COME DI MANDORLE AMARE
Overture
~ Parigi, 7 febbraio 1871~
La facciata del teatro dell'Opera si stagliava maestosa contro un cielo
privo di stelle.
Erano più di due anni che il duca Mariano Giusso mancava
dalla Francia. Vi era tornato per un viaggio di piacere e gli era parsa
mutata.
La Nazione che aveva riscritto il destino dell'Europa stava tentando di
mandare via il sapore amaro della sconfitta militare contro la Prussia
e la voce del cambiamento soffiava nell'aria come il fumo dalle
ciminiere delle fabbriche. Il duca lo sapeva, poteva quasi sentirlo,
dopotutto egli stesso proveniva da un Paese che in quegli anni ancora
tentava a fatica di tenere insieme i pezzi di una bandiera che a volte,
a qualcuno, sembrava essere costata più di quanto valesse.
I rintocchi delle campane di Notre Dame batterono le otto di sera e il
duca ricacciò indietro quei pensieri. Luisa, sua figlia, si
strinse un po' più forte al suo braccio e gli
indicò un manifesto che la pioggia aveva cominciato a
scolorire.
«Oh, c'è un nuovo spettacolo stasera all'Opera, il
Don Juan Trionfante. Non ricordo di averne mai sentito
parlare» commentò il duca, lanciò una
lunga occhiata alla fila che si era accalcata davanti all'ingresso del
teatro e scrollò le spalle.
Sua figlia lo strattonò leggermente per la manica del
cappotto e additò l'Opera Populaire. Luisa aveva dodici
anni, non parlava, era muta dalla nascita, ma sapeva come farsi
intendere.
«Vuoi andarci?» chiese suo padre. «Ma,
cara, non troveremo posto, ormai».
Luisa sorrise con fare incoraggiante.
«Tentar non nuoce, hai ragione» convenne l'uomo.
«Ma questa volta, per amor del cielo, stammi
vicino».
La giovinetta annuì con un energico cenno del capo. Il duca
la scrutò di sottecchi mentre attraversavano la piazza e lei
tentava di affrettare il passo.
«Non so se avremo il piacere di imbatterci di nuovo nel
nostro strambo amico» aggiunse l'uomo. Luisa finse di non
aver sentito.
Come il duca aveva previsto, non c'era più posto. La
biglietteria aveva chiuso, esibendo un cartello che avvisava del tutto
esaurito i numerosi spettatori ancora accalcati davanti all'ingresso.
La folla cominciò lentamente a disperdersi.
«Sarà per la prossima volta, magari»
disse il duca.
Luisa sospirò e si diresse comunque verso l'ingresso del
teatro.
In quel momento una fila di gendarmi armati di baionetta
salì le scale ed entrò con discrezione da
un'entrata secondaria. Il duca aggrottò la fronte perplesso,
non pensava che l'agitazione cittadina fosse giunta fino a quel segno.
Ammesso che fosse quello il motivo della presenza dei gendarmi ad uno
rappresentazione teatrale.
Luisa trascinò suo padre fin dentro al foyer, pieno di
persone che attendevano di poter prendere posto.
Il duca posò una mano su quella della bambina, rinnovando
tacitamente la raccomandazione di stargli vicino. Non gli piaceva
quella confusione e non era certo che sua figlia avesse imparato la
lezione riguardo al non andare in giro da sola in luoghi affollati e
sconosciuti.
«Credo che potremmo anche andarcene» disse lui, con
una punta di apprensione nella voce. Luisa gli rivolse uno sguardo
quasi implorante. Ah, se fosse stato un po' meno incapace di resistere
a certi sguardi di sua figlia! Non aveva ben capito cosa lei si
aspettasse da quella visita, ma all'improvviso scorse una figura in
nero che si muoveva tra la calca, scivolando senza fatica tra i crocchi
di signore imbellettate e le file di gentiluomini in doppiopetto. Dopo
qualche minuto la figura imboccò la porta e uscì
all'aperto.
Non ci fu bisogno di attendere che Luisa lo trascinasse. L'uomo e la
bambina si fecero strada a fatica per uscire. Fuori il freddo sembrava
essersi fatto un po' più pungente.
La figura in nero era appoggiata a una delle colonne di marmo, sembrava
quasi che sperasse di confondersi con le ombre del porticato e sparire
nel nulla in mezzo al buio della sera. Respirava con un certo affanno e
il respiro le si condensava in fugaci boccate di fumo.
«Madame Giry» chiamò il duca.
La donna sobbalzò con così tanta veemenza che
l'uomo quasi temette di ricevere uno schiaffo in viso.
«Monsieur
Giussò?»
disse la donna con un filo di voce, portandosi una mano al petto.
«Perdonate, non volevo spaventarvi. Io e mia figlia vi
abbiamo vista...».
Lei spostò nervosamente lo sguardo tra l'uomo e la ragazzina,
«Voi e vostra figlia assisterete alla
rappresentazione?» domandò dopo qualche istante di
silenzio.
Al duca parve curiosamente allarmata. Era anche un po' più
vecchia di come la ricordava, i due anni trascorsi dall'ultima volta
che l'aveva vista sembravano aver lasciato un segno eccessivamente
pesante sul bel viso della direttrice del balletto dell'Opera
Populaire, come se il tempo fosse stato scandito da preoccupazioni e
problemi.
«Oh no, madame. Non abbiamo trovato posto» le
rispose in un ottimo francese. Dal rapido cenno di assenso che madame
Giry gli rivolse, gli parve quasi che ne fosse sollevata. E comunque,
cosa stava facendo lì fuori al freddo?
«Vi sentite bene?» aggiunse il duca.
Madame Giry restò a guardarlo per lunghi secondi, come se
lui le avesse rivolto una domanda troppo complicata.
Era il freddo che le aveva inumidito gli occhi, o la donna stava per
piangere?
«Oh, monsieur... sta per accadere qualcosa di
terribile!» dichiarò infine madame Giry, agitando
le mani in un gesto colmo di disperazione.
Luisa ebbe un fremito e mosse le labbra come a voler pronunciare un
nome che sembrava esserle rimasto incastrato in gola.
«Sì... si tratta di...»
farfugliò la donna.
«Di Erik» terminò il duca per lei in
tono grave.
*******
~ Parigi, 24 maggio1869 ~
Luisa si era chiesta più volte se Dio potesse ascoltare lo
stesso le sue preghiere, anche se lei non poteva formularle ad alta
voce. In quel momento quel dubbio l'assalì più
forte che mai, poi si ricordò della sua governante che le
aveva spiegato che Dio ascolta i cuori e non le bocche, e si
sentì un po' più sicura: per come gli martellava
nel petto, il suo cuore stava certamente urlando e qualche angelo di
passaggio avrebbe sicuramente potuto udire le sue preghiere anche se
era lontanissima dal cielo. Più lontana di quanto fosse mai
stata.
Il buio sembrava essere solido come cemento, tanto da toglierle il
respiro. Era molto improbabile che qualche angelo potesse passare di
lì, ma la bambina preferì non pensarci.
Se anche l'avesse sentita, forse Dio non l'avrebbe aiutata
perché era stata cattiva. Non avrebbe dovuto allontanarsi da
suo padre, non avrebbe dovuto mettersi a gironzolare da sola per i
corridoi del collegio del teatro dell'Opera. È solo che
aveva visto quelle giovani ballerine andare da qualche parte ed era
curiosa di avvicinarsi a loro, per vedere se magari quelle scarpine di
raso avessero le ali da permettere a chi le indossava di fare salti e
piroette così leggiadre e portentose.
E alla fine si era persa.
Aveva sentito dei rumori e aveva pensato di seguire i suoni per
ritrovare la strada. Di certo, se c'erano dei rumori, c'erano anche
delle persone e queste persone avrebbero potuto riportarla da suo
padre. Ma i suoni si allontanavano e lei non aveva voce per chiamare,
doveva per forza raggiungere la fonte del rumore, perché da
qualche parte doveva pur essere... in fondo a quel corridoio polveroso,
di certo... e allora come mai il corridoio finiva in un vicolo cieco e
non c'era nessuno? Era sicura che era da lì che provenivano
i rumori, non potevano mica venire da dentro le pareti!
Forse si era sbagliata, non c'era proprio nessuno lì. Anzi,
a giudicare da ciò che aveva visto, non c'era stato nessuno
da molto, moltissimo tempo.
Quella zona del collegio era rimasta abbandonata durante i lavori di
restauro. Aveva sentito il signore in livrea parlare a suo padre del
restauro del palazzo dell'Opera e delle leggende sui cunicoli e sui
passaggi segreti che erano stati usati durante la Rivoluzione Francese.
Aveva gironzolato per un po' in quelle stanze abbandonate, nella
speranza di trovare la strada per tornare indietro. Poi era caduta.
Non sapeva come, quasi non si era accorta del pavimento che
semplicemente le era sfuggito da sotto i piedi, come se ci fosse stata
una botola.
Ma le
botole non si aprono da sole...
Se Dio non l'avesse ascoltata, allora non lo avrebbe fatto nessuno.
In mezzo a quell'oscurità pesante e appiccicosa come una
coperta bagnata, Luisa aveva sentito voci allarmate che chiamavano il
suo nome e aveva realizzato con sgomento non solo che non era in grado
di rispondere, ma anche che quelle voci erano lontanissime, molti metri
sopra la sua testa.
Forse era già morta ed era finita giù
all'inferno, perché aveva disobbedito a suo padre che le
aveva raccomandato più volte di non allontanarsi da sola.
La bambina si fermò e stese le braccia, cercando a tentoni
un appiglio al quale reggersi per provare a camminare. C'erano delle
pareti sia a destra che a sinistra, come in un corridoio.
Picchiò i pugni e prese a calci quei muri fatti di pietra
gelida nella speranza di produrre abbastanza rumore da farsi sentire.
Si graffiò le mani ma, a parte questo, non successe
nient'altro.
Poi la luce apparve come all'improvviso, una luce gialla che danzava
sulle pareti disegnando in chiaroscuro le irregolarità della
pietra grezza di cui era fatto quel posto.
Era una luce calda, come un fuoco e sembrò asciugarle le
lacrime sulle guance. Era la luce di una fiaccola che si avvicinava.
Ora restava da capire se era un angelo o un demonio quello che reggeva
la fiaccola.
Quando l'ombra si proiettò sul pavimento impolverato, Luisa
pensò che forse si trattava di un gigante e si rese conto di
non sapere se i giganti stavano in paradiso o all'inferno.
Alla fine la bambina pensò che doveva trattarsi quasi
sicuramente di un uomo. Adesso bisognava scoprire se era buono o
cattivo.
Cattivo. Cattivissimo...
fu il primo pensiero che attraversò la mente della piccola
appena lo sconosciuto le si parò davanti. Aveva una
maschera, una mezza maschera di cuoio bianco e solo i cattivi si
nascondo dietro le maschere. E poi era vestito tutto di nero e dal modo
in cui la guardava non sembrava affatto contento di averla trovata
lì.
Però i suoi occhi avevano lo stesso colore del paradiso.
«Chi sei?» chiese l'uomo in tono asciutto e
imperioso. Aveva parlato in italiano, con un forte accento straniero.
Lei deglutì poi si indicò la bocca e scosse piano
la testa come in un cenno negativo.
«Sei muta?» domandò ancora lo
sconosciuto con un'aria quasi sgomenta, come se trovasse la cosa
veramente orribile.
Nessuno usava mai quell'aggettivo con lei, quel signore non doveva
essere una persona molto delicata, proprio no!
Luisa arricciò il naso indispettita e scrollò le
spalle.
«Sei la bambina che stanno cercando»
continuò l'uomo mascherato. Lo sapeva già,
allora, e sapeva anche che era italiana, la figlia del duca venuto a
visitare il teatro. Comunque non le sembrava troppo a suo agio
– e dire che era lei quella nei guai.
La bambina gli puntò un dito contro il petto, come a
chiedergli: e tu chi sei?
Lui sorrise, di un sorriso strano e privo di allegria.
Oltre a essere indelicato era anche maleducato! Avrebbe dovuto
rispondere a quella domanda. Luisa si sentì invadere dallo
sconforto e cominciò a piangere.
I singhiozzi erano suoni bassi e sibilanti in fondo alla sua gola
immobile. L'uomo non sembrò particolarmente dispiaciuto,
solo seccato.
«Smettila di piangere, ti riporterò
indietro» sbottò. Poi aggiunse qualcosa a bassa
voce, tra sé e sé. A Luisa sembrò che
avesse detto: «prima che comincino a raccontare che il
Fantasma mangia i bambini».
L'uomo le fece cenno di seguirla, ma lei non si mosse. Non si fidava
nemmeno un po' di lui e comunque era troppo scossa per muoversi.
Lo sconosciuto sbuffò, poi assunse un'espressione grave e
solenne.
«Un consiglio: non provare a togliermi questa» le
disse indicando la mezza maschera bianca. «O potrei decidere
di lasciarti qui per il resto dei tuoi giorni».
Poi, con un gesto repentino, si chinò su di lei e la
sollevò tra le braccia.
Luisa si dibatté e cominciò a scalciare e a
mulinare i pugni.
«Ssh, calmati» fece l'uomo. La voce gli si era
addolcita di colpo, come se all'improvviso si fosse ricordato che aveva
a che fare con una bambina e che doveva trattarla un po' meglio di come
aveva fatto fino a qualche secondo prima.
Lei lo guardò perplessa.
«Scusami, non mi capita spesso di avere visite»
dichiarò l'uomo. Non si sforzò di sorridere, ma
ora aveva un'aria un po' meno antipatica.
Luisa sbatté le palpebre e cercò di guardare
meglio quel viso mascherato. Era un bel viso, di un uomo adulto ma
ancora abbastanza giovane. Non aveva nessuna espressione particolare in
quel momento, ma sembrava triste, impregnato di malinconia come se vi
fosse stato immerso dentro. Ed era
strano.
La bambina ricominciò a piangere, senza sapere nemmeno bene
il perché.
Ora aveva paura che lui tornasse cattivo, invece l'uomo fece una cosa
piuttosto inaspettata: si mise a cantare. Era una canzone di cui Luisa
non riusciva a capire le parole, ma le parole non le sembrarono
importanti... la voce che le stava spingendo nell'aria era
così bella da farle sembrare poco importante anche il fatto
di essere sotto terra chissà dove, con suo padre che
sicuramente la stava cercando preoccupatissimo.
Non si accorse nemmeno che l'uomo aveva cominciato a camminare,
tenendola sollevata tra le braccia, contro il suo petto. I suoi vestiti
odoravano di profumo costoso e inchiostro.
L'aveva riportata in superficie, in una piccola stanza con un grande
specchio appeso al muro, probabilmente uno dei camerini del teatro.
A Luisa era parso impossibile, ma era sicura che fossero passati
attraverso le pareti, cioè che la parete si fosse aperta,
girando su cardini di ferro, come una porta.
Lui era fermo a fissarla, come a chiedersi che fare perché
la ritrovassero, quando lei urtò uno sgabello che cadde
rumorosamente sul pavimento. Dopo qualche secondo la porta della stanza
si aprì di schianto e suo padre entrò trafelato
nel camerino.
Il lampo che balenò negli occhi dell'uomo mascherato lo fece
sembrare di nuovo cattivo.
Suo padre aprì la bocca come per urlare, ma l'uomo gli fu
addosso egli premette una mano sul viso. Ora Luisa aveva di nuovo
paura.
«Vi ho riportato vostra figlia, signore» disse lo
sconosciuto, sempre con quel suo italiano dall'accento strano,
snocciolando la parola
signore
come se i suoni inciampassero sulla sua lingua. «Il minimo
che possiate fare per ricambiare il favore è fingere di non
avermi mai visto».
La bambina guardò suo padre annuendo, come a voler dare
ragione all'uomo. Il duca non era tipo da lasciarsi turbare dalle
stranezze, e come poteva visto che egli stesso veniva considerato un
po' strambo da chi lo conosceva?
L'uomo scostò cautamente la mano dalla bocca del duca. Lui
lo stava ancora fissando attonito, troppo sconvolto per avere una
qualche reazione. Poi lo sconosciuto si voltò, si
fermò davanti a Luisa e accennò una specie di
inchino, si avviò verso il muro, fece scattare i cardini del
passaggio segreto e sparì.
Luisa e suo padre erano andati a Parigi per un viaggio diplomatico. La
famiglia Giusso era molto in vista nel panorama politico di
quell'Italia ancora in fasce e a loro capitava spesso di viaggiare.
Quando erano a casa, a Napoli, il duca era solito frequentare artisti e
Luisa aveva incontrato molti personaggi insoliti, ma mai nessuno
insolito come quell'uomo.
Gli altri erano strani forse, ma lei, con l'intuito e la ferrea
capacità di ragionamento tipica dei bambini, riusciva sempre
a trovare il capo della matassa della loro vera o presunta follia. Lo
sconosciuto con lo maschera invece era ben al di là della
sua capacità di comprensione, e questo lo rendeva
estremamente affascinante ai suoi occhi.
*******
~ Parigi, 7 febbraio 1871~
A quanto pareva non era cambiato quasi niente, era ancora solo in mezzo
al buio.
Da qualche parte, un rintocco di campane segnò la
mezzanotte.
L'uomo poteva ancora scorgere in lontananza il riverbero rosso
dell'immenso incendio che stava consumando l'Opera Populaire. Il vento
freddo soffiava impietoso sul viso e sul petto lasciato scoperto dalla
camicia di batista ormai sporca.
Il suo teatro bruciava, e anche lui. Malgrado l'aria pungente, sentiva
il sudore colargli lungo la schiena e il calore malsano della febbre
avvolgerlo come un abito troppo stretto.
Non sentiva altro rumore se non lo sciabordio dell'acqua della Senna
che scorreva sotto al ponte sul quale si era fermato. Poggiò
i palmi delle mani sul parapetto di marmo, stordito.
La sua era una mente abituata a pensare, elaborare, calcolare, e anche
in quel momento, dentro la sua testa i pensieri si mettevano in fila,
facendo scorrere uno dopo l'altro i ricordi e le immagini.
C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della
speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e
infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la
stagione della pazzia. Forse il dolore, il rimpianto? No, ogni cosa era
evaporata quando aveva guardato la fanciulla e le aveva detto di andare
via. Mentre Christine si allontanava, lasciandosi alle spalle quella
strana favola che aveva gocciolato lacrime e sangue sui velluti e sui
marmi dell'Opera Populaire, l'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera
aveva sentito la sua stessa anima evaporare.
Non gli restava niente.
«Adesso voi verrete con me». La voce gli trafisse i
pensieri come una lama, un dolore pulsante gli attraversò le
tempie.
Non poteva trattarsi di un gendarme, rilevò Erik, aveva un
accento straniero.
Si voltò lentamente. Non aveva più la sua
maschera, ma non importava. Quella sera ogni maschera era caduta una
volta per tutte.
Scrutò nella penombra la persona che aveva parlato. Non
aveva la forza d'animo di stupirsi nel riconoscere l'uomo che aveva
davanti.
«Venire con voi?» disse con voce flebile e roca.
«E perché mai?».
Il duca Mariano Giusso era sempre stato un tipo singolare. Talmente
tanto singolare da incaponirsi e andare a cercarlo, quella primavera di
due anni prima. Erik, ricordava, si era fatto trovare,
perché se quello stolto avesse continuato ancora a lungo a
cercare botole e passaggi sarebbe finito con il collo spezzato in una
delle sue trappole, o forse addirittura avrebbe finito per farlo
scoprire. E tutto perché sua figlia, la piccina muta, era
convinta che lui fosse una specie di... bah, un angelo con le ali
spezzate o qualcosa di simile. A quanto pare quella di farsi passare
per un angelo era diventata un'abilità innata.
In quelle settimane che il duca e sua figlia avevano trascorso a
Parigi, il Fantasma dell'Opera aveva quasi dovuto fare i conti con la
circostanza di ricevere visite. Non che avesse mai avuto l'ardire di
portare il duca e la bambina fino alla Dimora sul Lago, ma riusciva a
trovare il modo di incontrarsi con Luisa e bearsi per qualche manciata
di ore del sorriso della bambina mentre lo ascoltava cantare.
Erik non era avvezzo a sentimenti come l'affetto e la gratitudine, per
questo non capiva il comportamento della bambina né quello
di suo padre. Eppure, anche se si era trattata solo di una fugace
parentesi nella sua esistenza da esiliato, gli era piaciuta.
Ma questo era stato prima. Quando era... sì, quando era
fragile davanti
alla notte che lo circondava. Prima che decidesse di prendere quella
notte, plasmarla, farne musica e offrirla alla sua piccola, dolce musa.
Era stato prima di convincersi una volta e per tutte che non c'era
posto per lui. Era stato prima del sangue e prima del fuoco. Era stato
anche prima dell'amore.
«Venire con voi? E perché mai?».
Il duca prese qualcosa dalla tasca interna del cappotto.
Erik sentì la vista che gli si appannava, ma riconobbe lo
stesso la sagoma bianca della sua maschera,
«Quella appartiene a un assassino, duca, e di certo a un uomo
ormai perduto» commentò in tono inespressivo, con
la voce ovattata dalla febbre.
«Ho un debito di riconoscenza con voi, Erik»
replicò il duca. «Tempo fa aiutaste me e mia
figlia, e non mi riferisco solo al fatto che l'avete condotta fuori dai
sotterranei. Avete compiuto atti che non posso approvare, ma
c'è qualcosa che devo fare per saldare il mio debito e credo
consista nel non credervi perduto, a prescindere da cosa pensiate di
voi stesso».
«Non credo di avere la capacità di replicare. Non
credo di avere la capacità per fare nulla, in
effetti...».
«Venite con me, vi prego»
«Non mi dovete niente, duca, non c'è alcun debito
da saldare... Lasciatemi in pace». Le parole gli erano uscite
in una fila di suoni strozzati. Il nero del cielo ora aveva invaso
anche la sua testa e ora cominciava ad assediare anche i suoi occhi.
Un attimo dopo il buio vinse tutto e l'ultima cosa che Erik
sentì fu la superficie ruvida del ciottolato contro il quale
cadde.
_____________________________________________________
Here,
I have a note...
Andando per logica, la sera della rappresentazione del Don Juan
dovrebbe essere, più o meno, una serata del febbraio 1871.
Nel marzo di quell'anno sarebbe stata istituita la Comune di Parigi.
Tornare qui è un po' come essere a casa. Ritrovare Erik e
riprendere a scrivere di lui è come rivedere un vecchio
amico al quale non si è mai smesso di voler bene.
Spero che a chiunque passi tra queste pagine piaccia leggere questa
storia anche solo la metà della metà di quanto
sta piacendo a me scriverla.
I
remain, gentlemen, your obidient servant.