I Signori delle Terre
dell’Ovest
1. Schegge di cielo
Era sorprendente il lieve
tono ambrato che prendevano le lame di luce solare penetrando le lisce lastre
di vetro incastonate nelle finestre; lo era ancora,
dopo più di cento anni che quegli stessi passi solcavano i preziosi pavimenti
del Palazzo, permettendo allo sguardo di spaziare senza sforzo tra i diversi
usci che facevano capolino a tratti sulle pareti, piccole bocche di mondi
preclusi alla vista da sontuose porte di noce, che fondevano nella loro linea
slanciata il sapore del Barocco umano alla semplicità di curve temprate da
gentilezze quasi sovrannaturali.
Il suono di quei passi
leggeri era udibile solo ad un orecchio fine di cacciatore, accompagnato da
diversi fruscii: la stoffa di un pallido turchese che scivolava sullo specchio
ramato del pavimento, la cinta intrecciata di cuoio bruno che per un tratto
pendeva tra le volute della veste, scomparendo come una minuscola imbarcazione
nelle oscillazioni marine, creando un rapsodico sussurro; il tiepido mormorio
dei respiri, che si intervallavano tra di loro lenti, più lenti di quelli di un
uomo, più lenti di quelli delle bestie.
La donna che si muoveva in
quello spazio, arrivando infine ad una porta elegantemente intarsiata, era un
esemplare di elfo che non aveva pari al mondo.
La sua pelle incarnata
d’avorio era la stessa di tutti i suoi simili, come la struttura delle membra
che pareva più simile a quella di un giunco rispetto a quella degli esseri
umani. Era snella e slanciata, ritta negli abiti che, smossi da venti
inesistenti, danzavano attorno alla sua figura luminosa, colpita dal riflesso
del sole; la sua bellezza inestimabile era un miscuglio alchemico di serietà,
che le teneva le desiderabili labbra rosate serrate, e di imperscrutabile
saggezza, caratteristica che ogni millimetro di lei trasudava, imponendo con
tacite parole che le venisse usato un rispetto degno di una regina.
Ma vi erano connotazioni singolari,
nella sua figura, tinte che nella razza che le aveva dato i natali era raro
ritrovare: poiché i lunghi capelli che le cadevano sino alla vita, intrecciati
in molli treccioline che a tratti avvolgevano tutte
le fluenti ciocche, erano neri come il fosco piumaggio di un corvo; e le
pupille che oltre le fila di lunghe ciglia saettavano occhiate profonde e
insondabili erano illuminate di riflessi rosa, come quelli di alcune
particolari gemme di topazio, e guarniti di lampi occasionali che portavano lo
stesso rosso dei tramonti invernali.
Loole di Inveia allungò una
delicata mano, adorna di lunghe dita affusolate che recavano i segni arabeschi
di tatuaggi di fine inchiostro, alla maniglia dorata della porta che la
fronteggiava austera, abbassandola e creando uno spiraglio che lentamente andò
ad ispessirsi sino a permetterle il passaggio, dopo di che si chiuse
la porta alle spalle, penetrata in una vasta sala circolare che racchiudeva una
decina di persone.
Nessuno interruppe il suo
lavoro quando la sorella del Reggente fece la sua silente comparsa alle loro
spalle: elfi dalle giubbe di lino marroncino trascrivevano appunti diplomatici
con la loro fine e serpeggiante calligrafia; un umano dai capelli bianchi e le
lenti ovali posate sul naso ascoltava parole che a lui parevano dirette,
pronunciate da un elfo corrucciato, seduto scompostamente su una cattedra disadorna,
lo sguardo adirato fisso sulla pietra lucida dell’antichissimo tavolo che aveva
dinanzi.
«…non costringetemi a
ripagarvi con la vostra stessa moneta, Guillome, e
prendete la responsabilità che il vostro ruolo richiede. O sarò tentato di
pensare che voi siate deluso dall’esito che ha avuto l’attentato ai mie danni»
L’uomo, solo esponente della
razza nella stanza, ebbe un sussulto alle parole dl Reggente di Inveia. Con la pelle lucida di sudore accennò un gesto
nervoso di diniego, a cui seguì la sua voce soffocata, che portava la paura che
sentiva dopo la minaccia dell’elfo.
« Non è mai stata mia
intenzione negare i miei obblighi…verrà fatta giustizia per il grave
gesto…eppure mi sento ancora in dovere di…»
Il coraggioso rappresentante
di corte della popolazione umana del feudo fu liquidato con un gesto del
Reggente, che si levò in piedi. Gli scrivani interruppero di colpo il loro
lavoro, balzando in piedi e raccogliendo di fretta pergamene, piume e
inchiostri, e prodigandosi nell’uscire il più presto possibile dalla stanza. Loole, accanto al muro, osservava.
« Allora tornate a casa e
fate ciò che vi ho detto. Buona fortuna»
L’uomo chiamato Guillome bofonchiò indignato un paio di parole, ma si
rassegnò ad uscire dalla stanza a testa bassa. Era ormai arrivato alle porte
spalancate dagli scrivani quando notò la presenza di Loole,
a cui rivolse un’occhiata malinconica. Ho
tentato, dicevano i suoi occhi stanchi, ho
tentato ma ho fallito.
L’elfa
rispose con un tacito segno del capo, e l’uomo si affrettò ad uscire dalla
stanza.
Dopo la fiumana di cortigiani
defluita dalla sala, Loole rimase sola assieme al
fratello e ad un altro elfo, che rimaneva seduto con altezzosità al suo posto,
tracciando disegni astratti sulla tavola con i polpastrelli.
Il Reggente Fanaon era un uomo maestoso, che nel passare del tempo
aveva vissuto una metamorfosi dolorosa, di cui solo da poco aveva iniziato a
pagare le conseguenze. Era un elfo puro, disceso, assieme al suo clan,
direttamente dai Migratori delle Catene di Hörn, i
grandiosi eroi che avevano innestato le radici nelle floride terre dell’Ovest
secoli prima, abbandonando i castelli di ghiaccio in cui erano vissuti nelle
più alte cime alpine.
I suoi tratti ricordavano
molto quelli di Loole, nel taglio netto degli occhi e
nelle linee aguzze degli zigomi, ma i suoi colori erano i più frequenti tra i
loro simili, i capelli quasi bianchi e gli occhi blu come le profondità
oceaniche. Sembrava un bel giovane se visto di sfuggita, e sicuramente aveva
dimostrato di poterlo divenire anni prima, ma una piega truce del volto lo
aveva segnato per tanti anni da tracciare sulla sua pelle d’avorio un cruccio
perenne, simbolo agli occhi degli uomini che nel suo cuore si era conficcata
una scheggia di ghiaccio che non aveva possibilità di essere scacciata.
La camicia che gli avvolgeva
il petto era scostata sopra la spalla destra; là, macchiata di sangue,
una benda era stretta sulla
carne, posta dalle delicate mani della saggia Nün
giusto poche ore prima.
«Salute a te, fratello» parlò
Loole. La sua voce, a dispetto di ciò che ispirava la
sua immagine angelica, era scura, e i toni bassi delle sue parole avvolti da
volute di serietà inalterabile.
Gli occhi dell’altro elfo la
squadravano senza pudore, ma lei non lo degnò d’uno sguardo.
«Ah, sei qui…credevo che la
notizia non ti fosse giunta» disse Fanaon con un
ombra acida nello sguardo.
Loole si limitò a gettare un’occhiata alla sua spalla
ferita, e ciò appesantì il suo sguardo di dolore. Il fratello lo scorse, e,
senza smettere il suo cruccio né la sua alterigia, mosse una mano verso di lei,
nel tentativo di tranquillizzarla – un tentativo sin troppo magnanimo, per i
gusti del Reggente.
«Via, non è nulla. Ci vorrà
ben altro che un paio d’omuncoli per ammazzare me, sorella. Che sei venuta a
fare?»
Quanto era arido, quello
schizzo di tenerezza. Loole non mutò espressione
davanti al comportamento del fratello, scoraggiata ormai da anni nel mostrarsi
pietosa nei suoi confronti.
«Ti porto un messaggio di Mitride e della sua gente, Fanaon»
rispose la donna, sedendo accanto al fratello. Gli occhi blu di lui la
seguirono, accesi di una nuova ferocia.
«Sono scontenti di te. La
tassa che hai loro imposto sulle terre che occupano è inadeguata, e lamentano
il tuo disinteressamento verso la loro decisione di uscire dal nostro mercato.
Non hanno danaro, fratello, non possono pagarti i cinquecento pezzi d’oro che
tu domandi. E soprattutto, la tua richiesta va contro i trattati che firmammo
venti inverni fa…»
«Venti inverni fa io ero un
altro uomo!» esclamò irato Fanaon. Loole ebbe un piccolo sussulto quando lo stivale di lui
colpì con violenza il suolo, ma dopo di che rimase calma ad ascoltare. «I loro
sudici zoccoli hanno calpestato sin troppo i miei territori senza darmi nulla
in cambio, non tollererò oltre! Tornatene da dove sei venuta e impicciati dei
tuoi compiti, sorella, non osare invischiarti in faccende che non ti competono»
La rabbia violenta di Fanaon aveva raccolto ben poco stupore dai due elfi nella
stanza, e Loole attese solo il trascorrere d’un paio
di secondi prima di parlare ancora, con voce pacata:
«Eri un altro uomo» ripeté
piano, in contrapposizione alle urla del fratello.
Lui la guardò con odio, e i
suoi muscoli delle braccia si tesero a vuoto tanto che la benda si macchiò di
nuovo sangue. I suoi occhi, ciechi di rabbia, vagarono per un momento nella stanza,
e poi se ne andò, a grandi falcate che divorarono nel giro di un paio d’attimi
il pavimento.
Loole rimase immobile sulla sedia, senza parlare. Non
volgeva uno sguardo solo all’altro testimone dell’eccesso d’ira di Fanaon, e respirava attraverso i suoi calibrati sensi d’elfa come se fosse stata sola, insensibile alla presenza di
quell’individuo dal viso smunto, e gli occhi sporgenti, avidi, che non
smettevano di fissarla. Rimase ferma per alcuni minuti, a pensare, e poi
s’alzò, stanca del silenzio rotto solo dai loro respiri. Arrivò alla porta da
poco oltrepassata dal fratello quando la voce dell’altro elfo la raggiunse, fastidiosa
come il tafano attorno ad un puledro.
«Mia cara, è ammirevole come
voi vi intestardiate a portare a vostro fratello i vostri pensieri politici
travestiti da messaggi…»
Loole guardò l’altro con sguardo sottile, senza aspettarsi
parole preziose dalla sua bocca, tanto sottile e bianca da assomigliare al taglio
netto d’un coltello mosso da mano esperta sulla buccia compatta d’una zucca.
«L’unico compito che sento di
dover espletare è quello di curare le ferite che il nostro feudo sta subendo, Thaurgill. Quelli che voi chiamate pensieri politici non
sono altro che la voce dei nostri popoli che chiedono pace. Non mi aspetto che
voi comprendiate ciò che portiamo noi amici delle genti.»
Loole non impiegò nuova rapidità nel muoversi lontano dalla
stanza, e l’elfo cortigiano la raggiunse senza sforzo. La afferrò per un
braccio, ma la sua stretta era tanto debole da essere spezzata dal solo scatto
stupefatto di lei. Le pupille rosate della nobile elfa
si trovarono a pochi respiri da quelle di Thaurgill.
«Comprendo, invece, Loole. E so bene che tu da sola non puoi pretendere di
vincere questa tua piccola guerra…perché non accetti che un amico ti prenda per
mano per condurti alla vittoria del tuo capriccio, se questo ti renderebbe
felice?»
La figlia di Avenor si ritrasse, i sensi che sottopelle le inviavano
scosse allarmate, il viso candido atteggiato in una maschera di odio represso.
La mano di Thaurgill non fu capace di trattenere neppure una piega del
suo abito, e lasciò che si scostasse, eretta nel suo fiero portamento di
creatura secolare.
«Torna nel tuo angolino oscuro,
Thaurgill, torna a contare le tue sconfitte. Sei un
debole, se pensi che mi vincerai come il vento vince uno scampolo di stoffa
strappandolo al suo ramo. Io non ho bisogno di te, non ho bisogno della tua
avidità» lo aggredì Loole, sostando sotto il suo
lungo sguardo alterato.
Thaurgill fece un passo indietro, fremendo. Con uno sforzo che
parve sovrumano accennò un inchino, e allungò un pallido braccio avvolto da
seta blu a indicare il corridoio.
«Saluto la Signora di Inveia» mormorò, socchiudendo gli occhi. Loole lo guardò ancora per un istante, le labbra
splendidamente arricciate, poi si allontanò in fretta. Era arrivata lontano
quando avvertì lo sguardo di Thaurgill lasciare
libera la sua immagine.
Il feudo di Inveia si allungava a vista d’occhio dal braccio ad Est del
Palazzo di Onice: era dalla finestra più lontana dal resto dell’edificio che Loole amava osservare le leghe attraverso cui i loro
territori si espandevano, andando ad intrecciarsi con lunghe lingue di bosco,
correndo sino ai confini coi loro vicini marittimi, che reggevano i lembi di
terra a picco sul mare.
Quel giorno la luce del sole
investiva obliqua ogni cosa, portando con sé una tonalità ultraterrena di
pallido oro che rendeva preziosa ogni particella di polvere. Un profumo
floreale era limpidamente trattenuto nell’aria, come ultimo scampolo d’estate
che prometteva di svanire entro poche notti.
Sin dalla sua infanzia, Loole aveva sentito la voce tonante di suo padre chiamarla Figlia delle Stelle. Da quando l’avevano
trovata rifugiata ad osservare il cielo dopo che il fratello l’aveva gettata in
una polla di fango per dispetto, tutti a corte sapevano che, se la nuova Dama
di Inveia era irreperibile, di certo i suoi occhi
erano rivolti al cielo, da qualche parte del feudo.
Sentiva così vicina al suo
cuore, quella primigenia caratteristica della sua razza: quell’eterno guardare
la volta celeste alla ricerca di una risposta, forse per ingannare il lungo
tempo a cui erano destinati, quegli anni che li vedevano vivere e crescere come
querce, senza mai accennare un inchino al tempo.
Era mistico, trascorrere le
ore a guardare le nuvole, come per vedere attuato il desiderio di voltarsi e
ritrovare, conficcate nelle pupille, delle schegge di cielo.
Loole si imbrigliò una ciocca di capelli fuggitiva e la
mise dietro l’orecchio. Sotto di lei, lontano, alcuni umani tornavano alle
proprie case: le pareva di sentire, portata dal vento, l’eco festosa dei loro
canti.
Ecco, tutto era come doveva essere*. In quelle minuscole briciole di pace, la Dama di Inveia poteva confrontarsi col suo desiderio più grande. E
sperare, un giorno, di vedere il suo disomogeneo popolo raggiungere la pace.
*: Tutto è come deve
essere. La notte indurisce la polpa dei frutti, risveglia il desiderio degli
insetti; calma l’inquietudine degli uccelli; rinfresca la pelle dei rettili; fa
danzare le lucciole. Sì. Tutto è come deve essere.
Luis Sepúlveda, Le
rose di Atacama