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Alla fine l'ho
fatto. Ho ripescato questa storia dal cilindro delle mie storie.
Mi son detta che
se non l'avessi fatto, probabilmente La
zona rossa non avrebbe mai visto la luce su EFP perché il
tempo è quello che è e la revisione di questa storia sarebbe andata
a data da destinarsi.
Così ho preso il
coraggio a due mani (che fatica, non vi dico l'ansia!!), ho mandato a
farsi benedire le mie fregole da perfezionista e ho deciso di
sottoporvi questa storia così com'è stata concepita e scritta
qualcosa come cinque anni fa. Perciò prendete una buona dose di
coraggio, mettetevi comode e buona lettura!
Ps: un grazie enorme alla mia insostituibile Roberta, l'autrice del
meraviglioso banner di questa storia. Non saprei davvero come fare
senza di te, amor!
1.
PROLOGO
*
I
fiocchi di neve scendevano leggeri
e silenziosi, una nevicata fitta che possedeva la grazia crudele
tipica della natura più selvaggia. Non c’erano luci che potessero
vincere la cortina di nubi che sovrastava Halifax; neppure la luna,
ridotta a un pallido alone, riusciva a disperdere il candore
spettrale che teneva prigioniero il cielo.
Ecco
cos’era diventata la città: un panorama irreale senza forme né
colori, che sfumava verso i contorni onirici e indefiniti di un
incubo. Un paesaggio sempre uguale, muto. Sommerso.
Erano
bastate poche ore e una nevicata corposa per ricoprire ogni cosa,
nascondendo le strade, le case e gli alberi sotto una cortina di neve
che era destinata a crescere.
Halifax
era diventata improvvisamente una città immobile, estranea allo
scorrere del tempo, e lui… Lui era come un parassita; l’unico a
camminare in quell’ambiente inospitale, come un fantasma
appartenente a tempi passati.
Non
c’era altro rumore che non fosse il crepitio ovattato della neve
che si infrangeva sotto i suoi piedi: non un movimento, né calore,
né vita. Sembrava essere rimasto l’unico sopravvissuto in quella
città monocromatica e spettrale, l’ultima persona a percorrere
quelle strade deserte.
Arrancava
con difficoltà, ormai giunto al limite delle proprie forze.
Ogni
passo gli risultava più faticoso del precedente e, nonostante
cercasse disperatamente di non fermarsi, la neve sembrava volerlo
imprigionare con le sue mani invisibili. Respirare poi era un’agonia:
l’aria gelida gli mozzava il fiato, lo costringeva a boccheggiare
per cercare ossigeno nel tentativo di trovare un compromesso con il
dolore.
Tremava
convulsamente, gli arti intirizziti dal freddo lancinante.
Probabilmente aveva più di qualche taglio sulle labbra: il bruciore,
ormai divenuto una compagnia costante, lo stava facendo impazzire.
Non sarebbe riuscito a reggersi in piedi ancora a lungo, lo sapeva
bene, ma il bisogno disperato di continuare a camminare lo
costringeva a ignorare la fatica. Si sentiva terribilmente debole, ma
non gli importava.
Non
poteva fermarsi, non doveva.
Non ora che si trovava davanti all’enorme porta che delimitava
l’uscita dalla città.
La
stanchezza lo pugnalò alla schiena, infida e traditrice; le
ginocchia cedettero, ma nella sua mente quel grido non cessava.
Esci.
Respirò
a fondo e il gelo gli trafisse i polmoni come se fosse un coltello.
Faceva dannatamente male. Si impose di compiere un ultimo sforzo,
sentì i muscoli protestare, ma la disperazione rendeva la sua
volontà più forte di qualsiasi dolore.
Esci!
Riuscì
a oltrepassare la porta e finalmente si concesse di cedere alla
stanchezza, stremato. Si accasciò al suolo come se fosse un corpo
senza vita, e rimase con lo sguardo basso per minuti interminabili.
Sconvolto.
Non
ricordava nulla.
La
sua mente era costretta nel caos, un brodo informe in cui pensieri
sconnessi si susseguivano senza dargli tregua; un groviglio privo di
ordine che sfuggiva al suo controllo. Per quanto cercasse di
raccapezzarsi su cosa fosse accaduto mentre il corpo sfuggiva al suo
controllo, la memoria gli restituiva nient’altro che frammenti in
ombra; immagini sfuocate senza forma.
L’unica
cosa che sapeva con certezza era che la sua testa era rimasta avvolta
nel buio più totale per un tempo che non avrebbe saputo
quantificare, prima di essere investita da una luce accecante e
tremenda. Quando si era reso conto dello scenario agghiacciante che
lo circondava aveva gridato ancora e ancora, piegato da un orrore che
non avrebbe mai voluto vedere. Un orrore che era la sua croce e che
era ancora lì, alle sue spalle.
Sapeva
qual’era la scena che sarebbe apparsa ai suoi occhi se si fosse
voltato: per uscire da Halifax era stato costretto a passargli
accanto. Aveva fissato quegli occhi sbarrati e vuoti, quelle bocche
contorte, spalancate in smorfie del dolore più indicibile. Loro da
una parte e lui dall’altra, di fronte alle porte dell’abisso.
Separati dal confine della morte.
Tremò
e diede di stomaco, ma si costrinse a guardarli. Voleva imprimersi
per sempre quella desolazione nella memoria per non dimenticare. Per
lottare contro un destino che non riconosceva. Per opporsi al motivo
per cui era nato.
Quando
guardò ciò che rimaneva della città, lottò contro l’impulso di
distogliere lo sguardo. Doveva imprimersi nella mente quella visione
e alimentare il suo odio.
Cadaveri.
Centinaia
di corpi contorti riversi a terra, coperti da un leggero strato di
neve; le mani chiuse a pugno, le membra tese dagli spasmi. Gli occhi
pieni dell’orrore che li aveva condotti alla morte, le bocche ormai
silenziose spalancate in grida disumane.
Questa
era la sua vita. La sua natura.
Avrebbe
voluto fuggire dal suo destino, ma non era possibile.
Lo
sapeva bene: questo incubo non avrebbe mai avuto fine.
*
Erano passate diverse settimane dall’inizio della
primavera, e Rosya sembrava rinascere assieme alla bella stagione.
Era la città più grande e popolata, la capitale del regno di
Silindril. La più bella, secondo la maggior parte delle persone.
Rappresentava il vanto degli elfi, la razza che l’aveva
costruita dalle fondamenta. Quando arrivarono i maghi assieme agli
uomini, poi, Rosya subì una commistione di stili che la rese del
tutto particolare. Durante l’inverno la sua bellezza sembrava
dormire, ma con l’avvento della primavera il sole la faceva
brillare come un gioiello. Si diceva che nelle giornate più limpide
il suo splendore arrivasse lontano, oltre l’immensa distesa d’acqua
che separava il regno dalla terra dove abitavano i demoni, e facesse
rodere d’invidia quelle creature oscure che potevano vantare
solamente buio e rovina.
Quel giorno, in particolare, le conferiva un lustro e
una maestosità d’eccezione: raramente Rosya era stata testimone di
mattine così calde e soleggiate. Camminare per le strade che si
perdevano negli angoli più pittoreschi, con il tepore del
mezzogiorno a baciare il viso, era un’attività che poteva
risultare piuttosto piacevole e i commercianti ne approfittavano per
invogliare i passanti con promesse di deliziose focacce appena
sfornate.
Purtroppo per loro, però, gli affari avrebbero dovuto
attendere: nell’aria c’era un fermento impaziente, la gente
scalpitava davanti al dipartimento di polizia e mormorava preoccupata
per quel caso che aveva destato molto scalpore.
Del resto, nessuno avrebbe potuto biasimarla.
L’intenso vociare proveniente dal cortile era un
sottofondo che non spezzava la tensione nella stanza. Un uomo in
uniforme era appoggiato contro il muro, con le braccia incrociate al
petto e un cipiglio serio che stonava sul suo volto maturo e di
bell’aspetto. Portava i capelli corti, com’era in uso tra le
forze dell’ordine, e i suoi occhi nocciola studiavano con
attenzione la persona che gli stava davanti. Quando parlò, la sua
voce rivelò un’inflessione profonda e severa.
«È stato lei a uccidere gli abitanti di Halifax?»
La domanda parve cadere nel vuoto. Nessuna risposta,
soltanto silenzio. Il suo interlocutore, un giovane uomo di circa
vent’anni, guardò annoiato il poliziotto e si accomodò con i
piedi sopra al tavolo. Aveva gli occhi grigi, di una tonalità così
scura da renderli decisamente particolari. Quando l’agente sospirò
stizzito, l’interrogato si aggiustò una ciocca di capelli neri che
gli cadeva indisponente davanti un occhio, e abbozzò un leggero
sorrisetto.
Sembrava non avere intenzione di collaborare.
Il poliziotto gli si parò di fronte con fare
intimidatorio, deciso a farlo parlare, ma il giovane non rimase
affatto impressionato. Gli rivolse uno sguardo strafottente, come se
negasse la sua autorità, come se sfidasse il suo ruolo di agente.
«Se anche fossi stato io non lo verrei certo a dire a
lei, quindi in entrambi i casi la risposta è no» gli rispose con
indifferenza. Per il poliziotto fu troppo: con una manata gettò i
piedi dell’imputato a terra, e si protese verso di lui con aria
minacciosa. Lo avrebbe costretto a collaborare, che lo volesse o
meno.
«Si rende conto della gravità della situazione? È
l’unico superstite della strage di Halifax, città alla quale per
altro non apparteneva. È
accusato di omicidio di massa, signor Warknife!»
«La ringrazio dell’informazione, ma lo avevo intuito»
rispose con un ghigno ironico.
Il poliziotto fu costretto a distogliere lo sguardo nel
tentativo di mantenere il sangue freddo.
Se voleva conservare la propria autorità e avere una
possibilità di strappargli una confessione, l’ultima cosa che
doveva fare era mostrarsi agitato. Doveva assumere un atteggiamento
severo, duro, per nulla permissivo. E soprattutto controllato.
Gettò un’occhiata spazientita verso il lungo specchio
unidirezionale incastrato nella parete. Sapeva che i suoi colleghi
potevano vedere e sentire ogni cosa, ma in quel momento non potevano
aiutarlo a mantenere la calma. Tutto dipendeva dalle sue capacità, e
l’impressione che l’uomo seduto di fronte a lui si divertisse a
giocare con la sua pazienza non aiutava di certo.
Sospirò, pronto ad affrontare di nuovo un confronto con
il presunto assassino.
«Glielo chiederò un’altra volta: è stato lei a
uccidere gli abitanti di Halifax?»
«Perché mi fa questa domanda se sa già che qualunque
cosa io dica finirò comunque ad Artika? »
«Non risponda alla mia domanda con un’altra domanda!
»
Si rese conto di aver alzato la voce soltanto dopo
essersi lasciato scappare quelle parole. Warknife lo osservò per un
attimo prima di rispondere.
«Lei vuole una risposta, giusto? Un sí o un no? »
«La pregherei di rispondere alla mia domanda fornendomi
una risposta, signor Warknife.»
«La mia risposta l’ho già data, agente Silver»
concluse pacato, osservando la targhetta che brillava sul petto del
poliziotto.
«Vorrei che fosse più chiaro.»
Il giovane uomo guardò Silver di sottecchi prima di
alzarsi, ma i due nerboruti agenti di guardia gli furono subito
addosso. Lo costrinsero a sedersi, sfruttando la tacita minaccia di
una punizione corporale che pochi stolti avrebbero scelto.
«L’accoglienza è piuttosto calorosa» commentò con
sarcasmo, ma la battuta scivolò addosso a Silver senza alcun
effetto.
«Per piacere, mi risponda con un sí o con un no: è
stato lei a... »
«Prima di gettare il mio no nella spazzatura assieme a
tutte le scartoffie che ci sono nel suo ufficio, mi faccia un favore:
la smetta di chiedermi se sono stato io ad aver sterminato quella
città, visto che sa già che non cambierà nulla.»
Quella risposta lasciò Silver decisamente confuso: non
se l’aspettava. Non riusciva a capire che cosa volesse ottenere.
Gli sembrava alquanto strano che rinunciasse con così tanta facilità
a difendere la propria innocenza, ammesso che ce l’avesse. Di
questo passo Artika sarebbe stata una tappa sicura per quel giovane,
e non c’era una sola persona al mondo che non sapesse che una volta
entrati era impossibile uscirvi.
Rimase interdetto, incapace di formulare una risposta, e
Warknife ne approfittò per alzarsi. I due agenti della sicurezza gli
furono addosso nell’istante successivo, afferrandogli saldamente le
braccia per impedirgli una possibile fuga. Lo sbatterono addosso al
tavolo, incollandogli la faccia alla superficie fredda. Ma
dall’espressione del ragazzo, Silver intuì che tentare di fuggire
non era il suo piano. Sembrava stanco.
«È finito l’interrogatorio, agente Silver? La scorta
mi sta aspettando fuori e credo che siano piuttosto impazienti di
buttarmi a marcire in una cella ad Artika.»
«Se non vuole collaborare e raccontarci che cosa è
successo esattamente, dubito che potrà evitare di alloggiare in una
suite del carcere di massima sicurezza, signor Warknife.»
«E se le dicessi che non ricordo nulla di ciò che è
accaduto, lei mi crederebbe? »
«No.»
«Ecco, appunto. Quindi perché sta sprecando del tempo
se la mia sorte non può cambiare?»
«È la procedura.»
«Ottima motivazione, agente Silver. Davvero ottima»
sentenziò con sarcasmo prima di riuscire a vincere la resistenza dei
due agenti della sicurezza e alzarsi. Silver portò rapidamente una
mano alla fondina, estraendo la pistola e puntandogliela contro.
Aveva fatto male i suoi calcoli. Aveva abbassato la guardia, e se il
prigioniero fosse riuscito a fuggire sarebbe stata soltanto colpa
sua.
«Fermo lì.»
Warknife osservò la pistola con indifferenza, per nulla
intimorito. Non alzò neppure le mani.
«Si rilassi, agente Silver. Non ho intenzione di fare
nulla» mormorò, gettando un’occhiata fugace allo specchio
unidirezionale. I due agenti della sicurezza gli furono di nuovo
addosso, costringendolo a sedersi. Silver abbassò la pistola, ma
notò qualcosa nello sguardo di Warknife. Un guizzo che non riuscì a
decifrare.
«Comunque…» cominciò l’interrogato continuando a
guardare lo specchio unidirezionale «...
riferite pure ai vostri strizzacervelli che se mi devono analizzare
possono farlo benissimo anche senza nascondersi dietro a uno
specchio. Essere spiato mi infastidisce.»
Silver rimase spiazzato, e la prima cosa che si chiese
fu come facesse a sapere di essere l’oggetto di una perizia
psicologica. Guardò lo specchio, ben sapendo che non sarebbe
riuscito a vedere dall’altra parte. Come aveva fatto? Quando
riportò l’attenzione su Warknife, quest’ultimo non ci mise molto
a cogliere la domanda negli occhi del poliziotto. Sulle sue labbra si
disegnò un sorriso sottile. Sornione.
«So che cos’è uno specchio unidirezionale agente
Silver, e so anche che può rivelarsi estremamente utile per
osservare un soggetto senza influenzarne il comportamento. In un caso
come il mio, il parere di qualche strizzacervelli è necessario, non
è d’accordo?»
«Ma come... Lei mi ha forse...» Silver divenne ancora
più stupito. Warknife sogghignò con una luce maligna nei suoi
occhi, per la prima volta da quando era entrato nella stanza.
«Non sia banale agente Silver, ce l’ha scritto in
faccia. Come potrei leggerle nel pensiero? Sono soltanto un
insignificante essere umano, non un demone» terminò facendogli
notare l’assenza di canini pronunciati, tipici della morfologia
demoniaca.
Il poliziotto lo guardò negli occhi con cipiglio serio,
sostenendo il suo sguardo che sembrava deriderlo. Sospirò, scuotendo
leggermente il capo, avvilito.
«Come vuole, Warknife.»
*
Quando i due agenti lo trascinarono fuori dalla stanza,
il prigioniero non oppose alcuna resistenza.
Prima di attraversare l’uscio guardò Silver negli
occhi, sorridendo ambiguamente.
«Ci vediamo, agente.»
Parole che suonarono come l’atto finale di una lunga
commedia, o almeno questa era l’impressione che avevano suscitato
nel poliziotto. Lo vide prendere un profondo respiro prima di uscire
per andare incontro al suo destino, e in quel momento Silver seppe
che l’immagine di quel ragazzo, con i polsi e le caviglie
incatenati, lo avrebbe accompagnato per molto tempo. Gli era capitato
tante volte di trovarsi davanti a persone strafottenti, che sfidavano
la sua autorità apertamente. Ma nessuno era Warknife.
Nessuno aveva mai dimostrato la calma che lui aveva
mantenuto durante l’interrogatorio. In molti si disperavano, o
aggredivano con le parole. Aveva visto persone passare in pochi
istanti da uno stato di euforica esaltazione alla più cupa
disperazione, ma l’atteggiamento calmo e rassegnato di Warknife era
una vera rarità.
Aveva accettato senza turbamento un destino che
l’avrebbe condotto a vivere i suoi ultimi giorni di vita in una
cella, prima dell’esecuzione capitale: anche questo faceva parte
dell’alone di mistero che sembrava circondarlo da quando era stato
ritrovato a gironzolare attorno alle mura di Halifax come un’anima
intrappolata nel mondo dei vivi, l’unica presenza in una città
fantasma i cui abitanti erano tutti misteriosamente morti.
Silver ricordava chiaramente ciò che gli era stato
riferito dopo un lungo passaparola. Si mormorava di quest’uomo che
vagava, confuso. Ogni altra creatura nell’intera città era stata
ritrovata priva di vita, e la cosa più insolita era lo stato in cui
erano stati rinvenuti i cadaveri: non c’era neppure una singola
chiazza di sangue. Tutti i corpi erano perfettamente intatti.
Sembrava che il tempo si fosse fermato, e con esso anche
la veglia dei suoi abitanti. Benché si cercasse una spiegazione
razionale, però, nessuno riuscì mai a dire che cosa fosse realmente
accaduto quel giorno.
Sbuffando e maledicendo i propri pensieri, Silver
afferrò la cartella che si trovava sopra il tavolo e uscì dalla
stanza. Percorse il corridoio finché raggiunse la porta accanto. La
camera dello specchio: così chiamavano la stanza adibita alle
osservazioni degli interrogatori. Non era molto grande, e delle
lampadine incassate sul soffitto illuminavano l’interno.
Tre persone stavano discutendo dell’interrogatorio a
cui avevano assistito: due ragazze e un uomo anziano. Reggevano delle
cartelle contenenti fogli e una penna per scrivere annotazioni.
Quando si accorsero della presenza del poliziotto, si zittirono.
Silver sorrise, imbarazzato per aver interrotto quello
scambio di opinioni. L’uomo gli si avvicinò: era il professor
Santos, uno dei più famosi ed esperti psicologi criminali di tutta
la regione. Grazie alla sua età aveva molta pratica alle spalle, ma
nonostante tutto sembrava non voler lasciare il lavoro che amava. La
calvizie avanzava inarrestabile e tutto ciò che aveva in testa erano
pochi capelli grigi, ma i suoi occhi rivelavano una vitalità e una
lucidità mentale che scarseggiavano in gran parte dei suoi coetanei.
La sua vasta esperienza lo rendeva indispensabile alla polizia, per
non parlare della sua bravura: spesso veniva chiamato per fornire un
prospetto psicologico degli indiziati nei casi più complessi. Come
se non bastasse era titolare di una cattedra d’insegnamento alla
scuola per Psicologi di Rosya, ed era decisamente probabile che le
due ragazze fossero sue allieve: erano piuttosto giovani, e a
giudicare dall’aspetto dovevano avere all’incirca diciassette
anni. Una -la più alta e slanciata- aveva i capelli neri, portati
raccolti in una coda lunga che lasciava scoperte le orecchie. La loro
foggia era tipica della razza elfica. La targhetta assicurata sul suo
camice portava il suo nome.
Amaya Lyrem.
L’altra aveva i capelli castani, tenuti raccolti in
una crocchia fermata con una matita mangiucchiata. Era umana, al
contrario dell’amica.
Sari Kalabis, questo il nome
sulla sua targhetta.
Capitava spesso che degli studenti frequentassero il
dipartimento di polizia per svolgere attività di tirocinio, perciò
Silver non si stupì più di tanto nel trovare lì le due ragazze. A
giudicare dal soggetto con cui svolgevano il loro praticantato,
dovevano essere anche piuttosto in gamba.
«Victor, amico mio» Santos salutò il poliziotto con
una poderosa stretta di mano. Silver gli porse i fascicoli, guardando
con curiosità lo psicologo.
«Allora, cosa ne pensi?» gli chiese mentre l’uomo
apriva e dava una rapida occhiata al materiale nelle sue mani. Santos
rimase in silenzio per alcuni istanti, leggendo in velocità il
contenuto dei fascicoli.
«Il ragazzo è sicuramente molto lucido. Ha coscienza
di tutto ciò che dice e dell’effetto che ogni sua parola ha sui
soggetti che lo ascoltano, e il giocare con quell’effetto lo
diverte molto. È furbo, e dubito che possa aver avuto veramente un
raptus come lui stesso indirettamente sostiene. Non posso dirti di
più se prima non lo sottopongo a test più specifici» concluse lo
psicologo porgendo i fascicoli a Silver, che scosse
impercettibilmente il capo.
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli castani.
«Temo non sia possibile: ad Artika non concederanno più
di tre giorni, a uno come lui.»
*
La folla era rimasta in attesa all’esterno
dell’edificio, e la ferocia delle sue grida aumentava con il
passare delle ore. Gli agenti della sicurezza riuscivano a stento a
mantenere l’ordine, e i cittadini minacciavano da un momento
all’altro di oltrepassare le transenne. Erano impazienti,
arrabbiati, e chiedevano giustizia.
Per Silver scene come questa non erano nuove: la
popolazione era sempre stata particolarmente sensibile verso i
crimini efferati. Soltanto le due studentesse sembravano a disagio,
in mezzo a quel frastuono. Quando erano usciti dal dipartimento le
aveva avvisate, cercando di prepararle a quello che avrebbero visto
nel cortile, ma evidentemente non era stato sufficiente.
All’improvviso la folla cominciò ad agitarsi ancora
di più, cercando di sfondare le transenne per riversarsi verso
l’entrata dello stabile: Warknife stava uscendo.
Era letteralmente circondato da argenti armati, mentre
altri due poliziotti lo aspettavano di fronte al blindato che avrebbe
dovuto condurlo ad Artika. Aveva i piedi incatenati, in modo che non
potesse compiere grandi passi, mentre una camicia di forza gli
immobilizzava le braccia e le mani. Tutt’attorno, la folla
fischiava e gridava pesanti insulti, che scivolarono addosso al
prigioniero come fossero acqua. Warknife si limitò ad accennare un
sorriso vagamente strafottente, abbassando il capo e osservando di
sottecchi tutta quella gente chiassosa e sputasentenze. Quando i
poliziotti lo spinsero avanti costringendolo ad avanzare, con la coda
dell’occhio riuscì a scorgere una figura familiare.
Si voltò, salutando Silver con un cenno della testa. Un
saluto che il poliziotto non ricambiò.
Lo sguardo di Warknife si posò sulle giovani ragazze
accanto a Silver, indugiando sui caldi occhi nocciola di una delle
due. La sua statura e soprattutto la forma delle sue orecchie gli
suggerivano che fosse un’umana. Il suo sguardo spaesato lo fece
sorridere: sembrava che per lei fosse impensabile tutta quella
ostilità, nonostante la folla gridasse con insistenza la sua
colpevolezza per quel
crimine orrendo definendolo un assassino.
La ragazza distolse lo sguardo, a disagio. Quel modo di
guardare; quella luce negli occhi di quell’assassino, così
penetranti, così impudenti, così comunicativi...
Aveva colto ciò che quello sguardo voleva comunicarle.
Ingenua. Un giorno ti accorgerai che il mondo non è
come sembra.
E la forza con cui quel messaggio era penetrato in lei
la turbò.
Era una frase disillusa, di chi è stato segnato da
troppe cose.
Ma in lui non sembrava esserci lo sguardo
dell’assassino.
Non in quel momento.
*
ANGOLO
DELL'AUTRICE
Come forse avrete immaginato, questa storia è
totalmente diversa da ciò che ho scritto fin'ora (non che abbia
scritto molto, per carità!), e non solo per quanto riguarda lo
stile, sicuramente molto più acerbo rispetto a quello attuale.
Questo capitolo e il prossimo sono introduttivi, vi avviso, la vera
storia inizierà dal terzo capitolo. Ma spero che il gioco saprà
valere la candela ;)
Vi ricordo che potete trovarmi su facebook con il
mio contatto e nel mio gruppo: mi fa sempre piacere poter scambiare
due chiacchiere con voi!
Ci rivedremo giovedì prossimo con il secondo
capitolo de La zona rossa, dal titolo Vivere a
Rosya. Un
saluto,
Brin
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