There
comes a day when we all find out for ourselves that once we have the
words to say,
there's
no one left to tell.
In
many ways I guess I'll never let you go.
[4:00 am,
Avenged Sevenfold]
Ero
così solo… e ti devo così tanto.
Fa
così freddo. Così freddo.
Tutto
intorno a te ci sono oggetti, cianfrusaglie, i suoi oggetti e le sue cianfrusaglie;
ti circondano minacciosi, vogliono metterti paura, vogliono farti
scappare via urlando, vogliono vederti cadere in ginocchio e piangere
tutte le lacrime che non hai versato, che hai represso.
Perché sei inglese, cristo, e perché non sarebbe
decoroso versarle, perché la gente potrebbe parlare.
Ci
sono libri sparsi ovunque: per terra, sulla scrivania, sul camino;
ricoprono il tappeto come una seconda pelle, pelle dura e rigida priva
di qualsiasi emozione, pelle fredda come il freddo che ti circonda e ti
gela, dentro e fuori, e ti toglie il respiro.
C’è
il microscopio sul tavolo; lo sfiori, lo accarezzi. Accarezzi i punti
metallici che un tempo le sue
dita hanno toccato, accarezzato, venerato; ci poggi gli occhi, proprio
dove lui poggiava i suoi, magari riuscirai a scoprire
qualcosa, a vedere
qualcosa, qualcosa che ti sfugge e che lui ha sempre notato, saputo,
capito. Ma tu non sei lui, non hai i suoi occhi, i suoi occhi
così chiari, analitici, alle volte freddi; non ce li hai,
non li avrai mai, non riuscirai mai a vedere come lui, ad avere la sua
stessa brillante visione del mondo perché semplicemente non sei lui. Non
basterebbe tutto il tempo del mondo a farti diventare come lui, a farti
anche solo somigliare
a lui, perché lui era -è, non smetterà
mai di esserlo- unico al mondo, l’unico consultant detective,
l’unico Sherlock, l’unico coinquilino che avresti
mai potuto desiderare, sperare di trovare, l’unico amico,
l’unica spalla, l’unica luce nei momenti
più bui.
La teiera
giace inerme e solitaria sul fornello spento quasi aspettasse,
attendesse di vederlo tornare, di potergli offrire un tè
caldo, di poter fare qualsiasi
cosa per lui. Stupida teiera, cosa potrebbe mai fare per lui?
Cosa potrebbe fare che tu non abbia mai fatto, tentato di fare, sperato
desiderato agognato di fare?
Il
teschio è sul camino, il suo posto, quello dove è
sempre stato e forse sempre starà; è
lì e ti guarda attraverso le orbite vuote, ride di te con
quel ghigno sdentato e tetro, ride delle lacrime che non hai versato,
del dolore che si è annidato in un angolo nascosto e buio
dentro di te. Ride, e ride, e tutto ciò che vorresti fare
è scagliarlo dalla finestra, cristo, perché lui
prima di te gli è stato vicino, prima di te ha seguito i
suoi ragionamenti, prima di te gli ha riservato mute espressioni di
sorpresa; è stato lì prima di te, e ti domandi
perché diamine dovresti essere geloso di un teschio, cazzo,
ma è così e non sai se puoi cambiarlo.
La sua
poltrona, la sua poltrona di pelle. C’è un solco
impercettibile, un solco lasciato da lui, dal suo corpo,
ma non sarà mai profondo quanto il solco che senza volerlo e
senza accorgersene ha lasciato dentro di te, un solco
immenso, come un grande buco nero che ti porti dentro, così
tanto più grande di te, così incomprensibile,
incalcolabile, indelebile, così scuro e così
tagliente, così forte nel tuo corpo troppo piccolo e umano.
Ti siedi
sulla tua poltrona, ti ci lasci cadere; sei sfinito, non hai
più la forza di stare in piedi, in piedi, lui non
starà mai più in piedi, né seduto,
né qualsiasi altra cosa, perché adesso
è solo un corpo freddo e vuoto chiuso in una schifosa bara
di legno e nascosto sotto centimetri e centimetri di terra scura. Puoi
quasi vederlo, dalla tua poltrona. Puoi vedere la lapide nera,
l’erba verde, la terra sotto ai tuoi piedi e sopra di lui, le
altre lapidi di cui non t’importa niente; solo la sua, per
sempre, dietro ai tuoi occhi chiusi. Solo il suo corpo che cade, ogni
giorno, ogni istante, cade e cade e non smetterà mai di
cadere e tu non smetterai mai di vederlo, e non smetterai mai di morire
schiantato al suolo insieme a lui.
La sua
poltrona è vuota, fredda; è tutto così
freddo e ti senti gelare, cristo, saranno accesi i riscaldamenti?
Sembra di sì, ma è impossibile, impossibile che
faccia così freddo.
E
lui ti guarda dalla sua poltrona, dannazione, ti guarda e annuisce, e i
suoi capelli sono scuri come sempre, i suoi occhi sono più
chiari che mai, la sua pelle è bianca e liscia e
così viva.
E lui ti rivolge un ghigno, ti prende in giro come sempre; puoi quasi
sentirlo, sentire la sua voce profonda che si prende gioco di te, del
tuo dolore, perché il
dolore è uno svantaggio, perché tutti muoiono, il fatto che si
soffra non cambierà le cose, dannato Sherlock,
dannato lui, sempre.
È
così vicino che se solo allungassi una mano potresti quasi
toccarlo. Ma è lontano, è solo un fantasma, solo
il suo fantasma che ti perseguita, che non ti lascerà mai
andare, e se provassi a toccarlo incontreresti solo la pelle
fredda della poltrona che ti raggelerebbe ancora di
più e non ne hai bisogno.
Un sospiro
ti esce dalle labbra e Sherlock davanti a te ride. Sei così umano John,
così umano.
Così
vulnerabile, perché? Non vorresti esserlo, adesso; non
vorresti più essere umano, non vorresti essere vulnerabile,
o soffrire, o respirare, sì, non vorresti respirare
perché fa male, perché non è aria
quella che ti entra nei polmoni, sono migliaia di spilli che ti si
conficcano in gola e la squarciano, dilaniano, la lasciano sanguinante
ed è per questo che non riesci a parlare, parlare, dire il
suo nome.
E vorresti
parlargli. Vorresti, vorresti davvero, ma sei sicuro di farcela?
Coraggio, John, apri la bocca, non è difficile. Parla al suo
fantasma, parlagli, digli ciò che devi, perché
forse solo così riuscirai a liberarti di lui. Ma
è una bugia, oh che bugia!, così grande e
così inutile,
e allora a che servirebbe pronunciarla ad alta voce se tu sei il primo
a non crederci?
Allora ti
alzi in piedi. È inutile rimanere lì, inutile,
completamente inutile se non riesci neanche a dirgli addio,
è per questo che sei venuto qui, no? Dirgli addio, lasciarlo
andare, ma tu non vuoi lasciarlo andare, non puoi, non ci
riesci, cristo.
Percorri il
salotto, quel salotto a te così caro e familiare, quel
salotto adesso così freddo; lo percorri e non ti volti
indietro, non ti volti neanche quando imbocchi la porta e le scale ma
li senti, sì, li senti i suoi occhi fantasma puntati su di
te, lo senti sulla pelle il suo ghigno bastardo, ti scava dentro, si
piazza dentro di te per non andare più via e non riuscirai
mai a cancellarlo, non riuscirai mai a cancellare l’immagine
del suo corpo che cade, che vola,
vola come se fosse finalmente libero.
Prendi la
metro, non hai voglia di salire su un taxi. Prendi la metro e ti siedi
in un posto qualsiasi chiedendoti se anche lui, chissà
quando e chissà perché, si sia mai seduto
lì, su quello stesso sedile freddo, gelido;
chissà se il suo cappotto lo avrà tenuto caldo.
Prendi la metro e lo vedi, lui è lì, seduto sul
sedile vuoto di fronte a te, il bavero del cappotto alzato a risaltare
gli zigomi, la sciarpa scura a proteggerlo dal freddo che sta invece
divorando te. I suoi occhi ti scrutano, chissà se capiscono,
chissà se capisce;
ti guarda interrogativo, il suo brillante cervello non ci arriva. Sembri triste, John.
Perché sei così triste? Non capisce,
il bastardo, e chissà se capirà mai, e tutte
quelle domande scavano ancora un po’, un po’
più affondo nella ferita sanguinante che ti porti dentro.
Chissà se ci ha pensato, su quel tetto; chissà se
ha pensato a te, a cosa avresti provato, a come ti saresti sentito,
chissà se quel pensiero lo ha anche solo sfiorato.
Chissà se quelle lacrime erano vere, o frutto della pioggia
leggera, o della tua immaginazione, sì, la tua
immaginazione.
Scendi
dalla metro e lui cammina accanto a te, alto e magro nel suo cappotto
scuro, e ancora non capisce, il freddo non penetra nelle sue ossa come
nelle tue mentre rivolge gli occhi al cielo grigio e tu vorresti solo
urlare, urlare a squarciagola per far uscire tutto, i coltelli, il
sangue, il dolore e sì, il suo fantasma, vorresti che ti
abbandonasse, che ti lasciasse in pace. È solo
un’altra bugia.
Sembri triste, John.
Perché sei così triste? Stupido,
stupido, stupido bastardo insensibile ed egoista. Vorresti dirglielo
mentre attraversate insieme Piccadilly Circus, mentre il suono della
vita rimbomba tutto intorno a voi e tu neanche lo senti, non senti
niente, solo il silenzio, un silenzio immenso e senza fine che ti urla
nelle orecchie.
Dove stiamo andando, John?
Abbiamo cose più utili da fare, casi da risolvere, criminali
da assicurare alla giustizia. Dobbiamo trovare Moriarty, John, oh,
sì, quell’uomo è un genio ma io posso
batterlo. Andiamo a sconfiggere Moriarty, John, tutto questo
è solo un’inutile perdita di tempo. Questa tua
tristezza è inutile. Smettila di essere triste, non
è logico, non è razionale ed è davvero
molto stupido. Persino mrs. Hudson riesce a non essere così
triste. Basta, Sherlock, per l’amor di Dio
basta, deve smetterla di blaterare, di parlare, perché
così ti fa male, più male, più di
quanto tu possa sopportare. Non senti più niente a parte il
freddo, non senti l’erba sotto ai piedi, o il fruscio delle
foglie sugli alberi, o i rumori, prima li sentivi, ora non puoi
più. C’è solo la sua voce nelle tue
orecchie, non esiste altro se non la sua voce profonda che continua a
parlare, blaterare, e allora ridi, ridi come non hai fatto mai. Ridi
perché sei isterico e vorresti solo dirgli di chiudere il
becco ma non puoi, non ce la fai, perché se lo facesse, se
stesse zitto allora forse se ne andrebbe e ti lascerebbe in pace per
davvero, e saresti solo, non ci sarebbe più lui accanto a
te, chissene frega di tutti gli altri. Lui è la tua unica
compagnia; la sua voce, i suoi occhi, la sua espressione divertita,
incuriosita, qualsiasi espressione abbia dipinta sul viso
andrà bene, andrà bene, perché potrai
vederla e potrai illuderti che lui sia ancora lì.
Si
allontana da te come se un improvviso briciolo di umanità lo
avesse colto, ti lascia solo davanti alla sua tomba, che strano scherzo
del destino. Ti lascia solo con le tue lacrime. Non vuole vederle, non
vuole sentirle, non vuole violare la tua privacy e allora se ne va, si
mette in un angolo lontano, accanto a un albero, e ti guarda e non
parla. Non dice niente, respira piano, le sue labbra sono strette in
una linea sottile; sembra quasi che stia soffrendo, ma
perché dovrebbe soffrire? Lui è Sherlock Holmes,
lui non soffre, non prova emozioni, non prova nulla. Ti guarda con i
suoi occhi di ghiaccio che sembrano celare una scusa e qualcosa gli
scivola sul viso; dev’essere la pioggia, Sherlock non piange,
non lo ha mai fatto, e allora perché dovrebbe farlo il suo
fantasma? Dev’essere la pioggia, sì, la pioggia
fredda che ti cade addosso e sembra voler lavare via il dolore che ti
tieni stretto, quel dolore che è la tua ancora al mondo
reale, che ti convince che sì, lui ti ha davvero lasciato,
non tornerà, era vero, tutto vero, è andato via
per sempre.
Per
sempre, che brutte parole, niente è per sempre, neanche la
morte, o almeno non la sua.
«Ti
devo così tanto…»
Non riesci
a dirgli altro, non ce la fai e basta. Vorresti dirgli che ti
mancherà ogni singolo istante della tua esistenza, vorresti
dirgli che ti mancherà persino il suo sparare contro il
muro. Vorresti dirgli di tornare indietro, di farlo per te,
perché non può davvero lasciarti così,
è crudele da parte sua, ed egoista, molto egoista. No, non
può farlo. Vorresti dirgli che non sai cosa fare senza di
lui, che la tua vita adesso è così vuota, cristo, e tu
ti senti svuotato di ogni emozione, del più piccolo anelito
di vita che ti animava.
Gli
hai detto che eri così solo, prima di incontrarlo, ma non
è del tutto vero. La solitudine era devastante, prima che
quello strambo strambo detective entrasse nella tua vita, prima che ti
sconvolgesse l’esistenza facendoti sentire vivo, vivo sul
serio.
Vorresti
dirgli che lo -no, non ce la fai, non riesci neanche a pensarlo.
È così assurdo, è assurdo che sia
successo a te, assurdo che si tratti di lui, non puoi dirglielo, non
puoi.
Il suo
fantasma ti guarda e non parla, ti guarda e soffre, dannazione
a lui, soffre come forse Sherlock non soffrirebbe mai.
Perché è Sherlock, perché è
fatto così.
E
ti manca così tanto da straziarti il cuore, cristo.
Saluti la
sua tomba, allora, perché forse è meglio andare.
Perché ancorarti a quel marmo nero non ti servirà
a nulla, non ti aiuterà, e di certo non riporterà
indietro lui.
La
saluti, come se pensassi di salutare lui, ma lui non può
sentirti, non può vederti. Giace sotto terra, freddo e
austero nel suo cappotto scuro, e tutto ciò che vorresti in
questo momento è poterlo vedere un’ultima volta,
potergli dire addio perché non ne hai avuto
l’occasione, perché non ti hanno permesso di
gettarti sul suo corpo morto, perché era giusto
così.
Sei
inglese, dannazione: ricomponiti.
Stai piangendo, John.
Perché stai piangendo?, ti chiede e non
capisce, non capirà mai. Ma lui è fatto
così.
Asciughi
quella stupida stupida lacrima sfuggita al tuo controllo e ti incammini
verso l’uscita di quel cimitero così bello e
così triste, il suo fantasma accanto a te.
Non
se ne andrà mai.
Se solo ti
voltassi indietro, John… se solo ti voltassi indietro
potresti vederlo lì, nascosto da quel grande albero, stretto
nel suo cappotto lungo, con negli occhi un dolore che non
passerà.
Gli
mancherai, gli mancherai così tanto. Ma questo tu non lo
sai, e chissà se un giorno riuscirà mai a trovare
le parole per dirti quanto in realtà tu sia importante per
lui.
Fin
Note dell'Autrice:
Il titolo della storia è preso dalla canzone "Evrything I
do", di Bryan Adams.
Ho messo la nota "slash", anche se ad essere sincera io credo che non
riesca a definire Sherlock e John. Loro sono più... loro.
Amore platonico? Sì, decisamente, ma più forte,
secondo me, di quanto si possa immaginare. Ad ogni modo.
Un grazie alla mia fantastica Idra_31
per l'aiuto e il supporto che non mi nega mai. E a Serena, per aver
letto in anteprima e aver apprezzato.
A commentare, lo sapete, non vi cadono le dita :)
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