C’è stato un momento, una scena de “Il
Ritorno del Re”, che proprio non mi aspettavo…Per me è stata poesia. Continua a
scaldarmi il cuore ogni volta che ci penso. Questa one-shot
è la mia versione personale di quel momento. Forse la protagonista non avrebbe
nemmeno dovuto trovarsi in quel luogo, non avrebbe dovuto fare ciò che sta per
fare…ma credo che questa scelta degli sceneggiatori
della trilogia non sia stata un’offesa all’opera di Tolkien.
Spero che non
vi offendiate nel leggerne questa mia versione.
Caillean
I Giardini di Minas Tirith
Cavalco lentamente,
lasciandomi trasportare da ricordi e sensi di colpa.
Io, che più volte ho
spronato Aragorn a credere nelle sue capacità, a
credere in un futuro, proprio io me ne sto andando da quel futuro.
Cavalco insieme agli ultimi
elfi, verso l’ultima nave pronta a salpare dai Porti Grigi.
Dovrei essere felice,
pensando che rivedrò mia madre…dopo decenni, secoli.
Dovrei convincermi di aver fatto già tutto il possibile.
Dovrei.
“ Non ho più il tuo amore, figlia mia? ”
Se lo facessi, renderei felici molte persone: so che mio
padre, il Signore di GranBurrone, non vuole la mia
infelicità. Ma allora perché non riesco ad evitare di
pensare con rabbia a quel dialogo? Perché lui non capisce quanto
conti Aragorn per me?
“ Il punto non è che lui non lo capisca, Dama Arwen
”, mi ha detto un piccolo, grande amico, questa notte, “ il fatto è che Elrond è un padre. Io non sarei meno addolorato, al suo
posto. ”
Bilbo…Quanta energia, in quelle membra che stanno invecchiando
così velocemente, lontane dal potere dell’Unico Anello. Quanta saggezza, in quella semplicità. Rivedo il suo
volto rugoso, e mi accorgo che le stesse parole avrebbe
potuto dirmele Galadriel, se fosse stata qui a
Imladris.
Ma lei sta combattendo una guerra, a Lothlorien…e
forse è ciò che vorrei fare anche io. Forse mi sentirei viva, non un
soprammobile adatto solo alle antiche biblioteche della mia famiglia.
I cavalli sono docili, sotto
la guida mia e degli altri elfi.
Ho lasciato Asfaloth al suo vero “proprietario”, anche se Glorfindel gli avrebbe chiesto di portarmi senza batter
ciglio. Ma non volevo partire separando altre due
anime che si vogliono bene, fossero anche legate da un’amicizia appena nata.
Così non è tra Glorfindel ed Asfaloth…per
quanto quel bellissimo destriero mi voglia bene, non
potrò mai sostituirmi a Glorfindel, nel suo cuore.
Forse il tempo si arresterà davvero come ho immaginato, una volta salita
sull’ultima nave, e l’immortalità mi concederà di creare con Phanya* un legame altrettanto forte.
E’ una
giornata bellissima, i raggi del sole ci scortano nell’attraversata del ponte.
Ho cavalcato centinaia,
migliaia di volte su queste pietre…il più delle volte l’ho
fatto rientrando da Lorien, sperando di trovare il
Ramingo nelle sale di Imladris. Ora sto abbandonando
tutto questo per sempre, e ho paura di guardarmi dentro, di stabilire il
momento in cui ho preso questa decisione. Ti sei chiesta il perché di questa
tua paura?, mi ripeto. E’ la risposta, che mi
terrorizza: è il dover ammettere che tremila anni di vita non mi hanno portato
il coraggio di guardarmi dentro.
Vorrei che i miei fratelli
fossero qui con me, vorrei poter discutere con loro…Ma a cosa porterebbe, se
non a farmi sentire ancora peggio?
Siamo circa a un quarto del viaggio, quando avverto i primi segnali,
inconfondibili.
Il mio
cuore manca un battito…quel lieve
tintinnare di campanelli non mi lascia dubbi.
E’ accaduto troppe volte a
mio padre, a me e ai miei fratelli, perché possa ignorarlo. Devo mettermi in
ascolto e lo faccio, anche se con crescente agitazione. Per me le visioni sono vortici su altri mondi, difficilmente se ne vanno senza
portare con loro qualcosa di me, qualcosa di molto prezioso.
Faccio fermare Phanya, indifferente agli sguardi curiosi di chi mi sta accanto.
Le mie mani tremano, le mie orecchie sono tese.
E’ allora che lo vedo.
I maestosi tronchi delle
betulle si adornano di riflessi perlacei, poi appaiono sempre più opachi,
diventano simili a pietre grigie…poi bianche, infine sempre più immacolate.
Sono le arcate di un
palazzo, un luogo che non ho mai visitato. Non ancora, mi correggo…Comincio a
sentirle dentro di me, non mi sono del tutto estranee.
I campanelli tintinnano più forte
nelle mie orecchie, mi sembra che tutto il mondo debba essersene accorto…ma so
che non è così. I passi leggeri e la risata del bimbo che corre verso quei Giardini si innalzano soltanto nelle mie orecchie.
Le gambe mi diventano molli, tutto si annebbia ai miei occhi.
Ed io vedo solo lui, l’uomo
che si volta e accoglie tra le braccia la corsa di
quel bimbo.
Sul suo
viso, una felicità che mi scioglie il cuore. Il bimbo si abbandona all’affetto di quell’uomo, ride come un matto quando la barba gli
solletica il collo e le guance.
Li ho riconosciuti ancora
prima di vedere al collo del bimbo la gemma elfica che io ho donato all’uomo. Li
ho riconosciuti ancora prima di vederli rivolgere lo sguardo verso di me.
Gli occhi grigio-verdi di Aragorn mi sorridono, senza
giudicarmi incontrano il mio sguardo…cercano il perché.
Nostro figlio, invece, è
perplesso…meglio, imbronciato. Dentro di me, do voce a quel rimprovero. Come
potrei specchiarmi, accettare la vista del mio stesso sguardo, sapendo di aver
ignorato quell’implorazione di mio…di Nostro figlio?
Qui a
Imladris Aragorn è
conosciuto con un altro nome, Estel. Significa:
Speranza. Quella speranza è il futuro, è la vita di nostro figlio, alla quale
stavo per voltare le spalle.
Sprono Phanya,
chiedendole di tornare indietro. Non mi occorre altro, per rendermi conto
dell’errore che stavo per commettere.
“ Dama Arwen,
la nave…ci aspetta! ”
Non sento il bisogno di
spiegare a nessuno ciò che sto facendo.
Galadriel e Celeborn mi
sosterrebbero, mia madre capirebbe. Papà capirà.
* Phanya
in elfico significa nuvola.
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