente, e il braccio troppo sottile per un
soldato; doveva essere uno stratega, o giù di lì.
Frugò
nella tasca del giustacuore, e ne trasse un foglio di pergamena
piegato con cura e marchiato con un bollo di ceralacca scarlatta. Lo
porse al ragazzo, che lo prese con una delicatezza aliena ai gesti
rudi delle persone che gli stavano intorno; dallo sguardo concentrato
che rivolse al lasciapassare, Gaara capì che non era nuovo a
quel
tipo di documenti. Dopo qualche secondo, glielo restituì.
«È
autentico. Vossignoria,» gli fece un mezzo inchino,
inaspettatamente
aggraziato «siamo onorati di averla con noi a bordo. Viaggia
da
solo, o la sua scorta ci seguirà?»
«Da
solo».
«Ehi,
Shika, chi è?» Chiosò un grassone,
mollemente sdraiato su una
delle panche, con il ventre rosso e scoperto sotto i raggi del sole.
«Posso...»
il ragazzo rivolse un’occhiata dubbiosa al cavaliere, incerto
se
prendersi o no la libertà di rivelare agli amici la sua
identità.
Gaara annuì, tergendosi il sudore dalla fronte con una mano.
«Sabaku
no Gaara, Cavaliere di Provenza». Annunciò, non
senza un vago
compiacimento. Qualcuno, tra i suoi compagni, emise un fischio.
«E
vi imbarcate con noi? Perché non con
qualcuna delle navi
stracolme di ricconi che sono salpate qualche settimana fa?»
«Non
sono cose che ti riguardano, sfregiato».
Si
creò un silenzio improvviso, imbarazzato.
Fu
una voce nuova, ancor più impertinente, a romperlo.
«Eh,
questi nobili... inutile fare i gentili con loro, Kiba. Uno su mille
sa comportarsi in maniera civile».
A
parlare era stato un ragazzo di età non superiore ai
diciassette
anni, con la pelle leggermente scura, cotta dal sole, e i capelli
biondi come il grano. Sedeva a gambe larghe, la muscolatura del petto
e delle spalle lasciata scoperta dalla camicia lacera che indossava,
aperta, e stringeva tra le mani un pezzo di pane scuro e qualche
striscia di carne secca. Il viso, di una bellezza non comune, aveva
tratti marcati e decisi, perfettamente regolari; gli occhi, di un
azzurro splendente e traslucido, il celeste etereo delle vetrate
delle cattedrali, erano fissi in quelli di Gaara con
un’attitudine
spavalda che, di primo acchito, infastidì il nobile. Tra
l’altro,
come se non bastasse la frase impudente che gli aveva rivolto, quel
ragazzo aveva un marcato accento britanno.
Straniero,
e di una razza che era sempre stata invisa ai Francesi.
«Qual
è il tuo nome, britanno?» Domandò,
posando con noncuranza la mano
sull’elsa della spada. Quello, forse intuendo ciò
che programmava
di fare, con altrettanto savoir faire
poggiò il palmo sul
pomolo di un robusto spadone di fattura germanica, che sporgeva da
una fodera appoggiata alla panca.
«Naruto,
signore».
Senza
emettere alcun suono, Gaara sguainò la spada. La lama emise
un
fruscio metallico, scivolando perfettamente nella custodia, e, quando
l’ebbe afferrata con entrambe le mani, diede un leggero colpo
di
tallone al cavallo per farlo avanzare. Il suo volto era una maschera
di rabbia implacabile.
Il
ragazzo di nome Shikamaru tentò di intromettersi, ma lo
sfregiato lo
afferrò per un braccio e lo strattonò indietro,
impedendogli di
frapporsi tra il cavallo e Naruto. Quest’ultimo si
alzò con una
certa indolenza, la spada enorme, solida e coperta di graffi stretta
tra le mani callose; aveva una presa sicura, quasi noncurante, e fece
dondolare la lama avanti e indietro, alla sinistra del corpo.
Poi,
dedicata un’ultima occhiata sfrontata al nobile, seduto con
aria di
superiorità sul cavallo, si lanciò contro di lui.
Gridò,
roteando la spada contro le ginocchia del cavallo. Gaara
calciò
l’animale su un fianco, e quello scartò di lato un
secondo prima
che le articolazioni sottili della zampa venissero falciate. Si
impennò, nitrendo, e il cavaliere si aggrappò
alle briglie con la
sinistra per non venir disarcionato; appena ristabilito l'equilibrio,
si scagliò verso Naruto.
Il
britanno lo vide flettere il braccio all'indietro nella carica e si
piegò sulla ginocchia, portando la spada alta sopra la
testa. Le due
lame si colpirono con eguale forza, stridendo l'una sull'altra, e
tanto era la rabbia con cui Naruto fletteva le braccia nel tentativo
di resistere all'attacco, tanta era la gelida calma con cui Gaara,
avvantaggiato dalla posizione elevata, calava la spada sul ragazzo.
Per
un attimo, il nobile rimase sinceramente colpito dall'impeto
animalesco col quale quel soldato difendeva la propria vita; era
forte, straordinariamente forte e ostinato, e forse fu proprio quella
sua caparbietà nel mantenere la propria posizione a stupirlo.
Alla
fine, però, fu il cavaliere ad avere la meglio.
Forse
per il vantaggio offerto dal cavallo, forse per il maggior controllo
della propria forza, fatto sta che la spada sfuggì di mano
al
britanno e cadde a terra con uno schianto, mentre il suo proprietario
si accasciava e strisciava all'indietro per sfuggire alla lama
dell'avversario.
Gaara
scese dal cavallo con un balzo e si avvicinò a Naruto.
Il
britanno lo guardava con uno sguardo denso d'odio e paura, i pugni
stretti per la tensione. Lo fissava in viso, sfacciato,
contravvenendo ad ogni buona norma di comportamento nei confronti del
nobile, perdipiù vincitore del duello.
Gli
puntò la spada alla gola, scoperta e fremente, avanzando con
calma
verso la sua preda indifesa.
Quella,
similmente ad un animale selvatico circondato da una muta di cani,
rimaneva immobile, pregna di una dignità che il cavaliere
difficilmente avrebbe potuto disprezzare, visto che aveva trovato,
nella sua vita, ben poche persone provviste di tale virtù.
La
lama era ormai a pochi millimetri dal pomo d'Adamo del britanno, che
ancora trovava il coraggio di guardare il proprio boia. Gli occhi
risplendevano, come animati da una fiamma azzurra mutevole e vivida.
«Io
ti ho sconfitto».
«Solo
per il tuo cavallo. In uno scontro alla pari avrei vinto io».
«Ormai
è tardi, britanno. C'è qualcosa che vuoi lasciar
detto?»
«Imigh
sa diabhal!»
Sibilò, prima di sputare a terra.
Senza
nemmeno rispondere a quello che chiaramente era un insulto -
benché,
di fatto, non avesse capito una parola - Gaara ritrasse leggermente
il braccio, pronto ad affondare la lama nella gola del ragazzo. Prima
che potesse farlo, però, si sentì afferrare per
l'avambraccio.
Uno
dei membri del seguito, l'espressione costernata, lo tratteneva.
«Che
vuoi?» Assottigliò lo sguardo, l'espressione
gelida.
«S-signore...
non è il caso di procurarsi inimicizie prima di partire. Il
mio
naturalmente è solo un consiglio, ma...»
Troncò
quella frase con un gesto stizzito della mano destra. Sapeva
già
cosa voleva dirgli, e in parte persino lo condivideva: il suo istinto
gli gridava di placare la sete di sangue con quell'imbecille britanno
che aveva osato opporsi a lui, ma ucciderlo subito avrebbe
significato correre il rischio di venire ucciso nel sonno dagli amici
del ragazzo, durante la traversata in nave. Una volta giunto a
Durazzo avrebbe potuto regolare i conti con più calma e meno
pericoli.
«Forse
hai ragione». Guardò un'ultima volta lo sconfitto,
poi rinfoderò
la spada e tornò a dedicare l'attenzione al compagno
«Ma
intromettiti ancora in un mio duello e ti ammazzo».
Quello
deglutì, scostandosi lentamente.
Montò
nuovamente in sella, poi diede un leggero colpo di talloni al cavallo
e partì, al trotto, verso l'interno della città;
prima di sparire
del tutto, si voltò verso gli uomini del seguito.
«Che
uno di voi rimanga qui e mi avverta non appena il Duca si
farà
vedere».
«Non
si preoccupi, signore».
Lasciando
scivolare lo sguardo oltre colui che gli aveva risposto, Gaara
distinse nettamente la figura dai capelli biondi che, ancora seduta
per terra, lo guardava andar via con un'espressione indecifrabile sul
viso. Aveva qualcosa di strano, quel Naruto, qualcosa che sfuggiva
alla sua comprensione - come un'impressione vaga, appena accennata,
di distacco da tutto ciò che lo circondava. Come se non
riuscisse ad
amalgamarsi con il paesaggio attorno a lui, una macchia di colore
troppo forte e violenta per passare inosservata.
Scuotendo
la testa, scomparve nella folla del porto.
*
Gaara
trascorse la maggior parte del viaggio seduto in un angolo del ponte
della nave.
Il
sole dardeggiava, bollente come di consueto, ma, in compenso, una
brezza fresca e profumata di salsedine spazzava costantemente il
mare, così da non opprimere i viaggiatori. L'unica compagnia
alla
quale il cavaliere aspirava era il canto dei gabbiani e il lento
infrangersi delle onde sulla nave, ma, sporadicamente, il Duca
pretendeva di discorrere con lui di dettagli futili - quali le
condizioni del tempo, la durata della traversata e l'andamento della
guerra. Questioni, insomma, di cui al cavaliere non importava nulla.
I
membri dell'equipaggio e gli altri crociati si tenevano alla larga da
lui, memori dell'episodio avvenuto poco prima della partenza; non
osavano motteggiarlo, eppure Gaara si accorgeva delle occhiate
cariche d'odio e sdegno che gli venivano spesso rivolte. Nemmeno
quello, tuttavia, gli interessava: la considerazione degli altri
esseri umani aveva per lui un valore pressoché nullo.
Almeno,
finché il ragazzino britanno non decise di farsi bruscamente
largo
nella sua vita.
Una
mattina, senza che gli avesse dato il permesso o chiesto nulla,
quello si avvicinò e si sedette accanto a lui; allo sguardo
infastidito del cavaliere, si limitò a guardare con
noncuranza le
vele che sbattevano al vento e a sospirare, come se l'astio
dell'altro non lo riguardasse minimamente. Poi, voltatosi verso
Gaara, l'espressione mortalmente seria degli occhi azzurri, si decise
a rivolgergli la parola.
«Sei
sempre qui da solo... perché non vieni con noi a
mangiare?»
Non
rispose, si voltò dall'altra parte. Sperò con
tutto sé stesso che
quel barbaro importuno se ne andasse. Le sue speranze furono
immediatamente disilluse.
«Potresti
anche rispondermi, eh? Ah, lascia perdere... ná
bac leis».
Ecco,
di nuovo quei suoni. Non sapeva parlare senza infilare in mezzo
quelle parole, a quanto pareva... inutile dire che la sensazione di
non capire quanto gli veniva detto era, per Gaara, incredibilmente
spiacevole. Fu per questo che si girò, gli occhi socchiusi
in un
impeto di stizza, e rispose alla sollecitazione del soldato.
«Cosa
sono quei suoni strani? Che lingua è?»
«Gaélique,
monsieur. Gaelico.
La lingua dei miei padri. Perché non vieni a mangiare
qualcosa con
noi? Kiba è riuscito a rubare un po' di frutta secca dalla
cambusa».
«No.
E non ti ho mai chiesto di trattarmi con tutta questa
familiarità».
«Non
mi hai nemmeno mai chiesto di trattarti come un re».
«Credevo
che il duello bastasse».
«Nah,
non mi hai ucciso».
«Meriti
una punizione per aver rubato dalle cucine».
«Eh,
Gura
slán an scéalai! Non
ho rubato proprio niente, io».
Gaara
corrugò le sopracciglia.
«Cos'hai
detto?»
«"Ambasciator
non porta pena". Comunque, sapevo che mi avresti risposto
così.
Prendi un po' di questo, così saremo in
due a condividere il
segreto e non potrai fare la spia con nessuno». Gli porse un
fazzoletto annodato e rigonfio. Quando Gaara l'aprì,
scoprì che
conteneva un mucchietto di pezzi di frutta secca assortita, che
mandavano un odore piacevole e invitante.
Ne
prese uno con due dita - un frammento di noce - e se lo
portò alla
bocca.
Era
buono.
«Ecco,
ora siamo complici. Sai, non credevo che avrei mai visto un nobile
mangiare...»
«Tu...»
mormorò, e lo sentì interrompersi «...
non provi alcuna rabbia».
Non
era una domanda. Gaara non era mai stato bravo a capire le persone,
ma non ci voleva molto per comprendere che i sorrisi che quel
britanno - Naruto - gli rivolgeva erano autentici. E non riusciva a
spiegarselo, non dopo quello che era successo al molo di Brundisium.
«Perché?
Dovresti odiarmi. Io odio coloro che mi hanno
sconfitto». E
pensò a suo padre, così tronfio, forte ed
egoista, seduto sul suo
scranno nel piccolo regno che governava, investito
dell'autorità più
alta su tutta la sua famiglia. Pensò a lui, che avrebbe
potuto
scegliere di salvare sua madre e invece aveva tenuto per sé
il
bambino, il maschio. Che non aveva fatto altro che tracciare percorsi
sbagliati nella sua vita.
«Be',
non è molto giusto. Se ci pensi, ogni avversario ti aiuta ad
andare
avanti, a conoscere te stesso. Dopo aver combattuto siamo sempre
più
forti, non conta il risultato del duello».
Sorrise,
e il suo volto divenne improvvisamente più bello,
più caldo.
Sì,
quel Naruto dava una sensazione di calore piacevole e positiva, come
quella del sole primaverile: una luce che riscalda, ma senza
bruciare. Che conforta, tranquillizza.
Mai
prima d'allora aveva incontrato una persona del genere.
«Sei
una persona strana, britanno. Sono tutti così, i tuoi
simili?»
«"Così"
come?»
Mangiò
una nocciola, senza degnare il proprio interlocutore di una risposta.
Non era in grado di darla, né ne aveva voglia.
«Bah...»
riprese Naruto, dopo qualche secondo, decidendosi a spezzare un
silenzio che andava protraendosi fin troppo a lungo «...
quello
strano sei tu. Parli sempre così poco?»
Gaara
espirò lentamente, incapace di dare un nome alla sensazione
strana,
viva
che gli stava invadendo il petto, a poco a poco; non sapeva definire
se fosse piacevole o meno, ma il fatto stesso di non poter
controllare le proprie reazioni gli smosse dentro un'irritazione
pungente. Puntò gli occhi in quelli del britanno, fattisi
improvvisamente confusi, e gli porse il fazzoletto arrotolato.
«Vattene.
Non ho mai chiesto la tua compagnia».
Quello
aggrottò le sopracciglia, assumendo un'espressione
inequivocabilmente offesa.
«Va
bene. Tá
mé tuirseach...»
gi rivolse un ultimo sguardo ferito, poi si allontanò.
Sarebbe
tornato due giorni dopo.
*
Aveva
le mani piene di cibo.
Pane,
carne secca, una borraccia che puzzava di alcool. Gli si sedette
accanto, sorrise, appoggiò la testa alla balaustra e
scaricò il
proprio carico sullo stomaco di Gaara; poi, trovata una posizione che
riteneva evidentemente comoda, sbadigliò.
«Oggi
fa molto caldo. Bevi un po’ di birra e mangia qualcosa, sei
magro».
Gaara
guardò prima lui, poi il cibo.
«Perché
lo fai?» Domandò, rigirandosi tra le dita una
strisciolina sottile
di carne, di un bel rosso scuro e lucido. Mandava un profumo
appetitoso, ma non aveva la tentazione di mangiarla: sembrava quasi
che quel britanno avesse il potere di chiudergli lo stomaco.
Naruto
sorrise, pescando una castagna cruda dal mucchio e cominciando a
masticarla con gusto. Gaara si chiese se quel ragazzo fosse capace di
portare rancore: nonostante le sgarberie e il duello, continuava
caparbiamente ad avvicinarglisi e a trattarlo con gentilezza.
«Perché
tu mi piaci. Sei una persona molto imperscutabile».
«Imperscrutabile».
«Sì,
quel che è. Non parli mai con nessuno, te ne stai sempre da
solo...»
«E
questo ti spinge ad avvicinarti? Assurdo».
«Forse
lo è. Sai, Gaara...» pronunciò il suo
nome per la prima volta, e
il cavaliere sobbalzò. Nessuno l'aveva mai chiamato con
altrettanta
delicatezza, e mai il suo nome gli era parso star bene nella bocca di
qualcuno come in quella di quel soldato. Scosse la testa, confuso.
«Ehi,
tutto bene?»
«Sì».
«Dicevo...
sai, sei un tipo che non si capisce al volo. A me piace capire la
gente... mi piace guardare le persone e immaginare quello che
pensano, e mi piace stargli simpatico e stringere amicizia con loro.
Di solito ci riesco... certo, a volte c'è anche chi mi sta
antipatico, eh!» Ridacchiò, passandosi una mano
tra i capelli
spettinati «Tu, però... è come se
nascondessi qualcosa. Dai
quest'impressione. Sembri uno di quei tipi problematici che
partecipano alla Crociata per redimersi da chissà quali
peccati e
finiscono per sporcarsi l'anima ancora di più,
però non parli, e
quindi non posso far altro che limitarmi alle supposizioni».
«Quindi
è solo curiosità?»
«No.
Sono curioso di sapere che gusto ha l'arsenico, ma non per questo
vale la pena rischiare la morte. Sarà il fatto che mi hai
puntato
una spada alla gola durante il nostro primo incontro!».
«Mh».
Gaara si ricordò di una frase pronunciata da Naruto qualche
secondo
prima «Tu perché partecipi alla Crociata? Qualcuno
che è così
bendisposto verso il prossimo deve avere difficoltà
nell'uccidere i
membri di un esercito nemico».
Il
soldato sospirò, socchiudendo gli occhi; nelle sue iridi
celesti
passò un'ombra, e la sua espressione si fece improvvisamente
triste.
Fu soltanto un attimo; pochi secondi dopo, sorrideva di nuovo.
«È
una storia davvero molto lunga. Magari, quando avrò scoperto
qualcosa di te, ti dirò anche qualcosa di me. Che ne
dici?»
«Fai
come vuoi».
«Non
ti interessa proprio, vero?» Gonfiò le guance,
come fanno i bambini
capricciosi per esprimere il loro disappunto «Bah, forse hai
ragione
tu. Tra poco meno di tre giorni saremo a Durazzo, e da lì
fino a
Damasco la strada sembrerà più breve di quanto
non sia».
«Sembri
saperne molto, di questa guerra».
«Oh,
non è la prima che combatto».
Gaara
corrugò le sopracciglia, contrariato.
«Non
è la prima? Quanti anni hai?»
«Diciotto.
Ma ero presente alla caduta di Edessa».
Il
cavaliere socchiuse le palpebre, fissando il ragazzo negli occhi con
uno sguardo gelido, inquisitorio, eppure vagamente sorpreso.
«Il
che significa che avevi...»
«A
cúig déag. Avevo
quindici anni».
*
Oltre
Durazzo, primo tra gli avamposti Crociati ad Oriente, si stendeva una
piana verdeggiante, punteggiata di cespugli scuri, e,
all’orizzonte,
una catena montuosa bassa e aguzza, presagio di ciò che
avrebbero
trovato nell’Ellade.
La
tappa più importante del viaggio, prima di Damasco, era
Costantinopoli.
Vi
giunsero con una lentezza estenuante, a piedi – solo Gaara e
pochi
altri, tra i soldati che si erano uniti al Duca a Durazzo, potevano
vantare un cavallo, e comunque anche loro, spesso e volentieri,
dovevano scendere dalla sella e condurre gli animali a cavezza, a
causa dell’eccessiva asperità del terreno. I
crinali della Grecia,
nonostante il sole inclemente, erano costantemente spazzati da un
vento freddo, tagliente, che scuoteva le cime degli alberi e stremava
i soldati; nessuno perì, durante quella marcia serrata, ma
non
furono pochi quelli che ebbero la tentazione di arrendersi e tornare
alle proprie case.
Naruto,
per contro, sembrava farsi sempre più vitale ad ogni nuova
difficoltà.
Aveva
passato la quasi totalità del viaggio accanto a Gaara,
rintronandolo
con una parlantina inestinguibile e portatrice di argomenti sempre
nuovi. Aveva una predilezione particolare per i miti ellenici, e ne
conosceva una quantità incredibile: così,
scalando pendii ripidi o
trotterellando giù per discese sdrucciolevoli, sapeva sempre
raccontare qualcosa di nuovo, di imprevedibile.
E,
naturalmente, erano per la maggior parte storie sul valore epico dei
soldati, sulla loro forza e le loro virtù guerresche. Su
quelle che,
a ben guardare – ed escludendo la fede in un pantheon pagano
–
sarebbero dovute essere caratteristiche proprie anche dei Crociati.
Neanche a parlarne.
A
Gaara sarebbe rimasto particolarmente impresso un pomeriggio in cui,
inoltratisi tra uliveti con un sole che spaccava le pietre, Naruto
aveva cominciato a sgranocchiare una gran quantità di olive,
strappandole dagli alberi con la giocosità malandrina tipica
dei
bambini, ed era partito con quello che, a suo dire, era “il
racconto più bello di tutti. Quello che nessuno dovrebbe mai
dimenticare”.
«In
pratica,» aveva detto, sollevando in alto un dito chiazzato
di viola
«c’era una città grande e potente
– immaginatela dove ora
dovrebbe trovarsi Smirne, però vicina al mare. Questa
città era
protetta da mura invalicabili, enormemente grandi e resistenti. Ilio.
Un giorno il principe di Ilio, Ettore, si recò con suo
fratello
Paride a Sparta, la più ricca delle città greche,
e fu accolto nel
palazzo del re Menelao. La principessa che ci viveva dentro era la
donna più bella del mondo, così bella che al suo
confronto il sole
impallidiva e la Luna perdeva tutto il suo splendore. Figlia di una
regina e di un cigno, il suo nome era Elena. Paride se ne
innamorò,
ricambiato, e la rapì, portandola a Ilio, via dal marito. Da
qui...»
«Fammi
capire». Kiba, capitato lì vicino, anche lui
insozzato di succo
d’oliva, conduceva per le briglie un somaro carico di bagagli
«La
tipa molla il marito ricco e si tromba il principino, poi scappano
nella sua città indisturbati. Dio non la fulmina per
questo?»
«È
solo una storia, Inuzuka».
«Partorita
da un popolo di barbari pagani, però».
Naruto
non parve particolarmente d’accordo con
quell’affermazione.
Arricciò le labbra, le sopracciglia aggrottate, poi fece
quello che
a Gaara parve uno sforzo titanico per moderare la propria espressione
e riprese a sorridere. Stavolta, però, era solo la bocca a
curvarsi.
Gli occhi non splendevano.
«Sia
quel che sia. Comunque, scoppiò una guerra. Molti dei
migliori tra i
Greci giunsero a Ilio per vendicare l’onore di Menelao, e la
cinsero d’assedio... la guerra durò ben dieci
anni, durante i
quali si susseguirono grandi battaglie. Sul finire
dell’ultimo
anno, accadde che il più valoroso dei combattenti greci,
Achille,
che era re dei Mirmidoni e semidio figlio di Teti, trovò una
schiava
particolarmente preziosa, di nome Criseide...»
Gaara
si distrasse, seguendo il corso di pensieri strettamente privati.
Conosceva l’Iliade, naturalmente – faceva parte
della sua
istruzione, della cultura che gli era stata imposta dal padre nobile
– e il fatto che Naruto ne ricordasse la trama e i
particolari con
tanta precisione gli faceva supporre un’educazione
invidiabile,
aristocratica, dietro le parole di quel biondino. E questo, tuttavia,
gli pareva assolutamente surreale: come poteva un britanno, che a
malapena parlava bene il francese, che si trascinava appresso una
spada di fattura rozza e aveva le mani callose e il corpo indurito da
mille battaglie, essere discendente di un casato? Nessun capofamiglia
assennato avrebbe lasciato che il proprio figlio, fosse pure un
cadetto indisciplinato, prendesse la via delle armi più
bassa e
scellerata e infangasse così il nome della stirpe.
Sicuramente,
quel Naruto nascondeva qualcosa. Peccato che i suoi compari fossero
troppo imbecilli – o ignoranti – per accorgersene.
«Ehi,
Gaara, mi ascolti?»
«Non
darmi del tu».
«Allora
mi ascolti!»
Abbassò
lo sguardo, indifferente.
E
il sorriso di Naruto, con i suoi occhi celesti illuminati dal sole,
lo colpì al cuore come una stoccata.
Di
nuovo quell’incomprensibile sensazione di calore.
*
A
Costantinopoli, il manipolo del Conte si congiunse con il grosso
delle forze, capitanate da Luigi VII. E, benché il compito
di Gaara
fosse quello di raggiungere gli altri soldati acquartierati in ogni
parte della città (alcuni persino fuori) non poté
esimersi –
soprattutto a causa delle pressanti richieste di Naruto – dal
fare
una passeggiata in sella lungo il Bosforo.
Il
britanno aveva rubato un cavallo da qualche parte nei mercati,
rischiando di venir sventrato da un mercante particolarmente
infuriato, e mostrava con fierezza quell’arabo purosangue dal
manto
bianco che, affidandosi unicamente alle proprie finanze, non avrebbe
mai potuto comprare. Era una bestia bella, scattante e vivace come il
suo padrone, perfettamente incastonata in quell’affresco di
magnificenza che, passo dopo passo, si rivelava come la
città di
Kostantiniyye.
Le
acque dello stretto luccicavano, torbide e vellutate nella luce
aranciata del tardo pomeriggio; sciabordavano contro gli argini
artificiali costruiti per permettere l’attracco delle
numerose,
variopinte navi che solcavano il Bosforo, e non erano pochi gli
abitanti che si bagnavano nei tratti più bassi,
rincorrendosi con le
vesti fradice e coloratissime.
«Il
mio popolo la chiama Mikligardur».
Commentò Naruto,
abbracciando con uno sguardo adorante le mille costruzioni dorate che
si ergevano da una parte e dall’altra del Bosforo. In
lontananza, a
tratti, nella foschia si scorgevano le forme aggraziate e puntute dei
minareti di qualche moschea; palazzi sontuosi, in stile orientale, si
affacciavano a strapiombo sulle acque con le loro facciate decorate
da mosaici e intarsi in marmi pregiati. Tutto dava una sensazione di
ricchezza, di crescita, come se quella non fosse nemmeno una vera e
propria città terrestre, ma un luogo ideale scaturito dalle
fantasie
dell’uomo.
«Pensa,
Gaara,» gli si avvicinò, e il fianco candido del
suo arabo strusciò
contro quello, nero corvino, del purosangue francese «qui
siamo in
Europa, e proprio lì, sull’altra sponda,
c’è l’Asia. Questa
città è un luogo veramente unico... un ponte tra
due grandi confini
del nostro Mondo».
Gli
appoggiò una mano sulla spalla – grande, ruvida,
callosa, una mano
da soldato.
Era
la prima volta che lo toccava in un modo così diretto, e
poté
sentire quanto la sua presa fosse amichevole e salda, sicura. Aveva
un tocco che trasmetteva forza, in tutte le possibili sfumature del
termine: fermezza, in quel momento, rassicurante cameratismo virile,
eppure doveva essere un’energia terribile e funesta quando si
scatenava sui nemici, in battaglia. Un dualismo incerto che Gaara era
grato di non possedere.
Poi,
stufo di quella calma silenziosa, Naruto strattonò le
briglie e,
fatto voltare il cavallo, si avviò a piccolo trotto verso
l’accampamento. La spada gli tintinnava al fianco,
i capelli
nel sole sembravano trame di arabeschi dorati e la figura, nel
complesso, esprimeva una grazia solida che ipnotizzava.
Decisamente
troppa grazia per qualcuno che – almeno in
teoria – non
aveva mai seguito una lezione d’equitazione in vita sua.
«Britanno,»
la voce di Gaara si innalzò, fredda e metallica, una lama a
doppio
taglio che aveva già inferto molte ferite «qual
è il nome del tuo
casato?»
Quella
frase rimbalzò nell’aria dolce del lungofiume,
prima di spegnersi
in un silenzio teso. Naruto si girò di poco, offrendo al
francese
l’immagine di un occhio azzurro dilatato dallo stupore, poi
voltò
il capo di scatto e, dato un calcio nel ventre del cavallo,
partì al
galoppo. Il cavaliere, dal canto suo, sorrise, mellifluo: nemmeno una
creatura all’apparenza perfetta e beata come quel soldato,
dunque,
poteva esimersi dal tenere qualche scheletro nell’armadio.
La
purezza, come suo padre gli aveva ripetuto tanto spesso, non era
altro che una chimera.
*
1148
a.C., Siria
Da
Costantinopoli, l’esercito si mosse come un’enorme
massa
compatta.
Erano
tanti, gli uomini che lo circondavano, che Gaara non riusciva ad
immaginarne il numero; avanzando sulle campagne aride, sempre
più
calde e brulle a mano a mano che si avvicinavano alla Terra Santa,
depredavano i pochi campi rimasti e i villaggi, compiendo
oscenità
innominabili sui loro abitanti. Genti rozze, mercenari e ladri
d’ogni
sorta, galeotti che erano stati probabilmente banditi dalla condanna
a morte o cercavano il perdono per i loro peccati, e, in attesa di
ciò, compivano terribili abomini.
Il
terreno si era fatto secco, coperto da uno strato alto e soffice di
polvere dorata; la vegetazione, poca e prevalentemente arbustiva, era
quasi del tutto secca, fatta eccezione per i rigogliosi palmeti che,
a gruppi, spuntavano in quel paesaggio desertico. Spirava un vento
torrido, costante, e il sole si faceva via via più caldo,
arroventando le pietre della strada nei rari tratti in cui era
lastricata.
Il
britanno non partecipò a nessuna scorreria. Questo Gaara lo
sapeva
perché, inconsciamente, si teneva sempre a poca distanza dal
gruppo
del Duca, e seguiva gli spostamenti di quella testa bionda con la
coda dell’occhio; lo osservava, domandandosi come potesse
dimostrarsi tanto allegro quando tutti, lì, sapevano di
andare
incontro ad una probabile morte. E non gli dispiaceva che non gli si
avvicinasse più – dentro di sé,
continuava a ripetersi di poter
fare a meno di ogni contatto umano, di ogni sentimento – ma
avrebbe
voluto domandargli se conosceva qualche storia anche su quel luogo,
quell’immenso oceano dai colori spenti. E sì, che
i soldati
attorno già balbettavano di Vangelo, di atmosfere sacrali
che Gaara
non percepiva; per lui, baciare la polvere e i sassi in memoria di un
uomo morto secoli prima era più che insensato.
Meno
ancora di chi era giunto in Terrasanta unicamente per fare razzie, il
cavaliere non credeva in quella guerra. Tuttavia, non trovava giusto
nemmeno disprezzarla: gli dava l’opportunità di
sfogare le proprie
pulsioni, di liberare la brutalità che il mondo civile tanto
aborriva e ripararsi sotto l’egida di un credo
religioso
potente e immortale. Nulla gli era più precluso.
Nulla,
ad eccezione di...
«Gabh
mo leithscéal».
Proruppe una voce alla sua destra. Gaara si voltò di scatto,
maledicendo la propria distrazione, e socchiuse le palpebre
nell’osservare il viso di Naruto, arrossato
dall’imbarazzo.
«Di
nuovo quella strana lingua».
«Scusa».
Gaara
non rispose, non sapendo cosa pensare. Qualsiasi pensiero decidesse
di imboccare in quel momento, la situazione gli appariva confusa:
avrebbe voluto punzecchiare il britanno sulla storia delle sue
origini, ma il fatto di averlo così vicino ottundeva ogni
sua
capacità di ragionamento. Gli rimaneva solo un senso di
smarrimento
e la martellante, fredda disperazione di perdersi in un abisso che
non comprendeva.
Respirò
l'aria bollente, stringendo quanto più poteva le briglie con
le dita
sudate. Quella sensazione non gli piaceva affatto.
«Mi
dispiace, Gaara. Perdonami». Il suo viso era basso, e ciocche
di
capelli biondi sfuggivano dal copricapo di fattura araba che
indossava, niente più che un panno di lino bianchissimo
avvolto
attorno al capo. Aveva un'espressione triste, colpevole.
«Chi
sei?» Domandò il cavaliere, osservando il cielo
azzurro e terso
sopra le loro teste. Si passò la lingua sulle labbra secche
e
screpolate, umettandole; per chilometri e chilometri, in qualsiasi
direzione si guardasse, non si scorgeva una singola nuvola.
«È
una storia lunga e...»
«Abbiamo
tempo».
«Io...
ecco...»
In
quel momento, risuonò alto il fischio acuto di una tromba.
Un
cavallo dalle bardature lacere passò al galoppo accanto alla
colonna
dei soldati, e, quando si fermò, tutti si voltarono nella
sua
direzione. Il cavaliere in sella aveva un'aria stravolta: l'armatura
era ammaccata, a pezzi, e una fasciatura lurida, macchiata di sangue,
gli avvolgeva il braccio sinistro e buona parte del busto. Portava la
spada, e la terra che gli insozzava il viso sudato testimoniava un
viaggio lungo e affrettato.
«Siamo
stati sconfitti!» Gridò, gonfiando il petto
«L'esercito di Corrado
è stato sconfitto!»
La
sua voce rauca si spense nel silenzio generale.
Dopo
una manciata di secondi ripartì, lasciandosi alle spalle una
truppa
di uomini sconvolti, con lo sguardo fisso nel vuoto; Naruto, una mano
a coprirsi la bocca in un gesto più femmineo che soldatesco,
pareva
particolarmente colpito.
«Sconfitto...
ma che vuol dire? Corrado doveva congiungersi con le nostre truppe
prima di Damasco e aiutarci nell'assedio... non è possibile
che...»
«Corrado,
colui che si proclama re senza averne il diritto. Potrebbe aver
ingaggiato battaglia, spinto dalla collera, e aver perso».
«Diabhal!
Maledizione,
devo scoprire cos'è successo...»
Partì
al galoppo sulla scia del messaggero, e scomparve alla vista in breve
tempo, inghiottito da una nuvola di polvere. Gaara attese
pazientemente il suo ritorno, ma ci vollero quasi due ore
perché il
britanno, coperto di terra fino al capo, si facesse rivedere.
Le
notizie che portava, purtroppo, non erano buone.
Pareva
che Corrado, per motivi non del tutto chiari, avesse deciso di far
passare le proprie truppe in Anatolia, attraverso i territori degli
infedeli. E lì, lo avevano attaccato. Incapace di sostenere
la
battaglia, l'esercito era stato sconfitto nei pressi di Dorylaeum, i
soldati massacrati con una violenza inaudita; erano sopravvissuti
appena duemila cavalieri, la scorta del re.
Il
che significava, in poche parole, che re Luigi VII avrebbe dovuto
condurre la Crociata con metà degli uomini previsti, e che
si
sarebbe dovuto sobbarcare il trasporto e la cura dei feriti che, di
lì ad un giorno, avrebbero letteralmente invaso gli
avamposti
francesi.
Non
avrebbero mai vinto la guerra.
Quella
consapevolezza si affacciò alle menti di tutti i soldati,
così
evidente e inoppugnabile da schiacciare ogni possibile speranza.
L’inferiorità numerica era un handicap troppo
grande perché un
esercito già di per sé debilitato dal clima, dal
lungo viaggio e
dalle malattie potesse sperare di sconfiggere forze più
grandi e
organizzate, che per giunta conoscevano il territorio e avevano
accesso ad una quantità illimitata di risorse.
Labile
era, altresì, la speranza che Luigi VII interrompesse la
Crociata:
troppo era l’onore messo in campo prima della partenza, e
troppi
erano i giochi di potere e gli intrallazzi alle spalle della
spedizione. E troppo tracotante era quel re, che credeva di poter
irrompere nel territorio di genti bellicose e antiche e sottometterle
come se nulla fosse.
«Che
cosa faremo?» Domandò Naruto, rivolgendo a Gaara
uno sguardo
angustiato. Da parte sua, il francese non era granché
interessato
alla sorte dell’esercito in cui militava: se mai si fosse
reso
conto di star andando incontro a morte certa, avrebbe voltato il
cavallo e ripercorso la strada verso casa. Eventuali accuse di
insubordinazione non gli interessavano, visto che, comunque, un modo
di sopravvivere era certo di saperlo trovare.
Dalla
folla, che nel frattempo aveva arrestato il proprio moto, si levavano
mormorii inquieti; improvvisamente, facendosi largo a spintoni, Kiba
si avvicinò all’amico.
«Hai
sentito che è successo? Questi ci fanno a pezzi!»
Naruto
cercò di dissimulare la propria preoccupazione, sorridendo
con la
consueta allegria; a Gaara non sfuggì, però, il
guizzo allarmato
dei suoi occhi.
«Suvvia,
Kiba... non possiamo perdere! Dio è dalla nostra parte, ci
proteggerà».
Lo
sfregiato parve contento di quella risposta, e annuì
vigorosamente.
«Hai
ragione, lo dirò anche agli altri. Non possiamo venire
sconfitti da
degli infedeli».
Quando
se ne fu andato, il britanno si rivolse nuovamente al cavaliere al
suo fianco, sospirando con afflizione; Gaara apprezzò quella
sua
capacità di rincuorare sempre gli atri, di mascherare i
sentimenti
torbidi per rendere felice chi gli stava intorno. Sottintendeva
un’abnegazione assoluta, profondamente cristiana.
Qualcosa
che lui non avrebbe mai compreso.
«Perché
li rassicuri? Molti di loro moriranno comunque».
«Ci
sono più probabilità che vincano, se
combatteranno con la
convinzione che sia qualcosa di ultraterreno a guidarli. La presenza
di Dio, vera o falsa che sia, rincuora gli uomini».
«Tu
non credi nell’esistenza di Dio?»
Naruto
sorrise tristemente, poi scosse la testa.
«Anche
se ci credessi, Dio c’entra poco e niente con questa guerra.
Sono
interessi umani quelli che vedo, non voleri divini... e comunque,
Gaara, d’ora in poi ti prego di stare attento. Manca poco a
Damasco, e la folla di disperati che tra breve ci travolgerà
sarà
più pericolosa del nostro stesso nemico. Io... io non voglio
che tu
muoia».
«Non
è per non darti un dispiacere che proteggo la mia
vita». Replicò
il francese, asciutto, dando uno strattone alle briglie;
partì al
piccolo trotto, diretto alla zona delle salmerie.
Naruto,
rimasto fermo in mezzo alla folla, non lo seguì.
*
Arrivarono
la sera successiva.
Una
massa di uomini discontinua, puntiforme, affogata nelle sabbie.
Macilenta, barcollante, ferita.
Gaara
vide uomini con armatura distrutte e giustacuori a brandelli, gli
elmi abbandonati da qualche parte in quella campagna e le braccia
lungo i fianchi, coperte di graffi e feriti. Altri indossavano
corazze di misure palesemente diverse dalle loro, segno che le
avevano rubate dai corpi dei caduti dopo la battaglia; altri ancora,
sdraiati su barelle improvvisate, gridavano e lamentavano il loro
dolore mentre venivano condotti al cospetto di Luigi VII.
Di
coloro che erano stati gravemente feriti, pochi avrebbero visto le
mura di Damasco.
Gaara,
di conseguenza, non capiva a che pro sprecare tempo per curarli:
porre fine alle loro sofferenze con una morte dolce sarebbe stato
molto più giusto e magnanimo.
Spiò
con uno strano senso di incertezza la figura del britanno, che si
muoveva tra le barelle e prestava aiuto e conforto a chiunque glie lo
chiedesse; era sempre attivo, Naruto, sempre accanto ai feriti gravi
nel tentativo di alleviarne le sofferenze. E tuttavia sorrideva,
senza lasciarsi prendere dal torpore melanconico che pareva aver
contagiato molti dei suoi colleghi improvvisati.
Tante
energie consacrate a tale spreco. Eppure, il francese non riusciva a
scorgere macchie nella condotta di Naruto, neanche volendo: qualsiasi
cosa facesse, foss’anche l’opposto di quanto lui
pensava, gli
sembrava improvvisamente naturale e, anzi, giustissima.
Non
si avvicinò mai, non gli chiese perché lo
facesse. Sentiva che
avrebbe guastato qualcosa, con la sua presenza, che poi difficilmente
si sarebbe ricreato.
Attese
con pazienza che arrivasse il giorno della partenza, ma anche allora
Naruto non gli si avvicinò più; durante il
viaggio verso Damasco,
per scambiare qualche parola con lui fu costretto a farsi avanti per
primo, e ad avvicinarsi ai carri dei feriti che – anche a
diversi
metri di distanza – emanavano un disgustoso fetore di
putrefazione.
E lui era sempre lì, ad accomodare fasciature e cauterizzare
ferite,
apparentemente ignaro delle gravi malattie che avrebbe potuto
contrarre. Immune a tutto, si sarebbe detto, sia ai mali della carne
che a quello dell’anima.
E
avrebbe dovuto uccidere, una creatura del genere?
Se
Gaara guardava agli altri soldati – o, più
semplicemente, a sé
stesso – gli riusciva semplice immaginarli
nell’atto di togliere
la vita a qualcuno. Se provava a fare lo stesso con Naruto, provava
solo una pungente sensazione di disgusto e, comunque, non riusciva a
figurarsi la scena in nessun modo.
«Tu
non sei fatto per ammazzare».
Gli
uscì detto quasi per caso, un pomeriggio che tirava un vento
umido e
soffocante come aria liquida. Erano entrambi stanchi, e Naruto aveva
ripreso possesso del proprio cavallo per stargli vicino – non
per
molto, perché sarebbe dovuto tornare presto dai feriti.
«Ah,
no? E per cosa sarei fatto, scusa? Sono un soldato».
«No,
non lo sei. Ti comporti come se lo fossi, ma non lo sei. Cosa ti
spinge ad uccidere?»
Gli
aveva già posto quella stessa domanda, e la risposta era
stata
quanto mai evasiva; ancora non era riuscito ad ampliare quella
piccola breccia che aveva aperto nel passato del britanno, e gli fece
capire di pretendere una risposta chiara con uno sguardo eloquente
dei suoi occhi chiarissimi.
Naruto
sospirò, prima di rispondere.
«C’è
una cosa che non ti ho detto».
«Ci
sono molte cose che non mi hai detto».
«Quando
ero piccolo sembravo un bambino normale, come tanti altri. Stavo con
i miei coetanei e mi trovavo bene, i miei genitori mi volevano un
gran bene e vivevo tranquillo... poi, a quindici anni, cominciarono a
manifestarsi i sintomi».
«Sintomi?»
«Cominciò
con l’amnesia. In certi momenti si faceva tutto nero e,
quando mi
svegliavo, mi trovavo in un luogo diverso da prima, e a volte
sembrava passato molto tempo. Dopo qualche tempo, mi accorsi che, in
quei momenti di buio, il mio corpo, come in autonomia, faceva
sempre qualcosa. Trovai animali morti e sventrati sotto il
mio
letto, collane e gioielli rubati, lettere d’amore inviatemi
da
donne sposate che sostenevano di aver passato momenti con me che io
non ricordavo. I miei genitori e le persone della cittadina in cui
vivevo iniziarono a guardarmi con sospetto, credendo che avessi
imboccato una cattiva strada. La verità, però,
era un’altra».
«Sarebbe?»
«In
me c’è qualcosa di oscuro, Gaara, qualcosa che non
posso
controllare. A volte prende il sopravvento e fa del male agli altri,
e l’unico modo per placarlo è lasciarlo libero per
qualche tempo e
permettergli di soddisfarsi. Non so mai quando accadrà, ma
è come
una bestia che si eccita all’odore del sangue: nelle
battaglie,
straripa».
«È
per questo che sei andato ad Edessa così giovane? Per
placare
questa... belva?»
«No,
no... il diacono della mia parrocchia convinse i miei genitori che
ero posseduto dal demonio. Mi sottoposero ad un esorcismo, ma non
accadde nulla, così pensarono bene di mandarmi a combattere
per il
Signore, nella speranza che salvasse la mia anima negletta. E,
nonostante in quella guerra abbia perso molto, Dio pare non sia
ancora soddisfatto del mio sacrificio».
«Sei
di origini nobili, non è così?»
«Bassa
aristocrazia, piccoli proprietari terrieri. Sempre che i miei non
abbiano perso tutto... non sono più tornato da loro, dopo
quella
guerra».
«Perché?»
«Questa
è una storia che è meglio non raccontare... non
ora, almeno. Ma ti
prometto che un giorno la conoscerai».
*
Infine,
Damasco.
L’enorme,
sconfinata Damasco, con le sue massicce mura dorate e la fertile
campagna circostante, con le grandi porte e gli archi di pietra e il
viavai di mercanti e prodotti che giungevano da ogni parte del mondo.
Così bella e florida che la stessa Gerusalemme si diceva ne
avesse
invidia.
Eppure,
l’approssimarsi della guerra l’aveva distrutta.
Le
mura erano vuote, morte, pattugliate sulla cima da qualche sporadica
sentinella; le porte serrate, chiuse con delle pesanti inferriate,
erano ormai dimentiche del traffico allegro e vivace che di consueto
le attraversava, e la campagna versava in condizioni tali, per
l’arrivo dell’esercito, che a stento la si sarebbe
riconosciuta.
La
maggior parte degli alberi era stata tagliata per farne legna da
ardere, l’erba secca calpestata, rimestata e insudiciata fino
a
renderla un oceano piatto e bigiognolo di fango impastato e terra
battuta. Solo le macchine d’assedio spiccavano in quel
paesaggio
monotono, come scheletri di torri nere nella foschia che avvolgeva la
pianura.
Per
la maggior parte del tempo c’era uno strano silenzio.
La
tensione era palpabile, e ammutoliva i soldati; persino Naruto, se
non proprio taciturno, era diventato meno rumoroso del solito, e si
aggirava per il campo cercando vanamente di inserirsi nel gruppo
degli altri soldati. Vanamente non
perché venisse rifiutato,
ma perché non esistevano circoli a cui aggregarsi: ognuno
per sé, i
crociati procedevano per sentieri paralleli, già proiettati
verso la
battaglia imminente. Nessuno sapeva quando sarebbe scoppiata.
Gaara
era l’unico che riusciva a non perdere la calma. Algido,
statico,
preparato anche all’eventualità di una
carneficina, era sempre lì
quando Naruto, dopo aver compiuto il giro dell’accampamento,
si
recava da lui con uno sguardo abbattuto e, tremante, gli confessava
timori che, fingendo un umore costantemente allegro, davanti agli
altri soldati non manifestava.
Perché
aveva paura, una paura terribile.
E
non la soffocava, non la sopprimeva. Da quella paura, Gaara
l’aveva
capito, derivava in massima parte il suo coraggio.
«Ho
sempre pensato che sarebbe stato bello morire sotto il cielo del
posto in cui sono nato». Gli disse, una sera, mentre
sostavano
intorno ad un piccolo falò. Non c’era nessun
altro, solo loro;
quella era un’abitudine che avevano presa anche durante i
viaggio:
ogni sera si sedevano di fronte ad un fuoco e mangiavano, parlando
–
per quanto la natura taciturna di Gaara concedeva – del
più e del
meno.
«Dove
sei nato?»
«In
Irlanda. Ma suppongo che tu l’abbia capito
dall’accento, e dal
dialetto che parlo».
«L’Irlanda
non partecipa alla Crociata».
«Ti
ho già spiegato per quale motivo vi ho preso parte. Poi...
poi
diciamo che ci ho preso gusto».
«Com’è
il cielo lì?»
«È
indescrivibile. Ci sono sempre le nuvole, grandi distese di nuvole
grigie, e il colore tende più al bianco che al celeste.
Forse...
forse freddo è la parola giusta, ma non
ne sono sicuro. E poi
dovresti vederlo quando si tuffa sul mare in burrasca...»
«Forse
ti sembra così bello soltanto perché è
il cielo sotto il quale sei
nato».
Il
viso di Naruto si rabbuiò.
«Magari...
magari è così. Anzi, credo che sia proprio
così. Però...»
sollevò lo sguardo verso le miriadi di stelle sconosciute
che
illuminavano la volta celeste, limpide come diamanti su un drappo di
velluto nero «... però questo cielo è
così diverso. Penso
che sarebbe brutto morire qui».
«E
allora fai in modo di non morire». Tagliò corto
Gaara, coricandosi
sul proprio mantello.
Nel
frattempo, però, osservando le lingue di fuoco che si
contorcevano
nell’aria umida della sera, il francese pensò che
lui, il cielo
della Provenza, non lo ricordava nemmeno.
E
guardando gli occhi socchiusi di Naruto, illuminati d’arancio
dal
baluginio delle fiamme, comprese di non aver bisogno che di un solo
tipo di azzurro, un azzurro che era costantemente alla sua portata.
*
La
catapulta si curvò all’indietro.
Mormorii
concitati.
Il
proiettile venne caricato nel cesto. La corda sibilò, si
piegò,
saettò prima di liberarsi.
Silenzio
inquieto.
Una
massa scura, indistinta, si alzò nel cielo. La parabola
perfetta che
compì la portò a impattare contro le mura della
città
all’orizzonte; le pareti spesse non cedettero, ma tremarono.
Diversi mattoni caddero a terra.
Le
grida.
L’esercito
crociato si lanciò contro le mura di Damasco. Come una marea
che
tutto divora, tutto cancella, si abbatté sulle pareti di
pietra e
ribollì, animandosi e ruggendo; cavalieri e fanti operavano
vicini,
nel caos più totale, accostando scale alle mura e
sgomberando il
passo per baliste, catapulte e torri d’assedio. Le urla dei
soldati
erano così forti che Gaara, per qualche secondo, ne venne
assordato.
Disperso nella folla che lo trascinava, lo spintonava da tutte le
parti, rimase immobile e silenzioso finché non vide spuntare
i primi
difensori sulla cresta delle mura, intenti a rovesciare le scale e
tirare frecce sugli assedianti.
Ghignò,
sguainando la spada.
In
piedi, unico punto statico tra tutto quel turbinio di particelle in
movimento, sollevò la lama verso l’alto. Il
metallo luccicò,
gelido come una stella.
Poi,
preso un profondo respiro, scattò in avanti.
Tutto
quello che accadde poi, si confuse in una sinfonia di urla e gemiti,
sangue e acciaio.
Vide
sé stesso salire su una scala, come se stesse assistendo ai
fatti da
una prospettiva esterna. Si vide afferrare per il collo uno degli
arcieri damasceni, puntargli la spada allo stomaco e, dopo aver
osservato per una frazione di secondo l’espressione di
terrore puro
nei suoi occhi scuri, conficcarla nella carne fino all’elsa.
Il
fiotto di sangue che gli bagnò la mano era caldo, era vivo.
Era giusto e puro più di ogni altra cosa che avesse mai
fatto,
corroborante al massimo grado delle possibilità umane;
uccidere,
togliere la vita agli altri uomini ed essere per loro un Dio, un
legislatore, lo faceva sentire come nessun altra persona al mondo.
Completo.
Non
aveva bisogno di amare nessuno, se poteva odiare in un modo tanto
totalitario.
Non gli serviva nient’altro.
Persino
l’immagine di Naruto, sorridente sotto i raggi del sole
greco,
svanì, inghiottita da una cortina di ombre.
*
La
sera, quando tornò all’accampamento, aveva le
vesti così lorde di
sangue che la croce rossa si confondeva con il resto
dell’abito,
completamente inzuppato; la cotta di maglia gocciolava,
l’elmo era
stato già intaccato da numerosi colpi. Aveva una ferita
leggera
sull’avambraccio, che comunque continuava a sanguinare, e gli
anelli della cotta gli si erano conficcati nella carne in
più punti,
lasciandogli scie di lividi scuri. I capelli, incollati alla fronte,
avevano preso una tonalità brunastra per via della
sporcizia, e gli
occhi erano cerchiati da occhiaie più profonde del solito.
Nel
complesso, rimirandosi in una pozzanghera, Gaara decretò che
quello
era l’aspetto migliore che avesse mai avuto. Forse
perché era
vero, esausto e violento, eppure animato da una profonda euforia,
come non gli succedeva ormai da molti anni.
Inspirò,
ghignando, e accarezzò il pomolo della spada con aria
soddisfatta.
In
quel momento, la voce squillante di Naruto lo riportò alla
realtà.
«Gaara,
sei qui!» Gli corse incontro nelle tenebre, anche lui
ricoperto di
sangue e terra. Aveva il viso contratto in quella che pareva
un’espressione triste, e una luce colpevole e abbattuta negli
occhi.
No,
uccidere non gli piaceva.
Il
francese, capendolo, provò un improvviso senso di vergogna
per se
stesso. Era come se la purezza di Naruto, ogni volta che ci parlava o
guardava negli occhi, scacciasse via le ombre della sua anima; come
se, anche involontariamente, lo prendesse a esempio per il proprio
comportamento.
Eppure,
il viso del britanno non gli era mai parso così gradevole
come in
quel momento, con quell’aria stanca e abbattuta ad
appesantirne i
tratti. Lo faceva sembrare più umano.
«Come
è andata?»
«Male.
Abbiamo perso molti uomini, e la città non è
stata presa. Luigi VII
insiste nel continuare con l’assedio, ma di questo passo
diventerà
un massacro. Ho avuto paura che tu fossi morto...»
indugiò su di
lui con lo sguardo, a lungo. Poi, notando il taglio
sull’avambraccio,
quasi sobbalzò.
«Ehi,
ma tu sei ferito!»
Gaara
annuì stancamente, rimboccandosi la manica intrisa di sangue
e
mostrando una ferita che, seppur non particolarmente profonda, per le
dimensioni e la sporcizia che vi si era accumulata minacciava di
infettarsi e suppurare.
«Gli
infedeli sanno essere veloci come serpi».
«Lascia
che te la curi. Sono bravo in queste cose». Naruto sorrise.
Qualche
minuto dopo erano entrambi seduti accanto al fuoco, su dei sedili
improvvisati fatti con dei grossi ciocchi, e il britanno si adoperava
a pulire la ferita con vino riscaldato e garze di fortuna. Gaara,
stringendo i denti, sopportava il dolore senza troppe
difficoltà,
concentrato sulla sensazione – strana e piacevolmente nuova
– di
quelle dita calde e ruvide che gli solleticavano la pelle delicata
poco sopra il polso.
«Sai...»
cominciò Naruto, dopo qualche minuto di silenzio
«... non ti ho
ancora raccontato di quando ho combattuto a Edessa».
Lo
fissò, di sottecchi, scrutandolo attraverso lo schermo delle
lunghe
ciglia bionde. Gaara, sotto quello sguardo, si sentiva
incredibilmente strano, frastornato, privato di ogni energia e
riempito da un senso di calore benefico. Si rese conto di voler
toccare Naruto, di desiderare un contatto fisico più
profondo di
quello delle sue dita sulla pelle.
Ed
era una cosa che non aveva mai provato nei confronti di nessuno,
prima.
Quella
consapevolezza lo confondeva.
«Credevo
che non volessi dirmelo».
«Non
è questo. È che avevo paura di come avresti
reagito. Perché io...»
si interruppe, e tremò leggermente.
«Continua».
«Vedi,
quando mi mandarono a Edessa ero troppo giovane per rendermi conto
della portata di una guerra. A quindici anni non sei pronto per quel
tipo di cose, anche se ti educano a combattere sin da piccolo...
quindi avevo bisogno di una guida, qualcuno che mi aiutasse. E la
trovai. Anzi...» e qui sorrise, con un’aria di
tenerezza e
nostalgia «... lo trovai. Si chiamava
Sasuke, aveva due anni
in più di me ed era un nobilotto bastardo e arrogante,
convinto che
la sua famiglia fosse la più importante d’Europa e
che la sua
abilità con la spada non si potesse comparare a quella di
nessun
altro. Però era bello, intelligente e forte, e mi
salvò la vita più
di una volta, quando meno me l’aspettavo».
Dalla
voce di Naruto traspariva più del semplice affetto, ma Gaara
era
troppo occupato a fissare la sue espressione, fattasi improvvisamente
triste, per accorgersene.
«Poi,
lui morì durante la presa di Edessa. Eravamo stati mandati
lì a
proteggere quella città dagli infedeli, ma morimmo quasi
tutti... io
mi salvai perché ero piccolo e disperato, e mi nascosi tra i
cadaveri sul campo di battaglia per non farmi trovare. Quando i Mori
se ne andarono, cercai a lungo il suo corpo, prima di riuscire a
trovarlo. E fu terribile».
«È
per questo che non sei più tornato?»
Naruto
annuì.
«Volevo
morire, mi sentivo distrutto nell’anima. Ho vagato per due
anni in
Europa, alla ricerca di un posto da occupare, e non l’ho
trovato.
Ho svolto i lavori più disparati e degradanti per
guadagnarmi da
vivere, ho nascosto le bestialità commesse dal mostro che
covo nel
cuore finché non mi hanno riferito che Luigi VII cercava
uomini per
una Crociata. A quel punto, ho capito che parteciparvi era
l’unica
cosa da fare».
«Perché
me lo stai dicendo?»
Naruto
smise di fasciargli la mano, e sollevò lo sguardo. In quegli
occhi
il francese scorse un’intensità nuova e
spaventosa, che quasi lo
terrorizzò; fece per scansarsi, ma non ci riuscì:
era come se una
forza invisibile lo ancorasse al terreno, obbligandolo a restare
immobile.
«Perché
tu per me sei una persona molto importante, Gaara. All’inizio
sono
rimasto colpito da te perché somigliavi a lui, a Sasuke, ma
poi ho
capito che siete diversi. Tu dentro hai come un abisso profondo e
insondabile, che assorbe tutto quello che gli sta attorno».
«Sono
vuoto. Mio padre me lo ripeteva spesso».
«No,
non è vero!» Esclamò Naruto, accorato,
afferrandolo per le spalle.
«Non
è vero! Gaara, io...» fece scorrere le mani lungo
le sue clavicole,
poi sul collo, fino a circondargli il viso con quelle sue dita
tiepide e forti. Il francese percepì un calore
inestinguibile
dipanarsi da quelle dita alla pelle e poi su tutto il viso,
ustionandolo. Si sentiva bruciare.
Naruto
lasciò a metà la frase appena cominciata,
fermandosi ad osservarlo
con espressione assorta.
Gli
occhi negli occhi, si avvicinò a lui con una lentezza
estenuante,
senza nemmeno sbattere le ciglia; Gaara si era improvvisamente
irrigidito, non sapendo minimamente cosa fare o come muoversi, o
ancora se muoversi. Quando Naruto
annullò la distanza che li
separava e poggiò le labbra sulle sue, tutte le
consapevolezze e i
dubbi svanirono in una spirale di denso fumo caldo.
Fu
qualcosa di estremamente piacevole, di estremamente bello. Naruto era
il tepore e la dolcezza, mentre accarezzava lentamente le sue labbra
e le sfiorava con la punta della lingua, come per chiedergli il
permesso di compiere una simile impudenza. Ed era la fiamma e la
passione mentre lo afferrava saldamente ai lati del volto,
approfondendo il bacio in una lotta silenziosa fatta di schiocchi e
respiri affannati, e staccava e ricongiungeva i loro volti come
rapito da un qualche strano incantesimo.
La
forza di quel contatto era sconvolgente, mai provata prima; come bere
dell'acqua fresca e pura dopo aver attraversato un deserto, come
sentire la carezza del sole sulla pelle dopo un lungo inverno gelido.
Gaara si sentì riempito da una sensazione di
felicità, si sentì
stordito e sballottato e incredibilmente sereno, come non succedeva
nemmeno nei suoi sogni.
Quando
Naruto si allontanò definitivamente, Gaara rimase immobile a
guardarlo, troppo colpito da quello che avevano fatto per proferire
parola. Ci volle qualche minuto perché recuperasse un poco
della
propria loquela.
«Questo
è peccato». Mormorò, tuffando una mano
tra le ciocche biondissime
del soldato e saggiandone piano la consistenza. Ispide, sporche,
erano la cosa più morbida che avesse mai toccato.
«No,»
Naruto allungò una mano a sfiorare l’elsa della
spada che portava
appesa al fianco, ancora lorda di sangue «questo
è peccato».
Gaara
annuì debolmente, prima di tirarselo contro.
Lo
schiacciò contro il terreno, guardandolo un'ultima volta
negli occhi
prima di gettarsi sulle sue labbra: era come guardare zaffiro liquido
illuminato dall'oro rosso del fuoco. Si sentiva sciogliere.
Quando
abbassò il viso, accarezzando il collo con le labbra e
mordendo, a
tratti, quella pelle che sapeva di sangue e del salato acre della
battaglia, Naruto sorrise e, passandogli con delicatezza una mano tra
i capelli, sussurrò:«Tá
grá agam duit».
Affondò
il viso nell'incavo del suo collo, sprofondando nell'oblio caldo e
accogliente della carne.
*
Aveva
ancora il sapore dei suoi baci sulle labbra quando, la mattina
successiva, si preparò alla battaglia. Legò ogni
pezzo
dell'armatura con una particolare, si rivestì della corazza
e
paragonò la carezza gelida dell'acciaio a quelle brucianti
del
compagno; quando ebbe finito, appese la spada al fianco e si
recò,
confluendo nel flusso del resto dell'esercito, al posto che avrebbe
dovuto occupare.
Quando
era più o meno a metà strada, fu intercettato da
Kiba.
«Ehi,
britanno! Sei pronto per combattere?»
Naruto
sorrise, spaccone. Mostrò la mano con il pollice alto,
andando
incontro all'amico.
«Sono
sempre pronto per combattere! Cosa dice Shikamaru?»
«Lo
stratega pare voglia mandarci tutti via di qua.
Pensa che non
vinceremo e altre cazzate simili».
«Credi
che si sbagli?»
«Certo,
che domande! Sono pur sempre degli infedeli, no? E poi, chiusi in
quella città, quanto vuoi che durino? Poco, te lo dico
io!» Kiba si
credeva un gran soldato e aveva pretese da generale, ma la
verità
era che, causa forse una radicata ignoranza, non aveva capito un
accidente della situazione. Naruto ne era consapevole, e lo lasciava
perdere: avvelenargli l'animo con i suoi discorsi non avrebbe portato
nessun vantaggio, e rovinare così quella che ormai
considerava
un'amicizia sincera e solidale gli pareva un peccato.
«Mh,
va bene. Io adesso devo andare. Vedi di tenerti stretta la pelle, ci
vediamo dopo la battaglia!»
«Eh,
magari! Ultimamente stai tutto il tempo con quell'imbecille di un
nobile... si può sapere che ti è
successo?»
Naruto
sorrise, facendo un gesto vago a mezz'aria.
«Bah,
si è rivelato più simpatico del previsto. Go
n'éirí leat!»
E
sparì tra la folla, dirigendosi velocemente agli
acquartieramenti;
li raggiunse che il Sole era allo zenit, bollente nel cielo.
Il
generale crociato si fece vivo al tramonto.
Indossava
un'armatura pesante e splendente, e sedeva su un cavallo possente,
nero, con le froge dilatate a dismisura e il collo inarcato e
fremente. L'elmo, di forma semiconica con delle feritoie sottili per
gli occhi, gli dava un aspetto misterioso e feroce, inquietante;
tuttavia, Naruto sapeva che non una sola freccia avrebbe intaccato
quell'equipaggiamento.
«Miei
compagni, miei soldati...» il Sole aveva un colore piacevole,
rosso
oppure arancio acceso. Le nuvole intorno, tinte di un colore scuro e
purpureo, come quello del sangue, gli ricordavano i capelli del
francese. Ecco, quello era un pensiero piacevole su cui concentrarsi.
"Mi
stai guardando, Sasuke? Sei davvero da qualche parte in mezzo a
questa immensità? Credi che stia sbagliando tutto?"
Si
erano ripromessi amore eterno, lui e Sasuke. Insieme, insieme per
tutta l'eternità, disposti a vivere da mendichi pur di
essere
lasciati in pace dai doveri dell'esercito e dalle proprie famiglie.
La Morte, però, non l'avevano messa in conto. Non ci avevano
nemmeno
pensato.
E
Naruto si sentiva estremamente confuso, stupidamente felice. Con
Gaara, che era così complicato, chiuso, algido e devastato,
sentiva
di aver ritrovato una parte di sé che credeva di aver
smarrito tre
anni prima. Voleva lasciarsi andare e seguire l'istinto, ma aveva
paura che una simile scelta avrebbe portato soltanto guai.
Sospirò.
«...
ed è per questo che oggi combattiamo. Per risanare questa
terra
dalle ferite che la affliggono. Perché gli infedeli non
possano più
insozzarla con la loro abominevole presenza. Per Cristo!»
Gridò, e
la folla emise un boato assordante. Naruto digrignò i denti,
il
sangue che già ribolliva per l'eccitazione della battaglia;
sentiva
una sensazione di rabbia potente e implacabile crescergli sul fondo
dello stomaco, invadergli la testa e farlo vacillare, come sotto la
spinta di un vento inestinguibile. Come di consueto, la belva al suo
interno non sapeva contenersi, non sapeva aspettare. Feroce,
già
gustava il sapore della preda che avrebbe presto assaggiato.
«MARCIATE!»
Un
grido unico si spanse nell'aria immobile del crepuscolo. Col sole
basso, le condizioni per un attacco di quel tipo erano ottime: gli
arcieri sulle mura avrebbero avuto delle serie difficoltà a
mirare i
soldati, e loro avrebbero potuto arrampicarsi silenziosamente sulle
mura e sorprenderli.
Naruto
camminò all'unisono con il resto dell'esercito, fremente.
Sguainò
la spada, i muscoli tesi e gli occhi spalancati per la tensione,
lanciando occhiate rapide a coloro che gli stavano intorno. Su tutti
i volti c'era la stessa, univoca impressione di paura e smarrimento.
Eppure, nulla avrebbe più potuto arrestare il lento
meccanismo che
aveva determinato il compiersi di quella battaglia, nemmeno lo stesso
generale.
Alea
iacta est.
Improvvisamente,
come una pietra che cade nell'acqua di uno stagno e ne increspa la
superficie, l'esercito accelerò finché le prime
file praticamente
non corsero, gettandosi contro le mura con una celerità
inusitata.
Vennero accostate le scale, e subito vi fu uno spintonarsi collettivo
per salirvi.
Da
qualche parte, all'interno di Damasco, squillarono delle trombe.
Dopo
qualche secondo, sibilando invisibili nel cielo buio, iniziarono a
cadere le frecce.
Naruto,
aggrappandosi ai pioli della scala, ascoltava le grida di coloro che,
nel buio, venivano colpiti; un rumore simile allo scroscio di una
cascata lo avvisò che, da qualche parte, gli arabi avevano
cominciato a rovesciare acqua bollente su coloro che si
arrampicavano. Doveva sbrigarsi.
Fece
gli ultimi scalini quasi correndo, a rischio di scivolare, e, quando
giunse alla merlatura, si gettò nella bolgia che imperava
dall'altra
parte con un lungo balzo. Sguainò la spada, col cuore che
sembrava
volergli scoppiare nel petto, e rivolse un'occhiata circolare a
ciò
che lo circondava; non fece in tempo a voltarsi, che un moro lo
aggredì alle spalle.
Fortunatamente
per lui, uno dei suoi commilitoni parò il colpo e si mise a
duellare
con l'aggressore, dandogli modo di difendersi da un altro che, armato
di una scure, gli si dirigeva contro con aria minacciosa. Gli
saltò
addosso con la spada sguainata, gridando, e lo colpì alla
gola con
la lama; il fiotto di sangue che gli schizzò sul viso lo
disgustò,
ma non riuscì a fermarsi. Per quanto provasse pena per
sé stesso,
non poteva vivere in nessun altro modo.
Si
gettò nel combattimento come una furia.
Estraniato,
assente, lasciava che il corpo si muovesse da solo, guidato da forze
che non era in grado di comprendere. Affondava la spada nella carne,
roteandola con la sicurezza dell’esperienza, e si abbatteva
su
quanti era in grado di abbrancare, indipendentemente se stessero
combattendo con lui oppure no. E, benché il cuore gli
dolesse in un
modo atroce, sentiva che il corpo ne traeva giovamento, quasi si
risvegliasse da un lungo sonno.
Improvvisamente,
a distrarlo tra quei pensieri, scorse nella folla una testa che non
gli pareva affatto nuova: nonostante la luce scarsa, i capelli
rilucevano grazie alle torce come fiamme vive di un rosso scurissimo,
sanguigno. Un colore troppo inconsueto per poter essere confuso.
«Gaara!»
Gridò, facendosi strada tra i combattenti a fatica. Pareva
che il
francese fosse in difficoltà: davanti a lui stava un arabo
alto come
un colosso, che combatteva utilizzando un lungo pugnale dalla lama
ricurva, di fattura indiana. Un kriss.
Molto
probabilmente era anche avvelenato.
Gaara,
in ogni caso, era in netto svantaggio: ferito, stanco, rispondeva ai
colpi con scarsa energia e non attaccava, limitandosi a parare.
Gli
arrivò alle spalle di corsa. Voleva aiutarlo, mettersi al
suo posto
e, magari, sconfiggere lui l’arabo e rubargli quel bel
pugnale
dalla lama lucida, a forma di biscia. Eppure, non riuscì a
farlo.
Un
attimo prima che potesse raggiungere il proprio scopo, si
sentì
strattonare per la veste e gettare a terra. Il suo campo visivo si
riempì di gambe, di corpi in movimento che si scontravano in
un
balletto perpetuo, le orecchie si fecero ovattate e solo gli giunse
lo stridio dell’acciaio. Poi, vide chi lo aveva gettato a
terra.
Era
un soldato arabo di forse sedici anni.
Aveva
un fisico sottile, vesti coloratissime nella foggia moresca e un
volto da bambino, piccolo e ovale. Due grandi occhi scuri, spalancati
per il terrore, lo fissavano; le mani, con cui gli puntava contro una
scimitarra istoriata, tremavano come foglie scosse dal vento.
In
altre situazione forse avrebbe esitato prima di contrattaccare, e
quella sarebbe stata la sua salvezza.
Ma
scelse di ucciderlo, e fu, quella, una decisione dettata
dall’urgenza
di aiutare Gaara. Si mise seduto con un colpo di reni e
scattò
all’indietro, evitando per un soffio il colpo del ragazzino;
quando
sbatté con la testa contro il muretto delle merlature, si
rese conto
di essersi spinto ben più in là di quando aveva
prospettato, ma non
ci fece caso. Si tirò in piedi, pronto a combattere.
Quello
che Naruto non sapeva era che quel giovane soldato non si era unito
da solo all’esercito, bensì aveva aderito sotto
l’ala
protettrice di un fratello più grande di una decina
d’anni:
proprio come il britanno aveva tentato di soccorrere Gaara, pochi
secondi prima, il fratello di quell’arabo si spinse verso di
lui
più che poté, finché non lo raggiunse.
Mentre era girato, lo
afferrò per la cotta di maglia e lo spintonò fino
a schiacciarlo
contro il muretto, fino a fargli perdere l’equilibrio e farlo
cadere nel vuoto buio di un baratro alto quindici metri, sul cui
fondo si trovava un oceano acuminato fatto di spade, scudi e
armature.
Naruto
rimase per un secondo esterrefatto, attonito. Si sentì
sbalzare
oltre il parapetto, lo stomaco annodato, e cercò inutilmente
di
afferrarsi ai grossi mattoni che componevano il muro; le sue dita
scivolarono sulla pietra liscia, e lui precipitò.
Prima
che la sua ultima luce sfumasse, osservando il turbinare confuso di
tutte quelle vite prossime a spegnersi, là sulle mura di
Damasco,
realizzò quanto gli dispiacesse non poter più
vedere il sole la
mattina, e la luna la notte, e il sorriso delle persone che lo
circondavano. Pensò a Gaara, che probabilmente sarebbe morto
anche
lui in quella sorta di suicidio collettivo, e poi sorrise.
Sorrise
perché era finita, perché ormai non
c’era più niente di cui
preoccuparsi.
E
perché, qualsiasi cosa ci fosse dall’altra parte,
sapeva che vi
avrebbe trovato Sasuke.
*
Gaara
cercò il suo corpo per tre giorni.
All’inizio
non aveva creduto nemmeno lontanamente
all’eventualità della morte
di Naruto. Aveva aspettato invano il suo ritorno per ore ed ore,
osservando gli ultimi saccheggiatori che, dopo aver ripulito i
cadaveri, se ne tornavano dal campo di battaglia colmi di effetti
personali e per nulla rattristati dall’aspra sconfitta che
l’esercito crociato aveva subito. Lui,
però, non era
arrivato.
Qualcuno
sussurrava, passandogli accanto, perché lui non riusciva a
guardare
altro che non fosse la linea dell’orizzonte, a Sud, dove si
ergeva
la mole scura della città. E rimase fermo quasi un giorno
intero al
margine dell’accampamento, immobile come una statua di sale,
senza
lavarsi, senza coricarsi, senza mangiare.
Le
occhiaie sempre più livide.
Poi
si fece portare il cavallo.
Montò
in sella, assente, dando di sprone e procedendo al passo verso il
campo di battaglia, disseminato di cadaveri. Non aveva fretta.
Vagò
a lungo per la piana, rivoltando i corpi uno pero uno e cercando, con
la forza della disperazione, il volto di Naruto in quella distesa di
carne in decomposizione; i corvi si aggiravano numerosi nel cielo,
scendendo spesso in picchiata a cibarsi, e una gran quantità
di
altri animali - mosche e scarafaggi in primis - formicolava dovunque.
Gaara contenne il ribrezzo, sordo persino ai richiami della fame e
della sete, sopportò il caldo e la stanchezza e
andò avanti,
toccando e spingendo quei corpi pesanti scottati dal sole e congelati
dalla morte.
Dormì
all'aperto, tra di loro. Alla fine del primo giorno
già
emanavano un insopportabile odore di putrefazione, ma il francese
aveva un mal di testa troppo acuto per concentrarsi su qualcosa che
non fosse il proprio dolore.
Si
svegliò con il sorgere del sole, e ricominciò.
Perlustrò
con perizia assoluta ogni centimetro di terreno che si trovava
innanzi, all'apparenza infaticabile. Eppure, il campo di battaglia
sembrava non finire mai, esteso fino al principio di ogni suo
orizzonte. Troppo grande per un uomo solo, ma soprattutto troppo
grande per lui, che combatteva una battaglia già persa in
partenza;
eppure, consapevole di ciò che avrebbe potuto trovare, non
abbandonò
quel luogo.
Il
terzo giorno il fetore era così penetrante da costringerlo a
coprirsi il viso con un panno per non avere malori; affaticato,
tremante per la mancanza d'acqua e cibo, aveva la vista sfocata e un
pulsare deciso alle tempie, che gli dolevano terribilmente. Tutto gli
doleva, a dire il vero.
Si
spinse fin sotto le mura, arrancando sulle gambe malferme. Cadde a
terra più volte, inciampando in braccia e gambe e armi e
armature e
teste, e più volte si confuse, perse l'orientamento, si
sedette per
riposare.
Fu
proprio mentre era seduto, che la vide.
Una
testa coronata di biondo tra tante capigliature scure come l'ebano,
che spuntava dalla carcassa demolita di un carro.
Si
tirò in piedi a fatica, sopportando il dolore alle
ginocchia, e
arrancò nella direzione di quella figura con tutta la forza
che
riuscì ad imprimere alle sue stanche membra.
Peccato
che, giunto a pochi metri dal carro, la stanchezza lo tradì.
Inciampò
in una lancia e si accasciò a terra; sbatté con
la testa contro il
terreno, duro e compatto, e quel colpo fu sufficiente per estinguere
del tutto la scarsa luce che ancora perdurava sul fondo delle sue
pupille. Rimase così, con gli occhi chiusi e il corpo
abbandonato
tra tanti cadaveri, lui che solo poteva vantare una vita e il
desiderio di lasciarla andar via.
Arreso,
ad un soffio dallo scopo della propria ricerca.
*
Quando
aprì gli occhi, sopra di lui c'era il soffitto bianco di una
tenda.
Qualcuno
gli bagnava le labbra con dell'acqua fresca, e si sentiva un animato
chiacchiericcio. Non fece in tempo a battere le palpebre, che la
faccia grossa e congestionata di Kiba apparve nel suo campo visivo.
Sembrava più galvanizzato del solito.
«Ehi,
francese! Ti abbiamo ripescato che eri quasi morto, sai?»
Socchiuse
gli occhi, corrugando le sopracciglia in un moto di dolore. Avrebbe
voluto che lo lasciassero lì.
«Lui,
lui c'era?»
«"Lui"
chi?»
Non
rispose. La gola gli faceva male come se qualcuno ci stesse
stringendo un cappio.
«Ehi,
non fare quella faccia triste! Siamo tutti dispiaciuti per quello che
è successo a Naruto, ma... eh, la vita va avanti. E poi,
Luigi VII
ha deciso di ritirarsi. Capito? Ce ne andiamo!»
"Lui,
però, non se ne andrà. Lui rimarrà per
sempre qui".
***
1149
d.C.,
Provenza
Fermò
il percorso della lacrima con le dita, raccogliendola sulle strette
lamine d'acciaio che gli coprivano le falangi. Per un attimo
brillò
come un diamante alla luce del Sole, prima che la scotesse via come
una goccia di pioggia da poco conto.
Eppure,
in quella lacrima c'era tutto.
Tutta
la sua sofferenza, tutti gli avvenimenti funesti degli ultimi mesi,
condensati in una minuscola unità di acqua salata. Acqua...
da
quanto tempo non ne beveva un sorso? Si sentiva terribilmente
assetato, ma non era sceso a nessun pozzo per bere: più si
avvicinava alla sua terra natale, più le sue forze venivano
prosciugate. Che poi, la sua terra natale, Gaara non l'aveva mai
tenuta in nessun conto.
Gliel'aveva
fatto notare anche Naruto, accarezzandogli i capelli, in una notte
che pareva passata da anni e anni e invece non c'era stata che pochi
mesi prima.
"Sai,
tu sei come Achille..." aveva
detto, la mano ruvida che scorreva tra le ciocche sanguigne con una
lentezza piacevolissima, le gambe intrecciate alle sue "...
tu hai abbandonato la tua casa per una guerra nei cui ideali non
credi davvero. E hai trovato qualcuno da amare".
«Amare?»
«Achille
amava Patroclo. Fu una triste sorte, quella di Patroclo, visto che
morì sotto i colpi del peggior nemico dell'amato».
«E
tu morirai?»
«Io?
Ah, no! Sono troppo forte per morire in questa guerra. E sono anche
troppo bello!»
Singhiozzò,
aggrappandosi alla sella.
Gli
faceva male il petto, di un dolore profondissimo e insopportabile.
Non ce la faceva più.
Non
poteva continuare così.
Lanciò
uno sguardo assorto al sole. Ormai era completamente tramontato,
fatta eccezione per una sottilissima striscia rossa che ancora
resisteva, all'orizzonte. Attese finché non fu scomparsa
anche
quella.
Poi,
lentamente, si lasciò andare.
Allentò
la presa delle ginocchia, abbandonò le braccia lungo i
fianchi.
Il
peso dell'armatura fece il resto.
Cadde
dalla sella senza un lamento, impattando contro il terreno con un
rumore di ferraglia scossa. Perché non era che quello, in
fondo, un
armatura piena di carne morta. Una gabbia arrugginita che presto
sarebbe rotolata via con il vento.
Espirò,
pacatamente, sollevando una nuvoletta di polvere, rilassò
tutti i
muscoli del corpo.
Il
cavallo non si era fermato. Procedeva innanzi, sempre più
piccolo e
lontano e confuso con le ombre cupe della notte; aveva lasciato
indietro il suo padrone, colui che lo aveva ricondotto a casa. Forse
perché anche lui aveva capito, ormai, che non c'era
più nulla da
portare.
Che
quel peso, cagione di costante afflizione, aveva finito per diventare
qualcosa di inerte, morto e svuotato. Qualcosa che a stento si poteva
definire vivente.
E
annaspò, Gaara, colpito dall'enormità di quella
rivelazione. Si
aggrappò alla terra con le ultime energie rimastegli,
sperando in
una grazia, nella redenzione. Poi, scosso da un tremito, fiaccato da
malattie che lo squassavano e privato di ogni forza, si
ribaltò
sulla schiena, osservando il blu cupo del cielo con entrambi gli
occhi bene aperti, fissi.
E
rimasero così per molto tempo ancora, quegli occhi,
acquemarine
opache, turchesi scheggiate da un gioielliere grossolano che era
stato capace di distruggerne completamente la bellezza. Perse in
azzurro così diverso da quello che realmente bramavano, da
conservare nelle loro profondità morte un alone di
infelicità.
FINE
_Angolo
dell'Autrice_
Madò,
questo sì che è stato un parto! Storia
più sfiancante non l'avevo
mai scritta, giuro... ed è anche un pairing abbastanza
insolito per
me (che mi concentro o sui crack!pairing o sul SasuNaru, fanon per
eccellenza). Dunque, spero che questa interminabile ed inconsueta
oneshot sia piaciuta a tutti coloro che l'hanno letta, anche a chi
non commenterà (pure se una recensione di due righe buttata
lì non
mi farebbe schifo, eh), ma soprattutto spero di non aver causato lo
sdegno della sezione GaaNaru/NaruGaa del fandom per l'intollerabile
ammontare di OOC e stronzate che sono riuscita a stipare in appena
ventotto pagine di storia.
Chiedo
venia.
Tutta
colpa del folk irlandese.
Comunque,
miei prodi, ci vediamo al prossimo aggiornamento di Prototype (e
ormai è ora, direi!).
See
you soon,
Roby
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