Capitolo 11
Leggera saliva la sabbia nell'aria bollente.
Dapprima si smuoveva, lieve, iniziando a danzare e levitare, con grazia
- guidata dalla naturalezza dell'oggetto che non si cura affatto di
stare infrangendo i principi primi della fisica, ma si limita ad
obbedire a quella forza che, dal nulla, gli dona le ali.
Galleggiava, risaliva lenta - come le bolle di vapore nell'acqua:
più il tempo passava, più smuoveva impetuosa. E
quando la sabbia pareva finalmente bollire nell'aria, aggressiva e
fiera, ecco che s'alzava un rumore, lieve, lontano: una risata
infantile, quasi ancora un vagito, o poco di più. Poco
durava: moriva in gola, un isto, uno solo, prima che il suono di uno
schiaffo secco ne punisse la nascita, l'esistenza sola.
Allora la sabbia cadeva: inanimata, ritornava parte del deserto
rovente.
Il fruscio dei granelli carezzava le dune, sino al rinnovato silenzio,
sordo, ovattato - anche il vento, ivi, taceva.
Ricominciamo, diceva poi una voce.
E così era da anni, nel deserto più profondo e
denso della regione del vento.
***
Dalla fossa dell'avamposto, schiacciata contro la parete che donava
l'unico lembo d'ombra in tutto l'accampamento, Hana manteneva fisso ed
immobile lo sguardo su Itachi. Il bambino fissava lontano, l'occhiata
lunga - palesemente ben più lunga del normale: sul volto
liscio e rotondo non compariva nemmeno l'idea di un pensiero, di un
cruccio.
Era curioso come Itachi non riuscisse assolutamente ad abbronzarsi, a
dispetto degli altri. Certo, sul collo si intravedeva la linea di
demarcazione fra la parte di pelle esposta al sole, più
scura, e quella protetta dalla divisa; ma ciò nonostante il
bambino rimaneva candido, quasi perlaceo, rilucente sotto i raggi del
sole del mezzodì.
Fa caldo, pensava la ragazzina.
Diamine, quanto fa caldo.
Ma nulla sembrava turbare Itachi.
Assolutamente più nulla.
Hana espirò, socchiudendo gli occhi.
Devi lasciar perdere, si continuava a ripetere. E' a un altro livello.
Non lo puoi capire.
Nemmeno lui si capisce.
Ancora tre giorni.
E il sole picchiava.
***
Il silenzio era rotto unicamente dalle fronde mosse dal loro incedere,
lento e a tratti titubante nella selva da cui, a stento, traspariva il
sole. I fiati degli uomini, regolari, si addossavano l'un l'altro,
producendo un rumore quasi notturno: respiri silenti, pochi movimenti,
e il silenzio.
Il silenzio invadeva le loro menti, mentre gli occhi cercavano di
distinguere forme e colori nell'eterno susseguirsi di verde e marrone,
di legno e foglie, e liane, e un fiore ogni tanto, svampito.
Uno dei Custos deglutì.
Il manipolo si immobilizzò, le mani salde sulle proprie armi.
Il silenzio, nella foresta, stava diventando talmente intenso da
tramutarsi in uno stridio martellante che penetrava le loro orecchie,
tese, vigili, attente - anche troppo.
Non c'era più nulla, attorno a loro. Ogni essere vivente che
avesse l'opportunità di farlo se n'era andato da parecchio
tempo. Neanche il vento, nella foresta così fitta, riusciva
ad entrare: neanche un alito, se non quelli del loro fiato, smuoveva
l'aria o le foglie.
L'adrenalina punge sulla lingua, quando salti.
Metallica, acida.
Un boato acuto e greve al contempo li investì, lanciandoli a
terra e scuotendo il terreno. Ringhiò potente e breve,
comparendo dal nulla, sparendo nell'abisso del silenzio.
Quando il primo di loro riaprì gli occhi, un insetto fremeva
vicino al suo orecchio.
Si voltò sul terreno fangoso, di terra e di sangue.
Si rialzò a fatica, troppo rintronato per capire quale parte
del suo corpo era intera e quale no.
Un fischio lontano, e il fruscio di una fronda. Cinguettava,
lassù.
Quanto tempo era passato?
Quanto tempo era rimasto disteso, inerme, sul fondo di quella foresta ostile?
Espirò.
E più riacquistava tutti i suoi sensi, più si rendeva conto che
il suo era l'unico respiro umano rimasto.
***
Non aveva avuto il coraggio di avvicinarsi a lui da quando era comparso
il Rector, suo tutore, a fargli la predica. Perché doveva
essere una predica, quella che gli aveva fatto. Magari anche corredata
da qualche frustata – sarebbe stato più che
logico, nella sua mente.
Da allora, Itachi sembrava essere solo.
E' perché – si ripeteva Hana – io ero
l'unica che andava ad importunarlo, e adesso che non ci va
più nessuno...
Inutile darsi tanta pena: Itachi era sempre stato solo –
educato solo, combatteva solo, decideva da solo – mangiava
solo. Se non gli si andava vicino, restava solo. E, detto in grande
onestà, non è che sembrasse soffrire tanto quella
solitudine. O almeno, non cercava di porvi rimedio in alcun modo
– ed anzi, spesso alla ragazzina la sensazione che dava
Itachi era quella di essere infastidito da lei.
Sensazione, chiaro.
Cosa realmente pensasse il bambino...
Hana scosse il capo – era frustrante rendersi conto che un
bambino di nove anni era diventato, da giorni, praticamente l'unico
pensiero che le aleggiava in testa. Ripercorreva circolarmente gli
stessi ragionamenti, senza giungere mai a un punto, senza mai
concludere nulla – ritrattando, ripensando, ponderando senza
scopo alcuno.
"Mmh" – mormorò a se stessa,
schioccando poi la lingua sul palato e prendendo la calibro 45 fra le
mani – tanto che far qualcosa che non fosse pensare al Povero
Piccolo Itachi: questa era l'immagine, chiaramente distorta, lo sapeva, che andava costruendosi. Che sciocca, Hana. Che sciocca.
Qualcosa, di fatto, era realmente cambiato nel bambino. L'immagine
della solitudine le era arrivata solo dopo, solo nell'ultimo periodo
– e questo voleva dire che qualcosa, qualche piccola cosa,
che ora c'era mentre prima non c'era, le aveva indotto questa
sensazione.
Strofinò il calcio della pistola, notando, con fastidio, un
granello di sabbia che si era incastrato nella scanalatura fra l'una e
l'altra metà dell'arma.
"Hana."
La ragazzina ignorò il suono che le aveva infastidito le
orecchie, rimanendo, imperterrita, a cercare con minuzia di pulire il
maledetto granello.
"Hana!"
"Sht!"
"Ma che Sht,
agricola! Jiraiya si sta avvicinando, mettiti in fila!"
La ragazzina sussultò, rimettendo rapidamente l'arma nella
fodera e andando a prendere posto.
***
Il sole tangeva la linea dell'orizzonte, ondulata, pronto a sparire
dietro di essa. Da quell'angolazione la luce era quasi accecante, il
sole ancora forte nonostante filtrato dall'aria tersa del deserto.
Itachi doveva guardare di lato, o obliquamente, per poter osservare
cosa avveniva in quella direzione: gli occhi socchiusi, cercava
costantemente il punto buono, abbastanza vicino da poter vedere,
abbastanza lontano da non ferire gli occhi.
Era uno degli infiniti esercizi che da giorni si costringeva a fare,
memore, per quanto riguardava questo in particolare, di quanto Jiraiya
gli aveva fatto notare nello stanzino degli aspiranti Philosophi: i
suoi occhi non erano perfetti, doveva prestare attenzione. Doveva
allenarli – quelli, e se stesso. E si allenava, in
continuazione, ogni momento era buono, ogni evento era un'occasione da
sfruttare per tenere sempre la mente occupata, per avere sempre
qualcosa a cui pensare – qualcosa che non fossero Loro.
Loro, i Bellatores, che sostavano due metri più indietro:
grossi, immobili, attendevano ordini o lo svilupparsi degli eventi.
Ma il sole calava, e poco accadeva.
Non doveva pensare, non doveva considerare – doveva agire, e
basta.
E migliorare.
Per questo, da giorni, Itachi era solo: solo con i suoi esercizi, le
sue attenzioni, il suo obiettivo: diventare migliore, essere migliore.
Di tutti? Oh, no, questo non aveva importanza.
Ed anzi, era piuttosto semplice.
No, Itachi doveva essere migliore di se stesso, del sé del
giorno prima, dell'ora prima, del minuto prima.
Un istante dopo l'altro, Itachi doveva erigersi, uscire dalla fossa,
costruirsi, fare, non pensare, Itachi: fai, sii, agisci. Non ti curar
di Loro.
Non pensare a Loro.
Due metri, fra lui e Loro. Da giorni.
Lo sguardo lontano.
Non li guardare.
Non osservare le loro cicatrici sul corpo, segno di mille battaglie,
vinte o perse – ma da cui, in un modo o nell'altro, erano
usciti vivi.
Il sole scomparve – la notte camminava sulla sabbia, non
linea netta, ma quasi, nell'atmosfera così poco umida, secca.
Itachi sbatté leggermente le palpebre.
***
Hana varcò le porte scorrevoli dell'Effluxum, cercando,
rapida, un posto dove potersi finalmente sedere in santa
comodità. Sprofondò nel sedile, la colonna
vertebrale aderente all'imbottitura – ah, sì: che
diamine, Questo voleva dire stare Seduti. Espirò, rumorosa,
i muscoli che le si rilassarono improvvisamente in corpo, lasciandola
lì, molle, a godere della sua Comodità meritata.
"Due
perdite – " tuonò la voce di Jiraiya, intento a
camminare per il corridoio, un foglio di carta in mano, incombente, al
solito. Hana non ci badò troppo, impegnata a riappropriarsi
della sensazione del tatto, di cui si era vilmente sbarazzata nei
giorni precedenti, quando questo non sapeva dargli nessun altro
messaggio che non fosse 'hai sabbia dappertutto, sei sudata, fa caldo,
appiccicoso – fastidio, fastidio, fastidio'.
"Inutile ribadire che non
è stato merito vostro perderne così
pochi rispetto alle stime iniziali – dato che, senza Itachi,
l'intero plotone sarebbe stato dimezzato. Non voglio mai più
vedere niente del genere, non potete sognarvi di farvi
parare il fondo schiena da un Custos – il fatto che uno con
l'esperienza di Itachi fosse nel gruppo degli iniziandi era pura
coincidenza. Avete giocato sporco, con la balia – Itachi vale come Genma, per voi. E a me non piacciono gli iniziandi che dipendono dai Custodes – significa che l'annata è alquanto scadente."
Hana manteneva gli occhi socchiusi: da tutto il discorso, l'unica
parola che aveva realmente colto era stata 'Itachi'. Riaprì
le palpebre, guardandosi attorno, la schiena rizzata per vedere meglio:
dov'era Itachi?
"Non avete idea
di quanto vorrete morire nei prossimi mesi – o per lo meno,
se i Rectores
si degneranno
di seguire le mie direttive."
L'astio serpeggiava nelle parole dell'uomo.
Di Itachi nessuna traccia.
Ovvio.
Itachi era Già un Custos – lo aveva detto Jiraiya
or ora. Anche se non lo era, per via dei guanti – che Hana
ricordava ancora essere neri.
Tralasciò la serie di incoerenze. Tanto era tutto
incoerente, a prescindere.
"Se quando vi riprendo vi ritrovo ancora così dannatamente
Incapaci, giuro che mi invento un modo per farvi diventare Agricolae
per direttissima."
Le labbra si Hana si storsero, disgustate.
"Piuttosto mi ammazzo –" si lasciò sfuggire, in un
fiato.
"Ottima idea."
Jiraiya parve quasi sputare quelle ultime parole, prima di oltrepassare
la porta dello scompartimento.
***
Tsunade inspirò. E continuò a farlo.
Inspirò mentre elaborava, pensiero dopo pensiero, attimo
dopo attimo, strategie, idee, qualunque cosa.
Tsunade espirò.
Lenta.
Sperando che l'aria nei suoi polmoni potesse non finire mai:
perché, alla fine di quel suo gesto, quando avrebbe sputato
l'ultima molecola di anidride carbonica rimastele nelle vie aeree,
avrebbe dovuto dire qualcosa.
Qualcosa di molto chiaro, di molto efficace, di risolutivo.
E lei, quella cosa, non aveva la più pallida idea di che
potesse essere.
Quanti Custodes ancora da perdere, per guadagnare il demone?
Quanto ancora rischiare?
Lo sguardo del Custos davanti a lei era lo specchio dell'attesa,
bramosa, della tattica risolutiva. Lui credeva ciecamente in
ciò che sentenziava Tsunade.
Era Tsunade che iniziava ad avere i suoi dubbi.
Ma quei dubbi dovevano sparire – e, se non lo facevano loro,
ci pensava l'espressione pacata, inespressiva e statuaria del Sommo che
la scrutava da poco dietro il guerriero: le mani congiunte, rugose, il
volto immobile.
Lui, invece, sapeva.
Sapeva che Tsunade avrebbe trovato una soluzione.
Non esisteva alternativa.
Gran cosa è la speranza – nel disastro, essa
può essere tradita. Per quello nell'Ignis Regio
s'è disimparato da secoli a sperare – non porta
alcuna garanzia. Pochi ancora – infantili, forse –
osano far rilucere gli occhi sperando che qualcosa possa avvenire.
Il Globus non spera.
Il Globus pretende.
Senza fretta, senza affanno: il Globus si limita a sapere che quel
qualcosa avverrà, perché è un tuo
problema farlo avvenire, e, se non avviene, non sarà
più un tuo problema, per un miliardo di motivi che
è meglio non affrontare in modo diretto.
Infinite sono le strade del Globus.
Dunque Tsunade pretende.
Tsunade sa
che c'è un modo. Deve esserci. Perché
così vuole il Globus. Perché così vuole lei –
si convince.
Abbassa il capo, in quello che sembra un cenno d'assenso.
"Faremo così", inizia.
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:) sono tornata...
non ho molto da dire, al momento. Sono parecchio rintronata... spero
che il capitolo non sia troppo lento – purtroppo le mie
ultime letture mi hanno influenzata tantissimo, l'ho decisamente
notato. Comunque anche se Appare lento è ciò che
doveva essere e rientra perfettamente nella linea dei 15.
Un saluto a chi ancora si ricorda che esisto e che esiste questa "fic"
:) ciao!
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