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Disclaimer: Nessuno dei personaggi qui presenti mi appartiene, nulla
riguardante FMA.
Solo questa piccola fan-fiction e le idee correlatevi sono
frutto delle mie elucubrazioni mentali.
Summary:
Non è morta, ma spenta. Nelle sue speranze infrante, nella luce che non può
seguire.
Rating: PG13. Somma malinconia e distruzione mentale.
Pairing: EdxWin
-
Di giorno
ha cercato di essere forte.
Ogni fiato
di vento l’ha percossa, ogni parola trapassata da parte a parte, ma si àncora
disperatamente a quel suolo che non vuole abbandonare, a quella presenza da cui
non vuole staccarsi.
Fa freddo,
davvero freddo, ma non le riesce di accorgersene.
Tanto il
freddo al suo interno, non può che chiedersi se non sia solo lei a fremere di
brividi laceranti, che le graffiano la schiena, la incidono nel profondo.
Il viso
tondo è pallido e smunto, dell’ineluttabile saluto, nel tenue tender di labbra e
calar di palpebre.
Non può
vedere che ombre stagliantisi, danzarle dinanzi, compassionevoli vocii soffusi.
-
Giunge in
terra al crepuscolo, sola e lungo distesa sull’erba, la luce delle candele a
pizzicarle il naso.
Non sente
stanchezza, non sente rancore; non sente nulla, perché ha costruito castelli di
sabbia in un mondo mai esistito, ha capito tante cose davvero tardi.
Alza le
dita ad arrotolarvi una ciocca di capelli biondi, e fissa il cielo sfumare nel
rosa, l’arancio, gli ultimi stridii di rondini a costruire immagini nell’aria.
E
desidera, ancora una volta, ritornare a quei tempi.
Sorride,
sorride d’una dolcezza ch’è aspra ed inquieta; ride, d’una risata che è stridula
e soffocata.
Non ha
pianto, in verità.
Come
cercando un rimpiazzo a quello sfogo, ha tentato di esprimere quanto aveva
dentro in diversi modi.
Sorride
perché tutto è davvero ironico.
Ride
perché è tutto davvero insensato, lei in primis.
Ricorda
Edward accettare la sua mano sulla propria, voltando il capo e sospirando
sommessamente.
Il letto
era bianco, come le sue bende, e lui stanco.
Lei gli
aveva fatto alzare la testa per potergli sciogliere i nodi tra i capelli
trascurati con le dita.
Lui
l’aveva guardata di sfuggita, come schivo animale selvatico, sfogando
l’imbarazzo stringendo forte le nocche, sino a renderle bianche.
Lei non
aveva detto altro, e lui ne era stato sollevato.
Aveva
chinato la testa, ricordando vecchie parole di Al.
"Senti...non essere triste, se non va tutto bene. Non voglio che tu pianga."
Lei aveva
scrutato fiaccamente il suo torace fasciato, privo di giunture meccaniche,
logoro e squarcio.
Al
attendeva fuori, mani giunte a pregare un Dio che ora, ora voleva credere
esistesse, ma non avrebbe porto loro alcun aiuto, non allora, né mai.
Winry
allora si era alzata, denti forte serrati, ergendosi nella sua più completa
altezza, squarcio allargandolesi in petto più che su di Ed.
Gli aveva
afferrato un polso, sollevandolo, stringendolo come per frantumarlo, e lui
l’aveva guardata curioso e rassegnato per una consistente sequela di minuti.
Come in
punto di esplodere, le aveva osservato le labbra mute e tremanti, i denti
serrativi per trattenerle al silenzio, la lingua a schioccare inutilmente sul
palato, appena intravedibile nel suo dischiuder di labbra.
Ed era
rimasto anch’egli muto ed affranto, e aveva stretto gli occhi per ripetersi che
l’idea di morire non era nulla di insormontabile, nulla cui non avesse già
pensato come ipotesi certa, ma non poteva che aggrapparsi, aggrapparsi con le
unghie, con i denti a quella vita senz’arti, annaspare con quello che gli
restava, annaspare con ogni sua forza.
"Non...non
voglio morire. Non morirò."
Era un
ragazzo, giovane, ed un ragazzo, ed arrogante.
Conscia in
ogni più intima parte del suo essere di ciò, ella non aveva potuto più non
scattare, afferrandolo per il bavero del pigiama dell’ospedale e scrutando a
lungo nelle iridi dorate e già morte prima del corpo.
Lo aveva
schiaffeggiato forte, con mani tremanti, notando con vaga curiosità un’impronta
leggera ma profonda sull’altra guancia.
Aveva
pensato che Alphonse avesse già fatto qualcosa di simile per la grandezza del
segno, ed aveva maledetto a lungo l’Elric che aveva davanti, scuotendolo e
ringhiando.
"Sei un
idiota. Un idiota. Sei vuoi, ora, qui, puoi piangere. Nessun Mustang a prenderti
in giro, nessuno a vederti. Sei umano, umanissimo. Piangi, piangi ora o ti
strapperò i denti fino a farti lacrimare e morire disossato. Idiota, idiota.
Muori, se vuoi, ma renditene conto. Oh, so che lo fai già, ma prendine maggiore
coscienza. E convinciti che se muori avrai il mio odio, quindi non provare a
morire. Idiota."
Le ciglia
le oscillavano scostanti, gli occhi a socchiuderlesi tremanti, e vide la guancia
di Ed divenir livida.
E come lui
si voltò dall’altra parte, poté con chiarezza dire di averlo visto ranicchiarsi
sul letto, chiuso nelle proprie spalle, corpo scosso da gelidi fremiti.
-
Un
quarto d’ora.
Quattordici minuti.
Non
crollare. Non crollare. Non comportarti in nessun modo. Non crollare.
Il treno
che ripartiva in quell’istante fischiò forte, ripetendo massiccio e sfrenato la
sua consueta corsa sulle rotaie.
Winry
sollevò lentamente il capo biondo, e lanciò un’occhiata timida ad Alphonse che
ricontrollava con occhio critico la valigia del fratello ed il suo contenuto
rovesciandolo su una panchina.
Parve
sorriderle lievemente, mentr’ella cercava sua approvazione nell’accostarsi
felpata al di lui biondo fratello, nervosamente intento a fissare il treno
appena partito.
Tredici
minuti.
Non seppe
bene cosa fare, né se accostarglisi realmente.
Si sentiva
colma d’un qualcosa che su di lei formicolava ed entro di lei fremeva,
attorcigliandole forte le corde vocali, rendendole inesplicabilmente doloroso
parlare; sì, indubbiamente era per questo che non parlava.
Non
parlava affatto.
Tutto
formicolava, e la tensione le pizzicava la gola.
Dodici
minuti e mezzo.
Chinò
ancora, lievemente, la testa; percepiva la sensazione al culmine, ed un
singhiozzo soffuso le risalì inarrestabile alle labbra, che si coprì premendole
con forza, schiacciando le palpebre a coprire le lacrime, e sorridendo
mestamente.
Si ritrovò
leggermente scossa, l’espressione attenta di animale selvatico di Ed su di lei.
Dodici
minuti.
Premette i
denti sulle proprie dita, ansante, nodi a scioglierlesi in petto, ansiosa
nell’inattesa prevaricazione del proprio animo.
Si
struggeva da ore, lì.
Da giorni,
altrove; da quando avevano rimesso Ed, che al momento borbottava scostante
qualcosa stringendo un poco i denti, guardandola fisso, cercando risposte senza
bisogno i parole, che dovette trarsi fuori a fatica.
"Perché
piangi, ora? Non ha senso."
Undici
minuti.
La scrollò
lievemente, freddo alle tempie, profondamente turbatone, d’istinto.
"Stupida.
Ahh, sei tu la stupida, qui. Tu, non io. Perché piangi? Perché piangi?
Non sono morto. Non sono morto."
Lei
sorrise, mordendosi il labbro inferiore sino a poterlo agevolmente masticare,
d’ansia corrosa, e sorrise di più, e di più le sue gote si bagnarono, intenerita
da quegl’occhi aurei sbarrati, poiché rivolti a lei, che cercavano lei, solo
lei, lei sino a commuoverla.
"Basta,
ehi! Basta, Winry, mi vedi? Mi vedi? Scema, sono qui. Qui.
Perfettamente qui. Sei diventata cieca? Cammino. Cammino, respiro.
Perfettamente. Perfettamente! Quindi perché, perché?"
Lo colse
irragionevolmente snervato; come strangolato d’un’afflizione ch’aveva sino ad
allora cinto anche lui; un’afflizione che potesse preoccupare lei.
Scorse Al
scrutarli, timidamente deciso a non intromettersi, ma colmo di genuina
preoccupazione.
Chissà,
chissà da cosa lo leggevano, poi.
Dieci
minuti.
Lui
sussultò, mentr’ella crollava leggera il capo sulla sua giacca, piegandolo un
po’ per la leggermente differente statura, affondando i tremori simili a
scariche elettriche sulla sua giacca, sulla sua giacca, trovando il petto d’egli
irraggiungibile.
"Piango
perché sei vivo. Piango di gioia a causa tua, come mi avevi promesso. Ma prima
del previsto. Grazie. Grazie."
Lo percepì
deglutire nettamente, e lo intuì diventato più caldo, pur senza scorgerlo.
Tentava di
allontanarla delicatamente, scomposto, piegando le dita alle sue spalle.
Fredde e
rigide da una parte, calde e flesse dall’altra; quella sensazione improvvisa la
sconvolse un poco, portandola a realizzare che, passione o meno che mettesse
nell’infondere un’anima, la sua anima a quegli auto-mail, avrebbe di gran lunga
preferito che avesse due, due mani calde.
Meno
robuste, ma due; come non mai, lo avvertì.
Piegò un
poco la testa anche lui, perso ed incerto come un bambino che ha smarrito la via
di casa; non capì, non bene, e le sue labbra tremarono, mentre guardava con aria
di sufficienza dall’altra parte.
"...beh,
allora sono contento."
Ella
fremette leggermente, inghiottendo via ogn’altra lacrima, e traendo fuori un
largo sorriso sorpreso.
Nove
minuti.
"Anch’io."
respirò piano e a fondo "Se fossi morto, insomma, avrei infierito sul tuo
cadavere. Sei troppo idiota per morire così. E c’erano delle cose in sospeso."
Edward
inarcò un sopracciglio biondo, confuso.
"Ah?"
"Oh. Nulla
d’importante."
"Bene,
concludiamo ora. Tra poco arriverà il nostro treno, sai. Poi non ci rivedremo
per un po’, credo. Non morirò nel frattempo, ma potresti scordartene, se no."
"No. No,
non lo scordo. Non ti preoccupare. "
Lei rise
un poco, non accennando, curiosamente, a lasciargli il lembo della giacca cui
s’era aggrappata prima; e lui, seppure un po’ a disagio, non ne parve
particolarmente turbato.
Lo prese
per un buon segno, e l’ultima traccia d’umido sul suo viso evaporò lenta al sole
lontano.
Rise
ancora.
"...cos’era
che volevi chiedermi, dirmi, o quella roba lì?"
"Nulla a
cui non conosca già la risposta. Credo, insomma."
"Mh?"
"Sai, alla
fine sono un po’ scema. I ragazzi bassi non mi piacciono, affatto. Affatto."
Rise
scioccamente, o almeno s’interpretò per tale, dandogli le spalle.
"Però non
so cosa farei, infierimenti sul tuo cadavere a parte, se tu morissi davvero. "
Sentì le
proprie spalle farsi gelide ed insicure, tremando.
"Ehi, io
NON muoio."
"Lo so. Lo
so, ma potresti. Chiunque può lasciare il mondo all’improvviso. E sarebbe stato
immensamente triste che fossi morto senza che io ti avessi parlato ancora.
Costretto a vivere per ascoltarmi. E’ egoista, oh, lo so. Lo so ma
voglio trovare il momento adatto così, distrattamente. Non esservi imposta a
causa di sciocche leggi della natura. O della tua simpatica attitudine a
cacciarti in guai enormi e scamparne solo d’un pelo, come questa volta. "
Sette
minuti.
Perso uno nel conto. Dannazione. E’ poco, è poco.
Lui
strinse gli occhi piano, calcolato rammarico nello sbuffare lieve, premendole
una mano sulla testa, come tante volte aveva fatto da piccolo con lei, con Al.
Dovendo un
po’ il braccio sforzare, tuttavia.
"Senti.
Senti, io non capisco bene. Però, insomma, posso fare qualcosa di utile? O puoi
essere più chiara tu, forse."
"No, no.
Scusami. Non è nulla. Nulla. Lascia stare. Se anche potessi fare
qualcosa, non...potresti. No, non puoi. "
Edward
piegò in basso un angolo della bocca, ringhiando piano.
"Cosa?"
"Rendere
tangibile il mio, di sentimento. Credo. Non so." rise "Puoi provare. Ma temo che
tu mi piaccia veramente tanto, e nulla cambierà o attenuerà questo."
Sei
minuti.
Il
colorito della di lui pelle mutò in scarlatto, e il ringhio divenne soffuso sino
a spegnersi.
"Ah. Ah,
tu. Tu...quindi...io, insomma, è...ecco, è..."
"Scusami."
sorrise malamente, malizia ad acuminarle gli occhi chiari "Veramente, lascia
stare. Tanto non ci arrivi. Sono troppo in alto, per te."
Rise
ancora ed ancora, amaramente, tratta poi in stupore dal braccio venirle tirato
giù forte, la pressione brusca e violenta di due labbra incerte sulle sue
scioglientisi in presa più tenera e lenta.
Cinque
minuti.
Ancora
bruscamente Edward le si distaccò, col calcolato sdegno negl’occhi, ribollendo
sin nelle viscere, interamente, sguardo ostinatamente fisso alle nuvole nella
parte opposta al cielo su lei.
E si
accorse di aver smesso di respirare; e si accorse di essere particolarmente
sconvolto, ma non in grado di biasimarsi.
Innocente, ecco.
Lei rimase
muta per diverso tempo, sfregandosi leggermente l’interno delle labbra, l’uno
con l’altro, come assorbendo in sé il sapore freddo e salato ma tremendamente
piacevole d’un qualcosa che difficoltosamente avrebbe riassaporato.
Ecco, lui
sapeva di qualcosa come acqua salata; come lacrime fredde.
Strinsero
entrambi gl’occhi, l’una catturato e completamente assorbito nel mutore
dell’altro.
Quattro
minuti.
Così,
così, distrattamente, cedettero i lineamenti inaspritisi di lui, e
distrattamente strinse gli occhi sbuffando, si ricacciò in tasca l’orologio
d’argento dopo una rapida sbirciata, e sospirò.
Al stava
agitando la grossa e pesante mano metallica verso di lui, pur senza concitati
‘Nii-san’ a richiamarlo; si chiese se avesse assistito, ma si ripeté ancora che
non aveva nulla per cui biasimarsi.
Da negare
aspramente e con forza per proteggere una sagoma scura e robusta che gli faceva
da scudo ogni giorno avrebbe avuto un bel po’, ma non da biasimarsi, non vi
trovava ragione.
"Chiariremo, la prossima volta. Ecco. Ma ora sappi che ci arrivo. Ci arrivo."
Tre
minuti.
Stava già
correndo via, tronfio e seccato, ingenuo e tonto come un bambino ostinato.
Lei rimase
invece lì, muta e perplessa a fissare la sua immagine farsi sempre più piccola,
arrossendo poi violentemente, e sciogliendosi in sottile e bieco pudore.
"Aspettaci. Aspettaci qui, noi torneremo da te. Per restare."
Due
minuti.
Ma,
accidenti, non importa più.
-
La sera è
convulsa negli scatti dei movimenti, e non vuole realizzare con esattezza
l’accaduto.
Non vuole
ricordare quell’ultimo scatto metallico di dita fredde sulla sua mano
nell’allontanarsi.
Tenta di
svegliarsi, anche se sa che non potrà farlo nemmeno questa volta.
E’ come
malattia.
Insana,
insano il malore vibra sulle sue dita, vivo sulle labbra dischiuse e digrignate
in muto pianto, aspre al contrarre la mascella al limite.
Silente,
nel dolore si sente viva, nell’oppressione al petto sente ogni parte di sé
ritrarsi e ricostitursi più salda di prima.
Sana ogni
pensiero, e il nodo che le incatena la gola è parte consistente nonché portante
di sé; come possono essere le gambe che cedono, i seni che si sporgono
maggiormente ad ogni espirare per poi ritrarsi.
Fa
capolino per poi ritrarsi nei più intimi recessi di quel che Winry è e tenta di
essere.
Tante
volte ha allungato le mani al nulla, colmandosi di vuoto e vuoto, svuotandosi di
fiato.
Ricorda
senza difficoltà le piccole mani di Edward aiutarla con gesto secco a rialzarsi,
più grandi a trarla sulla schiena larga, ancora minute a domandarle con buffo,
serio cipiglio se vuole sposarlo quando saranno grandi, assieme ad Alphonse.
Ricorda di
aver sopito sensazioni incomprese con fievoli moniti accennanti alla sua
altezza.
Ricorda la
sua treccia bionda ondeggiare lieve, scomparendo all’orizzonte con Al.
"Per
favore. Per favore dà a mio fratello una casa in cui tornare, dell’affetto. Ti
prego, cerca di colmarlo per entrambi. Non lasciarlo crollare. E’ mio fratello.
Mio fratello."
Ricorda
inoltre i pugni serrati e duri di Al, immonde urla a sfogare quel che i suoi
occhi, mentendogli freddamente, mai avrebbero potuto fare.
In quella
realtà che manipolava affinché fosse falsa, terrore per il cui strideva di
notte, cercava dolore fisico nel cieco logorare le braccia metalliche, cercando
qualcosa che non avrebbe mai più riavuto, qualcosa che si allontanava assieme al
fratello portato via dal lettino bianco, cercando conforto nei ricordi,
riemergendone ancor più lacerato.
-
Conforto
nasce, fievole e spento, al suo ritrovarsi dinanzi a pietra bianca, fredda e
vuota, incisa di lettere e numeri che la vista asciutta ma al contempo offuscata
non distingue, come incrociate, sfocate e prive d’un qualunque senso logico.
L’erba è
fresca a ciuffi tra le sue dita; la stringe, l’estirpa, e Den mugola piano sul
suo grembo, pelliccia trasandata di lieve vecchiaia, bocca arida di maggiori
guaiti.
Winry è
lì, straniera e di casa d’un tempo; ospite e sconosciuta nel gelido fischio del
vento.
Nel
passare delle stagioni, nel mutare del tempo, consuma gli occhi tentando di
scorgere qualcosa di nuovo in quel cimitero, che non cambia.
Con gli
anni è più alta, flessuosa e gentile, il volto macchiato del piacevole lamento
per sé stessa, la commiserazione che la fa cedere in quel bianco sontuoso,
pulito e perfetto.
Nervosamente, soleva ormai sorridere a chiunque incrociasse d’un tutto suo
sorriso che le tirava su le labbra, contraendole duramente la mascella, gli
occhi schiusi d’una risata che non vuol’esser tale; che non lo tollera.
Il bianco
marmoreo l’acceca ora, riempiendo la sua visione a tratti, schizzandole in viso
l’umido fiato delle memorie che le fa crollare il capo cieco e sordo ad
interazioni esterne, che crolla malamente lasciandola rinchiusa in
quell’universo in cui il suo sentimento è sottile ma tangibile.
Attraverso
il marmo, può lo stesso vederlo risplendere.
E i nomi
di Sara e Urey Rockbell le pungono gli occhi, perforandole la retina e
trapassandola; nulla recepisce, nulla scagiona l’inesplicabilità del suo agire
soffuso, leggero e celato.
Le lacrime
isteriche ch’ora ne bagnano le labbra, e assapora lentamente, e non assaporerà
altro che non sia il sale delle sue illusioni, che le stringono le spalle
minute, ne incurvano il petto pesante in dolore.
"Aspettaci. Aspettaci qui, noi torneremo da te. Per restare."
Ancora un po’, ancora un po’, intima in
collaudata ed ormai consunta tolleranza alle gambe fiacche che rifiutano di
sostenerla oltre ancora un po’ e sarà tutto finito. Così, lievemente. Ed
in un batter di ciglia sarà tutto nuovo e perfetto, sovrapponendosi alle
menzogne dei miei occhi, celando a lungo la mestizia dell’attuale realtà. E sarà
buffo, davvero buffo.
Sarà tutto
perfetto perché lei lo ama; e lui tornerà lì per restare, per lei.
O per
lasciarglielo credere.
Leva le
iridi cerulee al cielo, il viso tondo incorniciato di ciocche bionde e
scomposte, mentre si sente infiacchita e logora, e si allontana lentamente con
Den dal giaciglio ove riposano le sue speranze e sogni più antichi, e in cui
l’ardere vivo delle nuove l’aiuta a rialzarsi.
Ogni
giorno l’aiuta a ricominciare daccapo.
Chiude gli
occhi, e pensa che per ora è abbastanza così.
-
Fine
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