ra un giorno come tanti quello
che, per Elena sarebbe diventato l’inizio della fine.
Elena aveva 17
anni e frequentava il terzo anno in una scuola superiore come tante, aveva
lunghi capelli neri e occhi grigi. Francese per parte di madre, italiana per
padre, viveva in Italia da quando era nata a parte qualche visita in Francia, a
Clermont, dai parenti della madre; parenti che, da ciò che aveva capito,
avevano origini nobili.
A parte per questa particolarità, a prima vista, Elena
appariva come una ragazza come tante che viveva in un paesino nel nord Italia
con la sua famiglia. Ma un giorno non fu più una come tante.
Era una
giornata soleggiata di metà maggio e stava passeggiando con la sua migliore
amica per una via affollata quando, improvvisamente, la strada per la quale
camminava e le persone intorno a lei cambiarono. L’asfalto divenne porfido, le
persone cambiarono abbigliamento e tutte avevano gli occhi fissi su di lei.
Inizialmente
pensò che si trattasse di uno scherzo dei suo amici, ma quando vide che stavano
sopraggiungendo dei soldati capì che si sbagliava. Il capo dei soldati si
avvicinò a lei e le disse «Vous êtes
une sorcière! Arrêtez-elle!». Ma prima che potesse rispondere due
soldati le bloccarono le braccia, le legarono le mani con delle corde, la
sollevarono e la misero su di un cavallo. In quel momento Elena realizzò di
trovarsi nella Francia del passato.
Dopo alcuni
minuti di viaggio sentì il cavallo fermarsi e delle possenti mani afferrarla
per la vita e sollevarla. Quando fu con i piedi per terra vide davanti a sé un
enorme palazzo e sulla facciata lesse le parole “Palais de Justice”. Fu trascinata in una sala molto ampia che
fungeva da tribunale.
Passati alcuni secondi a
dibattersi da quelle mani dei soldati così forti e così strette, Elena perse
ogni speranza e si lasciò trascinare fin su una sedia accanto ad una persona
che lei identificò come il giudice. Quest’uomo era alto, con molti capelli
grigi, gli occhi scuri, magro e con in viso una strana espressione, quasi
felicità mista a preoccupazione. Elena pensò avesse circa 35 anni, nonostante
il viso fosse pieno di rughe. Dopo qualche istante quest’ultimo parlò, disse
alcune frasi in latino che Elena non comprese, poi, in francese, continuò
«Strega, il vostro modo di vestire è quello del demonio, avete da dire qualcosa
in vostra discolpa?» «Non sono una strega!» «Zitta, figlia del demonio, voi
sarete impiccata alle prime luci dell’alba, perché ci potreste portare alla
dannazione solo col vostro sguardo!» «Non avete mai letto Dante? La donna,
proprio attraverso gli occhi, porta l’uomo alla beatitudine e alla salvezza»
«Taci, voi non potete conoscere Dante, è troppo colto per una donna, e in
particolare, per una strega». Fece segno alle guardie di portarla via e, mentre
Elena stava uscendo dall’aula vide un uomo che aveva indosso una cappa blu che
gli ricopriva il volto, l’unica cosa che riuscì ad intravedere furono delle
ciocche di capelli biondi che spuntavano da esso.
Elena venne condotta in una
cella molto piccola, umida e buia, con una balla di paglia in un angolo.
Trascorsero alcune ore, o minuti, questo, Elena non seppe capirlo, poiché la
luce che riusciva ad entrare nella cella era fioca, poi apparve improvvisamente
di fronte a lei quell’uomo che precedentemente aveva intravisto nell’aula e che
per poco non la spaventò «Non vi preoccupate, madamigella, non voglio farvi del
male» le disse l’uomo, poi dolcemente continuò «Desidero solo liberarvi.
Fidatevi, ve ne prego». Elena lo fissò un po’, poi rispose «Mi fido di voi».
L’uomo estrasse delle chiavi da un taschino del farsetto ed aprì la serratura
della porta della celletta; poi cercò qualcos’altro nella cappa ed estrasse un
altro mantello simile al suo, ma più piccolo e molto più femminile e glielo
porse. Lei lo indossò senza fare polemiche e lo seguì fuori dal palazzo.
Avevano percorso circa 600 metri dal Palais de
Justice, passando per piccoli vicoli quando alcuni soldati gli vennero
incontro. L’individuo bisbigliò ad Elena «Copritevi il volto e non parlate
mai», poi alzando il tono continuò «Gendarmi, amici miei, cosa fate in giro
sotto questo sole?» un paio di loro si avvicinarono ai due e dissero «Maestro
Matteo de Foisos, qual buon vento vi porta da queste parti?» «Stavo cercando un
po’ d’ispirazione per terminare il mio ultimo poema» «Avete ancora quel brutto
blocco?» poi, rendendosi conto della presenza di Elena, disse «Ma cosa vedono i
miei occhi. Quella creatura accanto a voi chi è? Se mi è lecito saperlo» l’uomo
orgoglioso della domanda rispose sorridendo «Questa fanciulla è la mia futura
moglie. È molto timida e riservata» «Non sapevo che vi stavate per sposare,
maestro» disse in tono accusatorio il gendarme «Volevo che fosse una sorpresa»
poi, come per cambiare discorso, chiese «Come mai, ad ogni modo, siete qui?», il
soldato, come tornando alla realtà rispose «È fuggita la strega e la stiamo
cercando, voi ne sapete qualcosa?» «Sprecate il vostro tempo con me. Sapete che
mi curo solo di letteratura, non di prigioniere» «Se sapete qualcosa fateci
sapere» «Contateci pure».
Elena, che non vedeva nulla da
sotto il mantello, sentì i passi dei due soldati che si allontanavano; poi una
grossa mano afferrò la sua e si sentì trascinare per alcuni vicoli. Durante il
tragitto Elena spostò leggermente il mantello da davanti al volto per vedere
l’uomo che la stava trascinando. L’unica cosa che vide, dato che l’uomo le
mostrava le spalle, furono i lunghi capelli mossi, biondi, che, colpiti dai
raggi del sole, sembravano d’oro, in quel momento ad Elena venne in mente un
verso di Petrarca “Erano i capei d’oro a
l’aura sparsi” ed emise una piccola risata, l’uomo si fermò bruscamente e,
senza voltarsi, disse «Cosa avete da ridere, madamigella?!», quel tono non
piacque ad Elena, sembrava molto minaccioso, e, molto timidamente gli ripose «Perdonatemi,
signore, mi era venuta alla memoria un verso di Petrarca osservando i vostri
capelli» «Conoscete anche Petrarca?!» le chiese bruscamente, lei stava per
rispondere quando l’uomo riprese a camminare, trascinandola dietro sé.
Alcuni minuti dopo i due
arrivarono in una via e si fermarono bruscamente; alcuni secondi dopo, l’uomo
disse «Potete scoprirvi il viso, madamigella, se lo gradite, qui non ci vedrà
più nessuno». Lei si tolse il cappuccio e, curiosa, cercò di vedere il volto di
colui che l’aveva salvata due volte, ma la via era troppo buia e non riuscì a
vederlo. Lui le fece segno di entrare in un portone, lei obbedì, percorse
alcune rampe di scale poi, sempre su indicazione dell’uomo, entrò in una stanza
molto ampia e buia. Sentì l’individuo allontanarsi da lei e lo intravide
accanto alla finestra. Tirò le tende e fece entrare la luce. Solo in quel
momento riuscì a vedere il volto dell’uomo. Che avesse i capelli biondi lo
aveva già scoperto in molte occasioni, ma vide che era anche molto affascinante,
era alto, circa 175 cm
pensò, magro, con gli occhi grigi ed era stranamente somigliante a qualcuno che
lei aveva già visto prima ma non si ricordava più dove.
L’uomo si avvicinò ad Elena e
le disse «Spero di non avervi fatto paura poco fa, volevo solo salvarvi la
vita» «Perché mi avete salvata? Neanche conoscete il mio nome ed io il vostro»
«Che sbadato! Credevo che già aveste avuto modo di conoscerlo, intendo prima,
dai soldati» «Scusatemi ma ero abbastanza spaventata da non prestare attenzione
alle vostre e alle loro parole» «Se proprio desiderate un nome, eccolo: Matteo
de Foisos» anche questo nome rievocò in lei un ricordo, però molto vago per
comprendere meglio, poi lui continuò «Potrei ora sapere il vostro?» «Elena De
Stefano, mio padre è italiano» «Potrei sapere da dove venite e perché siete
conciata in codesta maniera?» Elena gli raccontò tutto ciò che era accaduto, il
fatto che lei venisse dal futuro, poi continuò «Potete non credermi, vi capisco
perfettamente; però ditemi piuttosto, perché mi avete salvata?» «Perché
conoscete Dante» «Solo per questo?!» «Sì. Mi sono sempre chiesto se esistesse
qualcuno che conoscesse il mitico Dante o un qualsiasi autore italiano e voi,
madamigella, citate sia Dante che Petrarca come se li conosceste da sempre. Per
questo io desidero sposarvi, per salvarvi la vita» «Se non volessi?» «A me non
importa che voi mi amiate, desidero solo condividere con voi questa mia
passione per la letteratura italiana. Se col tempo vorrete amarmi o meno non
sarò io a deciderlo» «Come mai vi trovavate al Palais de Justice?»
«Vi ho seguito da quando siete apparsa in mezzo alla strada. Mi avete colpito
così tanto che è stato più forte di me non seguirvi» «Devo allora ringraziarvi
per questa vostra curiosità, se non vi foste incuriosito io sarei morta. Grazie
mille! Se c’è qualcosa che posso fare per sdebitarmi, ditemi pure, sono
disposta a fare qualunque cosa o quasi» «Venite con me allora».
L’uomo la portò in un’altra
stanza, più piccola ma molto più accogliente, con un divano al centro della
sala. Matteo fece sedere Elena poi si assentò un attimo e, quando tornò, aveva
in mano un libro. Elena capì che si poteva trattare solo di un libro: “La Commedia”; e, infatti,
era quello. Matteo si sedette dietro di lei, appoggiando il mento sulla spalla
della ragazza, per leggere quello che diceva Elena. Lei aprì il libro e lesse:
Nel mezzo del cammin di nostra
vita
Mi ritrovai per una selva
oscura
Ché la diritta via era
smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è
cosa dura
Esta selva selvaggia e aspra e
forte
Che nel pensier rinnova la
paura!
Tant’è amara che poco è più
morte;
Ma per trattar del ben ch’i’
vi trovai,
Dirò de l’altre cose ch’i’
v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’
v’intrai,
Tant’era pien di sonno a quel
punto
Che la verace via abbandonai.
Improvvisamente smise di leggere. Matteo si accorse che
alcune lacrime stavano cadendo sulle pagine; senza pensarci, tolse il libro
dalle mani di Elena e l’abbracciò; lei, allora, si volse ed iniziò a piangere
fra le sue braccia. Dopo alcuni minuti, Elena si calmò leggermente e Matteo,
approfittando di questa quiete, le chiese «Come mai piangete?» «Mi ricorda la
mia epoca, la mia migliore amica, e tutti quelli conosco» «Perdonatemi per
avervi fatto leggere», dal suo tono Elena capì che era veramente dispiaciuto
per quello che era accaduto, poi rispose «Non potevate saperlo, non lo sapevo
nemmeno io. Potrei sapere che anno è oggi?» «Per essere precisi, oggi è il 18
maggio 1516»; Elena fece un calcolo veloce, e sussurrò «488 anni», poi, alzando
il tono, chiese «Quanti anni avete?» «Ho 26 anni, voi? Se mi è lecito saperlo»
«Vi è lecito saperlo. Io ne ho 17». Dopo una breve pausa, Matteo disse «Sapete,
madamigella, v’invidio» «Voi invidiate me?!» «Voi sapete l’italiano e conoscete
molti dei miei scrittori preferiti, molto meglio di me» «È strano ascoltare una
cosa del genere; soprattutto perché ho trascorso la mia vita a sognare di
andarmene dall’Italia, di dimenticare l’italiano e di vivere in un altro Stato,
con un’altra lingua e cultura» «In questo voi mi assomigliate». Rimase ancora
per qualche minuto fra le braccia di Matteo, poi cadde addormentata.
Quando si svegliò si era
dimenticata di trovarsi nel passato; se ne ricordò solo quando vide Matteo
parlare con un altro uomo che la spaventò. Elena aveva letto molti libri
storici e quell’uomo le ricordava fisicamente uno dei personaggi; ed anche il
giudice che solo poche ore prima l’aveva condannata all’impiccagione ma non
potevano essere la stessa persona poiché questi era un prete. Era un uomo
dall’aspetto austero, calmo e cupo; non lo vide molto nitidamente poiché era
ancora assonnata; ma dimostrava circa 35 anni. Tuttavia era già calvo, solo
sulle tempie aveva un po’ di capelli, radi e grigi. La fronte era alta e larga
e cominciava a solcarsi di rughe, ma negli occhi infossati splendeva una
giovinezza straordinaria, una passione profonda.
D’istinto Elena si alzò e si
nascose dietro Matteo che, essendo più alto di lei, la nascose totalmente.
Matteo, meravigliato di quella reazione le chiese «Che fate?!», lei, in
italiano, disse «Quell’uomo»; improvvisamente l’uomo, anche lui in italiano,
ripose «Grazie, per la vostra gentilezza»; Matteo, alquanto turbato dal suo
comportamento disse «Scusateci», poi afferrò il braccio di Elena, la trascinò
fuori dalla stanza e, prima che lei avesse il tempo si parlare, le disse
sbrigativamente «Come vi siete permessa di dire una cosa del genere al vescovo
di Clermont. Ditemi, perché lo avete trattato a questo modo?!» «M’incute paura»
«Non vi farà alcun male, quell’uomo è mio amico» «Sentite, non so perché ma mi
fa molta paura!» «Fidatevi di lui, è il mio maestro, è stato lui ad insegnarmi
l’italiano» Elena, ad ogni modo, non si sentì per niente confortata da quelle
affermazioni, e, rassegnata, rispose «Ho capito. Chiederò scusa a quell’uomo».
Soddisfatto da quella risposta, Matteo sorrise, la prese per mano e
l’accompagnò nella stanza dal vescovo. Appena entrò nella stanza, si accorse
che l’uomo la stava osservando dalla testa alla punta dei piedi, poi disse
«Maestro de Foisos, volete che questa creatura resti abbigliata in codesta
maniera? Procuratele degli abiti più consoni». Matteo obbedì ed uscì dalla
stanza. Elena attese che Matteo fosse abbastanza lontano da non poterla
sentire, poi disse «Non crediate che io mi fida di voi, continuo a pensarla
nello stesso modo. Per volontà di Matteo, vi chiederò scusa, ma io non lo penso
assolutamente»; mentre parlava, Elena, si rese conto che il vescovo era molto
stupito di quelle parole, poi fece per risponderle quando entrò Matteo, che
disse «Scusate se v’interrompo, maestro; ma mia sorella vorrebbe vedere Elena,
perché di me non si fida». Elena seguì Matteo fin davanti ad una porta, poi lui
bussò e disse «Roberta, ti ho portato Elena. Io torno dal monsignor vescovo
Guillaume de Rym».
Elena entrò molto titubante
nella stanza dove c’era una ragazza poco più grande di lei, con i capelli
biondo scuro lunghi, finemente legati in un acconciatura che le conferiva un
aspetto molto elegante e gli occhi azzurri. Mentre Elena rimase con Roberta per
cambiarsi d’abito, scoprì molte cose su Matteo. Il padre era morto quando lui
aveva solo 7 anni e, da circa un anno, era morta anche la madre; e da allora si
era preso cura della sorella minore come se fosse stata sua figlia. Non aveva
mai lavorato in vita sua, poiché i genitori, essendo nobili, gli avevano
lasciato molto denaro; ma spesso lui scriveva dei poemi per guadagnare qualcosa
da poter lasciare alla sorella in caso lui fosse mancato prematuramente. A
parte questo profondo amore nei confronti della sorella, che aveva sei anni in
meno di lui, Matteo era pazzo per la letteratura e la lingua italiana; talmente
tanto che aveva perfino imparato l’italiano per leggere ogni opera nella lingua
originale e non dover fare affidamento sulle traduzione, che, come diceva lui “uccidevano l’opera”.
Proprio mentre lei stava
scoprendo queste cose sul conto di colui che l’aveva salvata, poche stanze di
fianco, quello stesso uomo stava decidendo la sua vita. Matteo, infatti, mentre
Elena dormiva, era andato in chiesa a chiamare l’amico, il vescovo Guillaume de
Rym, per sposarli il più in fretta possibile. Avevano ormai deciso tutto, la
cerimonia sarebbe stata segreta e si sarebbe svolta pochi giorni dopo, quando
entrarono Elena e Roberta. Elena si sentiva molto impacciata in quell’abito,
solo pochi minuti prima era vestita molto leggera ed ora indossava vestiti
molto lunghi, che, in fondo, a lei piacevano. Per educazione, Matteo riferì ad
Elena ciò che i due avevano deciso in sua assenza, dopo averci pensato un po’, la
ragazza disse «So che sono solo una donna e per voi non conto, ma credo che non
convenga fare tutto di nascosto. Voi avete annunciato le nozze e i soldati, per
quanto stupidi, se ne potrebbero ricordare» «La ragazza ha ragione» commentò il
vescovo «Non avevamo pensato alle guardie» continuò Matteo, poi, vedendola
troppo preoccupata disse «Roberta, portala via, per favore. Madamigella, non vi
turbate inutilmente, le cose, prima o poi, le aggiusteremo».
Elena fu accompagnata in una
camera da letto da Roberta. Ormai la giornata era al termine, e, nonostante non
avesse sonno, si sdraiò sul letto per non pensare a ciò era accaduto. Il suo
pensiero, cadde sulla sua famiglia che solo poche ore prima non voleva più
vedere ed ora ne sentiva la mancanza.
Il mattino seguente, quando si
svegliò, vide nella sua stanza Matteo che la fissava; lei fu sorpresa da quella
vista. L’uomo vedendo che Elena si stava svegliando, si voltò e disse
«Perdonatemi, madamigella, non volevo spaventarvi. Ero venuto a chiamarvi, ho
bussato ma non mi avete risposto e così sono entrato; appena vi ho vista
risposare volevo uscire, ma sono rimasto incantato da voi e mi è stato
impossibile allontanarmi» «Grazie del complimento, se è ciò che era. Potreste
uscire?» «Sì, volevo solo informarvi che la colazione è pronta e che ieri sera
io e il vescovo abbiamo deciso tutto, se voi non siete d’accordo, modificheremo
qualcosa. A proposito, ieri sera il vescovo è rimasto qui a dormire, perciò in
cucina ci sarà anche lui, se non lo volete incontrare affermerò che siete
ancora turbata da quello che è accaduto ieri» «No, verrò. Sono grande
abbastanza da assumermi le mie responsabilità. Dopotutto non posso fuggire da
tutti i miei problemi. Datemi solo qualche minuto per prepararmi». Matteo uscì
e l’attese fuori dalla porta.
Alcuni minuti
dopo, Elena raggiunse Matteo e, con lui, si diresse alla cucina, dove Guillaume
de Rym stava dialogando con Roberta.
Elena si
sedette e, per la prima volta da quando era in quella casa, si sentì molto a
disagio fra quelle persone anche se non riuscì a capire il motivo di quella
sensazione; stava pensando a così tante cose, che il suo volto s’incupì, quando
il vescovo disse «Avete dormito bene, madamigella? Ieri credo di non avervi
dato una buona impressione, vi chiedo perdono» «La colpa è solo mia, non mi
sono preoccupata di conoscervi e vi ho giudicato frettolosamente». Il
comportamento che Guillaume ebbe nei suoi confronti la rassicurò e, nonostante
il suo aspetto che incutesse ancora paura, nel profondo qualcosa si mosse.
Terminata la
colazione, Elena, Matteo e Guillaume si recarono nello studio di Matteo dove
discussero per tutta la mattinata sul matrimonio; che si sarebbe tenuto il
giorno successivo nella chiesa principale della città e Guillaume stesso
avrebbe svolto la cerimonia.
Il giorno
dopo, quello delle nozze, Elena parlò con Roberta e le disse, alquanto triste
«Avevo pensato spesso a questo giorno e credevo che quando mi sarei sposata
l’avrei fatto per amore. Quante volte ho immaginato il mio matrimonio e chi
sarebbe stato mio marito. Non avrei creduto di sposare un uomo che neanche
conosco», Roberta la rassicurò dicendole «Elena, vi giuro che mio fratello è un
brav’uomo e magari, anzi, sicuramente, voi non lo amate, ma vi assicuro che
alla fine v’innamorerete di lui», Elena non sapeva che rispondere a
quell’affermazione perciò annuì semplicemente.
La cerimonia
fu una cosa molto riservata, gli unici invitati furono i parenti più stretti di
Matteo, in quanto i suoi genitori erano morti.
Quando Elena e
Matteo uscirono dalla chiesa, a cerimonia conclusa, ella vide Guillaume sulla
piazza che la fissava con odio e passione. Lei si spaventò e, istintivamente,
nascose il volto sul petto di Matteo; iniziò persino a chiedersi come poteva,
il vescovo, essere in due posti contemporaneamente: pochi istanti prima era in
chiesa, ed ora nel centro della piazza; a meno che non fosse “flash” non poteva
essere lui. Improvvisamente si ricordò che esisteva qualcuno in quell’epoca
simile a Guillaume: il giudice. Si allontanò da Matteo e, debolmente, gli
chiese «Scusatemi, come si chiama l’uomo che mi ha condannata?» Matteo fu molto
conciso nella risposta «Ne parleremo dopo» fu tutto ciò che disse.
Appena
tornarono a casa, Matteo prese per mano Elena e l’accompagnò nel suo studio;
fece per parlare ma cambiò idea, prese un sacchetto da un cassetto, lo aprì e
lo privò del contenuto: un anello che porse alla ragazza dicendo «Questo
apparteneva a mia madre, voleva che lo dessi alla donna che un giorno avrei
sposato». Elena fissò l’anello e si ricordò di averlo già visto da qualche
parte, a bruciapelo chiese «Dov’è la mia borsa?» «Intendete quello strano
oggetto che avevate a tracolla la prima volta che vi vidi?» «Proprio quello,
dov’è?». Matteo uscì dallo studio e, quando tornò, aveva in mano la borsa di
Elena, lei, avidamente, la prese ed iniziò a cercare qualcosa dentro. Tirò
fuori molti oggetti che a Matteo parvero buffi. Ad un tratto Elena estrasse un
medaglione, lo aprì e disse «Ecco dove vi avevo già visto, a chi assomiglio e
dove ho già visto quell’anello», detto questo porse il medaglione a Matteo che
la guardò con aria molto stupita; lei capendo che non aveva compreso il
significato della sua esclamazione disse «Vi spiego cosa intendevo. Io mi
chiamo Elena, sia perché questo nome piaceva ai miei genitori, sia perché una
mia antenata si chiamava in questa maniera. Qualche giorno fa, quando vi vidi
per la prima volta in viso, ebbi la sensazione di conoscervi, di avervi già
visto prima di quel momento, ma non compresi bene dove ciò era accaduto. Qualche
anno fa mia madre mi disse che assomigliavo molto alla mia omonima antenata e
mi diede questo medaglione che la mia famiglia si tramanda di generazione in
generazione da Elena de Foisos. Come
ho fatto a non capirlo prima?!» «Nessuno può pensare che possa accadere quello
che è accaduto a voi», mentre Matteo parlava, Elena aprì il medaglione e vide
che conteneva un foglietto scritto, con la sua calligrafia:
Clermont,
15 giugno 1516
Se stai
leggendo questo foglio, significa che hai scoperto la verità. Non
terrorizzarti, la vita in quest’epoca, dopo tutto, è migliore di quella del
2004. Te lo garantisco.
Elena
Elena rimase a fissare quelle
parole per molto tempo prima che riuscisse a riprendersi. Aveva ancora gli
occhi fissi nel vuoto quando Matteo le prese il foglio, ormai ingiallito dal
tempo, poiché aveva già 488 anni, lo lesse, ma non capì nulla di ciò che era
scritto perché era scritto in italiano. Stava per parlare quando, fissando il
foglio, vide una scritta in francese, scritta con la sua calligrafia:
Consolala
Matteo. Falle dimenticare e impegnala con qualche passatempo.
In pochi secondi, Matteo rifletté, poi disse «Insegnatemi
l’italiano e la vostra cultura», ancora scossa per ciò che aveva scoperto e
senza prestare molta attenzione, Elena rispose «Se proprio lo desiderate...».
Improvvisamente Elena si ricordò di dover domandare una cosa a Matteo e
continuò «Come si chiama il giudice?» «Chi?» «L’uomo che mi ha condannata a
morte» «Quello! Si chiama Victor de Rym ed è il fratello gemello del mio
maestro Guillaume de Rym» «Perché non me lo volevate dire prima?» «Così, mi
piaceva l’atmosfera che si era creata e mi dispiaceva rovinarla», Elena sorrise
ed alzò gli occhi al cielo.
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