YSM
Con il decollo dell’aereo avevo
definitivamente chiuso con la mia vita a Los Angeles.
Desideravo allontanarmi da tutti,
allontanare tutti da me.
Non riuscivo più a comportarmi
normalmente, non dopo quello che mi era successo.
Quel dannato giorno, durante il mio
turno di lavoro, avevo capito almeno una cosa: Los Angeles non poteva più
essere la mia casa.
Come i miei genitori avevano
preso l’abbandono del college a un esame dalla laurea? Ovviamente male.
Si erano arrabbiati e questo mi
aveva spinta ancora di più a scappare lontano.
Non mi sentivo pronta, non volevo
che fossero le mie mani a decidere della vita o della morte di una persona.
Alexis Cooper non aveva tutto
quel potere.
Mi massaggiai le tempie,
sistemandomi nello scomodo sedile della classe economica.
Sì, perché i signori Cooper avevano definitivamente chiuso
tutti i loro rapporti con me.
Non volevo continuare a studiare?
Bene, mi sarei dovuta arrangiare. Nemmeno più un dollaro
sarebbe uscito dalle loro tasche per aiutarmi.
Per questo stavo fuggendo lontano, molto lontano, dalla mia
amata Los Angeles.
New York.
L’America? È grande… mi serviva un’intera nazione a dividermi dalla mia
precedente vita.
Niente più surf, niente più sole
o caldo. Non avrei più sentito l’aria umida contro il mio viso e nemmeno l’odore
di salsedine che mi impregnava il costume dopo essere rimasta a fare surf per
ore.
Non sapevo cosa aspettarmi dalla
Grande Mela; sarebbe stato tutto nuovo per me. Ero riuscita a trovare un
piccolo appartamento in periferia, poco fuori New York, nel Bronx. Non avevo
idea di che posto fosse, ma lì avevo trovato l’unico appartamento che potevo
permettermi con i miei pochi risparmi.
Dovevo cercarmi un lavoro, pagarmi l’affitto, imparare a
vivere da sola.
Niente più campus universitario.
Eppure, nonostante una parte di me fosse spaventata da tutti
i cambiamenti, un’altra era elettrizzata, perché sognavo New York da quando ero
bambina: il gande albero di Natale al Rockefeller Center, la pista di
pattinaggio sul ghiaccio. E chissà, forse sarei riuscita a vedere la neve per
la prima volta dopo ventuno anni. Della neve vera, non come quella che trovavo
nei negozi a Los Angeles.
Sorrisi di quel buffo pensiero, ricordando che era solo
giugno.
Quando l’aereo sussultò, toccando il terreno, sospirai
sollevata: non mi piaceva volare, soprattutto quando dovevo fare viaggi lunghi.
In ogni caso, quello sarebbe stato il mio ultimo viaggio,
visto che non avevo intenzione di tornare a casa.
Uscii dall’aereo, respirando profondamente; lasciai che
l’aria fresca di New York ‒l’aria della mia nuova casa ‒ mi riempisse i
polmoni.
L’aria di New York odorava di… asfalto, pioggia e qualche
altro odore che non riuscivo a percepire.
Davanti al rullo, mentre
aspettavo le ultime valigie, cominciai a guardarmi attorno: nessuno dei presenti
prestava attenzione agli altri, tutti sembravano aver fretta. Incredibile.
Lanciai un nuovo sguardo al rullo
perché le mie valigie sembravano non uscire più. Avevo spedito tutti gli altri
scatoloni quasi una settimana prima e avevo portato con me solo i vestiti e
qualche effetto personale.
Riuscii a fatica a scaricare il primo bagaglio dal rullo; al
secondo mi incastrai il piede sotto, schiacciandomelo. Imprecai mentalmente,
guardandomi attorno: che persone gentili, avrebbero almeno potuto aiutarmi!
Uscii dall’aeroporto con le mie due valigie quasi un’ora
dopo.
Camminai fino alla fermata della metropolitana e, dopo
essere salita con qualche problema, trovai un posto per sedermi.
Erano quasi le sette di sera, ero stanca, affamata e
cominciavo a pensare che l’idea di trasferirmi a New York non fosse stata poi
così intelligente.
Scesi alla fermata di Simpson Street, camminando fino
all’incrocio di Southern Boulevard con Westchester Ave. Lì avrei aspettato
l’autobus che mi avrebbe portato fino a Pugsley Ave. Da lì in poi avrei dovuto
camminare.
L’idea di andare in un quartiere sconosciuto da sola, di
sera, non mi piaceva, ma sapevo che i taxi erano molto costosi, e non potevo
permettermelo. Mi consolavo pensando che i trasporti pubblici erano comunque efficienti
e c’era sempre qualcuno che rincasava o andava a lavorare, a qualsiasi ora del
giorno e della notte.
Ringraziai l’autista dell’autobus, scendendo goffamente con
le valigie.
Dovevo solo cercare di seguire le indicazioni per arrivare
all’incrocio tra Whitter Street e Randall Ave, dove c’era il mio appartamento. Non
sapevo nemmeno in che condizioni l’avrei trovato.
Le indicazioni dicevano di procedere in direzione sud, verso
Virgil Place, da lì bastava svoltare a destra e sarei arrivata in Randall Ave.
Non era poi così difficile.
Feci un giro su me stessa, guardandomi attorno per capire
quale fosse il sud.
Nessun cartello per indicare Virgil Place. La donna che era
scesa con me dall’autobus camminava a passo svelto, mettendo sempre più
distanza tra di noi.
«Scusi?» urlai, sperando che riuscisse a
sentirmi.
Non rispose, svoltò all’angolo in fondo alla strada,
sparendo definitivamente dalla mia vista.
«Bene» sbuffai, mordendomi il labbro. Quel
gesto di solito riusciva a tranquillizzarmi.
Cercai il sole, ormai sulla via del tramonto.
Vedevo gli ultimi sprazzi di luce alla mia destra, quindi il
sud era davanti a me.
Sorrisi sollevata, prendendo le valigie e cominciando a
camminare, guardandomi attorno.
Non c’era nessuno per strada. Nessun ragazzo con lo skateboard,
nessun surfista di ritorno dalla spiaggia.
Arrivai a un incrocio, cercando indicazioni.
Dov’era Virgil Place?
Da un bar vidi uscire un gruppo di ragazzi: erano giovani e
sembravano felici. Una decina, forse meno; stavano scherzando tra di loro,
fingendo di lottare.
Sembravano simpatici.
Mi feci coraggio, attraversando la strada e avvicinandomi a
loro.
Il rumore delle ruote del mio trolley li fece voltare verso
di me.
«Scusatemi» mormorai, cercando di farmi un
po’ di coraggio.
Il fatto che fossero tutti molto più alti di me non aiutava.
«Sì?». Un ragazzo con i capelli corti e
scuri fece un passo in avanti, ghignando. Quella strana espressione sul suo
viso mi fece rabbrividire.
«Ecco… io,
io sono nuova qui e sto cercando di orientarmi». Sventolai il foglietto con le indicazioni che avevo tra le
mani. «Devo… devo arrivare al
198 tra Whittier Street e Randall Ave, solo che credo di essermi persa».
Cercai di sorridere, mentre un altro ragazzo, con evidenti
tratti ispanici, si avvicinava a me.
«Scherzi?» domandò, stampandosi sulle labbra
un bel ghigno, affascinante, ma spaventoso quasi quanto quello dell’amico.
«No, il
mio nuovo appartamento è qui, vedete?». Mi avvicinai di un passo a loro, puntando l’indice sul
foglietto con le indicazioni stradali.
«Lasciami
indovinare» sbottò il ragazzo
moro senza nemmeno guardare il foglietto. Era quello che mi aveva parlato per
primo. «Terzo piano?» azzardò, causando una risata di
tutti i suoi amici.
«Esatto» esultai felice. Allora anche a
New York i vicini erano cordiali, contrariamente a tutti i luoghi comuni.
Forse anche loro abitavano nello stesso palazzo.
«Abitate
lì anche voi?» chiesi,
sollevata di conoscere qualcuno del posto.
Mi faceva sentire meno sola.
«No,
abitiamo da un’altra parte» ridacchiò
un altro di loro, con i capelli rasati sui lati e più lunghi al centro, acconciati
in una strana cresta.
«Oh,
peccato» mormorai, abbassando
lo sguardo.
«Certo che
Cal se le sceglie stupide, eh Dead? Fighe finché vuoi ma completamente stupide».
Un ragazzo biondo, con una sigaretta tra le labbra si
avvicinò a me, girandomi attorno.
Un campanello d’allarme suonò nella mia testa, intimandomi
di allontanarmi velocemente.
«Grazie lo
stesso, credo di poterci arrivare da sola» farfugliai.
Tenni lo sguardo basso, cercando con le mani le mie valigie.
«Dove
credi di andare?» sogghignò
qualcuno, spostando una valigia perché non potessi prenderla.
«Dimmi,
sei la nuova puttanella di Cal? Credevo gli piacessero le bionde».
Il ragazzo moro che mi aveva parlato per primo mi prese il
mento tra le dita, costringendomi ad alzarmi in punta di piedi.
«Mi fai
male» mi lamentai, cercando
di indietreggiare.
«Ti do un promemoria
da portare a Cal e a tutti i suoi»
sibilò, stringendo di più la presa sul mio mento e facendomi gemere per il
dolore. «Qui, in questo
incrocio, siamo noi i padroni, ok?».
Il suo naso sfiorò il mio.
«Ti prego,
non so di cosa stai parlando»
mormorai, sentendo una lacrima scendere lungo la mia guancia.
Sentivo il suo respiro sul mio viso. Puzzava di fumo e
alcool.
«Il
messaggio non è completo, tesoro»
sghignazzò, allontanando il suo viso dal mio.
Non riuscii a vedere la sua mano avvicinarsi, perché le
lacrime mi offuscavano la vista.
Sentii un forte dolore al labbro e subito dopo qualcosa di
caldo mi entrò in bocca.
Sapore di ferro.
Sangue.
Caddi a terra, inginocchiandomi e raggomitolandomi su me
stessa perché non potesse farmi male ancora.
Portai le braccia sopra alla testa, proteggendo il viso.
«Benvenuta
nel Bronx, puttana» ghignò
qualcuno, causando uno scoppio di risa.
«Ehi, Dead,
perché non guardiamo che cosa ha portato allo stronzo? Magari ha un po’ di roba
dentro alle valigie». Sentii
dei passi e mi costrinsi ad aprire gli occhi.
Dentro alle valigie, tra i vestiti, c’erano tutti i miei
risparmi. Se avessero aperto la valigia più grande se ne sarebbero accorti
subito, visto che non li avevo nascosti.
«Aiuto» cercai di strillare, attirando
solamente lo sguardo del ragazzo che mi aveva tirato il pugno.
«Che c’è?» si piegò verso di me, avvicinando
il suo viso al mio.
Indietreggiai, spaventata. Qualcosa mi diceva che sarebbe
stato in grado di ferirmi nuovamente.
«Lasciate
stare le mie valigie, per favore»
bisbigliai, pulendomi il sangue che mi sporcava il mento.
«Ragazzi?
Sentito? Dobbiamo lasciar stare le valigie della signora. Allora potremmo
prendercela con te? Mhh? Dici che ci possiamo divertire di più?» mi provocò, prendendo il mio viso
tra le mani e strattonandomi verso di lui.
«Aiuto» strillai di nuovo, mentre mi
circondavano, accerchiandomi.
Accadde tutto velocemente.
Sentii dei gemiti e il rumore di ossa che si rompevano.
Il viso del ragazzo con i capelli scuri non era più davanti
al mio.
Mi tolsi una lacrima dagli occhi per capire che cosa stava
succedendo.
Stavano lottando.
Indietreggiai, fino a quando la mia schiena toccò un
lampione.
Quel contatto improvviso mi fece urlare, attirando
l’attenzione del ragazzo che stava picchiando quello moro.
Era biondo, con i capelli corti. «Dollar, porta via la ragazza, è un ordine» urlò, assestando un nuovo pugno
sullo stomaco dell’altro.
Sentii dei passi verso di me e istintivamente chiamai aiuto
di nuovo.
«Tranquilla,
ti porto via di qui».
Un ragazzo giovane si accucciò davanti a me, sorridendomi.
Nonostante fosse buio e l’unica fonte di luce fosse il
lampione sopra di me, riuscii a vedere una profonda cicatrice che gli solcava
il viso; dall’occhio sinistro scendeva fino al labbro.
Mi aggrappai più forte al lampione, impaurita.
«Non avere
paura». Sorrise di nuovo,
facendo increspare la pelle lucida.
Sentii una mano scivolare dietro le mie ginocchia e l’altra mi
circondò le spalle.
Il mio capo si appoggiò al suo petto, mentre non smettevo di
tremare.
«Le… le…
le valigie» balbettai,
sperando che riuscisse a sentirmi nonostante il chiasso della lotta.
«Ryan,
prendete le valigie» urlò il
ragazzo con la cicatrice, stringendomi un po’ di più contro di lui.
Volevo fidarmi.
Dovevo fidarmi.
Avrebbe potuto picchiarmi, ma non l’aveva fatto.
Era l’unico appiglio che mi faceva sperare di essere al
sicuro.
«Come ti
chiami?» chiese, mentre
sentivo il vento contro il viso e le immagini attorno diventavano sempre più
sfuocate.
«A…lexi…s» biascicai, cercando di
concentrarmi sui lampioni, che però continuarono a spegnersi sempre più
velocemente.
Pulsare.
Forte pulsare al labbro e alla testa.
Brividi in tutto il corpo.
Sembrava fosse il principio di uno stato di shock.
Cercai di parlare, ma il labbro mi faceva talmente male che
rinunciai.
«Ryan, si
sta svegliando, credo».
Quella voce l’avevo già sentita. Mi concentrai per ricordare
dove. La rissa, il ragazzo biondo con la cicatrice.
Qualcuno si spostò di fianco a me e io spalancai gli occhi, cercando
di capire dove fossi.
Ero circondata da ragazzi.
Spaventata, mi portai le ginocchia al petto, nascondendo il
viso e proteggendomi la testa con le mani.
«Alexis, non
vogliamo farti del male».
Non era la voce del ragazzo con la cicatrice.
«Non so
chi sia Cal, vi prego»
strillai, ricordando quello che mi aveva detto il ragazzo moro, prima di
tirarmi il pugno.
Qualcuno cercò di trattenere una risata malamente e cercai
di sbirciare chi fosse.
Di nuovo il biondo, quello con i capelli corti. Lo stesso
che aveva ordinato a qualcuno di portarmi via.
«Non
vogliamo farti del male»
ripeté, sorridendo per tranquillizzarmi.
«Chi
siete?». Portai le braccia a
circondarmi le gambe, facendo attenzione a non sfiorare il labbro che
continuava a pulsare.
«Ryan, o
Cal». Il biondo con i capelli
corti si sistemò, sedendosi sul tavolino che c’era davanti al divano.
Feci vagare lo sguardo attorno a me, cercando di capire dove
fossi.
Le pareti, bianche, erano completamente spoglie.
C’erano pochi mobili, vecchi. Alcuni erano addirittura senza
dei pezzi.
Qualcosa, sulla parete dietro di me, attirò la mia
attenzione. Foto, tantissime foto segnaletiche.
La prima in alto mostrava il viso di Ryan.
Lasciai scorrere il mio sguardo sulle foto, riconoscendo i
volti dei ragazzi che mi stavano attorno.
Qualcuno appoggiò una mano sulla mia gamba, facendomi urlare
per la paura.
«Alexis,
calmati». Di nuovo la sua
voce, Ryan.
«Chi-chi
siete?» balbettai, indietreggiando
sul divano.
«Non avere
paura di noi». Il ragazzo con
la cicatrice.
«E quelle?». Con la mano tremante indicai la
parete tappezzata dalle foto segnaletiche, causando una risata generale.
«Quelle
sono le nostre foto» spiegò
un altro ragazzo, con i capelli scuri, gli occhi azzurri e un pizzetto.
La sua foto era appena più giù di quella di Ryan.
«Chi
siete?» tornai a chiedere,
spaventata.
Dove ero finita?
Perché c’erano le loro foto segnaletiche incorniciate alla
parete?
«Io sono
Ryan, o Cal, lui è Dollar».
Ryan indicò il ragazzo con la cicatrice, che mi sorrise, sistemandosi poi la
sciarpa a righe nere e grigie che portava. «Brandon»
continuò Ryan. Il suo sguardo si posò sul ragazzo con gli occhi azzurri e il
pizzetto che mi salutò con un gesto del capo, senza dire nulla. «Josh e Paul sono gemelli». Due ragazzi con i capelli biondi,
rasati quasi a zero mi sorrisero, prima di salutarmi anche loro con un
movimento della testa. Entrambi avevano gli occhi azzurri e si somigliavano.
Riuscivo però a notare alcune differenze. «Sick».
Indicò un ragazzo con un ammasso di capelli castani, tutti spettinati. «David, o Lebo, decidi tu come
chiamarlo, e infine Liam. Ne mancano un paio che sono usciti per alcune
commissioni» spiegò, tornando
finalmente con lo sguardo su di me.
Aveva un grosso taglio sul sopracciglio e il labbro era
gonfio.
Sulla guancia c’era un’ombra gialla: un vecchio ematoma che
se ne stava andando, probabilmente.
Ematomi, cicatrici, foto segnaletiche?
«Voglio
andare a casa» mormorai,
tastandomi il labbro con l’indice.
Lo sentivo molto più gonfio di quanto mi ero immaginata.
«Prima
vorrei sapere cosa hai fatto perché ti aggredissero».
Ryan, di nuovo lui. La sua richiesta assomigliava a un
ordine: la sua voce era dura, aspra.
«Niente» ribattei, cercando di ricordare
quello che era successo.
Avevo semplicemente chiesto un indirizzo.
«Non sei
una giornalista, non sei uno sbirro, che cazzo hai fatto perché ti prendessero
a pugni?» incalzò, stringendo
la mascella, teso.
«Ho
solamente chiesto se mi potevano aiutare perché non sapevo come arrivare nel
mio nuovo appartamento e hanno cominciato a inventare storie su di te» spiegai, indicando Ryan.
Avevano parlato di Cal. Mi avevano definito la sua
puttanella.
«Qual è
l’indirizzo del tuo appartamento?»
chiese Brandon, quello moro con il pizzetto.
«198 tra
Whittier Street e Randall Ave»
ripetei, socchiudendo gli occhi.
Sperai con tutta me stessa che non mi picchiassero anche
loro.
La reazione però, fu totalmente diversa da quella dell’altro
gruppo di ragazzi.
Cominciarono a ridere e qualcuno sogghignò un «certo che sei proprio sfigata».
Continuavo a guardarli uno a uno, aspettando che qualcuno mi
spiegasse che cosa stava succedendo.
«Ti hanno
chiesto il piano?». Di nuovo
Ryan.
Non riuscivo a capire perché quando parlava tutti si
zittissero.
«No, mi
hanno chiesto solo se era il terzo e ho detto di sì» spiegai, ancora confusa da quella strana situazione.
«L’avremmo
fatto anche noi, dai. Forse non così distante dalla loro base ma avremmo
potuto. Troppe coincidenze, no?».
A parlare fu Brandon.
Tutti si dimostrarono d’accordo con la sua frase.
«Però
hanno picchiato una donna. Questo non li giustifica. Lo sappiamo tutti, le
donne non si toccano» sbottò
Ryan.
Dollar, il ragazzo biondo con la cicatrice sul viso, annuì
convinto.
Io, invece, continuavo a essere sempre più confusa.
«Perché mi
ha detto che ero la tua puttana?»
chiesi, facendoli ammutolire.
Ryan si irrigidì, alzandosi dal tavolino sul quale si era
seduto. Fece qualche passo, tastandosi le tasche dei jeans alla ricerca di
qualcosa.
Trovò l’accendino e si accese una sigaretta, senza però
rispondermi.
«Non sei
uno sbirro, non sei una giornalista, perché sei venuta qui? Sei californiana,
no?».
Quella domanda posta da Ryan mi spiazzò. Come faceva a
sapere da dove venivo?
«Come lo
sai?» chiesi, alzandomi in
piedi.
Il mio sguardo si fermò su una tavola, pochi metri dietro al
divano sul quale mi ero svegliata.
Lì c’erano le mie due valigie aperte. Tutto il contenuto era
sopra alla tavola. Non c’era più un vestito piegato, i miei soldi erano in un
angolo.
«Che cosa
avete fatto?» strillai,
avvicinandomi a grandi passi ai bagagli vuoti. Perfino il mio beauty case, con
i pochi trucchi che mi ero portata, era vuoto.
«Un
semplice controllo». Ryan
espirò, producendo una nuvola di fumo.
Un semplice controllo?
«Chi vi ha
dato il permesso di aprire le mie valigie?» urlai, prendendo i miei vestiti e lanciandoli dentro al
trolley a caso.
«L’ho
ordinato io». Di nuovo quella
voce dura e autoritaria, di nuovo Ryan.
Perché parlava solo lui?
Ma soprattutto… «L’hai
ordinato tu? E chi sei, il capo?».
Gettai ombretto, matita e fard dentro alla piccola bustina con le tavole da
surf stampate sopra e sentii qualcuno ridere.
Rimanevano solo i miei soldi.
Chi mi garantiva che non li avessero presi?
Cominciai a contarli, ignorando gli occhi di tutti che erano
puntati su di me.
«Non
abbiamo rubato niente. Ci sono tutti. Millesettecentotrenta» spiegò Ryan, mentre finivo di
contare i soldi.
Non mancava nemmeno un dollaro, c’erano tutti, come mi aveva
detto.
«Voglio
andare nel mio appartamento»
sbottai, chiudendo la cerniera delle valigie in un gesto secco e stizzito.
Cercai di tirarla già dal tavolo, ma mi cadde a terra,
facendo ridere di nuovo qualcuno.
Possibile che per loro la situazione fosse così comica?
«Ti
accompagno» disse una voce
dietro di me. Riuscii a riconoscerla: era di Dollar.
Non lo ringraziai nemmeno, visto che Ryan parlò di nuovo. «No, vado io».
Voce autoritaria, sguardo duro. Di nuovo quello che sembrava
un ordine.
«Ma…» cercò di giustificarsi Dollar,
senza però riuscire ad aggiungere altro.
«Ho detto che ci vado io». La voce si fece ancora più dura
e io rabbrividii.
Faceva quasi paura.
Dollar non disse nulla, indietreggiò di un passo,
affiancandosi ai due gemelli e a Brandon.
«Dammi» sbuffò Ryan, prendendo le mie
valigie e sollevandole come se fossero state vuote.
Notai solo in quel momento i muscoli delle sue braccia,
evidenti anche sotto la maglia bianca.
Riuscii anche a scorgere diversi tatuaggi, ma non mi
soffermai troppo a guardare.
Non salutai nessuno, uscii a testa bassa, seguendo Ryan e
chiudendomi la porta alle spalle.
Mi trovai su un pianerottolo; davanti a noi c’erano le porte
di altri appartamenti.
«Interno
C?» chiese Ryan, fermandosi
al centro del terrazzino completamente spoglio. Non c’era nemmeno una pianta.
«Sì». Cercai il foglietto per
un’ulteriore conferma, ma non lo trovai.
Ryan si avvicinò alla porta con la targhetta 3C.
«Questa è
la tua chiave» sussurrò,
allungandosi per tastare sopra al cornicione della porta e porgendomi poi una chiave.
«Cos… com…
abiterò qui?» farfugliai,
indicando la porta davanti a noi.
«Il
proprietario non si fa mai vedere, passa a fine mese per l’affitto» cominciò a dire, aprendo la porta
e portando dentro le mie valigie.
Non riuscivo a capire.
Ryan e i suoi amici abitavano nello stesso mio palazzo? Al
terzo piano?
«Chiuditi
sempre, sia di giorno e ancora di più di sera. Non aprire a nessuno che non
conosci, nemmeno se è una donna».
Appoggiò le valigie in mezzo alla piccola cucina,
guardandosi attorno.
Quell’appartamento era una copia in miniatura del suo.
«Io non
conosco nessuno» mormorai,
abbassando lo sguardo.
«Mi
conosci, ci sono anche Brandon e gli altri. Di noi ti puoi fidare. Non aprire a
nessun altro, intesi?»
ordinò, aspettando una mia risposta prima di chiudere la porta.
Annuii solamente, rimanendo ferma nel centro della stanza.
Ryan chiuse la porta, senza nemmeno salutare.
Un improvviso silenziò calò nella mia nuova casa,
opprimendomi.
Mi guardai attorno: gli scatoloni che avevo spedito qualche
giorno prima erano sparsi per tutto il pavimento, una lampada, la mia
preferita, era rotta a metà.
Sospirai, stanca di tutto e scostai una sedia per sedermi.
Quando mi abbandonai sulla sedia, lo schienale si ruppe,
facendomi cadere a terra.
Urlai per lo spavento, cominciando a ridere subito dopo.
La risata isterica si trasformò presto in pianto, quando mi
resi conto che mi trovavo in un posto sconosciuto, senza nemmeno qualcosa da
mangiare.
Ero stata aggredita senza motivo e le uniche persone che mi
avevano rivolto la parola sembravano teppisti.
Il benvenuto di New York non era di certo stato caloroso.
Salve
a chi non mi conosce e bentornate a chi invece ha già avuto la sfortuna di
leggere –volente o nolente– qualcosa di mio.
Registro
diverso, storia nuova e soprattutto ambientazione e personaggi nuovi.
Premetto
già che il linguaggio non sarà dei migliori, sarà duro e alcune volte volgare.
Dunque,
come nasce questa storia?
Ho
letto da qualche parte “Gang” e qualche ora dopo ho ritrovato la cartolina di
un mio amico che diceva “mi sono perso nel Bronx, che paura!” e il neurone ha
unito le due cose.
Se
vi state chiedendo se la storia avrà dei rimandi a Sons of Anarchy (se qualcuno
l’ha visto) la risposta è ‘Snì’.
Sì,
perché ci sono alcune cose, come ad esempio le foto segnaletiche sul muro, che
sono prese da lì.
No,
perché ho letto interviste e articoli, e la storia delle bande, nel Bronx, non
è esattamente uguale a quella che traspare dai SAMCRO.
Comunque,
credo le note a fine capitolo saranno leggermente più lunghe rispetto alle
altre mie storie perché vorrei precisare alcune cose che magari nei capitoli
per qualche motivo non sono riuscita a spiegare.
Tutte
le strade citate in questo capitolo esistono, ho cercato su Google Maps, però
non so dirvi se effettivamente siano così vicine, visto che, come mi ha fatto
notare SidRevo,
un paio di strade distano tipo 2 miglia. Insomma, spero mi perdonerete se c’è
qualcosa di sbagliato, ecco.
Ah
sì, il numero dello stabile l’ho inventato, quindi quello con molta probabilità
è completamente sbagliato, ecco.
Ultima
cosa, spero che la storia possa piacervi, e, se vorrete lasciare in qualche
modo un feedback, be’, lo accetto volentieri, perché non so se l’idea può
piacere!
I
volti li trovate nel mio gruppo Fb (dove pubblico anche gli spoiler) che è
questo: Nerds’
corner.
Se
qualcuno vuole aggiungermi agli amici (ho sempre accettato senza chiedere nick,
però vi prego, se mi aggiungete, ditemi almeno che siete lettrici, perché cominciano
a esserci un po’ troppe richieste) il mio profilo FB è: Roberta RobTwili.
Un
enorme grazie a Malia85
che mi beta la storia e a TheCarnival per il
Teaser trailer che trovate a inizio capitolo.
La
mia idea è aggiornare una volta a settimana, però spero mi perdonerete, per il
prossimo mese, se i tempi saranno leggermente più lunghi, vista l’imminente
sessione di esami.
Bòn,
credo di aver finito di rompere, a presto!
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