Il
vento sferzava i capelli del piccolo detective, piccole gocce di
pioggia gli rigavano il viso mentre arrancava verso casa Agasa. Si
sentiva debole come non era mai stato, troppo stanco per andare o
avanti o per tornare indietro. Non sapeva nemmeno lui come riusciva a
proseguire: forse era qualcosa di divino, forse il semplice pensiero che lei era
lì che lo aspettava.
Sì, probabilmente era l'unico valido motivo per continuare a
camminare, per sopportare quel dolore atroce. Avanzava con fatica verso
una meta lontana e irraggiungibile. Procedeva, ma il dolore si faceva
sempre più acuto e insopportabile. Si appoggiò al
muro ruvido che correva al lato della strada in cerca di un appoggio
solido e reale. Cercò di riprendere fiato e di rallentare -
il suo cuore che non avrebbe sopportato a lungo quello sforzo -, senza
grandi risultati. Si allontanò dalla parete fredda e
proseguì il suo viaggio senza tanti complimenti.
Non l’avrebbe lasciata sola ancora una volta. Era scomparso
per due anni e il solo modo per colmare quell’assenza erano
le poche telefonate che le faceva ed in cui parlava solo di se stesso,
per evitare che gli facesse domande strane. Era per il suo bene che
continuava a fingere, lui, il paladino della verità e della
giustizia, ma si sentiva comunque un verme. Soprattutto quando la
vedeva piangere: il capitano della squadra di karate della Teitan High
School che piangeva per un “fantasma”, un ragazzo
che aveva abbandonato la sua migliore amica per inseguire la sua
passione per i misteri.
Ma Ran non era solo “la sua migliore amica”. Era
molto di più. Probabilmente l’aveva sempre saputo,
ma era dovuto diventare un bimbo di sette anni per comprenderlo
appieno. A quel pensiero il piccolo Conan si lasciò sfuggire
un sorriso malinconico. Un passo dopo l’altro si faceva
strada la consapevolezza che la meta era più vicina. Ma i
passi da fare erano tanti, troppi per il piccolo detective agonizzante.
Inciampò nei vestiti troppo grandi per quel corpicino
infantile, vestiti da diciassettenne, e cadde. Un gemito gli
sfuggì dalla piccola bocca, da cui spuntava un rivolo di
sangue color rubino. Non trovava nemmeno la forza per tirarsi su.
Rimase sdraiato così com’era caduto, la faccia
contro l’asfalto freddo e nient’altro. La pioggia
continuava a cadere beffarda, come volesse prendersi gioco quel bambino
che lottava contro il mondo intero.
Ran…
Si alzò a fatica, pieno di graffi e lividi
derivati da quell’ultimo capitombolo. Niente e nessuno
l’avrebbe fermato. Se fosse stato per la sua testardaggine
altro che arrancare, avrebbe persino potuto volare. Ma c’era
quel dolore insopportabile che gli stringeva il cuore come una morsa.
Quel proiettile vagante aveva colpito Shinichi in pieno petto ed era
Conan che doveva tentare di trovare un appiglio per salvarsi. Non
sapeva nemmeno lui come potesse essere ancora vivo. Sarebbe dovuto
morire sul colpo e invece eccolo lì a sperare.
Perché non poteva fare altro, in fondo. Poteva solo sperare
di poter vivere giusto il tempo per raccontare a Ran la
verità. Ma sembrava un’impresa impossibile, quasi
un’utopia. Non poteva pensare altro mentre la mano che gli
stringeva il petto si tingeva di rosso, prontamente ripulita dalla
pioggia.
Le forze iniziarono a mancare: sentiva le gambe pesanti ed era bagnato
fradicio. Eppure continuava a camminare sotto la pioggia battente,
senza un lamento. Si mordeva il labbro per non urlare, ma sopportare
stava diventando impossibile. La testa iniziò a girare e
Conan dovette cercare ancora un appoggio. Era davvero agli sgoccioli,
il cuore gli batteva all’impazzata. Aveva il fiato corto e le
gambe molli.
Fu costretto a sedersi, ma il dolore non accennava a diminuire. Le sue
lacrime si mischiavano alla pioggia che continuava a cadere, incurante
di tutto e di tutti. Erano lacrime di dolore, ma soprattutto di rabbia:
la consapevolezza che non ce l’avrebbe fatta lo faceva andare
su tutte le furie.
No, non poteva rinunciare così. L’avrebbe rivista
almeno un’ultima volta. Una forza misteriosa lo fece alzare
di nuovo e fece in modo che riprendesse a camminare. Percorse qualche
metro, alle sue spalle Tokyo era sovrastata da un cupo cielo scuro
illuminato di tanto in tanto da qualche fulmine - un lampo improvviso
che lo faceva sobbalzare ogni volta.
Continuava a camminare, mille volte più sicuro di prima,
contro il destino e contro il tempo. E fu in quel momento che
sentì la testa dolere forte e le palpebre pesanti.
Si accasciò a terra, in ginocchio sulla strada bagnata, la
casa del dottore era solo due isolati più in là.
E lei lo aspettava lì, insieme ai suoi cari per una cena
tutti insieme, sorridente e all’insaputa di quello che era
accaduto. Ce l’aveva quasi fatta, solo qualche
passo…
Tentò di sollevarsi, ‘sta volta senza successo.
Barcollò per poi cadere di nuovo. Gli pareva di non toccare
mai terra, una caduta infinita che stava diventando snervante.
Perché non poteva morire e basta? L’impatto
continuava a non arrivare, nonostante le sue preghiere. La sua tenacia
era scomparsa di colpo, sopraffatta dal dolore. Solo in quel momento si
accorse del perché quella caduta non finisse. Fluttuava a
circa un metro da terra, sorretto da due braccia esili ma muscolose.
Appoggiò la testa sul petto del suo soccorritore. Era una
bella sensazione: emanava un calore particolare, un calore che durante
quella lotta contro il Fato credeva di non sentire mai più.
Il piccolo detective chiuse gli occhi, cullato dal ritmo di quel cuore
che batteva. Si addormentò beato, sorridendo.
Ran rise sentendo il bimbo russare fra le sue braccia.
Guardò quel visino tanto simile a quello di Shinichi, libero
dagli ingombranti occhiali, l’espressione rilassata dopo la
faticaccia della lunga camminata. Sanguinava ed era piuttosto malconcio
e sul suo giubbotto era rimasta una traccia circolare di bruciatura, un
segno che conosceva bene. Iniziò a preoccuparsi sul serio.
L’ospedale della polizia era a pochi passi, non ci sarebbe
voluto molto correndo. Arrivò lì stanca e
stravolta, bagnata fradicia da capo a piedi, ma non le importava. Non
avrebbe lasciato solo quel piccolo che tanto le ricordava il suo amato
detective. Per nessuna ragione al mondo.
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