Derry, Aprile 1903.
Un altro spettacolo è finito.
Il rumore degli applausi dopo l’ultimo
bis accompagna, sempre più attutito, gli artisti che si allontanano dal tendone
principale, verso i loro camerini.
“Camerini”, però, è forse una
parola eccessiva: la maggior parte degli artisti devono dividersi in tre o in
quattro delle piccole tende, solo i pezzi forti del circo hanno diritto a un
trattamento migliore e a spazi riservati.
Celia è ormai una di loro. A
trentacinque anni è l’Incantatrice vivente più famosa al mondo. Acclamata e
adorata come una diva dell’Opèra, con la differenza che, alla sua età, molte
attrici hanno già intrapreso la triste strada del declino, e lei invece no. Il
tempo può forse toglierle un po’ di quella bellezza che, inutile negarlo, l’ha
aiutata a farsi notare sul palco, ma non il potere che esibisce nei suoi
numeri, che è ciò che davvero tutti, uomini e donne, ammirano stupiti.
Insomma, un presente roseo e un
futuro di colore simile. Ci potrebbe quasi chiedere mentre si guarda nello
specchio e si toglie gli orecchini, sorridendo alla sua immagine.
Potrebbe; ma poi, quando si è già
tolta l’abito dello spettacolo e sta indossando una vestaglia, sente bussare, e
quel rumore sottile di nocche sulla tenda è una premonizione che la riporta
alla dura realtà.
Il direttore fa capolino, una
mano a coprire gli occhi nel caso lei fosse ancora spogliata.
“Celia, vestiti subito, per
favore. C’è un nuovo attacco in città.”
No, no, no implora mentalmente Celia, ma non c’è nulla da fare.
“D’accordo; dammi qualche minuto
per vestirmi.”
Appena il direttore scompare,
getta con uno scatto di rabbia la vestaglia a terra, e inizia ad armeggiare nel
suo baule alla ricerca di abiti più comodi e adatti alla bisogna. Calzoni
lunghi, da uomo, una camicia, una giacca.
Perché di nuovo? Che diavolo ha questa città?
È già il terzo attacco da quando
il circo ha piantato le tende a Derry, e non sono
passati nemmeno sei mesi! Si erano fermati per oltre un anno a Portsmouth e ce
n’era stato solo uno, e la media era stata più o meno la stessa ovunque. Non
rendeva la cosa meno piacevole, è chiaro, ma almeno gli intervalli di tempo più
lunghi fra un attacco e l’altro permettevano di prendere fiato, di cancellare
il ricordo, addirittura di illudersi che forse non ci sarà un prossimo… Macché.
Vestita a dovere, Celia si reca
al cancello di ingresso del circo. Lì la aspettano due uomini e una carrozza.
Conosce i due: sono gli stessi che l’hanno accompagnata sul luogo dell’attacco
nei casi precedenti. Gente abituata, che non si fa troppi problemi.
E come vorrei riuscirci anche io!
La prima volta che aveva dovuto
fronteggiare un attacco, aveva undici anni, e già da sei viveva con il circo,
da quando suo padre Prospero l’aveva spedita al direttore con una lettera di
presentazione. Proprio da Prospero era fuggita dopo quell’esperienza.
“Cosa ci fai qui?” le aveva
chiesto il padre, indifferente, senza scomporsi a vederla irrompere in lacrime
nella sua stanza a teatro.
“Non voglio! Non voglio più fare
quello!”
“Quello cosa, di grazia?”
“Due sere fa, hanno chiamato Martin,
il primo Incantatore, per una ‘missione’, e lui mi ha detto di accompagnarlo
così avrei iniziato a imparare anche io, e… e…”
Il pianto le aveva troncato il
discorso. Prospero aveva sospirato.
“Capito. Avrei dovuto
immaginarlo, in effetti. So che fronteggiare gli attacchi non è una cosa
piacevole, a maggior ragione per una bambina. Ma è un prezzo da pagare. Pensi
che le città permettano al circo di sostare per periodi così lunghi per buon
cuore? Lo fanno perché vogliono in cambio una mano in queste situazioni, è uno
scambio di favori. E solo gli Incantatori hanno le capacità adatte. Non puoi
fare altro che accettare, se vuoi restare nel circo.”
Non era stato così facile
accettare. Non ricorda con precisione tutta la discussione di quella sera tra
lei e Prospero, né quelle successive sullo stesso tema, ma se è ancora qua
evidentemente non è riuscita a liberarsi da quell’obbligo opprimente.
La carrozza parte a tutta velocità.
“Avete preparato le funi?” chiede
Celia ai suoi accompagnatori. Il più grosso dei due annuisce, e alza la corda
arrotolata davanti ai suoi occhi. Lei fa un cenno di approvazione,
sovrappensiero.
Il punto è che ha scelto lei.
Avrebbe potuto rinunciare al circo; del resto, a undici anni non era più la
bambina di un tempo, incapace di tenere sotto controllo i suoi poteri. Avrebbe
potuto ambientarsi in una scuola normale, tra bambini normali, senza troppi
problemi. Ma amava il circo, e lo ama tuttora, accidenti. È il posto dove si
sente a casa, il mondo di sua madre. Tante volte, soprattutto durante l’adolescenza,
si era detta che voleva vivere nello stesso ambiente dove aveva lavorato e
vissuto la madre per cercare di capirne la storia, il percorso di vita che l’aveva
portata a suicidarsi lasciando una figlia di cinque anni. Ma con il tempo,
passata quella fase, aveva capito che non c’erano missioni di nessun tipo alla
base della sua scelta, se non il senso di appartenenza a quel mondo. Un
sentimento tale che, quando si era trattato di scegliere tra accettare di
fronteggiare gli attacchi e abbandonare il circo, aveva scelto subito la prima
opzione. Anzi, non si poteva parlare di scelta: non aveva nemmeno contemplato la possibilità di andarsene.
E anche crescendo, man mano che le responsabilità annesse al suo ruolo di
Incantatrice diventavano più chiare e pesanti, non aveva avuto ripensamenti.
In effetti non mi posso lamentare di nulla. Ogni volta che mi alzo dal
letto e sono ancora una donna del circo, scelgo il mio destino e tutti gli
annessi e i connessi. L’angoscia che provo in questo momento me la sono cercata
io. Questa è la mia strada.
La carrozza si ferma bruscamente.
Celia scende, due funi per mano. L’hanno portata in una zona di periferia della
città, a poche centinaia di metri può vedere le acque del Kenduskeag
riflettere la luce lunare; ma la sua attenzione è rivolta molto più vicino, al
maciste che urla tra le fiamme.
Li chiamano “macisti” da sempre,
da prima che Celia nascesse, in mancanza di una definizione più scientifica,
che è difficile da ottenere vista l’impossibilità di studiarli. Gli unici che
si mostrano agli uomini sono questi esemplari più giovani e incoscienti che
attaccano le città, distruggono e uccidono, ma tra un attacco e l’altro sono
introvabili, come gli adulti della loro… razza?
Specie? Chi lo sa. Ma quello che basta sapere è che, se ne vedi uno, di certo
speri di non doverli reincontrare tanto presto:
creature alte almeno due metri e mezzo, irsute, con mani grandi quanto
barilotti, e perennemente chiuse a pugno, visi che sembrano un incrocio tra
quello di un uomo e quello di un puma, e urla che virano decisamente verso l’animalesco.
Il tutto ad accompagnare una aggressività fuori dal comune.
Celia osserva il maciste di
fronte a lei. Non prova nessuna paura: ne ha già affrontati tanti, e sa che per
lei non costituiscono un pericolo. Nessuna paura, ma tristezza sì, e tanta.
Non c’è proprio modo di affrontare diversamente la faccenda? Non c’è
nulla che io possa fare?
Domande inutili; se le pone
sempre, ogni volta che deve gestire un attacco, e ogni volta sa che non ci sono
alternative; e che, se anche ci fossero, le autorità cittadine responsabili
degli accordi con il circo non le accetterebbero. E allora tanto vale
affrettarsi a fare quel che è inevitabile.
Il maciste è furioso, lancia
latrati terribili contro gli uomini terrorizzati nascosti tra alberi e palazzi.
Intorno a lui si vedono segni del suo passaggio: una casa sventrata, un cane
morto a terra, un albero sradicato. L’essere sembra ancora più mostruoso alla
luce delle fiamme che lo circondano: gli uomini non sanno come fermarlo – i
proiettili rimbalzano sulla sua pelle dura come pigne sul terreno – ma sanno
che i macisti sembrano avere un terrore sacro del fuoco; il che appare
irrazionale, ma anche provvidenziale, perché offre ai cittadini impotenti una
via di salvezza: lanciando contro al maciste oggetti in fiamme, si riesce a
isolarlo in un cerco di fuoco, e a tenerlo così immobilizzato per un po’,
pregando che l’Incantatore di turno arrivi prima che le fiamme si spengano.
Quella sera Celia è fortunata: il
fuoco è ancora vivo e tiene ancora a bada il maciste. A dirla tutta, la fortuna
è degli abitanti: per l’Incantatrice non fa differenza, anzi, semmai dovrà
vedersela con un avversario che la paura rende ancora più furioso. Ma sono
dettagli: nel momento in cui lei è arrivata sul luogo dell’attacco, la sorte
del maciste è segnata.
Inutile pensare. Diamoci da fare.
Celia lancia in aria le funi. Le
guarda. E, come di consueto, le funi invece di obbedire docili alla forza di
gravità restano in aria, immobili per un istante; poi di scatto si lanciano
contro il maciste, si avvolgono intorno ai suoi polsi e costringono le braccia
a torcersi in maniera innaturale dietro la schiena. I capi delle funi si
intrecciano come amanti impegnati in qualche estremo gioco sessuale, e si
stringono in un nodo impossibile da sciogliere. Almeno, impossibile per un
maciste.
Le altre due corde fanno lo
stesso con le gambe. Il maciste urla di sorpresa e di rabbia, e inizia a
contorcersi, furiosamente, ossessivamente, ma l’unico risultato è quello di
perdere l’equilibrio e di cadere in avanti, con proprio addosso a un comodino
infuocato gettato prima lì da qualche abitante.
Il fuoco trasforma la furia in
paura, e il maciste inizia a rotolare su se stesso per allontanarsi da quelle
fiamme, ma prima di riuscirci deve passare sopra ad altri oggetti ardenti, così
che i fuochi gli lambiscono anche le gambe, i piedi, il bacino. Le sue urla di
dolore fanno accapponare la pelle. Solo dopo secondi lunghi come ore, quando
realizza di essersi allontanato a sufficienza dalle fiamme, cerca di nuovo, e
con rabbia triplicata, di liberarsi, smaniando come un folle.
Gli uomini, cauti, escono dai
loro nascondigli e osservano lo spettacolo del mostro intrappolato che cerca
inutilmente di liberarsi. Più i suoi tentativi falliscono e più si rendono
conto di essere salvi, e la loro paura diminuisce. E il maciste avverte che il
terrore che aveva stimolato con il suo arrivo – e che eccitava la sua
aggressività – sta scemando, e quella consapevolezza fa aumentare la sua, di
paura, e gli fa moltiplicare ulteriormente gli sforzi. Ma anche un essere così
gigantesco non ha forze illimitate, e dopo decine e decine di tentativi il
maciste si abbandona a terra, esausto, sconfitto.
A questo punto gli uomini
applaudono, gioiscono, ringraziano l’Incantatrice. E, prese altre funi, le
legano con cautela ai piedi del maciste, per trascinarlo via.
Questo è il momento in cui Celia
vorrebbe già essere ripartita per il circo, ma sa che non è possibile. Il suo
ruolo prevede che sia presente sino all’ultimo momento, nel caso qualcosa vada
storto. Ma non avviene nulla di imprevisto: gli uomini iniziano a tirare il
maciste verso il Kenduskeag, il maciste capisce che
qualcosa di molto brutto sta per succedere, e inizia a piangere.
Gli uomini probabilmente non
capiscono che sta piangendo: alle loro orecchie i versi del maciste non suonano
poi così diversi dalle urla di prima, anche se adesso il tono è impaurito e non
rabbioso. Ma Celia sa bene che si tratta di pianto; lo sa per lunga esperienza,
e forse perché la prima volta che ha sentito un maciste piangere aveva undici
anni, e portava fresca dentro di sé la paura della bambina abbandonata.
Perché è questo il punto, il
dannatissimo punto.
Ci vuole un po’, ma alla fine gli
uomini riescono a portare il maciste in riva al fiume, e lo gettano dentro. Nel
momento in cui l’acqua si chiude sulla sua testa le urla cessano
istantaneamente, ma Celia non si sente meglio per questo, mentre sotto la
superficie del fiume si vede chiaramente il maciste che si divincola, cercando
di respirare. Parecchi minuti prima che resti immobile una volta per tutte. Gli
uomini applaudono, vorrebbero ringraziare di nuovo l’Incantatrice, ma lei si
sta già allontanando. L’attacco è finito, il responsabile è morto, ora si può
tornare a casa.
Gli stessi che l’hanno portata
qui, la riaccompagnano in carrozza al circo. Il viaggio è silenzioso, Celia
evita di guardare in faccia i due, non vuole vedere la loro stanca
soddisfazione, i volti di chi si ritira dopo una giornata di lavoro dura ma
positiva.
Scende dalla carrozza e corre
verso la sua tenda. Vuole solo gettarsi sul letto e cercare di addormentarsi, e
di non pensare più a niente per molte ore, anche se sa che sarà difficile.
Nella sua mente vorticano pensieri, ricordi, immagini. Le liti con suo padre.
“Sei proprio come tua madre, anche
lei non si è mai abituata a combattere i macisti” sbotta Prospero “Perché la
fate così difficile, voi altre?”
“Ma non ti rendi conto” grida
Celia, disperata “Quelli sono bambini,
padre, solo dei bambini!”
“Bambini che uccidono e
distruggono.”
“Lo so! So che gli uomini hanno
ragione a temerli e a difendersi da loro… ma non sono
mostri crudeli, sono… sono dei cuccioli, per loro gli
attacchi non sono che esperienze di vita, e quando piangono perché sanno che
stanno per essere uccisi, e hanno paura, e forse con quei loro versi invocano i
genitori perché più della morte li terrorizza di essere completamente soli e abbandonati…”
“Basta così!” esclama Prospero “Questa
è la natura. Solo gli idioti credono che sia qualcosa di bello e benevolo, e
invece è una carogna. Se i macisti attaccano gli uomini, puoi salvare o gli uni
o gli altri, non entrambi. Le scelte non sono belle, ma non sono nemmeno
ingiuste. La tua angoscia è un senso di colpa che ti crei da sola, senza
motivo.”
“Ma possibile che non capisci?
Puoi avere tutte le ragioni di questo mondo, ma come fai a non sentirti male
quando senti quelle urla?”
Era stata l’ultima discussione
con Prospero. Non le aveva risposto, forse il silenzio era il suo modo per
rimuovere l’orrore che anche lui provato – che doveva provare! – e non avevano più affrontato l’argomento.
Celia entra nella sua tenda, si
siede sul letto, si prende la testa tra le mani. Non sa se può andare avanti a
lungo, così.
Forse anche mamma si è sentita come me; forse è per questo che si è
uccisa.
Celia ha paura di non reggere. Ha
paura di impazzire, di suicidarsi. Ed è una paura che aumenta quanto più si fa
certezza, quanto più diventa consapevole che non c’è alternativa, che la follia
del rimorso è l’unica cosa che la aspetta in fondo alla sua strada.