Il
Johnlock mi ha marchiata dentro... I'll go down with this ship! ;D
Ehm...
comunque... niente di che, è una stupida stupidata ambientata in
vari momenti assolutamente a caso delle due stagioni. M'è venuta in
mente mentre scrivevo il capitolo finale di NETWI (presto su
questi schemi, stay tuned!).
Praticamente
innocuo
A
posteriori, facendo un bilancio delle stranezze degli ultimi tempi,
John Watson avrebbe potuto affermare che quello era il primo ed
inequivocabile segnale. Ma allora John non lo colse subito. Lo
catalogò come una delle tante bizzarrie del suo coinquilino e non ci
pensò più.
– John.
– l'aveva chiamato un sabato mattina.
Ed
era già tanto che l'avesse sentito. Era appena uscito da una doccia
di mezzora – uno di quei lussi che da militare non poteva
permettersi e che da civile ogni tanto si concedeva. Non aveva notato
lo sguardo costernato che gli aveva rivolto Sherlock da sopra le
pagine del Times. In quel momento non era in grado di notare
niente. Gli era passato davanti senza alcuna cognizione e al suo
richiamo aveva risposto con un grugnito assonnato. Adesso era in
cucina che cercava di prepararsi la colazione, schivando taniche
dalle etichette sospette e spostando con un dito barattoli colmi di
parti anatomiche umane.
– John,
vieni qua. –
Il
dottore alzò gli occhi cielo, sospirando sonoramente. Sherlock
Holmes avrebbe atteso che lui finisse di fare quello che stava
facendo, accidenti a lui. Versò quindi l'acqua bollente nella tazza
e ci mise il filtro dentro. Un goccio di latte e...
– John.
–
Esasperato,
John comparve infine sulla soglia del soggiorno, la mano che faceva
su e giù per inzuppare bene il filtro.
– Cosa
c'è? –
Sherlock
era seduto in poltrona, le gambe accavallate, il giornale spiegato a
coprirgli il volto, solo la zazzera di ricci scuri che spuntava da
oltre il bordo. Era vestito di tutto punto, dunque aveva un caso per
le mani. Se aveva bisogno che facesse qualcosa per lui, be', poteva
anche scordarselo. Era il weekend e aveva avuto una settimana pesante
in ambulatorio.
– Cosa
c'è, Sherlock? – ripeté seccato, sedendosi a sua volta e
prendendo a sorbire il tè.
Lo
chiamava insistentemente e poi se ne stava lì, nella sua accidenti
di poltrona a leggere il suo accidenti giornale, senza degnarlo della
minima attenzione. Sherlock dava sempre per scontato che fossero gli
altri a dovergli prestare ascolto. Era alquanto irritante.
– Potresti
evitare di andare in giro per casa conciato in quel modo? –
John
si strozzò con il tè e prese a battere furiosamente le ciglia.
– Scusa?
– tossì.
Sherlock
girò i pollici a piegare il giornale e saettò uno sguardo su di
lui. Un fastidioso sguardo inquisitorio che lo mise a dir poco a
disagio.
– Hai
capito. – disse solo, tornando poi a celarsi dietro il giornale.
– No,
non ho capito. – ribatté piccato.
Era
un bellissimo accappatoio a quadri, il suo, fatto di morbida spugna.
Ce l'aveva dai tempi del college, fedele negli anni. Diamine, si era
perfino fatto la guerra in Afghanistan, quell'accappatoio! Ne era
assolutamente orgoglioso.
E
poi, a dirla tutta, quella era anche casa sua. Insomma, Sherlock
poteva permettersi di stare tutto il giorno con addosso solamente un
lenzuolo, se gli girava, e lui non poteva nemmeno usare il suo
sacrosanto accappatoio?!
John
si sporse verso di lui e agganciò un dito al giornale, piegando le
pagine.
– Cos'ha
che non va il mio accappatoio? – volle sapere, fissandolo
accigliato.
Senza
distogliere gli occhi dall'articolo, Sherlock sentenziò che “lo
distraeva”. John boccheggiò per un paio di secondi e infine si
arrese davanti alla totale mancanza di collaborazione da parte di
Sherlock. Come al solito, aveva detto la sua – aveva imposto la
sua idea – e del resto del mondo chissenefrega.
Finì
di fare colazione con l'umore nero, stirando meccanicamente le pieghe
del suo favoloso accappatoio e gettando occhiatacce in tralice
ad un apparentemente indifferente Sherlock.
Due
settimane dopo.
Niente
di meglio di un buon libro per distrarsi dal suono lamentoso del
violino di Sherlock. Sopratutto dopo una giornata passata a cercare
di smaltire gli effetti di una droga psicogena che ti provoca
orribili allucinazioni su mastini mangiauomini.
Già
letto. Già letto. Già letto. Noioso. Già letto. Giallo... no,
grazie. Già letto.
Le
note del violino riempivano la stanza e il cervello malridotto di
John, mentre lui passava il dito sul dorso dei libri stipati negli
scaffali. Da divoratore di romanzi qual'era, per lui era sempre
drammatico trovare qualcosa di nuovo che lo coinvolgesse nella
lettura.
Un
mezzo sorriso gli increspò le labbra quando il dito si fermò su un
certo titolo. Estrasse il libro e ne sfogliò un paio di pagine. Non
c'era niente da fare: Adams era l'unico che non lo annoiasse mai.
Ed
era anche ottimo per distrarsi da quel dannato violino, considerò
lanciando a Sherlock un'occhiata esasperata. Andava avanti in quel
modo da sette ore. Ininterrottamente. Stava componendo: era
particolarmente ispirato. John era sull'orlo della disperazione.
Dentro di sé pregava che non scoprisse mai la formula chimica
del progetto HOUND, perché a quanto pare aveva strani effetti su di
lui.
Scosse
la testa e tornò a concentrarsi sul libro, arrendendosi
all'evidenza. Avrebbe finito col leggere per la nona volta Guida
Galattica per gli Autostoppisti.
D'un
tratto il suono del violino s'interruppe.
– John.
– si sentì chiamare.
Lui
voltò pagina e alzò appena lo sguardo su di lui.
– Che
c'è? – borbottò vago.
– Quel
maglione. –
John
non registrò esattamente la frase nel suo senso compiuto. Anche
perché nel contesto non aveva alcun senso. Capì solo “maglione”.
Cosa mai si dovrebbe replicare alla parola “maglione”?
– Quale
maglione? – disse quindi meccanicamente.
– Il
maglione, John. Il maglione maglione. – insisté Sherlock.
John
si decise infine a prestargli attenzione, solo perché quel continuo
ripetere “maglione” lo stava infastidendo non poco.
Infilò
un dito tra le pagine del libro per tenere il segno e ripeté: –
Quale maglione? –
Sherlock
sospirò e assunse quella sua irritantissima aria di sufficienza del
genio che non comprende proprio come il resto del mondo non sia
capace di giungere alle sue stesse conclusioni in zero punto tre
secondi.
– Il
tuo maglione. – precisò, agitando l'archetto verso di lui.
John
abbassò lo sguardo sul maglione che indossava. Quello a bande
bianche e nere, il suo preferito. Ci passò una mano sopra con
soddisfazione. Era comodo e caldissimo e, ad essere onesti, gli stava
anche divinamente. Alle donne piaceva. Cosa c'era che non andava nel suo
maglione?
– Che
cosa... – John si schiarì la voce e batté nervosamente il libro
sula coscia – Cos'hai da dire sul mio maglione? –
– Il
colletto. – fece Sherlock, rimettendosi il violino sotto il mento e
riprendendo a suonare sprazzi di melodia.
John
schioccò la lingua: – Il colletto. –
– È
troppo largo. – aggiunse.
– È
troppo... – farfugliò John, incredulo.
Strinse
la base del naso e soffiò via l'aria con nervosismo. Ma perché
doveva sempre criticare qualsiasi cosa che lo riguardasse?! Non era
mica sua madre. E tantomeno la sua donna – Dio ce ne scampi!
– Non
ha niente che non va il colletto del mio maglione. – ribatté
offeso.
– È
troppo largo. – ripeté Sherlock in tono infantile – Ti scopre
tutto il collo. Non è un modello appropriato. –
Non
è un modello...?
John
alzò le mani in segno di resa. Non capiva e non aveva la ben che
minima voglia di capire. Abbandonò il libro sulla mensola da cui
l'aveva preso e se ne andò via dal soggiorno a grandi passi,
accompagnato dal suono crescente del violino.
Prima
era “solo” un problema di accappatoio, adesso non era
più libero di vestirsi come diavolo gli pareva. Grandioso. Era
proprio fottutamente grandioso.
Un
mese dopo.
– Sto
uscendo. –
– John,
santo cielo, sto cercando di pensare! –
Del
tutto colto alla sprovvista, John si pietrificò sulla soglia del
soggiorno.
Sherlock
era ancora lì, sul divano. Ci aveva passato le ultime tre ore, steso
a pensare, le mani giunte accostate al mento e gli occhi chiusi,
perso nel suo Palazzo Mentale. Qualsiasi tentativo di conversazione
s'era scontrato con la sua plateale assenza mentale. E proprio adesso
che John aveva qualcosa di meglio da fare, lui si metteva a
isterizzare?
– Ti
stavo solo avvertendo che... –
– Stai
uscendo, sì. – concluse per lui – Chi l'avrebbe mai detto! –
Sherlock
balzò su dal divano e prese a camminare nervosamente per la stanza.
– Ci
ero già arrivato. Un minuto e mezzo fa, per la precisione: tanto è
il tempo che il tuo dopobarba ha impiegato a precederti. – aggiunse
sarcastico – Quanti flaconi hai fatto fuori, stavolta? Avrai
sicuramente intossicato il bagno. Come al solito. Devi darci un
taglio, John. –
Questa,
poi! John fece un passo avanti e aprì la bocca, pronto a sfidarlo, a
chiedergli cosa diavolo avesse da ridire anche sul suo dannato
dopobarba. Ma sapeva bene che discutere con Sherlock era come cercare
di averla vinta con un marmocchio di cinque anni.
Un
marmocchio di cinque anni viziato. Viziato e con manie di
grandezza. Viziato, con manie di grandezza e sotto psicofarmaci.
Per
cui, anche questa volta, in qualche misterioso modo, il lato
diplomatico di John riuscì ad avere il sopravvento. Alzò il mento e
sì gonfiò del superiore orgoglio che solo un uomo adulto, nonché
dottore e soldato, può vantare.
– Sai
cosa? – agitò una mano con noncuranza – Non ti chiederò cos'ha
che non va il mio dopobarba. Non ti chiederò un bel niente. –
– Ottimo.
– sibilò Sherlock, ributtandosi sul divano.
– Bene.
–
– Buona
serata. –
– Grazie.
–
John
si richiuse la porta alle spalle, scese le scale precipitosamente e
afferrò il cappotto. La voce arrivò direttamente dalla cima della
rampa delle scale, petulante come non lo era mai stata.
– Oh,
e portarla al cinema è banale. Nonché pericoloso,
considerato che la tua vicinanza la intossicherà certamente. –
John
strinse le mani a pugno e contrasse la mascella, arrossendo
stupidamente. Non si sentiva poi tanto adulto, in fin dei conti.
Nonostante
tutto, prima di indossare il cappotto e uscire, si passò una mano
sulla guancia e portò il palmo al naso, annusando appena,
chiedendosi... bah! Aprì il portone e si lanciò nel freddo
londinese, cercando di scacciare dalla testa gli isterismi del suo
coinquilino. Facevano male alla sua salute mentale.
Cinque
giorni dopo.
– Non
farlo. –
John
batté le palpebre e s'immobilizzò.
– “Non
farlo” cosa? –
Era
proprio curioso, John, visto che non stava facendo assolutamente
nulla se non riflettere sul caso in corso, esaminando le informazioni
raccolte fino a quel momento. E Sherlock non poteva nemmeno
lamentarsi, considerato che come al solito era stato lui a
coinvolgerlo in quella faccenda, insistendo pesantemente e
trascinandolo per mezza Londra e facendolo impazzire dietro ai suoi
ragionamenti.
– Lo
sai. –
– No,
non lo so. –
John
incrociò le braccia sul petto e gli si rivolse deciso. Era stufo
delle sue reiterate ingerenze nella sua vita, questa volta non
gliel'avrebbe fatta passare in sordina.
– Tu,
con le tue sopracciglia... e la lingua stretta tra i denti per fare
il tenero cucciolo tutto assorto. –
– Io
non... –
– Oh,
tu sì. –
Tutto
il sangue presente nel corpo di John parve volersi concentrare
immediatamente sulle sue guance. Questo era troppo, davvero troppo.
Perché va bene tutto, va bene criticare il suo amato accappatoio, va
bene avere da ridire sul suo maglione preferito... passi pure
disprezzare il suo dopobarba... ma mettersi a sentenziare anche sui
suoi atteggiamenti, i suoi modi di essere, no. Questo proprio
no. Lo sentiva come un attacco personale.
– Sherlock,
dobbiamo parlare. –
Concentrato
sugli indizi del caso, lui non gli prestò alcuna attenzione. John
iniziava a sentire l'impulso di appenderlo al muro. Seriamente.
– Sherlock.
– lo richiamò a voce alta – Sono serio, non puoi continuare... –
Il
suo volto s'illuminò di delirante entusiasmo: – Oh, ma certo!
–
– Ma
mi stai ascoltando? –
– Come
ha fatto a sfuggirmi per tutto questo tempo?! – fece una piroetta su
sé stesso e saltò sul posto – È il maggiordomo! –
– Sherlock.
– ringhiò.
Ignorando
completamente il suo richiamo, lo prese per le spalle: – John...
John... dobbiamo trovare il maggiordomo! –
E
un attimo dopo s'era già volatilizzato verso l'ingresso.
John
piantò le mani sui fianchi e chinò la testa, ripetendosi di
respirare. Con calma. Riprendere il controllo del diaframma. Bene,
così.
E
adesso raggiungilo e uccidilo con le tue mani.
Tre
settimane dopo.
– John.
–
– Mhm?
– fece lui, intento a stendere il racconto del loro ultimo caso.
Era
giusto arrivato alla parte in cui descriveva – e, oh, con quale
gusto lo descriveva – come Sherlock fosse del tutto ignorante
riguardo il sistema solare.
– John.
– lo chiamò ancora – John. –
– Cosa?
Cosa? Cosa? – cantilenò lui, senza smettere di digitare.
– Vai
a farti la doccia. –
Le
dita di John s'immobilizzarono. Lo sguardo sgranato, roteò gli
occhi di qua e di là, senza sapere dove posarli.
– Come?
– riuscì tossire.
– E
poi mettiti quel maglione. – mugolò Sherlock dal divano dove era
accucciato, avvolto nella sua vestaglia blu.
La
fronte di John s'increspò di mille rughe, prova esteriore del
disperato tentativo che stava facendo nel comprendere il perché –
perché mai – avesse deciso di andare a vivere con
quello squilibrato di Sherlock Holmes.
– Quello
a righe. – precisò – E poi torna qui e riprendi a scrivere. –
Se
solo avesse potuto vedere la propria espressione, forse John ne
avrebbe riso.
– Oh,
prima assicurati di aver messo il dopobarba. –
Tutto
questo era a dir poco agghiacciante. Ma da quando John viveva al 221B
di Baker Street, s'era trovato spesso – più spesso di quanto
desiderasse – a dover gestire cose agghiaccianti. Per cui riuscì in
qualche modo a raccogliere il sangue freddo per gestire anche quella.
– E
di grazia, perché? –
– Perché
mi sto annoiando. –
– Ah,
be'. – sbuffò inarcando le sopracciglia – Questa è certamente
una spiegazione più che logica. –
E
no, John non stava facendo dell'ironia. Erano passati meno di due
giorni dalla risoluzione dell'ultimo caso e Sherlock ovviamente
si stava già annoiando. Per lo meno non aveva ancora iniziato a
sparare contro la parete o a squartare cadaveri con arpioni da pesca,
dunque poteva addirittura ritenersi fortunato.
Per
la sua esperienza, John sapeva che la reazione migliore ad uno
Sherlock annoiato era l'indifferenza. Come per i bambini capricciosi
e i cani indisciplinati. Per
cui ruotò appena la testa e batté le palpebre, cercando di
scacciare – via, sciò, cattivo! – l'istinto omicida sorto
dal profondo e di riprendere semplicemente a scrivere. Sì, meglio.
– Cosa
stai aspettando? –
Sherlock
s'era rigirato sul divano e lo osservava con aria indispettita. Fu a
quel punto che a John sorse un dubbio. Sorrise tra sé quando iniziò
a capire il suo gioco.
– No,
Sherlock. Non andrò a farmi una doccia. Né indosserò quel maglione
che non ti piace, né mi metterò il dopobarba che non sopporti. –
elencò deciso.
L'espressione
di Sherlock si faceva gradualmente più confusa e imbronciata. John
s'impose di reprimere la soddisfazione che gli procurava e andare
avanti con la sua piccola vendetta.
– E
sai che ti dico? – continuò tranquillamente, chiudendo il
portatile e alzandosi dal divano – Me ne vado di là. Mi metto a
scrivere in camera mia. –
L'annuncio
parve allarmare non poco Sherlock.
– Cosa?
Perché? –
John
uscì dal soggiorno: – Perché ne ho le palle piene di fungere da
catalizzatore per i tuoi sfoghi nevrotici. –
– E
per la cronaca, quel maglione non è affatto brutto. – gli gridò
dalle scale, prima di chiudersi nella sua stanza.
Non
durò a lungo.
– Io
non ho mai detto che il tuo maglione è brutto. –
Seduto
comodamente sul letto, con il portatile sulle gambe incrociate, John
ostentava un'indifferenza che non provava affatto. Ma ne valeva la
pena.
– Oh,
sì che l'hai detto. – ribatté sicuro.
– No
che non l'ho detto. –
– Ti
dico di sì. –
– E
io ti dico di no. –
Ormai
praticamente incapace anche solo di fingere concentrazione su quello
che stava scrivendo, John alzò lo sguardo dallo schermo e lo piantò
su di lui.
– C'ero
anch'io, sai? E hai detto... –
– Non
ho detto che è “brutto”. – lo interruppe – L'ho definito “inopportuno”. –
– È
la stessa cosa. – ribatté John irritato.
– No
che non lo è! – sbottò lui gesticolando – Come potrebbe
esserlo?! Se avessi voluto intendere che il tuo maglione è brutto, mi avresti
sentito dire “John, il tuo maglione è brutto”. Che non è
quello che ho detto. –
John,
che era rimasto immobile, con il mento posato sulla mano, mentre lui
sbraitava la sua versione, sentì distintamente una fitta irradiarsi
dalle tempie e inglobare tutto il cranio. Gli stava venendo mal di
testa. Grazie tante, Sherlock Holmes.
– D'accordo.
Va bene. – sospirò estenuato – Mettiamo da parte il maglione. –
Accigliato,
Sherlock mosse teatralmente il braccio ad accogliere la sua proposta.
– Cosa
mi dici del dopobarba? – gli chiese intrecciando le mani in grembo,
pronto a sorbirsi un'altra crisi.
Lui
fece una smorfia e agitò una mano come a liquidare la faccenda: –
Mai detto che non mi piace. –
Be', in effetti, a ripensarci, non gliel'aveva detto. Non in quei termini,
per lo meno.
– E
tutta la faccenda delle... sopracciglia e la... lingua tra i
denti...? –
Sherlock
allargò le braccia: – Vuoi forse negarlo? –
John
si grattò nervosamente un braccio.
– No.
– si schiarì la voce – Ma... –
– “Ma”?
Non c'è nessun “ma”, John. Lo fai. Continuamente. E mi distrae.
–
Questo
riportò alla mente di John una certa cosa. L'accappatoio. Proprio il
principio di tutte quelle assurdità.
– E
cosa diavolo dovrebbe significare?! – esclamò – Quale arcano
sortilegio permea il mio accappatoio affinché riesca a distrarre la
tua geniale mente? –
Sherlock
non rispose subito, bensì s'immobilizzò a guardarlo con aria
perplessa. E già questo avrebbe dovuto preoccupare John, che però
al momento era troppo preso dalla discussione.
– L'accappatoio?
– fece, sinceramente confuso.
– L'accappatoio,
Sherlock. – ripeté lui, facendogli il verso – L'accappatoio
accappatoio. –
– Santo
cielo... – sbuffò una mezza risata costernata – ma non era
quello a distrarmi, John! –
Arriva
un punto nella vita di un uomo in cui l'unica cosa che si può fare è
ficcare la faccia nei palmi delle mani e rantolare un verso di
disappunto. Quel momento era arrivato per John Watson.
– E
allora cosa... cosa, Sherlock?! – eruttò, colmo
d'insofferenza e confusione – Ti supplico, spiegami. Sono solo un
umile dottore. Un dottore con una Browing carica nel cassetto del
comodino. Quindi adesso mi fai il piacere di spiegarmi tutta questa
stracazzo di storia. –
– Oh,
non posso crederci. –
A
chiunque sarebbe parso impossibile, eppure Sherlock stava riuscendo a
peggiorare la sua posizione. Perché ad un ex soldato incazzato nero
non puoi rispondere con quell'aria di sufficienza.
– Ma
cos'è che occupa il tuo cervello per tutto il tempo? Perché
non osservi? –
John
lo trafisse con la sua migliore occhiata omicida, ma l'unico effetto
che ebbe fu quello di suscitargli ilarità. A lui stava per
partire un embolo e quel cretino rideva.
– Non
è il tuo accappatoio, John. – prese a spiegargli, gesticolando in
giro per la stanza, facendo volteggiare i lembi della vestaglia
slegata.
– Non
è il maglione, non è il dopobarba. Non sono nemmeno le sopracciglia
e la lingua tra i denti. – elencò, chinandosi dal suo metro e
ottanta e mimando con le dita – Non è tutto questo... ed è
tutto questo. –
– Gli
indovinelli mi irritano. – lo avvertì.
Sherlock
alzò le mani, scotendo la testa. Le abbassò, infine, andando ad
indicare lui.
– Sei
tu. –
Dieci
secondi dopo.
– Cosa...
cosa vuol dire che sono io? –
La
frase osò spezzare il silenzio solo dieci secondi dopo
l'affermazione di Sherlock.
E
se dieci secondi di silenzio vi sembrano pochi, provate ad immaginare
che si protraggano tra due persone che fino ad un attimo prima di
stavano urlando addosso.
– Lo
sai, John, sono sposato con il mio lavoro. –
John
aggrottò le sopracciglia: – E questo cosa c'entra? –
– Ti
ho accettato come coinquilino perché apparivi innocuo. –
Ed
erano a due. Due frasi slegate dal contesto. Di seguito. Era un
record anche per Sherlock.
– Volevo
qualcuno... una persona innocua, la cui unica utilità fosse dividere
l'affitto. – continuò lui, sedendo pesantemente sul letto e
scompigliandosi i capelli con veemenza.
– E
tu sembravi perfetto, John. Perfetto. – dichiarò – Ex
soldato? Mai subito il fascino della divisa. Dottore? Ho sempre
trovato grottesco “giocare al dottore”. Quando me lo chiedevano
mi veniva un attacco di ipocondria. –
Sherlock
gli rivolse un'espressione disgustata: – Si può sapere cosa c'è
di erotico nel fingersi malati? –
John
aprì la bocca, senza sapere in verità cosa dire. Comunque la
digressione di Sherlock era già finita.
– Eri
così banale, scontato, ordinario... – prese ad elencare –
proprio quello che cercavo. –
– Be',
non è esattamente così che mi descriverei... – borbottò
stringendosi nelle spalle con aria offesa.
– Non
volevo distrazioni. – concluse.
C'era
una sorta di strano di disagio, una specie solletico proprio lì,
all'altezza dello stomaco, che stava prendendo lentamente John.
– Distrazioni?
– biasciò.
– Distrazioni.
– ripeté Sherlock con un sospiro, lasciandosi andare sul letto, le gambe
che penzolavano giù e le braccia aperte ad angelo.
John
tentò di non pensare quello che stava pensando. E di non accostare
quel pensiero al fatto che erano nello stesso letto.
– Ma
intendi... cioè... –
– Sì,
John, distrazioni distrazioni. –
Era
impossibile arginare i pensieri, adesso.
– Ti
credevo innocuo. E per la maggior parte del tempo lo sei. È questo
che mi ha fregato. –
John
scorse il suo profilo, le labbra che si muovevano piano, gli occhi
socchiusi.
– Sei
infido, John. Non sai nemmeno di essere così... così. Non ne
sei consapevole. –
– Ma
io non... io non sono... – emise un sospiro strozzato che spezzò
la frase a metà.
Era
incapace di accettare l'idea. Perché, insomma, era Sherlock quello
affascinante, quello capace di fare cadere involontariamente ai suoi
piedi una selva di donne. E poteva dirlo con cognizione di causa,
perché onestamente lui ci sapeva fare con le donne, ma se avesse
avuto anche solo un briciolo del sex-appeal di Sherlock...
No,
fermi tutti. Perché stava pensando al sex-appeal di Sherlock? Come
diavolo c'era arrivato a pensare al sex-appeal di Sherlock?!
– Tu
non sei cosa, John? – lo sentì mormorare stancamente – E per
favore... per favore... smettila di pensare che io sono più
figo di te. –
John
non ci provò nemmeno a controbattere o negare. Sarebbe stato
ridicolo. Si limitò a fissare un punto davanti a sé, tormentando la coperta con le dita, e rimase zitto.
– Tu
rendi felici le persone, io no. Questo è essere fighi. –
Il
letto si mosse appena. John batté le palpebre e quando mise a fuoco
ciò che gli stava attorno si rese conto che Sherlock se n'era
andato.
Venti
minuti dopo.
Sherlock
aveva suonato per tutto il tempo, sfogando la frustrazione sul povero
violino. Non aveva dunque sentito i rumori della doccia e l'odore del
dopobarba gli era arrivato troppo tardi, regalandogli giusto una
sferzata di aspettativa che gli fece tremare le mani.
Mise
giù archetto e violino. E finalmente s'azzardò a guardarlo. Non
riuscì ad impedirsi di risalire con gli occhi la linea della spalla
che staccava dal maglione, il collo tornito, fino ai capelli bagnati.
E quella dannata lingua stretta tra i denti. Ammirevole lo sforzo –
del tutto andato a buon fine – di fargli venire un erezione.
Ancora
non lo sapeva, Sherlock, ma la sua geniale mente l'avrebbe
dedotto in fretta. L'aspetto con cui John gli si presentava in quel momento
sarebbe presto diventato un piacevole segnale segreto tra di loro.
– C'è
un problema. –
John
si avvicinò piano, le mani lungo i fianchi.
– Sono
tutto orecchi. –
– Anzi
due. –
Sherlock
chinò la testa di lato, in attento ascolto.
– Il
primo? – lo invitò.
– Non
credo che l'espressione da... ah... “tenero cucciolo assorto” mi
verrà naturale in tutte le situazioni. –
Sherlock
evitò per la propria salute fisica, psicologica e morale di
indugiare col pensiero sulle situazioni intese da John.
– È
comprensibile. – commentò – E comunque sia ti viene meglio
quando sei spontaneo. – si schiarì la voce – Il secondo
problema? –
John
si avvicinò ancora. Sherlock poteva contargli le gocce sui capelli.
– Trovo
anch'io che tu sia così... così. –
Non
c'erano parole per descrivere il modo in cui glielo disse.
– Ma
a pensarci bene, non è che sia questo gran problema. –
John
sorrise. E Sherlock si sentì morire. Rinacque poco dopo, dal bacio
che gli diede. Rinacque dall'inconsapevole dolcezza assassina di quel
bacio, così tipico di John.
Oh,
non avrebbe mai più potuto farne a meno. E aveva davvero
pensato che fosse innocuo.
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