Normalmente,
si metteva lì.
Apriva, guardava fuori,
richiudeva e si sedeva.
Le giornate,
così, passavano l'una uguale all'altra.
Libri, ammucchiati qua
e là in pericolanti assembramenti, formavano delle
entità di tutto rispetto, nella sua stanza.
Cataste qua e
là vagamente ordinate, pagine e pagine, chilometri
d'inchiostro e di pensieri di persone che, ne era sicuro, nemmeno
sospettavano della sua esistenza.
A lui non importava
però, proprio no; si metteva là, sulla poltrona,
leggeva svogliatamente e rimetteva i libri sulla catasta. La loro
catasta, mica una presa così a caso.
E pensava.
Leggeva,
s'immedesimava, pensava, soffriva, gioiva, finivano i libri e il
trasporto per quei personaggi, a lui così vicini per quel
lasso di tempo, riecheggiava nella sua mente, solo ancora per un po',
poi, poco a poco, si spegneva assopendosi sempre di più.
Così
ricominciava a leggere. Lettera dopo lettera, parola dopo parola, frase
dopo frase, pagina dopo pagina. Libro dopo libro.
A volte, piano piano,
idee lo prendevano sempre di più, fino ad avvolgerlo
lentamente, felicemente, facendolo addormentare in un mondo che non
esisteva.
Normalmente, queste
idee, stupide idee, erano ragazze.
Andava a periodi.
Venivano in mente
lentissimamente, un particolare che si ampliava sempre di
più, fino poi a scorgerne la totalità.
Si lasciava pervadere
da loro. Annullava i sensi, dimenticava la vita, sopravviveva.
Allora immaginava gli
occhi. Partiva sempre da lì.
Gli occhi, quando avevi
quelli, poi facevi tutto.
Partiva con gl'occhi
dunque, in quel caso erano nocciola, ma non nocciola chiaro, no,
qualcosa di più sfumato verso il marroncino. Nocciola scuro
insomma.
Poi, era la volta del
naso. Non troppo perfetto, leggermente piccolo, ma piacevole; sbrigato
anche questo, risaliva alla fronte, giusta si sarebbe detto,
né troppo spaziosa né troppo piccola.
Dopodiché
su, ancora più su, fino ai capelli. Lisci, liscissimi, d'un
color corvino che ti prendeva, si faceva fissare, e tu, imbambolato
rimanevi lì, ci avresti potuto passar ore, a guardare, anche
solo un poco. E lui ci perdeva un po' di tempo a dire la
verità, perché c'erano cose che non capiva. Come,
ad esempio, potessero avere, anche se corvini, quelle strane sfumature
rosse. Allora, verrebbe da dire, non sono corvini, ma lui no,
s'opponeva, sono corvini, diceva, solo che con dei riflessi rossi,
ecco, son solo sfumati di rosso.
Svelato il mistero.
Era un tipo strano,
sì. Mappe mentali su ragazze, ma solo a periodi.
Quindi, passava alla
conclusione, il sorriso e le guance.
Le guance erano un po'
magre, ma il giusto insomma, quando sorrideva le venivano le fossette e
le si tiravano gli occhi.
Ci si perdeva sempre
lì dentro.
Poi la bocca.
Labbra sottili, rosee,
leggere, di quelle che ti facevano fare sogni delicati, anche
perché, se sorrideva, rivelava un mondo dentro sé
che non sospettavi.
Così,
sorrideva, e tu, povero stupido, perdevi la testa.
Ma non si fermava qui.
Vergognandosi, chiedendo scusa mentalmente anche, arrossiva persino,
decideva di scendere un po', a esplorare parti che lui, così
com'era, non avrebbe mai e poi mai visto più.
Oramai la incontrava
solo nei ricordi, come avrebbe fatto a vederla di nuovo
così, vera?
Non poteva, quindi
chiedeva scusa alla ragazza dei suoi ricordi e andava giù,
infischiandosene della vocina che gli diceva di non continuare.
Allora passava al
collo. Uno di quelli delicati, bianchissimi, uno di quelli che pensi
che se venisse un soffio di vento, c'avrebbe rimesso la testa. E invece.
Una curva dolce faceva
passare tutte le sue emozioni da uno stato di ammirazione a uno di
segreto desiderio e gelosia.
Scendeva ancora: le
spalle.
Delicate anche quelle,
nel complesso era una ragazza fragile insomma, ma non se ne curava
più di tanto. Scendeva lui, non faceva altro.
delicate quindi,
bianche pure, non molto larghe, anzi.
Dopodiché
diventava ancora più rosso. S'infiammavano proprio le sue
guance, chiudeva gli occhi e sognava.
Chiedeva scusa ancora
una volta, e proseguiva.
Pensava a quei seni
pieni che non avrebbe mai e poi mai toccato, anche volendolo, preferiva
immaginare lui, immaginare e struggersi per qualcosa che avrebbe avuto
mai. Mai.
Era così
bianca nei suoi pensieri, fragile, bella, bellissima.
Scendeva poi
velocemente a quella pancia piatta, quasi da bambina, e via
via alle lunghe gambe, fino ai piedi.
E finiva col
distruggersi ogni volta, non pensava ad altro, pervaso com'era dalla
punta del suo naso a quella delle dita delle sue mani, affusolate.
Apriva gli occhi, ormai
velati di lacrime, i ricordi facevano quest'effetto, in fondo era come
un'allucinazione, non poteva parlare, men che meno guardarla, era
già un delitto immaginarla così.
Pensava alle cose che
facevano assieme, le risate e tutto il resto, a quella volta che aveva
detto per sempre, quando tutto sembrava felice.
È
così che va, ti dicono non dimenticarmi, proprio
perché sanno che un giorno, non necessariamente lontano, nel
caso dovesse finire tutto, riusciresti a farlo, dimenticare tutto.
Più il tempo
passava più la sua mente faceva fatica a ricordarne il
volto, gl'occhi, tutto.
Dimenticava.
Spiava dalla serratura
dell'oblio dei sensi cose che si allontanavano, sensazioni che lui non
avrebbe mai e poi mai ricordato più.
Allora si alzava e
riguardava fuori dalla finestra, la nebbia non gli faceva vedere niente.
Immaginava.
Immaginava di vivere.
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