Desclaimer: Sherlock e John sono
pargoli di Sir Doyle e nipoti di Moffat
e Gatiss. Al primo il ringraziamento per averli
inventati, ai secondi di averli mescolati a tanto slash
sottointeso. Ah, ovviamente scrivo gratis, tanto per ...*ironic
mode: on*.
Note:
avevo bisogno di fluff. Sul serio. Sto scrivendo la mia personale
interpretazione cerebrale/psicotica/angst alla 2x03,
ma dopo averla dovuta cancellare per la seconda volta mi sono persa d’animo...
e allora ben venga una piccola pausa fatta di puro fluff, che male non fa.
Questa fanfic,
lo ammetto, è un inno all’insonnia, e io ne so qualcosa (tragicamente). Amo
John, dunque per questa volta l’insonne sarà lui ;D giusto perché ci piace
farlo soffrire (?!). È anche il mio personale tributo al tè perché sì,
mettetemi davanti il Pure White della Twinings, o l’Earl Grey con zucchero e un po’
di limone, e sarò vostra perdutamente (l’istinto mi urla che non dovevo dirlo,
ma tant’è...).
Direi che è... beh, bromance, per lo più. Ma chi vuole vederci lo slash è liberissimo, io non mi offendo (sia mai!).
Il resto delle note al
testo è a fondo pagina :D
A chi vuole accingersi,
buona lettura ♥
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It’s a Twinings Moment
Sul
ripiano accanto al fornello c’era una mano mozzata immersa nella colla di
pesce.
John
la osservò con un principio di riluttanza e un discreto grado di rassegnazione.
Aveva addosso i pantaloni del pigiama azzurro a righe bianche verticali, una
maglietta di cotone di un verde improponibile, era sudato e spettinato e se ne
stava in piedi in cucina a guardare una mano mozzata dentro una terrina immersa
nella colla di pesce.
Ogni
– e ribadisco: ogni – persona con un
briciolo di sanità mentale sarebbe come minimo svenuta, mentre come massimo si
sarebbe messa ad urlare istericamente svegliando non solo il coinquilino
scellerato e l’amabile padrona di casa che “non sono la vostra governante”, ma
anche i dirimpettai, il vicinato e tutta la maledetta Baker Street.
Ma
non John Watson. John Watson era un medico, era un soldato, era tornato (quasi)
integro dalla guerra e, soprattutto, viveva
con Sherlock Holmes (ricordate lo “scellerato coinquilino” di qualche riga
fa?).
Per
John Watson svegliarsi alle tre del mattino e trovare parti anatomiche varie in
giro per l’appartamento era diventata una cosa normale, e quando ci pensava a
mente fredda si diceva sempre che era qualcosa di cui avrebbe dovuto
preoccuparsi, probabilmente.
Poi
guardava l’orologio, si rendeva conto che erano le tre del mattino e lui era in
piedi in cucina come uno zombie e lasciava perdere tutto per la sanità mentale
dell’affittuaria non-governante, dei dirimpettai, del vicinato e di tutta la
fottutissima Baker Street. Il coinquilino con il morbo della sperimentazione
selvaggia non veniva mai interrogato veramente, dato che l’unica cosa che
sapeva rispondergli era “è un esperimento, John! Sto tentando di...” fare questo con quello per scoprire se dopo
la morte questo e quello di trasformano in quell’altro perché “...potrebbe tornare
utile in un qualche caso”.
Dio,
adesso si metteva anche a completarsi i flashback da solo.
Anche
quella notte – come tutte le altre – scosse il capo con auto-rassegnazione e,
semplicemente, spostò terrina e relativo arto mozzato un poco più in là (qualche metro più in là).
Dobbiamo
dire le cose come stanno: solitamente non era John quello dei due abitanti del
221B a soffrire di una potente crisi d’insonnia. Quella era cosa abituale di
Sherlock, cioè dell’individuo in grado di suonare il violino in piena notte e
di lasciare in cucina aspic di mani mozzate con contorno di colla di pesce.
Quando succedeva all’altro coinquilino – il più normale dei due, diciamo – era
sempre per un motivo ben preciso.
Aveva
sognato l’Afghanistan, semplicemente. Non era la prima e né sarebbe stata
l’ultima volta e anche se ormai succedeva raramente che si svegliasse di botto,
sudato e intrappolato in un groviglio di lenzuola, dal momento in cui apriva
gli occhi e fissava il buio della sua stanza si rendeva immediatamente conto
che non avrebbe più preso sonno.
Era
uno di quei momenti che necessitava di un tè, il panno, la poltrona, e qualche
occupazione alternativa per arrivare al mattino. Ma soprattutto di un tè.
Mani
mozzate e colla di pesce permettendo.
Estrasse
il bollitore dalla credenza, riempiendolo velocemente d’acqua e mettendolo sul
fornello già acceso. Aprì poi l’anta della credenza adiacente alla prima,
carezzando con gli occhi le varie scatole di tè allineate in modo disordinato
sulla mensola.
Aveva
voglia dell’English Breakfast e del suo sapore forte, ma non era il caso di
caricarsi di teina con il livello d’ansia che si trovava ancora addosso. Stesso
discorso valeva per Prince of Wales nonostante fosse
più delicato, come sapore. Sfiorò l’idea di un Pure White con due gocce di
limone, e quell’idea gli ammiccò a sua volta, ma poi decise di andare sul
classico e prese con due dita una bustina dalla scatola dell’Earl Grey.
Mentre
aspettava che l’acqua arrivasse ad ebollizione diede un’occhiata al resto della
cucina, non stupendosi affatto di vederla occupata da qualsiasi tipo di
utensile che con la stanza non ci azzeccava un emerito niente. Sembrava più il
laboratorio del Piccolo Chimico, dell’Allegro Chirurgo e del Novello Patologo
tutti assieme e per fare un profondo piacere ai suoi già provati neuroni glissò
di nuovo sulla necessità di rendere quella cucina un po’ più simile a quello
che doveva essere – una cucina, per l’appunto – e un po’ meno somigliante al
laboratorio di Frankenstein.
Con
un sospiro versò l’acqua calda nella tazza, coprendola con un piattino e
appoggiandola su di un vassoio a caso insieme al limone e allo zucchero. Prese
tutto in mano, spense con il gomito la luce in cucina e si diresse in salotto,
dove solo l’alone soffuso della lampada illuminava il percorso verso la
poltrona.
Appoggiò
il vassoio sul tavolino di fianco ad essa e mentre aspettava i canonici cinque
minuti, necessari al tè per andare in infusione, ciabattò silenziosamente verso
la libreria e si mise a vagliare i frontespizi.
Lesse
qualche titolo e, per la prima volta da quando passava le sue nottate insonni
al 221B di Baker Street, si rese conto che quelli erano tutti libri di
Sherlock. Si accorse come un fulmine a ciel sereno che lui non aveva portato
libri, in quell’appartamento – i suoi erano ancora chiusi in uno scatolone
nella soffitta muffita della vecchia catapecchia dei suoi genitori, oppure
nella cantina del Barts insieme a tutti i manuali
dalle pagine scarabocchiate che la biblioteca metteva a disposizione quando lui
era ancora giovane e stringeva il mondo fra le dita della mano sinistra, perché
la destra gli serviva per scrivere dunque era impegnata.
Realizzò
che tutto quello che aveva portato con sé stava comodamente in una valigia, ed
era tutto al piano di sopra, nella sua stanza. Per il resto, quell’appartamento
era pieno della roba di Sherlock; lui stava immerso
nella roba di Sherlock, e se si metteva a filosoficare
un po’ pensando, ad esempio, che le cose di Sherlock potessero essere
un’estensione di Sherlock stesso, ciò voleva dire che lui era praticamente
circondato dalle braccia di Sherlock, dalle membra di Sherlock, dal tutto di Sherlock.
Si
sentiva tanto come la mano mozzata nella colla di pesce.
Sospirò
pesantemente afferrando un libro a caso senza nemmeno guardare quale fosse, per
poi andare a sedersi nella sua poltrona. Quella almeno era già compresa con il
mobilio dell’appartamento, dunque poteva dire che era diventata “sua” tra
virgolette. “Sua” finché pagava metà dell’affitto, per lo meno.
Si
avvolse con il panno, mettendoselo sulle spalle, per poi condire il tè e berne
il primo sorso. L’aroma rilassante dell’Earl Grey si diffuse come miele giù per la gola e dentro lo
stomaco e solo in quel momento si rese conto di essere ancora teso dall’incubo
appena vissuto, dato che i suoi muscoli si distesero piacevolmente. Aprì
distrattamente il libro ad una pagina a caso, rendendosi conto solo dopo
qualche parola che era una sorta di manuale di grafologia e analisi della
scrittura. Chissà perché non si aspettava un romanzo.
Avrebbe
volentieri acceso la televisione, ma considerando che per una volta il suo
coinquilino non era steso sul divano a far lavorare l’instancabile cervello che
si trovava, non suonava Bach o Paganini, non percorreva chilometri avanti e
indietro per il salotto e, soprattutto, dormiva,
era fermamente convinto che fosse meglio non svegliarlo.
Ovviamente,
tutte le sue considerazioni si risolsero come sempre in un mucchio di buoni
propositi schiacciati con violenza contro un muro. La porta della camera di
Sherlock si aprì con un click sommesso e, subito dopo, la zazzera piena di
ricci color inchiostro si affacciò alla porta, osservandolo.
John
evitò di incatenare per troppo tempo il suo sguardo a quegli occhi dall’incredibile
color azzurro e si limitò a sospirare appena sul filo della tazza che teneva
appoggiata alle labbra. « Ho fatto troppo
rumore? » domandò allora,
prendendo un sorso del tè e sfogliando casualmente il libro. Per una volta
nella vita aveva abbandonato la sua compostezza inglese e si era seduto a gambe
incrociate, il libro poggiato nel loro punto d’unione, in equilibrio perfetto.
« Oh, no » rispose Sherlock,
pantaloni del pigiama azzurri – lo faceva apposta a mettersi il pigiama dello
stesso colore del suo? – e maglietta a mezze maniche bianca, semplice. « Per la media sei
stato anche fin troppo silenzioso, dovrei congratularmi » aggiunse,
incrociando le braccia ed appoggiandosi con la spalla allo stipite della porta.
John,
dal canto suo, sospirò. « Era un modo
velato di chiederti scusa per averti svegliato, Sherlock ».
« Non sei stato tu
a svegliarmi, John » gli rispose però
l’altro, aggiungendo poi: « in teoria non stavo nemmeno dormendo, dunque il verbo
“svegliare” non sarebbe del tutto esatto. Si potrebbe dire che hai attirato la
mia attenzione, oppure... »
« Sì, Sherlock, ho
capito il concetto » lo interruppe
Watson, guardandolo da sopra la spalla: « allora scusami per qualsiasi cosa io
abbia fatto per spingerti ad uscire da camera tua » disse, stizzito,
probabilmente parlando troppo.
Nella
sua ormai comprovata abilità di trattare e sopportare Sherlock Holmes,
purtroppo aveva momenti in cui nemmeno la pazienza e la capacità di adattamento
riuscivano a reggere uno dei discorsi eterni che si sviluppavano quando Holmes
si lanciava in uno dei suoi pensieri frenetici. C’erano attimi in cui nemmeno
l’oceano calmo e paziente contenuto nella calotta cranica del dottor Watson
riusciva ad adattarsi alle sinapsi criptiche e fulminee del genio, e uno di
quelli era quando si svegliava sudato nel suo letto, con la sensazione di avere
ancora un coltello da campo infilato fra detonatore e parte esplosiva di una mina
nel mezzo della sabbia.
Quando
la mano sinistra aveva lievi tremori quasi invisibili, quando la gamba pulsava
di un dolore che in realtà non c’era e quanto il buco nella spalla non pulsava di un dolore che sarebbe
stato l’unico ad essere effettivamente giustificabile.
E
forse Sherlock lo sapeva, lo notava, lo
aveva dedotto. Per questo, nonostante avesse la voglia seria di
rispondergli a tono – non vedeva sul serio l’ora, glielo si poteva leggere
dagli occhi – rimase in silenzio.
Sherlock
Holmes che si trattiene. Ora sarebbe potuto morire felice.
Il
medico si risolse a sospirare, calmando se stesso ed il suo tormento interiore.
« Scusami – disse
poi – è solo che... »
Questa
volta fu il turno di Sherlock di interromperlo. « Lo so » replicò,
semplicemente.
« Devo solo... » riprese John.
« Lo so » gli rispose
nuovamente Holmes.
Watson,
chiudendo definitivamente il libro, sospirò. « Scusami... » ripeté.
« Ti stai scusando
un po’ troppo » gli rispose
Sherlock, staccandosi finalmente dallo stipite della porta e camminando in sua
direzione.
Era
scalzo, notò John, e il rumore dei passi rimbombò cupamente sul parquet e poi
sul tappeto. Gli si affiancò, sedendosi sul bracciolo della poltrona, per poi inclinarsi
all’indietro fino ad infilarsi con il corpo fra la sua schiena e lo schienale
della poltrona.
Ed
il verbo “infilarsi” non rendeva esattamente l’idea. Si stava propriamente accaparrando lo spazio sulla poltrona,
spingendo Watson sempre più verso il bordo, fino a farlo cadere giù
completamente per occupare il posto prima usufruito da John praticamente steso
al contrario, con la testa su un bracciolo e la piega delle ginocchia sull’altro.
Era
vendetta, e questo il medico lo sapeva. Lo aveva interrotto in uno dei suoi
ragionamenti, gli aveva spento le luci del palcoscenico, dunque adesso si
vendicava di quel gesto.
Non
ribatté solo perché la sua unica priorità fu quella di non versare il tè sul
tappeto. « Sherlock...! » si lasciò però
sfuggire quando, incapace di puntellarsi sulle gambe ed alzarsi, arrivo con il
sedere per terra e quindi ad essere seduto ai piedi della poltrona ora
completamente invasa da Sherlock Holmes, i suoi capelli neri, la sua
intelligenza spropositata ed i suoi occhi azzurri.
Occhi
che lo stavano guardando da una posizione fin troppo rilassata, sorridendogli
appena. « Earl Grey » disse – affermò –
allora il proprietario di quegli occhi, quasi accoccolandosi meglio sulla
poltrona in questione e girandosi appena su di un fianco, per poterlo guardare
meglio.
John
ricambiò lo sguardo con uno duro e severo, ma fu incapace di mantenerlo per più
di quei due secondi di rimostranza effettiva. Si limitò a sospirare, annuendo
con il capo e passandogli la tazza. « Attenzione a non versarlo » sussurrò
solamente, mettendosi più comodo a sua volta: si girò sul fianco destro per
osservare meglio Sherlock e appoggiò la spalla alla poltrona, potendo così
adagiare la testa per metà sul proprio braccio ripiegato e per metà sul fianco
del detective.
Dal
canto suo, Sherlock lo lasciò fare e spense un sorrisetto soddisfatto sul bordo
della tazza, assaggiando il tè. Chiuse gli occhi mentre lo faceva, prendendo un
sorso – anche se bere da sdraiati non era effettivamente raccomandabile... –
per poi annuire lievemente. « Riesci sempre a metterci la giusta quantità di limone
» disse, passando
di nuovo la tazza al dottore, che bevve a sua volta. « Di solito tu
metti più zucchero » fu la sua
considerazione.
« Accetta il
complimento e basta, John. Mi sto sforzando » ironizzò Sherlock, riuscendo a
strappargli un sorriso.
« Allora, grande
detective, se ti annoi così tanto perché non accetti il caso che Mycroft tenta di sottoporti da quasi tre giorni? » cominciò John,
posando la tazza ai piedi della poltrona e osservando l’espressione dell’altro
cambiare, trasformarsi, assumere sfumature particolari che solo una sincerità
spiazzante come quella di Sherlock Holmes sapeva attribuire al suo volto, ai
suoi occhi. Quello si lanciò in una crociata verbale contro il fratello
maggiore, elencando motivi su motivi per cui l’altro avrebbe potuto anche fare
a meno di chiamarlo per “cretinate simili” – citato testualmente – e su come la
nuova dieta povera di sodio sembrava averne aumentato la perseveranza che
diveniva sempre fastidiosa insistenza.
Il
medico sorrideva, ascoltando.
Ormai
non si svegliava più tanto spesso, John, nel cuore della notte. I brutti sogni
tornavano solo ogni tanto, quando non era abbastanza stanco per dormire senza
sognare o non abbastanza euforico da sognare lui e Sherlock con Londra come
sfondo.
C’era
una cosa, però, che non avrebbe mai ammesso ad alta voce. Quando succedeva, e
si alzava dal letto con la sensazione sgradevole di essere un povero derelitto
rimesso insieme con del nastro adesivo e tanta speranza, era grato di aprire
gli occhi e rendersi conto di essere al 221B di Baker Street.
Era
grato di trovare resti umani in rigor mortis in giro per casa, grato di essere circondato
dalla roba di Sherlock, grato di passare nottate intere seduto sul tappeto a
parlare, e a dividere con il suo migliore amico una tazza di Earl Grey con limone e poco
zucchero.
No,
John Watson non lo avrebbe mai detto ad alta voce... ma sapeva che Sherlock lo
aveva già capito.
Sherlock
capiva sempre tutto.
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Il titolo è preso da una frase tipicamente
americana. La frase in questione è "it's a Kodak
moment" e viene utilizzata per descrivere quei momenti che sarebbero degni
di una fotografia. Sì, è un tributo alla famosa marca di rullini e macchine
fotografiche. Io ho fatto più o meno la stessa cosa con la Twinings
ed i suoi tè, volendo così descrivere il momento in cui, per mandare giù
qualcosa di pressante, serve assolutamente un tè (XD). Pubblicità molto poco
occulta BD
Per chi non lo sapesse, inoltre, la colla di
pesce si vende in fogli e viene usata in cucina per fare la gelatina. Sì,
proprio quella che ricopre quelle bellissime torte alla frutta che scaldano il
cuore e cariano i denti, alle quali dedichereste volentieri un Kodak moment.
E ora scommetto che nessuno mangerà più una
fetta di torta alla frutta. (Just kidding X°D)