Sherlock Holmes e John Watson
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Gatiss
Coffee is not my cup of
tea è una citazione di Samuel Goldwyn anche se
lo invidio per averla scritta. Questa è una fanfiction senza
scopo di lucro né pretese e fa riferimento a dialoghi/fatti
avvenuti nella puntata 2x02 (The Hounds of Baskerville). Lo slash
è esplicito ma non è spinto. Rating verde
Nessun avvertimento tranne
l'antipatia di Sherlock Holmes XD
Melina
Coffee is not my cup of tea
BBC
Sherlock/John
I
«È
un vero peccato che Gary della reception non sia riuscito a trovarci
una doppia» dice Sherlock, con le mani tasta la stoffa della
tenda color crema e non stacca gli occhi dalla finestra.
«Non fa
ridere» dice John, ma visto che Sherlock non guarda sorride
«comunque cosa ci fai ancora qui? Io sono stanco. Forse ti
sarà sfuggito, ma sono un essere umano, gli esseri umani non
stanno svegli trenta ore consecutive» lo guarda ma lui non
cambia posizione e John sbuffa, seduto sul letto.
«Una volta
per un caso sono stato sveglio per più di tre
giorni» dice poi Sherlock, questa volta si gira e con
l'angolo della bocca accenna a un ghigno.
«Sì
be', quello che dicevo. Gli esseri umani non stanno svegli
così a lungo» John affoga uno sbadiglio dentro al
maglione che si sta sfilando, quando rimane in camicia Sherlock
è ancora lì.
«Ho parlato
con Billy, la faccenda del cane è sistemata» dice,
e guarda il bordeaux sbiadito della camicia di John con una smorfia di
disgusto che non tenta nemmeno di nascondere.
«Quale parte
di “ho un sonno infernale, ti prego Sherlock ti scongiuro,
esci da questa stanza e lasciami dormire” non ti è
chiara?» replica John, è più irritato
dalla smorfia della bocca di Sherlock che dalla sua presenza e spera
che lui non ne distingua la differenza.
«Ha detto
che sostituiranno il vecchio mastino con un carlino»
continua, adesso non gli guarda più la camicia, guarda i
suoi capelli spettinati. O così sembra a John. Se li liscia
con le dita. «Oh, non posso crederci» dice poi, con
un sospiro.
«Sì
infatti, gliel'ho detto anch'io» risponde rapido Sherlock, e
John non sa davvero a quale sua affermazione stia rispondendo.
«Detto
cosa?» chiede. Per John non è certo una
novità fare finta di dare corda al bisogno di Sherlock di
essere teatrale in tutto quello che fa.
«Che per il
loro stile di vita non sono adatti i cani piccoli. C'è il
fattore essenziale della campagna, i turisti londinesi che vengono qui
vogliono...»
«Sherlock
sono stanco, vuoi per favore andare ad infastidire qualcun
altro?» John lo interrompe perché non sa cos'altro
fare per zittirlo. Non ci riesce mai, ma vale comunque la pena tentare.
«L'ho mai
fatto, John?» dice Sherlock a sorpresa. Una sorpresa che
richiede sarcasmo.
«Forse
Lestrade è ancora qui sotto al bar» dice John
«dopo tutto non ha perso dieci anni di vita in un fottuto
laboratorio, con un pazzo che gli amplificava i suoni della foresta da
una sala di controllo, lui» Sherlock si
è seduto sul davanzale e adesso lo guarda con interesse,
quell'interesse che fa spesso sentire John come una cavia da
esperimento, quello che oggi ovviamente è stato per davvero,
ricorda con una fitta di rabbia «Ma non ho dubbi che tu sia
ancora in tempo per provare anche su di lui qualche composto
narcotizzante» termina sprezzante.
Sherlock alza il mento
e lo guarda come fa sempre, dall'alto in basso. Anche se stavolta
è seduto e il suo metro e ottantacinque è
considerevolmente ridimensionato, ma lo sguardo funziona lo stesso
«Sei offeso perché ho detto che la tua non
è una mente superiore. Andiamo, sai cosa
intendevo!» esclama con una punta di impazienza, quella che
usa con John quando gli deve spiegare qualcosa di così ovvio
che è quasi ridicolo dire ad alta voce.
«Ma cosa
diavolo c'entra adesso la mia mente? Sherlock, quello che voglio
è solo dormire. Riposare. Chiaro?» Non sembra
chiaro a giudicare dagli occhi dell'amico.
«Chiarissimo.
Bene, la prossima volta non verrò a salvarti» dice
lui. Di certo lo fa apposta per irritarlo, e ci riesce ovviamente.
«Che
cos'è questo un gioco, Sherlock?» sbotta John.
Perché non ha voglia di trattenersi e perché
è quello che lui si merita.
«E questo
è un litigio, John?» dice lui calmo. È
calmissimo.
John espira forte.
«No fammi capire, tu hai architettato tutto, sei stato tu.
Sì. E adesso mi vieni a dire che la prossima volta non mi
verrai a salvare? E da cosa? Perché ti piace così
tanto spaventarmi?!»
«Mi sono
scusato con te». È sempre calmissimo e sembra lo
sia davvero, ma se anche fingesse John adesso non saprebbe accorgersene.
«Tu non ti
scusi, Sherlock. Quello che fai è una cosa
diversa» scandisce piano, proprio come quando è
molto arrabbiato «tu provi le tue teorie» una pausa
«su di me».
«Hai
accettato di lavorare con me» dice lui, quasi con noncuranza,
quasi come se la gentilezza che usa sempre con John fosse un favore
personale.
«Perché
prima d'ora non mi avevi mai spaventato a morte» risponde
John, gli pare ovvio. Evidentemente non lo è «e
non avevi mai provato a drogarmi con dello zucchero» sempre
più ovvio.
«Non ti
avevo neanche mai preparato il caffè» insinua
Sherlock.
«Ora non
farlo sembrare un favore, tu volevi avvelenarmi, e non ci sei neanche
riuscito» quasi grida, o così gli sembra.
«Ok lo
zucchero forse potevo evitarlo» è la reazione di
Sherlock, sempre calma «ma avevo ragione».
«Ragione»
dice irritato.
«Ragione,
sì. Tu hai bevuto il caffè perché sono
stato io a preparartelo» Sherlock muove due passi lunghi dei
suoi verso il letto dove John è ancora seduto, in maniche di
camicia e senza l'aspetto di uno che stia per andare a dormire.
«Pensavo
avesse a che fare con il caso, dopotutto tu non hai amici con cui
doverti scusare» dice lui, non gli importa se Sherlock si
offenderà, ma comunque non ha nessun diritto di offendersi
dal momento che è John ad avere ragione. È
ridicolo che Sherlock dica di avere ragione, ma è quello che
fa sempre e John non riesce a non esserne segretamente rassicurato.
«Mi sono
scusato anche per quello» dice Sherlock. Non sembra che gli
sia costato, ma è un ottimo attore.
«Le scuse
non c'entrano, non hai capito niente» ed è quello
che John pensa davvero. Non ha senso mentire, lui non è
Sherlock Holmes.
«Invece ho
capito tutto» fa lui. E il fatto che potrebbe essere sincero
fa bruciare le orecchie di John. Adesso vorrebbe persino che avesse
ragione sul serio e che gli spiegasse cosa in nome di Dio sta
succedendo tra di loro.
«Non puoi
averlo fatto» afferma.
Sherlock non si muove,
come se non osasse avvicinarsi, pensa John, ma di certo sbaglia, dopo
tutto ha sempre sbagliato su Sherlock Holmes. Adesso gli pare stupido
avere creduto anche solo per mezza giornata di averlo capito. Scrive un
blog su una persona che non esiste.
«Ha a che
fare coi sentimenti, ha a che fare con te» dice lui da troppo
lontano. Bravo, giusto. Dove hai imparato a recitare così
bene? John sotterra da qualche parte dentro di sé questa
domanda, non lo ferirebbe abbastanza. Neanche la sua delusione della
sera davanti al camino l'ha ferito, oppure non l'ha fatto
così in profondità. Sherlock è
indistruttibile, è un giocatore esperto. John non lo
è mai stato perché non ha mai imparato a mentire
come si deve.
«Hai giocato
un po' troppo» dice piano «questa volta hai tirato
un po' troppo la corda. Hai rischiato, Sherlock» e poi tace
perché gli si chiude la gola e distoglie lo sguardo
perché ha di nuovo paura. Aspetta che Sherlock parli di
nuovo.
«Cosa vuoi
dire?» replica lui asciutto. La sua non sembra neanche una
domanda.
«Lo sai
benissimo» lo sa benissimo. Sherlock lo sa perché
è dannatamente colpa sua se John ha dovuto telefonargli per
niente e fare quella voce fragile, spaventata e inerme. È
colpa di Sherlock Holmes se John ha bisogno di telefonargli quando
è spaventato a morte, è colpa sua se il solo
suono della sua voce può calmare la paura di John.
«E ho
perso?» dice dopo una pausa che sembra durare un'ora. Ha
qualcosa di strano la sua domanda, questa volta sembra una domanda. E
sembra quasi che la risposta a questa vera domanda gli importi
seriamente, ma non può essere.
John però
risponde ugualmente. Che cosa vorrebbe sentirsi dire adesso? Ah
sì, certo. «Tu non perdi. Sherlock Holmes non
perde mai. A perdere sono sempre gli altri» biascica quasi
contro voglia. Non se lo aspettava ma Sherlock rimane zitto. E fermo.
«È
tardi, voglio veramente dormire»
«Certo»
dice Sherlock immediatamente «scusa» aggiunge
subito dopo, poi si muove verso la porta con una rapidità
che non lascia a John il tempo di decidere se voglia Sherlock dentro o
fuori dalla sua stanza. Crede fuori. Decisamente fuori.
«Buonanotte,
Sherlock» lo chiama, e accenna un piccolo sorriso
perché lui si è scusato senza battere ciglio e
perché forse per una volta è riuscito a ferirlo.
Ma è un sorriso triste. Quando Sherlock non risponde John
non è sorpreso.
L'sms arriva quasi
dieci minuti dopo che lui se n'è andato. John lo legge con
la bocca che sa ancora di dentifricio e con i piedi nudi sul brutto
tappetino che c'è davanti al suo letto.
Quello
era il mio primo caffè
SH
II
«Buonanotte,
Sherlock» gli dice.
John Watson lo guarda
con quel suo sorriso amaro, quello che gli rimane sulle labbra tanto
quanto basta per riuscire a mandare all'aria la sua calma interiore.
Poi non aggiunge niente e Sherlock spera con tutte le sue forze che
stia per uscire dalla stanza. Quando gli ritorna in mente che
è lui a trovarsi nella camera di John non gli è
rimasto nemmeno un briciolo di autostima per riuscire a smettere di
fingere, non gli dice niente, non risponde nemmeno alla buonanotte. Sa
che da lui non se lo aspetta. Quello che si aspettava l'ha
già avuto.
Sherlock esce
chiudendo la porta alle sue spalle.
La sua camera
è calda, il letto è invitante. Si toglie il
cappotto, lo appoggia sul bracciolo di una delle sedie imbottite che
arredano la stanza. Il cartello fuori dalla locanda non mentiva, sono
davvero stanze di lusso per essere quelle di un Bed & Breakfast
di campagna. Non smette di pensare a John. Non smette di pensare a lui
nemmeno quando un lontano latrato rompe il silenzio dell'ambiente.
Sherlock prende il suo
Blackberry dalla tasca interna della giacca e invia un messaggio a
John, gli viene in mente dopo che probabilmente non lo
leggerà prima della mattina. Non gli importa poi tanto,
è soltanto uno sfogo, è qualcosa che forse gli
servirà a prendere sonno, oppure niente di tutto
ciò. Forse non servirà a niente. Né a
lui né a John.
Quando bussano alla
sua porta Sherlock è già in piedi, non si
è nemmeno tolto le scarpe. È John.
Non è
ancora del tutto dentro la stanza e già parla.
«Perché mi hai chiesto scusa prima?» la
sua voce è rauca, come se non avessero smesso di discutere
solo pochi minuti fa. Sherlock non sa cosa rispondere ma lo fa.
«Perché
era quello che volevi» dice. Quando finisce di pronunciare la
frase si accorge che il motivo era davvero questo.
«Non era
quello che volevo, se ogni tanto facessi caso a quello che dico o a
quello che faccio te ne saresti accorto» John lo incalza, si
avvicina e lo guarda con i capelli ancora un po' spettinati e le
piccole rughe di stanchezza che gli contornano gli occhi tutte le volte
che Sherlock lo coinvolge in un suo caso. Le rughe che sono tutta colpa
di Sherlock.
«Faccio caso
a quello che fai tu come faccio caso a quello che fa chiunque altro io
stia guardando» gli risponde freddo, non intendeva esserlo ma
la frase gli esce da sola ed è di un'antipatia lancinante
che quasi lo fa star male.
«Non dire
stronzate, Sherlock» ringhia John «se fosse vero
non mi ignoreresti» lo guarda dritto in faccia, non ha paura
adesso. Sherlock non è sicuro ne abbia mai davvero avuta,
ora gli sembra impossibile.
«Io non ti
ignoro, sei l'ultima persona che dovrei ignorare» ed
è vero, sacrosanto.
«Be' allora
hai un modo veramente strano di ascoltarmi» dice John, non
sembra più arrabbiato.
«Hai il
fiatone» inizia Sherlock «le nostre camere sono a
due porte di distanza e non hai dovuto fare scale per venire da me. Hai
i piedi nudi perché in corridoio c'è la moquette
e non ti sei reso conto di averli nudi perché non hai
sentito differenza di temperatura tra il pavimento riscaldato della tua
stanza e quello del corridoio, il tuo alito sa di menta quindi stavi
per andare a dormire ma io ti ho scritto un sms che ti ha fatto venire
qui a dirmi che non volevi io mi scusassi con te e che non era quello
dovevo fare. Come vedi faccio caso a quello che dici e faccio caso a
quello che fai» parla senza fermarsi, gli manca il respiro
«ciò considerato sono al punto di
partenza» inspira forte e un po' serve a calmarlo
«sei l'ultima persona che dovrei ignorare».
«Ma?»
dice John dopo una pausa, lo dice con la voce che usa quando vuole che
Sherlock creda che la risposta che darà non lo
stupirà affatto.
«Adesso non
mi ascolti tu. Applica i miei metodi» dice Sherlock con
un'ironia per niente divertente. Poi aspetta qualche secondo e John gli
risponde.
«Tu vuoi
ignorarmi» afferma con un ghigno crudele che a Sherlock
ricorda terribilmente quello di suo fratello Mycroft
«Perché?» aggiunge.
«Non te.
Voglio ignorare i tuoi pensieri» Sherlock non sa
perché lo abbia rivelato, di solito quando arriva a una
conclusione che riguarda John si guarda bene dal parlarne con lui. O
dal parlarne in generale.
«I miei
pensieri non possono farti del male, non sono io quello con la mente
profonda e brillante»
Sherlock pensa che
John non abbia mai detto qualcosa di più sbagliato di
questo. I suoi pensieri possono fargli del male eccome, gliene hanno
fatto sin dall'inizio. Lui è arrivato e ha sconvolto il suo
equilibrio, meriterebbe una punizione.
Poi Sherlock avanza,
fa due passi e chiude gli occhi una frazione di secondo prima di
sporgersi e baciare John Watson sulla bocca, ma pensa che meriterebbe
qualcosa di peggio di un bacio.
Tutto finisce subito,
appena il tempo di sentire le labbra calde e screpolate di John sotto
alle sue, per un secondo prima di staccarsi e riaprire gli occhi.
Adesso sono vicini a quelli di John, lo scrutano con una confusione a
cui Sherlock non è abituato. Poi vede un guizzo di
impazienza, o di fastidio, o di tutte e due le cose assieme.
John emette un suono
che questa volta può essere solo di impazienza, una specie
di grugnito intermittente e bacia Sherlock di nuovo, con più
forza di quella che aveva impiegato lui, con una sicurezza che Sherlock
gli invidia. Pensa se fosse questo quello che John si aspettava da lui
sin dall'inizio. Se avrebbe potuto dedurlo dai suoi comportamenti. Se
ha sbagliato. Se ha torto.
«Ti prego
falla finita» dice John in un mugugno quasi del tutto
soffocato nella bocca di Sherlock, le sue mani lo tengono stretto e
può avvertirle mentre sgualciscono la stoffa della sua
camicia leggera, posate in basso sulla sua schiena. I loro corpi sono
appiccicati, Sherlock non sa bene cosa fare e spera davvero lo sappia
John. Si irrigidisce suo malgrado e lui se ne accorge. Rompe il bacio e
torna a guardarlo.
«John
siediti» gli dice col fiato corto, indica il letto e vede
l'amico curvare le labbra in una smorfia che non sa interpretare, non
capisce se sia divertita o disgustata e la cosa lo indispettisce ma non
ha tempo di darle peso. John si siede senza fiatare, gli obbedisce come
fa sempre.
«Questo
è il momento in cui confessi le tue oscure
macchinazioni?» gli chiede John serio «va bene
fallo, ma siediti più vicino» aggiunge con un
sorriso appena accennato. Sorride anche Sherlock.
Si mette accanto a
John, dall'altro lato del letto.
«Una volta
ho copiato una versione di latino» dice.
John ride e si porta
una mano sugli occhi, Sherlock lo guarda mentre la fa scivolare piano
piano fino a coprirsi la bocca e la sua risata diventa più
gutturale, più seducente, la cosa più sensuale
che Sherlock abbia mai ascoltato.
«Non ci
credo» dice John girando la testa per guardarlo negli occhi.
«L'ho fatto
eccome» dice Sherlock stringendo gli occhi e arricciando le
labbra «ma solo una volta».
«Perché
hai avuto paura ti scoprissero?» chiede John, le sue pupille
scintillano nella luce tenue dell'abat-jour di tela bianca.
«No,
perché era stato troppo facile».
«Oh non ne
dubito» dice John e ride ancora «vai avanti con la
tua confessione» incrocia le caviglie ai piedi del letto.
«Ho infranto
la legge varie volte» continua Sherlock guardando il soffitto.
«Sì
ti ho visto farlo» dice John «c'è
altro?».
C'è molto
altro.
Non ha mai baciato un
uomo. Non è mai stato baciato da un uomo. Non ha mai avuto
una relazione. Non è mai stato così spaventato.
Non aveva mai trovato sensuale una risata.
«No.
Niente» dice a John «tocca a te» Sherlock
si gira sul fianco e punta i suoi occhi grigi pungenti in quelli
dell'amico.
John però
non dice nulla, si sposta sul letto fino a toccare il braccio di
Sherlock posato sulla sua pancia. Trema un po' e Sherlock trema di
più ed è ridicolo perché nessuno dei
due ride e nessuno dei due parla. È ridicolo
perché John è sempre più vicino e
Sherlock apre la bocca quando lo bacia, e il bacio dura molto
più a lungo. È ridicola la sensazione nello
stomaco di Sherlock.
La lingua di John
è ruvida e dura e all'inizio sa di menta, poi il sapore si
mescola a quello della bocca di Sherlock e poi inizia a non essere
più importante capire di che cosa sa la lingua di John
perché le sue mani stanno risalendo i bottoni della sua
camicia blu e la sensazione ridicola nello stomaco di Sherlock rende
ridicole un sacco di altre parti del suo corpo. E fa così
caldo che non sembra per niente un clima inglese, fa così
caldo che la pelle di John contro il collo di Sherlock non scivola ma
si tende e fa uno strano rumore e i capelli sulle tempie di John sono
umidi di sudore e Sherlock crede di essere diventato sordo e cieco
perché fa troppo caldo e perché tutto il corpo di
John Watson è sopra al suo.
Ascolta il respiro di
John quando si ferma, smette di muoversi e lascia cadere le braccia ai
lati del busto di Sherlock con un sospiro che sembra una risata
sommessa. Lui circonda la schiena di John e lo tiene stretto, il suo
torace sussulta come quando gli ha messo la mano sulla spalla nel
laboratorio dove non c'era nessun mastino fantasma. Come quando aveva
paura.
Ma adesso sta ridendo,
John Watson è davvero divertito dalla scena. È un
pensiero che diverte anche Sherlock, anche se lui non riderà.
«Mi stai
abbracciando?» dice John e i loro occhi sono così
vicini che non c'è scampo. Sherlock inspira forte. Forse
prende tempo, cosa perfettamente inutile.
«Stai
ridendo?» dice alla fine, è serio e preoccupato e
dannatamente incapace di gestire la sua voce o il suo corpo.
«Tu mi stai
abbracciando e siamo uno sopra l'altro sul letto di una locanda di
campagna» afferma John con un ghigno «Non dovrei
ridere?» e diventa rosso. Sherlock chiude gli occhi per un
secondo perché John lo guarda da troppo vicino, con le
guance troppo calde e le labbra troppo piene.
«Tecnicamente
tu sei sopra di me sul letto di una locanda di campagna» dice
riaprendo gli occhi rapidamente «trovo la scena tragica
più che comica» ragiona, e distoglie lo sguardo
perché John fa quella cosa con le narici, quella cosa che fa
quando è indignato ma è divertito e sta
combattendo fra le due emozioni perché non può
dare a Sherlock nessun tipo di soddisfazione. Non aveva mai pensato al
fatto che questo potesse anche solo vagamente eccitarlo. Renderlo
orgoglioso sì, Distrarlo, certo. Ma cinque minuti fa ha
guardato John Watson ridere con una mano sulla bocca e l'ha trovato
sensuale.
«Prenditi
una vacanza, Sherlock, rilassati» dice John. Sherlock non
capisce.
«Non
capisco» dice. Non è del tutto vero. Capisce in
parte, gli servirebbe un'altra risata di John come quella di prima per
aiutarlo a elaborare. Chiederne una è fuori discussione.
«Non
c'è niente da capire» John fa per scendere
dall'inguine di Sherlock ma non lo fa perché lui lo ferma
con un bacio. Un altro. È già il secondo che gli
dà. Probabilmente starà male. Ha persino fame
adesso. Sta decisamente male.
«Ok
spiegati» dice John dopo un secondo.
«Cosa?»
risponde Sherlock. John si sta passando la lingua sul labbro inferiore.
«Mi arrendo,
spiegati!» sbotta poi.
Sherlock smette di
guardare la lingua di John e si applica per alzare lo sguardo fino ai
suoi occhi.
«Hai ragione
tu» dice con semplicità «siamo uno sopra
l'altro sul letto di una locanda di campagna, la scena è
comica, fai bene a ridere, io volevo baciarti e l'ho fatto, poi ti ho
abbracciato e non so se l'avessi dedotto, quasi certamente no, ma
quando prima hai riso alla mia battuta sulla versione di latino non
riuscivo a smettere di fissare la tua bocca» elenca cercando
di controllare la sua voce e riuscendoci poco «per questo
trovo la scena tragica. E non solo» prende fiato
«mi è venuta anche fame» termina
esalando un respiro esausto.
John ride e butta la
testa all'indietro, Sherlock guarda il suo collo piegarsi a quella
strana angolazione e si rende conto di stare fissando il corpo di John
Watson da un tempo che non riesce bene a calcolare. Questo lo confonde.
Vorrebbe disperatamente che John la smettesse.
«Quindi non
era vero niente, tutta quella storia dell'esame di latino?»
John non smette di sorridere, Sherlock non crede gli interessi davvero
sapere se ha o non ha mai imbrogliato a scuola ma parlare con John gli
piace e avere la sua attenzione gli piace anche di più.
«Sì
che era vero» afferma.
«Ed
è vero anche che hai fame? Adesso?» chiede John. E
quando finisce di parlare sembra che la sua espressione aggiunga ancora
Non
ci credo
e Tu non hai
mai fame
e Ma cosa
glielo dico a fare.
«Certo,
perché ti dovrei mentire?» Sherlock sogghigna
perché lui non ride mai e fissa la bocca di John mentre si
apre, forse per replicare.
«Bene»
dice invece «ho fame anch'io».
Sherlock non ride
perché lui non ride mai, e perché sta guardando
di nuovo la risata di John.
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