Come lui voleva
Eccoci
qui. Wow, sono secoli che non metto piede in questo fandom; spero che i
miei lettori possano perdonarmi per essere sparita. Questa volta
però non sono sola: io e una mia carissima amica, infatti,
abbiamo deciso di unire le nostre forze in una storia dalle tinte dark,
oscure, con personaggi decisamente diversi dal consueto. Questa amica
si chiama Matisse e sono certa che molti di voi già la
conoscono. E' stato fantastico scrivere questa storia insieme, ci siamo
divertite, abbiamo litigato (sapete bene quanto sia difficile
sopportarmi *ammicca*), abbiamo delineato i personaggi pensando a loro
come se fossero reali. L'idea è nata così, quasi
per
caso, ci abbiamo impiegato mesi a concretizzarla. Ma siamo soddisfatte
dei risultati, essendo questo il nostro primo esperimento insieme
-esperimento che chissà?, forse un giorno vorremo ripetere.
Il
pov Edward è scritto da Matisse, gli altri due
invece da
me. :)
Non
ci resta che affidarci al vostro giudizio. Ci abbiamo messo l'anima in
questa shot e speriamo che i nostri sforzi vi facciano cosa gradita. Un
bacio da Vivien.
Nda Matisse:
litigare con Vivien è impossibile, quindi non statela a
sentire.
Al massimo abbiamo litigato la tecnologia! *ammicca anche Matisse*
Che dire?
Quest'esperienza a
quattro mani è stata piacevolissima... Non avrei mai pensato
di
incastrare così bene le mie parole con quelle di qualcun
altro
ma con Vivien il tutto è venuto davvero facile. Sono davvero
contenta del risultato e spero l'apprezzerete tanto quanto è
piaciuto a me far parte del nostro piccolo progetto!
Un abbraccio da
Matisse.
Sei la mia gioia
insensibile
e questo
è come ti rivorrei
Ma è
tutto così normale
il male
che vorrei da te.
E sarò
così falso
Io
sarò così solo per te
E' giusto che sia
immorale il male che vorrei
per te.
«Muori,
infame!»
La testa del
soldato
ruzzolò lungo il pendio. La osservai scomparire, rotolando
alla
stregua di una palla scura e rigonfia al di là della
centenaria
quercia. Sorrisi soddisfatto.
Esattamente
ciò che quell'essere indegno meritava.
Sollevai la spada
con la quale
avevo tranciato i suoi muscoli, le arterie, le connessioni neuronali.
Leccai, con la punta della lingua, parte di quel sangue raggrumito
sulla superficie scintillante.
Sputai quasi
subito, lanciando la spada lontano, sprezzante.
«Disgustoso.»
«Sire...»
Aro si avvicinò lentamente e con evidente
imbarazzo.
«E di questo qui cosa dovremmo mai farcene?»
Trascinandosi
dietro ciò che ancora avanzava del corpo del nemico, me lo
mostrò con riluttanza.
«Io
avrei fame, mio Signore...»
Il suo umile
quanto stomachevole pensiero mi raggiunse, non gradito, in pochi
istanti.
Irritato,
massaggiai le tempie come a volermene liberare, prima di rispondergli
astiosamente.
«Puoi
cibartene tu, se
vuoi. Io mi nutro soltanto di vittime vive, fresche. E deliziose. Non
di bastardi che mi assaltano alle spalle.»
«Sire,
permettetemi, ma anche voi dovreste...»
Mangiare.
Perché
non vi nutrite di quella splendida carne fresca che tenete segregata al
castello?
Vostra
moglie saprebbe sfamarvi come meritate, mio Signore.
«Taci!
Aro, ti impongo
il silenzio! Non posso più tollerare queste tue stupide
chiacchiere... E ringrazia la tua buona stella se oggi sono tanto
clemente da non staccarti la testa dal collo!»
«Mio
Signore, invoco il vostro perdono.»
Aro
lasciò
immediatamente andare il cadavere sul terreno umido,
inginocchiandosi ai miei piedi con devozione e rammarico. Nello stesso
istante anche il suo cervello si spense.
Quantomeno era
ubbidiente. Era questo il motivo per cui era ancora vivo.
Dopotutto mi
temeva e mi venerava. Un servo fedele, in altre parole.
Dovevo
rendergliene atto.
Per cui, lasciai
correre.
«Basta.
Alzati Aro. E fa
di costui ciò che vuoi. Per quanto mi riguarda puoi anche
prosciugarlo, se hai fame davvero.»
Alzò a
malapena il
capo, guardandomi con i suoi occhi rossi così
paradossalmente
colmi di gratitudine. Lo congedai con un cenno della mano e si
rilassò all'istante.
«Sire...»
Una nuova voce
richiamò la mia attenzione.
Mi voltai
rapidamente incontrando lo sguardo di Demetri.
Veniva dal lato
opposto al
nostro e, insieme a Felix, reggeva per le braccia l'ennesimo
prigioniero nemico sfuggito alla furia della battaglia.
Anche da quella
distanza
potevo percepirne il terrore, la confusione e quella disperazione -
figlia della consapevolezza di una morte imminente - che ne aveva
indebolito le viscere sino a impedirgli di trattenersi.
Si era
vergognosamente urinato addosso, piccolo stolto mortale, e neppure
sembrava interessargli.
Ero troppo
impegnato a cercarsi una via di salvezza.
«Di
questo che ce ne facciamo, invece?»
Demetri si
umettò le
labbra. Già figurava l'istante in cui avrebbe potuto
addentare
la carne morbida e succulenta dell'uomo.
Quest'ultimo, di
tutta risposta, tremò visibilmente cominciando a
piagnucolare.
Ridicolo.
«Maestà...vi
prego, vi prego! Abbiate pietà di me!»
Maestà,
mi aveva apostrofato, nel goffo tentativo di lusingarmi e ottenere la
salvezza.
Che uomo stolto!
Ne studiai
vagamente i pensieri: adoravo saggiare le considerazioni delle mie
vittime prossime alla morte.
Scoprii che nella
sua mente
scorrevano rapide e sofferte le immagini degli ultimi istanti di vita
del proprio compagno, l'uomo cui avevo reciso impietosamente la testa
soltanto pochi minuti prima.
Non desiderava
morire nello stesso ignobile modo. Anzi. Non voleva morire e basta.
Aveva una moglie
a casa e dei bambini che attendevano ansiosamente il suo ritorno.
La sua consorte
era bella, dai capelli biondi e vaporosi e lui rimpiangeva di non
averle dato un bacio prima di andar via.
Anch'io
ho una moglie splendida.
Ma non sono certo
che attenda altrettanto impazientemente il mio ritorno.
«Mio
Signore!»
gridò ancora tentando di congiungere le mani per amplificare
la
propria supplica. Non vi riuscì, ovviamente: le mie guardie
gli
stringevano abbastanza crudelmente le braccia. «Vi giuro
fedeltà eterna ma vi prego....abbiate pietà di
me!»
«Quindi
saresti pronto a ripudiare il tuo re?» lo canzonai.
Gli altri risero
con me ma lui prese la faccenda piuttosto seriamente.
«Certo...
certo!» ripeté «Per voi lo
farei!»
«Soltanto
per ottenere
la mia clemenza... e aver salva la pelle. Sei una creatura vile!
Dovresti vergognarti di piagnucolare come una bambina e accettare la
tua sorte, piuttosto. Ti renderebbe molto più
onore»
Mi
guardò con occhi supplicanti.
Nella sua mente
ancora immagini confuse: una festa di compleanno avvenuta appena
qualche giorno prima.
Una bambina dagli
occhi verdi che gli saltava in braccio, ridendo. Che gli diceva ti amo papà.
Se non avessi
ritrovato, in quegli stessi occhi, quelli del mio Blake, l'avrei fatto
fuori in una frazione di secondo.
O meglio, mi
sarebbe bastato
un solo cenno della mano affinché i miei servitori
infilzassero
le sue carni molle con i propri canini acuminati.
Tuttavia ero un
padre, oltre che un essere assolutamente spregevole. E fiero di esserlo.
Mi dissi che di
vittime ne avevo fatte fin troppe per quel giorno e mi decisi a
lasciarlo andare.
«Non so
che farmene di
creature mediocri come te.» commentai schioccando
la
lingua. Sul palato ancora il sapore ferroso del sangue nemico. L'uomo
rabbrividì, recitando il Padre Nostro. Si stava preparando a
morire. Non sarebbe mai stato pronto abbastanza.
«Tuttavia...»
proseguii «gioisci. Il mio rifiuto ti
garantirà la
sopravvivenza. Non ti voglio tra le mie fila e neppure desidero il tuo
sangue. Mi causi solo ribrezzo. Per cui ritieniti libero.»
Il cuore
dell'uomo prese a
battere in modo asincrono, prima più lentamente e poi in
modo
tanto amplificato e ripetuto da risuonare fastidiosamente nelle mie
orecchie, dandomi il tormento.
Mi
guardò con occhi speranzosi e con un sorriso ebete stampato
sulla faccia: per poco non mi pentii della mia clemenza.
Demetri e Felix,
invece,
parvero piuttosto delusi dalla mia decisione: già
pregustavano
il momento in cui avrebbero potuto staccare la testa di quell'uomo a
forza di morsi. Tuttavia, al pari di Aro, non aprirono bocca e
tentarono di trattenere anche i propri pensieri: mi temevano e mi
rispettavano come il loro signore e padrone assoluto. Non avrebbero mai
messo in discussione il mio volere.
«Mi
lasciate... andare, Signore? Davvero? Oh... Io... Io non so... Grazie,
davvero, io... »
«Taci!»
«Signore...
»
«Ho
detto che ti lascio
andare, non c'è bisogno di cincischiare tanto, quindi
raccatta
le tue luride braghe e vattene prima che cambi idea. La tua voce mi
infastidisce.»
Gli voltai le
spalle, pronto ad abbandonare quel luogo di morte e desolazione.
Di norma l'avrei
trovato affascinante, ma per quella sera avevo bisogno soltanto della
mia famiglia.
Tuttavia, prima
di concedergli la definitiva salvezza, gli raccomandai un servigio.
«Tutto
ciò che volete, mio Signore.» rispose. Che essere
inetto.
«Riferisci
al tuo
padrone... al tuo vero padrone... che non l'ha spuntata neanche questa
volta. Isabella è mia. E lo resterà, che gli sia
ben
chiaro. Adesso sparisci prima che ti uccida.»
L'uomo
biascicò un
sì stentato e fastidioso, più e più
volte, prima
che la stretta dei suoi carcerieri si allentasse. Alla fine, ancora
incredulo per aver guadagnato una così facile salvezza, si
rizzò in piedi e fuggì a gambe levate.
L'illuso credeva
che la sua
corsa rapida l'avrebbe messo al sicuro nell'infausto caso in cui avessi
cambiato improvvisamente idea.
Stolto, inutile
umano! Non sai
che posso raggiungerti in una frazione di secondo? Non sai che posso
maciullarti e bere sangue dalle tue carotidi prima ancora che il tuo
piccolo cervello possa realizzare la tua morte?
Felix e Demetri
mi guardano con aria perplessa per qualche istante.
Agitai la mano
per aria, in un gesto nervoso.
«Non
m'interessa. Che
torni da James e gli racconti dell'ennesima sconfitta del suo infimo
esercito! La mia vittoria avrà così un sapore
ancora
più dolce.»
«La
vostra vittoria l'avete già avuta, mio Signore. Si chiama
Isabella.»
Annuii.
«Che
James l'abbia bene a mente.»
«Sì,
mio Signore.» concordò il mio fedele servitore.
Nel frattempo, a
breve
distanza da noi, Aro banchettava, incurante degli ultimi avvenimenti,
con ciò che restava del soldato morto. Quello che avevo
ucciso
con le mie stesse mani soltanto pochi minuti prima.
L'odore di carne
morta
solleticò le mie narici e quelle dei miei servi. Li guardai
annusare l'aria e digrignare i denti mentre un viscido stridio di
muscoli e arterie venne a interrompere il silenzio del bosco.
Ovviamente,
quello non era l'unico corpo privo di vita. Ammassati nei dintorni ve
ne erano a decine.
James era davvero
una creatura
senza cuore: sapeva sin dal principio che nessuno dei suoi uomini
avrebbe potuto nulla contro me e il mio esercito. Eppure, senza
scrupolo, li aveva costretti a una battaglia senza speranze.
Aveva in questo
modo decretato la morte di centinaia di uomini, mariti, padri di
famiglia.
Stava
migliorando, poco da
dire. Ma difficilmente avrebbe raggiunto il mio grado di
crudeltà, se era questo il suo intento. E, a dirla tutta,
cominciava a irritarmi non poco con quel suo atteggiamento
provocatorio. Avrebbe dovuto smetterla di tendermi continue imboscate o
costringermi a duelli di bassa lega ogni qualvolta gli si presentava
l'occasione: Isabella, in ogni caso, non sarebbe tornata tra le sue
braccia.
Aspettavo con
ansia il giorno
in cui avrei potuto sbattergli questa verità in faccia prima
di
ridurlo in poltiglia e nutrirmi del suo lurido sangue. Avrei guardato i
suoi occhi disperati mentre Isabella gli voltava le spalle e mai, mai come in quel
momento avrei gustato il sapore della vittoria.
Con
quest'egoistica considerazione ritornai ai miei uomini.
Meritavano un
premio per avermi difeso ancora una volta così valorosamente.
«Stasera
si mangia. Fatene quel che volete, c'è carne a
sufficienza.»
«Possiamo,
Sire?»
domandò Demetri timidamente. In realtà non vedeva
l'ora
di avventarsi su quei corpi, prima che il sangue gli si congelasse in
vena.
«Sì,
potete.»
«E voi,
Maestà?»
«Torno
a casa. Divertitevi.»
Voltai loro le
spalle. Felix avrebbe voluto consigliarmi di nutrirmi, per il mio bene.
Io non avevo
voglia di ascoltarlo.
Non si
pronunciò comunque. Raramente qualcuno dei miei servitori
osava darmi un suggerimento.
In ogni caso non
avrebbe dovuto preoccuparsi.
Per quella sera
mi sarei
nutrito di un sangue dolce e delizioso. Il nettare più caldo
e
profumato che il mio palato avesse mai potuto saggiare.
Il sangue di
Isabella.
Mia moglie.
La guerra tra
il regno di Baal e quello di Walburg, di cui io ero signore e padrone,
era cominciata vent'anni prima per volere di Enrico il Grande, padre di
James e sovrano della contea sino al giorno della sua volontaria
abdicazione in favore dell'unico erede maschio.
James non era un
tipo meno
collerico e cruento del suo augusto genitore, per cui portò
avanti la battaglia contro la mia terra con lo stesso entusiasmo
paterno.
Si parlava di un
regno
popolato da vampiri, creature sovrannaturali figlie della notte che fin
troppe vittime avevano mietuto tra le brave genti di Baal: ovviamente
costituivamo un pericolo continuo e per tale motivo sia Enrico che suo
figlio si erano prodigati nel tentativo di eliminarci sistematicamente
e senza alcun ripensamento.
Molti umili
servitori avevo
perso in quella guerra; nella notte di Walburg avevo udito in troppe
occasioni le urla infernali dei miei fratelli impalettati nel
buio.
Ma l'olocausto
dei vampiri era
servito a ben poco. Per ogni creatura del mio regno che i soldati di
James riuscivano a dilaniare e distruggere, decine di umani perivano
fra le mie mani mentre il loro sangue mi sporcava il palato. Molte
vergini innocenti avevano esalato il loro ultimo respiro sulla mia
bocca, invocando il nome dell'assassino mentre le rendevo mie.
Sotto tutti i
punti di vista.
In ogni caso, la
guerra fra i
due popoli era andata avanti senza alcun ripensamento per molti anni,
esasperandosi addirittura con la morte del vecchio Enrico. Nessuno dei
due popoli desiderava demordere: troppo grande era l'orgoglio e la sete
di vendetta per arrendersi. Tuttavia, il punto di svolta era giunto,
quasi miracolosamente, anche per noi.
Il giorno in cui
James aveva sposato la dolce Isabella.
Baal era tornata
rapidamente a essere una terra fertile e felice con l'avvento della sua
nuova regina.
Era merito suo,
infatti, se la
situazione aveva preso una piega pacifica e l'odio tra le nostre genti
si era canalizzato in una reciproca e innocua indifferenza.
Bella, creatura
felice e
innocente, disdegnava l'orrore e le brutture del mondo. Gentile per
natura, non conosceva il significato della parola crudeltà e
ancora si ostinava a credere nell'intrinseca bontà dell'uomo
nonché nel buon cuore dei vampiri.
Proprio noi che
un cuore neppure più ce l'avevamo.
La stessa
Isabella, quindi,
prodigandosi in mille parole e altrettante moine, era riuscita a
convincere il suo regale marito a una tregua.
«Per il
bene delle bravi
genti di Baal» aveva detto «Fallo per il
sorriso di
tutte quelle povere madri che rischiano di perdere i propri figli in
battaglia, mio Signore. James... fallo per il bene di un popolo che ami
e che ti ama senza reticenza alcuna!»
In ogni caso, non
doveva essere stato tanto necessario, per Bella, supplicare suo marito.
Quel buono a
nulla di James
pendeva letteralmente dalle sue labbra: si trattava di un fatto tanto
risaputo che la divertente storiella era giunta sino alle mie orecchie,
a Walburg.
Umano e anche
privo di spina
dorsale: un connubio assolutamente disgustoso! Avrebbe meritato la
morte già soltanto per questo. Viceversa, mi ero mostrato
fin
troppo clemente nei suoi confronti e il buon James avrebbe davvero
dovuto ringraziare tutti i santi che si ritrovava in quell'angolo di
cielo che i mortali chiamavano Paradiso se ancora respirava e muoveva
le braccia.
Cosicché,
dopo decenni
di morte, sangue e battaglie incompiute, madri squartate con ancora in
braccio le proprie creature e terre verdeggianti arse dalle
fiamme, il conflitto ormai consolidato tra i nostri due mondi, opposti
e confinanti, era giunto al termine in un battito ciglia.
Nello stesso
giorno in cui tre
messi di James avevano varcato il grande portone in legno del mio
castello arroccato consegnandomi un messaggio scritto dal loro sovrano.
«Mettiamo
un punto alle
nostre divergenze, Edward» aveva scritto
«Non sono
qui a lesinare una bontà che non hai, sia ben chiaro. Te lo
domando per il bene dei tuoi fratelli, oltre che delle mie genti. Da
questa guerra nessuno di noi potrà trarre beneficio e sono
certo
che di questo sia consapevole anche tu.»
Stolto umano!
Gli erano bastati
due seni tondi e un ventre morbido per far proprie parole che non gli
appartenevano.
Per acconsentire
a una scelta che non era sua e che ben poco si sposava con il cuore
arido che gli pulsava nel petto.
Ridussi quella
lettera a un
ammasso di frammenti irregolari e li lasciai scivolare fuori dalla
finestra, spazzati dal vento che turbinava in piccoli mulinelli intorno
al mio castello.
Ma se tanto
deridevo il suo comportamento, perché gli avevo dato ascolto?
Ottima domanda.
Perché
anche una creatura sanguinaria e crudele come me poteva provare
stanchezza.
Anche
disperazione, volendo.
Per quanto amassi
il sangue,
per quanto mi divertissero le scenette impietose durante le quali uno
stupido umano perdeva la propria testa per mano mia o dei miei
fedelissimi, io ero, in primis, un sovrano. Avrei dovuto anzitutto
ragionare per il bene del mio regno, conoscevo perfettamente il numero
delle troppe creature di Walburg che avevano detto definitivamente
addio alla vita, in tutti quegli anni, per non accettare quella tregua.
Ancora percepivo,
nella mia mente, le loro urla di terrore mentre venivano stilettati al
cuore.
Soltanto per quel
motivo mi ero piegato al volere di uno stupido umano.
Soltanto per
quello.
Fosse stato per
me James e la
sua fila di miseri servitori avrebbero potuto marcire nella terra
trasformandosi in vermi ributtanti. Del resto, tutto ciò che
m'interessava era quel sangue che scorreva nelle loro vene.
Il sangue:
l'unico, fondamentale principio su cui si basava la mia intera
esistenza.
Per il resto
niente contava.
Almeno
questo era ciò che credevo.
Ovviamente
la mia
convinzione era destinata a cambiare e ciò accadde nello
stesso
giorno in cui feci il mio ingresso, per la prima volta nella mia
centenaria esistenza, nella residenza dei sovrani di Baal come 'ospite
d'onore' del sontuoso ricevimento che James e la sua regale consorte
avevano organizzato per festeggiare l'agognata tregua tra i nostri
regni.
Ricordavo ancora
perfettamente
l'aria annoiata con la quale io e il mio gruppo di fedelissimi ci
eravamo aggirati tra le sale dello sfarzoso castello - degno di essere
considerato sede reale molto più del mio, che se ne stava
così placidamente appollaiato, scuro e imperturbabile, su
una
montagna arida e infestata da corvi.
Ricordavo lo
sguardo
terrorizzato degli invitati, i loro occhi diffidenti e impauriti. Ne
rimembravo ancora ridacchiando i pensieri: «E' falso,
è
una trappola. Ci faranno a pezzi. Ci distruggeranno. Sire, tornate in
voi!»
Avrei potuto
dargli torto?
Del resto,
l'unico istinto che
prevaleva in me - e che così faticosamente tentavo di sopire
nel
mio animo e in quello dei miei collaboratori con occhiate minacciose -
era quello di farli fuori tutti. Di avventarmi sul collo candido delle
signore, sulle loro carotidi pulsanti. E sul petto immacolato degli
uomini, strappandone il cuore a morsi.
Eppure, a tutto
questo ero riuscito a resistere.
Avevo controllato
il mio
impulso irrefrenabile di causare una strage senza precedenti ma non ero
riuscito a contenermi quando James aveva fatto infine il suo ingresso
in sala, annunciato da un irritante starnazzare di trombe.
Non era solo,
James. Trascinava per mano la sua augusta consorte.
La Regina
Isabella di Baal.
Da allora molte,
troppe cose erano cambiate.
Nello stesso
istante in cui
gli occhi di Isabella, scurissimi e profondi - come una notte senza
luna ma non per questo meno piacevole - si erano specchiati
nei
miei, color cremisi, gonfi di odio, saturi di morte, desiderosi di
violenza.
Specchiati e poi
incatenati,
perché era chiaro che non fossi l'unico cui quel muto
incontro
aveva provocato un brivido lungo la schiena.
Di Isabella non
colsi un solo
pensiero quel giorno - la sua mente, per un motivo a me sconosciuto,
sopravviveva placida e silenziosa alla mia invadenza- ma riconobbi
nella sua bocca dischiusa, nelle labbra morbide e succulente una
sorpresa non meno intensa della mia.
Il suo profumo
giunse alle mie
narici con una prepotenza devastante, nonostante la distanza che ci
separava - lei, ancora arroccata in prossimità del suo
trono,
così graziosamente avvinghiata al marito nella speranza,
forse,
di sottrarsi al mio sguardo - e io, misero vampiro tra miseri umani,
appena più sotto di loro.
Confuso tra la
gente che respirava ancora e quella che un cuore non ce lo aveva
più.
Eppure non fu il
suo profumo a
stordirmi più di tutto. Il suo sangue avrebbe dovuto essere
il
più dolce che avessi mai saggiato, ma in quel momento non
erano
le sue arterie a interessarmi.
Era lei, Isabella.
Nella sua
interezza.
Con quella bocca
corrucciata, gli occhi disarmanti, quella pelle candida e
morbidissima, i capelli boccolosi e scuri.
Mi
bastò un attimo per
immaginarla accanto a me, prigioniera senza via di fuga fra le mie
braccia, nel mio letto, dei miei baci.
Mi
bastò un attimo per decidere che sarebbe stata mia.
Che nessun falso
proposito di bontà, che nessuna guerra avrebbe fermato le
mie intenzioni.
Isabella.
Ancora la stavo
contemplando,
mentre quello stolto del suo consorte ciarlava di pace e benessere per
i nostri due popoli, quando ripromisi a me stesso che quella visione
celestiale, quella donna che in pochi secondi e con un solo sguardo era
già diventata un'ossessione, avrebbe vissuto il resto dei
suoi
giorni accanto a me.
Accanto a me
soltanto.
Ovviamente avevo tenuto
fede al mio progetto.
Dopo dieci giorni
da quel
ricevimento di pace, Walburg e Baal erano sprofondati di nuovo negli
abissi scuri e senza vie d'uscita della guerra.
Il motivo?
Un viso d'angelo
chiuso nelle umide sicure del mio castello, fra i topi e la polvere.
Avevo inviato i
miei
fedelissimi nel felice regno di James costringendoli a rapirne la
sovrana. Nessuno di loro aveva battuto ciglio o protestato,
benché fosse comprensibile come tale mossa avrebbe innescato
un
nuovo conflitto tra le due popolazioni.
Mi veneravano
troppo (o forse
mi temevano soltanto, come gli umani temevano il loro Dio) per poter
sovvertire un mio ordine, a prescindere da quali fossero state le
conseguenze.
Ricordavo
perfettamente, dopo
i due anni trascorsi da quel momento, l'insostenibile e irrazionale
ansia con la quale avevo accolto Isabella nel mio mondo.
Ricordavo il suo
esile corpo
trascinato senza sforzo dalle braccia dei miei servitori mentre io ne
attendevo l'arrivo in una notte di pioggia. Il vento fischiava tra le
fronde scheletriche degli alberi avvinghiati contro le pareti diroccate
del mio maniero e tutto ciò che riuscivo a udire erano i
passi
di Aro e Demetri dietro la porta del salone. E non perché
m'importasse di loro, ovviamente, ma perché ero consapevole
della riuscita del mio piano giacché a tali passi si
accompagnava il battito leggerissimo di un cuore puro.
Il cuore di
Isabella.
Ricordavo anche i
nostri primi giorni senz'amore.
A distanza di
tempo facevano ancora male.
Rimembravo il
viso di Isabella sfigurato dal dolore e dalle urla mentre mi supplicava
di riportarla da James.
Più me
lo chiedeva e più si giocava la mia clemenza.
Così,
dai saloni illuminati era finita nelle celle scure del maniero.
La sua voce
impastata e roca
mentre mi diceva «ti odio», risuonava ancora
così
chiaramente nelle mie orecchie!
Mi aveva odiato
per davvero Isabella, lo sapevo.
Forse mi odiava
tutt'ora.
Ancora ridevo del
suo passato tono di bambina impaurita mentre ciarlava sul marito ormai
perduto.
Diceva:
«Lui ti ucciderà, mi riporterà a
casa.»
Le rispondevo:
«A casa
neanche vorrai tornarci fra poco, Isabella. E sarà meglio
per il
tuo James che non si avvicini troppo a Walburg se non vuole che gli
disintegri le ossa del cranio una a una.»
Tuttavia Edward
Cullen,
signore di Walburg, sovrano indiscusso delle tenebre e di un mucchio di
ripugnanti creature prive d'anima e di cuore, era anzitutto un vampiro.
Il più
grande fra tutti.
E come degno
esempio della mia
stirpe, sapevo che nessuno sarebbe sfuggito al mio fascino. Neanche le
vergini morte tra le mie braccia mentre succhiavo loro l'ultima goccia
di vita erano state in grado di rifiutarmi. Qualcuna si era persino
lasciata sfuggire un ti amo mentre esalava l'ultimo respiro.
Con Isabella era
stato diverso soltanto in termini temporali.
Ce ne aveva messo
di mesi per abbassare la guardia e neanche completamente.
Per quanto avesse
desiderato sfuggirmi, alla fine aveva ceduto anche lei.
In
realtà, sapevo che
mi aveva amato sin dal principio. Ma era troppo orgogliosa, troppo
combattiva e troppo scioccamente convinta di appartenere a quel becero
di James per abbandonarsi immediatamente e totalmente a me.
A distanza di
tempo, ancora la
sentivo parlare da sola, a volte, rimurginando sull'immenso senso di
colpa che si portava dietro al pensiero di aver tradito il suo primo
consorte.
E tutto questo
accadeva nella
solitudine della sua stanza poiché, in mia presenza, non le
era
neanche consentito nominarlo: l'unico marito cui avesse avuto diritto
ero io.
Per sempre.
Ancora
profondamente
preda dei pensieri, dei mille ricordi del nostro inizio così
difficile, mi ridestai soltanto quando scorsi il profilo
imperfetto del mio maniero.
Socchiusi gli
occhi e
abbandonai il passo umano col quale mi ero mosso sino ad allora per
riprendere la mia consueta velocità e raggiungere la meta
più rapidamente.
Volevo lasciarmi
alle spalle
quell'ultima battaglia, gli insulsi tentativi di James di riprendersi
ciò che non gli apparteneva più, l'idea di una
Isabella
che non mi voleva ma che era mia più di quanto ella stessa
potesse immaginare.
Desideravo
soltanto far
ritorno alla pace della mia casa - a quanto pare anche un vampiro
crudele può desiderare il tepore delle mura domestiche -
dimentico del mondo di fuori, per incontrare gli occhi verdi e le
fossette sul viso di quella creatura che amavo profondamente e che
portava il nome di Blake.
Mio figlio Blake.
Il dono
più prezioso che Isabella avesse mai potuto farmi.
E, ovviamente,
era altrettanto intenso era il desiderio di stringere Isabella fra le
mie braccia.
Anche se mi
avesse guardato
con espressione disgustata, se avesse deplorato il sangue che ancora
m'imbrattava i canini e i vestiti ormai logori per la battaglia,
agognavo le sue braccia e il suo corpo. Non le avrei permesso di
negarmi la sua stretta e le sue labbra.
Non le avrei
consentito di
rifiutarmi, poiché altro non desideravo se non fare l'amore
con
lei una notte intera per dimenticare il resto.
Con lei che era
mia moglie. Ci appartanevamo, anche se non voleva ammetterlo.
Non
farò mai nulla per proteggerti da me stesso, Isabella.
E
se un giorno dovessi cadere, tu verrai con me.
Bella
«Piccola
pulce» sussurrò Rosalie con voce ammiratamanontroppo.
Era incantata dalla grazia di mio figlio, dalla sua delicata bellezza,
ma cercava di non darlo a vedere. Contegno e riservatezza erano le
principali qualità della mia dama di compagnia. Il savoir faire
le stava a cuore quasi quanto la sua stessa vita -ma ce lo aveva, un
cuore? Questa domanda mi frullava in testa da un po', praticamente da
sempre. Era così efficiente... così
maledettamente
gelida. La detestavo per questo. La detestavo anche perché
sapevo che il sentimento era ricambiato.
Sorrisi
amaramente. Rosalie
era stata una delle favorite di Edward prima che i nostri destini
s'incrociassero. Il fatto che Edward avesse preferito me -un
insignificante essere umano- a lei -una vampira dal fascino
leggendario- l'aveva ferita nell'orgoglio.
Non sapevo se
Edward l'avesse
amata, non me lo aveva mai detto e io non avevo nessuna intenzione di
chiederglielo, ma era chiaro come il sole che lui e Rosalie erano stati
amanti e che costringermi a subire la presenza della sua vecchia fiamma
fosse un'insensata crudeltà.
Edward. Il suo
stesso nome
m'ispirava sentimenti così contrastanti da farmi fremere
ogni
volta che pensavo a mio marito, alle sue labbra scolpite e piene, dure
e dolci. A lui che entrava dentro di me, al sottile piacere
che
provavo nel torturarlo. Negandogli il mio amore, fingendo di
disprezzarlo, lui e la scintillante prigione in cui mi aveva rinchiusa.
La vecchia fiamma
del
risentimento si accese nella mia mente; sospirai, cercando di
concentrarmi su mio figlio, su quella creatura che avevo messo al mondo
e che maledivo ogni giorno della mia vita, perché mi aveva
legata a un uomo di cui non avrei mai, mai
potuto fidarmi. E tuttavia lo amavo, mio figlio, perché era
sangue del mio sangue, e probabilmente anche perché era
figlio
di Edward e gli occhi verdi di Blake mi ricordavano che anche
mio
marito aveva avuto un'anima, e che forse non tutto era perduto. Forse
avrei potuto portare un po' di luce nella sua buia esistenza. Forse.
O forse no.
Forse non volevo
neanche
provarci, perché a poco a poco l'oscurità aveva
avvolto
anche me e ormai mi sentivo al sicuro nel caldo cantuccio che mi ero
costruita, in cui mi muovevo come una bambola meccanica in attesa di
ricevere nuove disposizioni.
Ama
Edward. Dagli piacere. Sii una buona moglie. Prenditi cura di suo
figlio.
Questa routine mi
era divenuta
in qualche modo familiare, anche se c'erano momenti in cui non riuscivo
a rassegnarmi al mio destino, momenti in cui maledivo l'uomo che mi
aveva strappata alla mia terra, alle mie radici, ai miei affetti, e
tutto per il suo egoismo, per la sua sete di me, del mio sangue, del
mio corpo, della mia anima.
Ama
Edward. Dagli piacere. Sii una buona moglie. Prenditi cura di suo
figlio.
Era tutto quello
che dovevo fare. Perché allora mi riusciva così
difficile?
«Perchè
sei una cosina maledettamente testarda» sussurrò
una voce dietro di me.
M'immobilizzai,
sorpresa, e
così fece Rosalie, i cui occhi s'illuminarono di una luce
sinistra, calcolatrice. Potei quasi vedere Edward guardarla con
disprezzo -sicuramente le aveva letto nel pensiero. Rosalie
afflosciò le spalle, abbattuta, fece per sfiorare i neri
capelli
di Blake, ma poi ci ripensò. Si mosse silenziosa come
un'ombra,
lasciandoci soli.
Edward mi cinse
la vita con le
braccia, attirandomi a sé. Lo sentii chiudere gli occhi,
respirare il mio profumo, intensamente, come un disperato che si
aggrappi alla sua unica ragione di esistere. La sua stretta era
così salda, così maledettamente tenace. Non puoi fuggire,
dicevano le sue mani che mi circondavano i fianchi. Quando Edward mi
abbracciava in quel modo i miei dubbi sembravano sparire, e
così
le accuse, le recriminazioni, le lacrime e il dolore, la nostalgia.
C'eravamo
soltanto io e lui e
il piacere che provavo sentendo il suo corpo aderire al mio. Ero
così piccola in confronto a lui. Così... fragile.
Mi
sciolsi e lasciai che le sue labbra mi sfiorassero il collo
in una carezza lenta, insinuante, irresistibile.
«Come
facevi a sapere...» cominciai, ma lui mi interruppe
sfoggiando un sorriso divertito.
«E'
così facile
leggere le tue espressioni. Sei un libro aperto per me» mi
voltò verso di sé, bruscamente, come se avesse
voluto
scuotermi «Non ti ho ancora salutato come si deve, bella
signora»
Rabbrividii
quando la sua
bocca scese sulla mia, costringendomi a dischiuderla, persuadendomi con
la tenerezza dei suoi baci. Blake strillò e agitò
le
braccine in aria, gli occhi ridenti fissi su Edward. Fece ohh e fece ahh , un verso
pieno di meraviglia.
Benché
avesse solo un
anno venerava suo padre e io non sapevo se esserne felice o
preoccupata. Blake era un mezzo vampiro, ma beveva ancora il latte dal
mio seno e si cibava come un umano. Edward diceva che crescendo avrebbe
sviluppato gusti diversi: sangue. Il pensiero che mio figlio potesse
diventare una macchina assassina mi atterriva. Ma Blake era ancora un
bambino e saperlo al sicuro era tutto ciò che contava, al
momento. E Edward era un padre esemplare, nonostante tutte le sue
mancanze.
Quando il bacio
s'interruppe,
mi scostai e vidi rivoli di sangue fresco colargli dalle maniche
inzaccherate della camicia. Spalancai gli occhi, il cuore prese a
battermi all'impazzata, tumtumtum tumtumtum, l'istinto di sopravvivenza
s'impossessò dei miei nervi tesi; il primo impulso fu quello
di
fuggire e lo feci, assecondai quell'impulso perché,
nonostante
tutto, avevo ancora paura di lui. Di mio marito.
Ma sapevo che
più cercavo di allontanarmi più il suo istinto
assassino si sarebbe accanito contro di me.
Così
fu. Ero a pochi
centimetri dalla porta quando lo sentii afferrarmi per i capelli, mi
scrollò come una bambola di pezza. Lo guardai, era nervoso,
impaziente e non riusciva a nascondere la rabbia che il mio gesto gli
aveva provocato.
«Così
non va, bella signora. Proprio non va»
Potevo
considerarla una
routine, quella. Io fuggivo e lui mi rincorreva, imprigionandomi in un
amore dannato, maledetto dalle nostre stesse nature. L'umana
e il
vampiro, che assurdità!, che abominio, che perverso scherzo
del
destino.
Non potevo
amarlo, perché Edward mi era superiore in tutto: la sua
forza, la sua intelligenza, la sua bellezza.
La sua
crudeltà.
Non avrei mai
potuto avere la
meglio su di lui. Mai. Saremo sempre stati la serva e il
padrone, la vittima e il carnefice.
Al tempo stesso,
amare quella
creatura demoniaca mi era inevitabile come il sorgere del sole, come il
calare della notte, come il passare dei giorni che scandivano la nostra
quotidianità. Si era impossessato del mio cuore con la
forza, e
io non potevo fare nulla, se non piangere lacrime amare dopo essermi
lasciata ammaliare dal colore dei suoi occhi, dal sapore
della
sua pelle, dalla serica consistenza dei suoi capelli che
s'intrecciavano alle mie dita quando facevamo l'amore.
«Quante
volte ti ho detto» sussurrò «che non amo
essere respinto da mia moglie?»
Mi feci coraggio
ed esclamai «Tante quante io ti ho ripetuto che non sarei tua
moglie se tu...»
«Sono
stanco,
Isabella» una pausa. I suoi occhi mi trafissero con uno
sguardo
imperscrutabile «Ho combattuto una lunga battaglia e vorrei
solo
godermi qualche istante di pace. E' possibile?»
«Quanti
uomini hai
ucciso questa volta?» dissi «Dieci, venti, mille?
Dopo
tutto quello che ho fatto per porre fine a questa guerra,
io...»
«Tu
esisti» c'era
uno strano fervore nel suo tono «Questo basta a scatenare una
guerra di disastrosa portata »
Le sue parole mi
ferirono.
Sapere che il conflitto fra Edward e James era solo colpa mia rischiava
di farmi impazzire. Lui se ne accorse, ma non disse nulla.
Probabilmente gli piaceva torturarmi.
Ma io non ero
meno perversa di lui. La sua cattiveria mi aveva contagiato, la mia
anima non era meno corrotta della sua.
E allora lo feci,
incurante
dei rischi, della scintilla di avvertimento che si accese nei suoi
occhi. Incurante persino di me stessa esclamai:
«James
non mi avrebbe mai trattata così. Mio marito...»
«Lui
non è tuo
marito!» il suo sibilo ebbe lo stesso impatto di
un'esplosione.
Barcollai, stordita, e Blake iniziò a piagnucolare. Era
sconvolto e io mi pentii immediatamente del mio comportamento.
«Rosalie»
mormorò Edward, e la vampira si volatilizzò al
mio
fianco, mi lanciò uno sguardo disgustato -che fece stringere
i
pugni a Edward- e prese in braccio mio figlio, ancheggiando verso la
porta.
Quella visione mi
fece tremare
in preda a un attacco di ilarità «Vogliamo parlare
della
tua amante, Edward?» dissi, e lui aggrottò le
sopracciglia.
«Non
è la mia amante»
«Ma lo
è
stata» presi fiato «E tu mi costringi a subire ogni
giorno
la sua presenza. Non ti rendi conto di quanto sia crudele tutto
ciò?»
Rise
«Sei gelosa, bella signora? Non preoccuparti, Rosalie non
c'entra niente fra me e te. Non la penso neanche»
Quella
rassicurazione mi fece
avvampare «Gelosa...» sussurrai sbalordita
«Gelosa di
te? Io ti odio, Edward, io...»
«La
gattina ha tirato
fuori le unghie» una sua mano mi scosse, i miei occhi si
appannarono, faceva male, era così forte, così
arrabbiato, e io ero sempre stata terrorizzata dalla sua furia.
Come per magia, i
ricordi si
affastellarono nella mia mente e io non fui più
lì, fra
le rigide braccia di Edward che mi stringevano a sé. Fui
catapultata indietro nel tempo, in un luogo in cui tutto pareva
così distante:
io ero
diversa, lui era diverso... ma c'era qualcosa di così
familiare
in quella visione che le lacrime iniziarono a rigarmi le guance; scossa
dai fremiti, iniziai a ricordare.
Ero stesa su un
pagliericcio improvvisato all'angolo di una cella stretta e ostile; il
buio era così fitto che non riuscivo a distinguere nulla, se
non
un flebile raggio di luna che filtrava dalla feritoia che si affacciava
sul pittoresco giardino della tenuta. Ero stanca, avevo le ossa
indolenzite, lo stomaco mi brontolava ma mi rifiutavo di mangiare,
avevo gli occhi arrossati, pieni di lacrime, non riuscivo a parlare, mi
faceva male la gola, il freddo era così pungente che
sembrava
avermi intorpidito le corde vocali.
Mi sentivo come
una bambola rotta, irreparabilmente guasta. Inutilizzabile.
E c'era sempre
quella voce
roca, sensuale, simile a fumo su velluto, incrinata dall'odio, dal
desiderio, dalla passione, che aveva preso a tormentarmi, facendomi
contorcere dalla disperazione. Non volevo sentirla. Non volevo sentire niente.
«Svegliati,
bella signora»
Quella voce era
insistente, avevo paura, una tremenda paura che mi avrebbe fatto del
male. Era un mostro. Un mostro.
Quando sentii le
sue mani
gelide sfiorarmi il viso tremai e mi ritrassi; i suoi occhi rossi
parvero brillare nel buio, inchiodandomi sul posto. Iniziai a piangere.
«L'hai
voluto tu,
Isabella Swan» disse la voce «Ti avrei dato tutto
ciò che desideri. Tutto. Ma tu... » il
tono del
mostro s'incrinò «E' questo che vuoi, piccina?
Vivere in
una prigione sudicia e sporca, senza acqua né cibo
né un
letto caldo in cui dormire?» sentii il suo alito sferzarmi le
guance.
Piansi
più forte, ma
lui m'ignorò. «Vieni con me. Diventa la mia donna.
Ripudia
quell'uomo che chiami marito...»
«James»
dissi, e lo sentii serrare la mascella.
Mi
afferrò per la vita,
mi strinse a sé e mi bisbigliò fra la massa di
capelli
spettinati: «James morirà presto, Bella Swan. Ha
commesso
un imperdonabile errore facendoti sua. Noi due ci apparteniamo,
sai»
«Sei
pazzo»
«Cos'è
la pazzia, se non un eccesso di saviezza?» citò
ironicamente.
«Non ti
conosco
nemmeno» insistetti, e lo sentii ridere. Mi
abbracciò, si
alzò e mi trascinò fuori dalla cella, ignorando
il mio
frenetico dibattermi «Mi conoscerai presto, bella signora. E
adesso vieni con me, credo di averti aspettata abbastanza»
Forse furono i
suoi occhi
iniettati di sangue, forse fu il suo profumo ipnotico, inebriante, o
forse fu semplicemente il fatto che nessuno, nessuno avrebbe
potuto resistere alle sue avances.
Fra lacrime di
disperazione e
sospiri di piacere un'ora dopo riuscì nel suo intento. E lo
fece
con una passione, con un coinvolgimento che mi catturò
l'anima.
Mi rese sua,
sì, e
questa volta per sempre, perché le sue parole sussurrate a
pochi
centimetri dalle mie labbra, e poi fra i miei seni, e poi fra le mie
gambe di adultera erano inequivocabili: avrei potuto piangere e
strillare e tentare di sfuggirgli, avrei potuto odiarlo, maledirlo e
implorare pietà, avrei potuto cercare di ucciderlo con le
mie
stesse mani; ero sua, e lui era mio, io e Edward ci appartenavamo,
nessuno mi avrebbe strappata dalle sue braccia. Braccia che per il
resto della notte si serrarono come una prigione d'acciaio intorno al
mio corpo.
«Adesso
basta,
Bella» il ringhio di Edward mi fece tornare al presente. Lo
guardai e capii di aver preso a tremare. Scrollai il capo e Edward
strinse i denti.
Arretrai. Lui
avanzò.
Era sempre
così, fra
noi. Lo amavo e lo odiavo con un fervore che mi lasciava stordita,
esausta, destabilizzata. E anche lui mi odiava, perché non
mi
abbandonavo ai suoi baci come avrebbe voluto, e Edward aveva un
disperato bisogno del mio amore. Ma non si sarebbe mai abbassato a
chiederlo: lo avrebbe semplicemente preteso, come pretendeva tutte le
cose del mondo. Me compresa.
«Voglio
uscire,
Edward» mi sorpresi a esclamare, e lui mi squadrò,
spiazzato dal mio repentino cambio di argomento.
La
verità era che non
ce la facevo più a soffermarmi su quei terribili pensieri;
sarebbe stato meglio accettare il mio destino e mettermi l'anima in
pace. Forse in quel modo sarei riuscita a essere felice.
La sua risposta,
però, infranse anche quella debole speranza.
«No»
si limitò a sibilare e io lo guardai, indignata.
«Sono
tre giorni che non vedo la luce del sole. Mi
ammalerò»
«L'ultima
volta che ti ho fatta uscire hai tentato la fuga, bella signora. La mia
risposta è no»
Scoppiai a
piangere.
Edward rise
«Piangi
pure, piccina, ribellati e invoca il tuo Dio, odiami e rifiutami il tuo
amore. Sappiamo entrambi che quando ti porto a letto ti
sciogli»
si mosse a velocità vampiresca, mi afferrò per la
vita e
mi sollevò il mento, costringendomi a guardarlo
«Sono
destinato a vincere questa battaglia, Isabella Cullen»
sottolineò il mio nuovo nome con voce compiaciuta
«Sappiamo entrambi che sei mia»
«Non
così»
gli diedi un pugno sul petto e lui emise una risata tonante, divertita
«Mai così!» questa volta urlai, ma lui
non fece una
piega. Inclinò leggermente il capo di lato, mi
cullò fra
le braccia trascinandomi lentamente sul baldacchino che troneggiava al
centro della stanza.
Sul nostro talamo
incombeva un
inquietante ritratto della me stessa di due anni prima; non sembravo
neanche più io, non mi riconoscevo, ero così
cambiata.
Era stato Edward
a costringermi a posare pochi giorni dopo esserci sposati.
Diceva che quando
dormivo gli
mancava perdersi nel colore dei miei occhi; quel dipinto sarebbe
riuscito a ricordarglielo, a ricordargli che ero sua moglie.
Sua, sua,
sua.
Pendeva sulle
nostre teste come una spada di Damocle, come il ritratto di un'
imperfetta Maria Maddalena.
E poi successe
che tutto
divenne confuso, il dolore si trasformò in piacere, la
sconfitta
in senso di trionfo, perché vederlo spogliarmi e guardare il
mio
corpo nudo con occhi adoranti, stregati, ossessionati era la mia
personale rivincita. Successe che lo sentii incombere su di me, dentro
di me, intorno a me, annientando ogni distanza, pronto a riempire ogni
mio spazio vuoto. Ma non mi sentivo sopraffatta, mi sentivo
completa, come ogni volta che facevamo l'amore, e come ogni volta lui
sussurrò:
«Sei la
madre di mio
figlio, Isabella. Sei la mia bella signora, la mia vita, la mia anima e
tutte le cose del mondo, il mio ultimo scopo e forse anche di
più. Non scapperai da me. Non scapperai da noi.»
Allora,
amore mio, facciamolo. Dilaniamoci come hanno fatto tutti gli altri
amanti. Senza pietà. Diamoci quest'ultima prova d'amore,
detestiamoci e lasciamo che sul nostro letto cresca il disgusto di
tutto.
A pochi chilometri di distanza un uomo
dai serici
capelli biondi s'inginocchiò davanti al pulpito di una
chiesa.
Il luogo in cui lui e sua moglie, la sua adorata Isabella, si erano
sposati. Era passato tanto di quel tempo, eppure James ricordava ancora
i suoi dolci occhi castani, le guance timide, rosse di vergogna, a
volte di piacere, altre di disappunto -quanto era buffa quando si
arrabbiava!, e lui riusciva sempre a calmarla. Era bellissima, talmente
bella che tutto il regno gliel'aveva invidiata, e lui si era crogiolato
in quell'egoistica soddisfazione maschile, l'aveva amata e aveva
fantasticato sui loro bambini e sul loro futuro. Ricordava la prima
volta in cui avevano fatto l'amore, e quando avevano riso, si erano
abbracciati e avevano corso nei campi di Baal, la loro terra promessa.
Sua moglie gli
aveva catturato
il cuore e nessuna donna avrebbe potuto prenderne il posto. Un posto
che le apparteneva da sempre e da mai; Isabella era un pensiero
perpetuo, irrazionale, un'ossessione costante e pericolosa.
Isabella. Sua
Bella.
Poi era arrivato
quel mostro e
gliel'aveva sottratta. Un verso di grutturale disperazione
abbandonò la bocca di James. Continuò a ripetersi
che
l'avrebbe trovata, l'avrebbe ricondotta a sé, l'avrebbe
amata
ancora e ancora e ancora. Non avrebbe permesso a nessuno di
portargliela via. Ma la determinazione non attenuava il tormento che
pareva stritolargli l'anima, mutilarla, calpestarla. Grondava sangue e
veleno e sete di vendetta.
La rivoleva. Era
sua, lo era
per volere di Dio e della legge, e lui se la sarebbe ripresa. James
sorrise, un sorriso umido e meschino, l'assenza di sua moglie lo aveva
fatto diventare così, in bilico fra giusto e sbagliato, non
aveva principi, non aveva coscienza, non gli importava di quante
persone sarebbero morte, trucidate dall'amore di James, annientate
dalla passione di Edward.
Ed era tutta
colpa sua: Bella, Isabella, «amore
mio»
sussurrò. La sua donna. Il silenzio lo
circondò. Avrebbe ucciso quel bastardo usurpatore e
l'avrebbe
riportata a casa. Soltanto questo contava.
Il
piacere che lei mi ha dato?
A
volte sento uomini raccontare del piacere preso, da questa o da
quella...
Non
lo so, mi vien da dire, andiamo, su, era ben altro.
Altro.
Non
ci sono parole per questo.
Credits.
Le
frasi scritte in grassetto sono rispettivamente tratte da:
Starless,
Verdena.
L'amore nuovo, di
P.Forest
L'introduzione
è invece presa da un libro di Eve Silver, Sins of the Flesh.
La frase:
cos'è la
pazzia, se non un eccesso di saviezza?, è ispirata al libro
La
lunga vita di Marianna Ucria, di Dacia Maraini.
Come lui voleva è anche il titolo di un libro di Shreve
Anita.
Io e Matisse abbiamo creato una pagina facebook dedicata alle nostre
storie: per spoiler, anticipazioni e curiosità cliccate sul
banner.
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