“It’s you, it’s you,
it’s all for you
Everything I do
I tell you all the time
Heaven is a place on earth with you”
Lana Del Rey, Video Games
New Orleans, ottobre 1889
Negli anni, Celia ha imparato a governare magie terribili e meravigliose,
incantesimi che l’hanno ingoiata, ferita, mutilata. Tutto si è piegato, nelle
sue mani. Un giorno, forse a Londra – o Basilea? i ricordi sono diventati così
sfuggenti – aveva catturato un lembo di cielo notturno, l’aveva liberato
nell’Occhio delle Stelle. Quel giorno, non importa dove, Marco si era arreso, e
avevano ammirato insieme il cielo imprigionato nel tendone, proprio come loro
due. È stato quello, il momento? Guardandolo dormire, pensa che non le interessa
scoprirlo. Magie terribili e meravigliose, sì. Celia Bowen è capace di prodigi
straordinari, ma non saprebbe creare nulla che possa competere con
quest’incanto: un respiro profondo e quell’istante impossibile, sospeso, in
attesa di un altro e di un altro, e di un altro; le ciglia serrate sul viso –
quando riaprirà gli occhi? –; il modo in cui il suo corpo gonfia le lenzuola e
il calore che irradia tutt’intorno, oltre, dentro di lei, nel mondo. Quando
Celia guarda Marco pensa a come finirà, adesso, e ha sempre più paura ogni ora
che passa. Ogni ora che passa e che li porterà via, loro, l’alba che diventerà
tramonto, l’autunno che diventerà inverno.
Era già tempo di fuggire, quando lui le ha piantato uno sguardo profondissimo addosso: Celia
non si azzarda a guardare in basso, teme di trovarselo ancora lì, infilzato nel
petto come la bandiera di chi ha vinto la battaglia. ‘Al tuo cappotto manca un
bottone’, le ha detto. Solo questo. Celia avrebbe voluto rispondergli che le
manca anche un bel pezzo di cuore, un’infanzia, un padre e una madre, ma non ne
ha avuto il tempo. Sono partiti prima che scendesse la sera.
dicembre 1889
La troverà ad attenderlo seduta nella solita poltrona un po’ sfondata. A
guardarla ci si aspetterebbe che prima o poi scivoli nella gola dei grandi
cuscini verdi, sparendo negli abissi delle federe sgualcite.
“Niente?” chiede, appena sente aprirsi la porta.
Sa già chi è. A Marco piace pensare che usi la magia, per scoprirlo.
“Niente” risponde, già sorride.
E’ così bianca che le sue speranze si infrangono quando riesce a vederla in
faccia. Celia non usa la magia, non più. Sa sempre chi è perché l’unico a
varcare quella soglia è lui e nessun altro.
L’ingresso è talmente piccolo che per riuscire a salutarla con un bacio
occorrono a malapena due passi.
“Hai controllato dappertutto?” insiste lei.
“Sì”.
Le tira indietro i capelli.
“Sei bellissima” le dice.
“Forse dovremmo spostarci in una città più piccola. Sarebbe più facile tenere le
cose sotto controllo”.
“Forse dovresti darmi un altro bacio”.
Lei si rabbuia e abbassa lo sguardo. Gli sfugge dalle braccia come acqua. La
guarda agitarsi, vicina alla finestra ma non troppo: quel tanto che le permette
di vedere fuori senza essere vista.
“Celia?” lei non si volta.
“In una città più piccola non faresti così fatica” dice, continuando a scrutare
nella sera.
“In una città più piccola ci troverebbero subito”.
Marco sa che nei silenzi di Celia si può annegare, ma tace ugualmente. Quando
finalmente solleva gli occhi su di lui, sospira.
“Usciamo? Facciamo una passeggiata. Lo sai che è quasi Natale?”.
Lei scuote la testa.
“Non ce la faccio. Non riesco nemmeno ad accendere il fuoco senza…”.
“Sono due mesi che non esci da qui. Non ti ho portata fuori da una prigione per
rinchiuderti in un’altra”.
“Questa non è una prigione. Sono con te”.
Sono con te.
Sono con te.
Nel buio, Marco ha la pelle di Celia sotto le dita, e sa già che se premerà
sentirà ossa. Sentirà lei che si consuma e non saprà cosa fare. Niente può
spaventarlo più di questo, nessun nemico, nessun luogo. Celia è già tutto: ogni
vero terrore, ogni cosa persa e ogni cosa ritrovata.
“Non dormi?”.
Neanche lei dorme. Lei non dorme mai.
“Domani mattina verrai con me”.
Dopo un lungo momento, Celia gli posa un bacio arreso sul petto.
“Sediamoci qui”.
Qui
è un giardino disordinato vicino al quartiere francese. Così le spiega lui,
perdendosi nelle parole, nei ragionamenti cuciti uno in fila all’altro. Ha i
capelli spettinati, troppo lunghi, si muovono insieme a foglie e brezza; il
resto sta ai margini della cornice: l’orlo della gonna di una passante, un
ombrellino da sole caduto nella polvere, scarpe nuove e luce. Dove sono?
Potrebbero essere in qualunque angolo dell’universo, insicuri proprio come sono
ora.
“Un uomo, stamattina, ha detto che il mondo finirà nel 1900”.
Celia allunga le mani a stendere le pieghe della gonna, in un gesto che non le
appartiene.
“Nel 1900 avremo quasi trent’anni, giusto?” dice.
“Sì” Marco le prende una mano “Abbiamo ancora tantissimo tempo”.
“Per fare cosa?”.
“Quello che desideri. Farmi crescere i baffi, ad esempio. Pare sia disdicevole
non averne”.
“E chi dice che lo è?”.
“Non lo so, credo uno degli innumerevoli uomini con i baffi di New Orleans”.
La risata di Celia è lenta, si spegne piano.
“Fra quanto credi che dovremo andarcene?” domanda, senza guardarlo.
“Potremmo mangiare fuori, ho scovato un posto carino” risponde lui,
giocherellando con il pizzo del suo cappellino “Ti ho fatto un regalo troppo
ridicolo. Puoi toglierlo, se vuoi”.
“Intendo da questa città” gli occhi di Marco si faranno tristi, Celia lo sa, e
per questo proprio non può rinunciare alla vista della siepe fiorita “Perché
dovremo. Dovremo sempre lasciare qualche posto per un altro”.
“Due mesi basteranno. Ci annoieremo prima, forse” dice lui.
“O forse no. Forse ci piacerà stare qui. Forse succederà qualcosa e dovremo
andare via comunque”.
La sua mano rimane orfana, abbandonata sul vestito.
“Perché fai così?”.
Perché ci affacceremo giù da questo cielo e precipiteremo.
“Perché io perderò il controllo. Ti vedrò inciampare in un gradino, e non vorrò
farti cadere. Ti taglierai con un coltello e vorrò medicarti” il freddo scende
inatteso “E’ quasi successo, oggi. E ieri, e ogni dannato giorno di questi due
mesi. Io sto esplodendo, non vedi?”.
A chi appartiene questa voce, Celia non lo sa. Sa che presto perderà la guerra e
non ci sarà modo di tornare indietro.
Marco si fa più vicino, le sprofonderebbe dentro, se potesse.
“Non è così. Ascoltami, non è così”.
“Tu non puoi capire. La sento sempre. Non riesco più a dormire, a
muovermi. Ho paura”.
“Ne hai troppa. Cosa potrebbe succederci? Cosa ti spaventa più di quello che
abbiamo già fatto, più di questo?”.
Più dell’essere davvero vivi, per la prima volta in un’era? Più di potersi
tenere le mani senza tremare?
“Arriverà il giorno in cui vorrai essere più felice di così. Vorrai avere una
vita normale” gli occhi abbracciano i confini luminosi del viale, tutti gli
sconosciuti che lo attraversano, ignari “Guardali. Ho passato la mia vita
a guardarli, mentre loro guardavano me. Sono creature stupende: abbandonate ai
loro comuni terrori diventano capaci di distruggersi, ma basta loro un sogno,
uno solo, per dimenticare. Li ho visti sgranare gli occhi, li ho sentiti
trattenere il fiato più a lungo di quanto credevo fosse possibile. Guardali:
si portano il loro miracolo addosso, la loro magia sta in un mattino di sole, in
un figlio, in un amante. Loro possono essere felici, se vogliono. Tu,
puoi essere felice”.
“Io sono già felice”.
Un dito a serrargli le labbra basterà, basterà…
“Io non potrò mai darti una vita normale. Non potrò mai essere tua moglie, non
avrai mai un figlio da me, e credo che non riuscirò nemmeno a stare al tuo
fianco per tutto il tempo che vorrei. Io non sarò mai come loro: non ho
sogni. Ho solo trucchi” lui è così bello e pieno di dolore che la ucciderà,
ancora un attimo, e lo farà “Ma tu no. Hai solo imparato a essere come
me, ma non lo sei. Tu potresti lasciarti tutto alle spalle. Potresti lasciarmi
qui, su questa panchina, e io non ti seguirei. Te lo giuro, sparirei”.
E morirei.
Il primo incontro è stato nel Giardino di Ghiaccio. Nel tempo non-tempo che
regna lì è certa che i salici piangano ancora, come avevano fatto allora, mentre
lui li scuoteva e lei credeva di essere speciale perché riusciva a non tremare.
Le lacrime erano rotolate giù dalle chiome degli alberi come perle di vetro,
come cadono adesso dalle sue guance.
“Non farlo mai più, hai capito?” dice, immobile “Non pensare mai più di poter
decidere cosa è meglio per me. Scelgo io, per me. Non voglio una vita normale,
non voglio una moglie, non voglio un figlio. Voglio te. Azzardati a… e
io… Io…”.
Anche sul prato gelato si muoveva quell’aria candida, ed era dolce proprio così,
come gli occhi chiusi sulla sua pelle, come un abbraccio chiuso sul resto del
mondo.
“They say that the world was built for two
Only worth living if somebody is loving you
Baby, now you do
Swinging with the old stars
Kissing in the blue dark”
Lana Del Rey, Video Games
San Francisco, maggio 1890
È piovuto. Le strade sono madide d’acqua e nel bagnato si riflettono le luci
morbide delle case. Il pomeriggio va sfumando in una serata umida, nel cielo
della baia le nuvole del temporale assediano Alcatraz. A Celia piace stare in
piedi nel tram a guardare fuori dal finestrino. L’aria è fresca, lembi di nebbia
si arrotolano lungo i viali, scivolano lenti fino alle case. San Francisco è
bella e, in momenti come questo, immagina di poterci restare per sempre. Su e
giù lungo le sue discese come in un’altalena, dentro e fuori dai suoi tramonti
come in quadro. Marco dice che ci saranno città che amerà ancora di più, posti
dove potranno vivere come vivono ora, senza nessuno che li conosca, senza
nessuno che chieda loro perché, come in una lunghissima vacanza.
“Non ti piacerebbe avere una casa? Intendo un luogo nel quale sai che, se
volessi, potresti tornare. Che conosci tanto bene da poterlo attraversare a
occhi chiusi” ha chiesto a Marco, questa mattina, mentre le infilava un fiore
dietro l’orecchio.
“Certo. Ce l’ho già” ha risposto lui, labbra sulle labbra.
E se la casa di Marco è in un bacio, la sua dov’è? Si è forse nascosta in quelle
braccia, in quel cuore, che ha attraversato a occhi chiusi, ma dal quale, poi,
non è più stata capace di uscire?
Alla fermata di Fisherman’s Wharf il tram si svuota, Celia scende sorridendo.
Prima di tornare a casa, comprerà le fragole: a lui piacciono da
impazzire e a lei piace da impazzire guardarlo mentre le mangia, una per una. Il
porto sembra sempre più illuminato del resto della città, e più pieno, più vivo,
anche dopo la pioggia.
Vede il bambino quasi subito, sfuggire alla stretta della madre, inseguire la
palla in strada con uno strillo. Il tram che risale, dall’altra parte, è già
troppo veloce perché possa fermarsi in tempo. È un momento. Celia butta via San
Francisco, otto mesi di autentica esistenza, otto mesi di fragile, disarmante
felicità. Lo salva.
Il tram si è inchiodato con uno schianto e nessuno si è accorto di lei. Celia
resta ferma nel trambusto, sa che il sole è quasi scomparso e che tutto sta
precipitando. Corre.
“Sai qual è la cosa più straordinaria?”.
Celia tace, la mano di Prospero l’Incantatore è fredda, la tiene stretta.
“Loro
non vedono quello che vediamo noi. Loro vedono quello che noi vogliamo
fargli vedere. Perché certo sai, bambina mia, che tutto questo è una
significativa illusione, e che ogni statua, anche l’imperatrice, e il pirata, la
regina, gli amanti, e gli acrobati chiusi nelle loro gabbie, e ogni mostro, sono
opera nostra. Sono vivi perché noi decidiamo che lo siano. Il Circo
esiste perché noi esistiamo”.
È troppo piccola per capire. Prospero la porta in alto, sempre più in alto,
nella Torre delle Nubi.
“Come pensavi di poter scappare, da qui? Come hai potuto credere di poter
abbandonare il Circo?”.
La sua voce è una lancia, Celia si sente così inerme e sconfitta che vorrebbe
lasciarsi cadere. Come ha potuto pensarlo? Come ha potuto crederlo?
“Il Circo non esiste” la getta sulla cima della Torre, si allontana “Noi
siamo il Circo”.
Scompare.
Noi
siamo il Circo.
In strada e poi su per le scale, Celia cade e si rialza come se non sentisse il
dolore. Ma il dolore c’è, è nelle ginocchia tagliate, nel vestito leggero sporco
di sangue, nelle mani sbucciate. Il dolore è paura e Celia scoppia dalla paura,
ma non trema.
La porta d’ingresso si apre con un colpo, fa in tempo a vedere il sorriso di
Marco spegnersi e vorrebbe urlare. Non c’è tempo. Non c’è più tempo.
“Arrivano”.
Lui non parla, afferra la sua mano tesa. I loro soldi li ha addosso, la loro
casa sono i loro corpi e non c’è nient’altro da portar via.
Quando salpano dal porto è il crepuscolo. Dal ponte della nave, lo vedono. È
bianco e nero, ed è enorme, vicino. Dal molo un’ombra saluta agitando la mano.
Più tardi, nel calore spesso della stiva, in mezzo a marinai e viaggiatori
disperati, Celia cerca il cuore di Marco.
“Mi dispiace”.
Lui le accarezza i capelli e Celia piange, ma non trema.
Cape Town,
agosto 1890
Al piano di sopra qualcuno ascolta un valzer lento. Giù dalla finestra i
facchini ubriachi cantano alla luna.
“Ho così caldo che potrei svenire”.
Marco non fa altro che rotolare da un fianco sull’altro: non ha ancora capito
che il trucco è stare fermi.
“Perché ti agiti. Avrai sempre più caldo, così”.
Celia allunga un braccio sul letto. Lui le morde le dita.
“È la stessa cosa”.
“No, non è vero”.
“Non ho voglia di stare fermo, allora”.
“Preparami qualcosa da mangiare, allora”.
È solo un pretesto per guardarlo mentre si alza, coi movimenti pigri di un gatto
al risveglio. Si stiracchia, riempie tutta la stanza, riempie il suo sguardo.
Ancora spogliato, accende il fornello. Canticchia a mezza voce. Chissà da che
pianeta è caduto, con quell’esplosione di capelli rossi a incorniciargli il
viso. Deve essere un pianeta lontano, di fuoco.
“Voglio qualcosa di dolce”.
Lui annuisce senza alzare la testa. Celia sa già che prima cercherà il loro
prezioso cioccolato, poi lo scioglierà, e basterà un ricciolo di burro per farlo
diventare lucido. Sa che sbaglierà credenza, che le chiederà dove e perché. Sa
che lei risponderà, lo guarderà a lungo e lui non capirà.
“Ti amo”.
Anche i suoi occhi vengono da un altro pianeta, una stella.
Marco sorride e Celia sa che porterà quel sorriso con sé, quando sarà il
momento.
“In realtà, potremmo sposarci”.
Tutt’un tratto, la sete si spegne. Immersi tra gli avventori allegri della sala
da tè, sembrano quasi essere uguali a tutti gli altri. Ma non è così, e Celia lo
sa bene.
“Perché dici questo?”.
Marco sembra nervoso, mentre sorseggia dalla sua tazza. Quando ha finito la posa
nel piattino e la porcellana tintinna gioiosa.
“Perché non c’è niente, intendo niente di concreto, che ce lo impedisce”
risponde.
Celia affoga lo sguardo nel suo tè nero ancora immobile.
“Che cosa cambierebbe? Viviamo già insieme”.
“Sì, ma non è la stessa cosa”.
“Cos’è, inizi a sentirti in colpa verso Dio?”.
“Celia, ti prego…”.
“Per favore, usciamo”.
Celia si alza prima che Marco dica di sì. Nel gazebo bianco l’estate sembra
poter durare in eterno, e anche fuori il sole non lascia scampo.
“Perché devi reagire così? Stavamo solo parlando”.
La voce di Marco è vicina, adesso. Si incamminano in Constantia Road, tra le
ville inglesi e i vigneti.
“Il matrimonio non è un anello al dito, è una promessa”.
“So cos’è, grazie. Quello che non capisco è perché ti ostini a non volerne
nemmeno discutere”.
“È una discussione che non ci porterebbe da nessuna parte”.
“Questo lo dici tu”.
Marco la ferma prendendola per un braccio.
“Celia…”.
Celia, Celia.
Celia segata in due.
“Cosa vuoi di più da me? Io non posso prometterti niente. Perché non capisci. Io
non so se domani sarò ancora qui e nemmeno tu lo sai. Nemmeno tu sai se potrai
amarmi per sempre. Perché vuoi da me l’unica cosa che non ti posso dare?”.
Celia corre ancora, scappa.
Marco torna con l’alba, la crede addormentata. Ma Celia è sveglia e lo sente
crollare sul letto con un sospiro. Sa che esiste una magia, una facile, per un
sonno immediato. Sa che non potrà usarla. Come fanno, loro, quando il
dolore è tanto profondo da toglierti il fiato?
Dover, settembre 1890
Dalla finestra affacciata sul mare si vedono le bianche scogliere di Dover. Un
pescatore le ha detto che sono più belle così, da lontano, perché il sale le
corrode ogni giorno che passa ed è pericoloso andarci vicino. Da lì, si vede
anche il molo. E anche Marco che compra un mazzo di fiori. Lo guarda allungare
le monete alla ragazza allegra che glieli ha incartati. È giovane e ha i capelli
biondissimi raccolti in una treccia che le scende sulla schiena. Li guarda
parlare. Forse lei gli chiederà da dove viene, se ripartirà presto, gli dirà che
la città è meravigliosa e accogliente, che quattro mesi non basteranno per
conoscerla tutta. Marco annuisce, scrolla le spalle e saluta con un sorriso. La
ragazza lo guarda a lungo, poi accoglie un altro cliente con la stessa allegria.
Celia guarda il mare infrangersi sulle scogliere.
“Sono bellissimi”.
Marco ha in bocca un cucchiaio di porridge e le accarezza goffamente una
guancia.
“Sono contento” dice, dopo aver ingoiato.
I fiori stanno in un vaso di vetro in mezzo al tavolo, hanno colori violenti.
“Ho abortito”.
Il cucchiaio precipita nella ciotola, gocce di porridge si schiantano sul tavolo
zoppo.
“Cosa?”.
“Ieri, al mercato. Tutto sistemato, però. Mi ha soccorsa un signore molto
gentile”.
“Eri incinta?”.
Marco non respira più.
“Di pochissimo. Non te l’ho detto perché sapevo che sarebbe finita così”.
“Ma come…”.
“Me l’ha detto Poppet, qualche anno fa. Non posso avere figli, è qualcosa che ha
a che fare con quello che sono”.
In un angolo assurdo dei suoi pensieri Celia spera che lui smetta di sembrare
così affranto, perché altrimenti non ce la farà mai, a dirgli che non importa,
che va bene così.
“Mi hanno pulita, ha fatto un po’ male”.
Lo guarda alzarsi, lo vede sollevarla dalla sedia come se non stesse accadendo a
lei. Lui la stringe così forte da farle male. È così vicino che le fa del male.
“Non importa” mormora, e chissà se lui l’ha sentita.
Celia non trema.
“Avete delle rose?”.
La ragazza le sorride, china su un vaso da riempire.
“Certo. Le nostre sono le più belle. Di che colore?”.
“Bianche”.
Celia la guarda pulirsi le mani abbronzate sul grembiule, scivolare di vaso in
vaso come in una danza, fino alle rose bianche. Sono belle davvero.
“E quante ne vuole?”.
Continua a sorridere, come se fosse veramente felice.
“Tre, grazie”.
La osserva incartarle con cura, amore. Paga guardandola negli occhi. Sono
verdissimi, come il mare a mezzogiorno.
“Come ti chiami?” le chiede, prima di andare.
“Beth”.
“Grazie, Beth”.
Il tramonto è sempre stato un momento di paura. Marco la riscalda con un
abbraccio stretto. Non la lascerebbe mai andare, Celia ne è certa. Contro ogni
ragionevolezza, contro il suo stesso bene, continuerebbe a volerla con lui.
Anche piegata com’è, stanca com’è. Se la inchioderebbe addosso, se potesse.
I giorni in cui temevano entrambi di dover continuare a scontrarsi fino a
uccidersi, non torneranno più. Ma questo non basta. Il loro mondo è stato
costruito in modo che si distruggano: l’uno con l’altro, l’uno per l’altro. Non
c’è differenza. Forse Celia l’ha sempre saputo.
“Ti amo”.
Il sussurro si perde nel vento e chissà a quali orecchie giungerà, poi.
Ti amo.
Cancellare. È una cosa che loro non potranno mai fare, anche se
volessero. Scomparire.
Celia rimuove ogni cosa. Il Giardino, il primo sguardo, la furia, l’amore
nell’Albero dei Desideri, il Labirinto. Il Marco di domani non sarà più Marco
Alisdair, non saprà più cosa vuol dire magia, e non ricorderà. Il Circo. Lei.
*
Il Circo è lo stesso. L’odore è lo stesso. La paura è la stessa.
Celia non trema.
Lui arriva in silenzio, il mantello scosso dall’aria notturna.
Non è mai riuscita a stupirlo, ma questa volta, ah, questa volta nemmeno
Prospero l’Incantatore può immaginare…
“Bentornata, bambina mia”.
Celia stringe i pugni nelle tasche del suo soprabito dal bottone mancante.
“Ti sono mancato?”.
“No”.
“E a me non hai mai pensato?”.
“A voi non penso affatto”.
Prospero ammira la sua creazione.
“E Alisdair?”.
Celia guarda dritto, dentro quegli occhi che sono il suo specchio.
“L’ho sconfitto. Il Circo è mio”.
Londra, ottobre 1891
“Tu sei Bailey, vero?”.
“Sì” risponde lui.
Possibile che nel circo tutti conoscano il suo nome? si domanda.
“Sei in ritardo”.
“In ritardo per cosa?” mormora confuso.
“Non resisterà ancora per molto”.
Il Circo della Notte, Erin Morgenstern
Il Circo sta morendo.
Gli acrobati cadono giù dai loro trespoli dorati come foglie, le statue si
sgretolano, gli specchi si incrinano. Celia li sente. Non è colpa sua. La
malattia è iniziata in silenzio, e non c’è stato modo di fermarla. Ha tentato.
Anche Prospero, ha tentato. Non c’è cura.
Al crepuscolo il Circo apre e muore piano, un pezzo per volta.
Non c’è più nessuno.
Ai piedi dell’Albero dei Desideri, Celia guarda le fiamme delle candele ardere
nel buio.
Prendi una candela e la accendi con una che sta già ardendo sull’albero. Il tuo
desiderio viene alimentato da quello di qualcun altro.
Esistono anche, Celia lo sa, desideri che bruciano.
Quando la sua candela si accende, la fiamma è una colonna di fuoco.
Celia brucia.
Non trema.
Gli occhi chiusi sulla sua pelle, un abbraccio chiuso sul resto del mondo.
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