A golden crown
«He says you shall have a splendid golden crown
that men shall tremble to behold».
A game of thrones
A golden crown
Il valore di un regno si misura con le umiliazioni.
Viserys raccolse un pugno di sabbia da terra, rossa come fuoco, rossa come sangue.
La terra è uguale ovunque, ma quella non era la sua terra. La sua
terra era sempre più lontana, ormai al di là di due mari:
il grande mare d’erba e ancora oltre il Mare Stretto.
Quella era la sua terra, dove lui era Re. In quella città di
capre selvagge nessuno lo guardava con deferenza, nessuno
s’inchinava al suo passaggio. Osavano persino spintonarlo, mentre
cercava di camminare su quei letamai che chiamavano strade.
La città sacra dei selvaggi, se si fosse trovata a Westeros,
sarebbe potuta essere scambiata per un mucchio di bettole di
straccioni, e i trofei dothraki sarebbero stati le rovine di una civiltà ormai dimenticata.
In quella città dimenticata dagli dèi, lui non era nessuno.
Non era che l’ennesima delle umiliazioni: una per una, avevano
costruito la sua rabbia, avevano nutrito il suo risentimento, e
accresciuto la sua sete di vendetta. Il re mendicante,
era così che lo chiamavano nelle bettole delle città
libere, dove ridevano di lui mentre s’ingraziavano i favori
dell’Usurpatore. Il suono di quelle risate di scherno gli
bruciava ancora nel sangue.
Ricordava i loro volti, uno per uno: li avrebbe visti di nuovo, lo
sapeva, quando li avrebbe fatti uccidere davanti al suo trono.
Anche i selvaggi a cavallo avevano riso di lui, l’avevano
trattato come uno straccione e mai come gli sarebbe spettato. Quando
avrebbe riavuto il suo trono, avrebbero pagato per questo. E lei…
Il pensiero di Daenerys gli provocò una fitta di dolore e rabbia che attanagliava le viscere.
Sarebbe dovuta essere mia. Era
quello che aveva immaginato per quanto rimaneva della sua infanzia, e
durante un’adolescenza passata a fuggire da una città
libera all’altra, cercando di proteggere sé stesso e
quella che, ne era certo, un giorno sarebbe diventata la sua regina.
Si immaginava ancora sul Trono di Spade, una fantasia sempre vivida
nella sua mente, la corona d’oro sul capo e Daenerys al suo
fianco.
Si immaginava i muri della Fortezza Rossa decorati con il sangue e con
le teste dell’Usurpatore e dei suoi cani rabbiosi. Sarebbe
mancata solo la testa di Tywin Lannister: Viserys si sarebbe assicurato
personalmente che venisse bruciato nell’altofuoco, e che le sue
ceneri fossero sparse in qualche fogna al Fondo delle Pulci. E dopo di
lui sarebbe stato il turno dello Sterminatore di Re. L’Usurpatore
avrebbe pagato, ma la pena per il tradimento sarebbe stata ancora
peggiore. Un Lannister potrà pagare sempre i suoi debiti, ma il Drago non dimentica.
Ma non avrebbe più potuto avere tutto quello che aveva sognato.
Da quella parte del Mare Stretto poteva anche essere un principe in
esilio, ma il suo nome era ormai tutto ciò che gli rimaneva. Un
nome, e la promessa di un selvaggio.
Aveva avuto lei, pensò,
stringendo le labbra. Aveva avuto lei e se l’era scopata mentre
gli altri selvaggi stavano a guardare, come fossero bestie da monta.
L’aveva lordata col suo seme, e l’aveva resa una di loro.
Quella che sarebbe dovuta diventare regina dei Sette Regni ora girava
vestita di stracci che puzzavano di cavallo, gravida di un selvaggio, e
quello che era peggio era che cercava di convincerlo che quella era la
strada giusta. Ma Daenerys era stata solo l’ultimo prezzo da
pagare per riavere il suo Regno. Non era stato un prezzo equo, ma la
giustizia era scomparsa dalla sua vita dalla notte in cui era fuggito
dalla Fortezza Rossa, con un mantello nero per confondersi nel buio e
la mano stretta a quella della madre.
Daenerys era tutto ciò che gli era rimasto, e l’aveva venduta a un branco di selvaggi in cambio di una promessa.
Una promessa…
Viserys sentì la rabbia montagli dentro, mentre guardava i volti
sorridenti che affollavano quella tana di ratti che chiamavano
città sacra, volti di gente che guardava a sua sorella come a
una regina e a lui come all’ultimo degli schiavi, indegno persino
di montare a cavallo.
Strinse i pugni. Avrebbe fatto capire a quel branco di cenciosi
selvaggi che non si comanda al Drago. Portò la mano al fianco:
l’elsa della spada sporgeva dal fodero che aveva assicurato alla
cintura. Sorrise. In quella fetida città non era permesso
portare delle armi, ma le leggi dei cavalli non valevano per i draghi.
E se quella era davvero la loro città sacra, sarebbe stato il
luogo giusto perché il Khal adempiesse al suo giuramento. Aveva
avuto la sua regina: era giunta l’ora che lui avesse la sua
corona. Altrimenti, si sarebbe ripreso ciò che era sempre stato
suo.
Si allontanò a grandi passi sulle strade di Vaes Dothrak, rovesciando tutto ciò che trovava sul suo cammino.
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