Questa
storia è stata
scritta con la collaborazione morale di Gatta Blu, una delle mie
migliori
amiche.
Ero steso
sul
letto sopra le coperte, con le mani dietro la testa, e osservavo il
paesaggio
dalla finestra sbarrata della mia camera. Il sole era sorto da circa
due ore, e
un fascio di luce colpiva in pieno, come ogni mattina, il pavimento,
mettendone
in risalto la sporcizia. Il pulviscolo danzava in questa luce con
delicatezza.
Fuori si vedeva ben poco: si era al 15 piano, e pochi altri edifici
raggiungevano quell’altezza. Comunque guardavo. E vedevo un
celo terso senza
una nuvola. Nient’altro.
Sospirai,
ma
non mi mossi di più. Oggi, ci avevano avvertito, sarebbe
arrivato
qualcuno. La
mattina per precisione.
Alle 9.30 per precisione. Mancava solo mezz’ora. Sono sempre
stato molto
curioso, ed era per questo che, quella mattina, i miei pensieri
vagavano sull’argomento
“nuovo arrivato”. Come al solito, ce lo avrebbero
presentato in “Sala Grande”.
Una grande sala appunto, dove venivamo riuniti in occasioni quali un
nuovo
componente di quella che Roger chiamava la “Grande
famiglia”, l’annuncio di
morte improvvisa e inaspettata di uno di noi, o l’umiliazione
di qualche testa
calda.
Sentì
l’approssimarsi, finalmente, di una serie di passi. Erano due
uomini, che si
avvicinavano. Li sentii entrare nella prima camera del corridoio, e
uscire poco
dopo con un'altra persona. Subito dopo ne arrivarono altri due. La cosa
si
ripeté per 5 volte. Era il mio turno.
La chiave
girò nella toppa e la porta si aprì ben oliata
sui cardini. Tre uomini grandi
come un armadio a due ante entrarono.
“Perché
per
me in tre?” dissi con voce ironica, ridacchiando fra me e me.
“Sono così
pericoloso?”
Non
ricevetti
risposta, ma uno di loro mi mise in piedi di peso e mi
afferrò i polsi
bruscamente, per tirarli dietro la schiena. Tirò fuori le
manette, mentre gli
altri due si guardavano intorno.
“Beh…
accomodatevi, eh..” bofonchiai, leggermente turbato dalla
scarsa buona
educazione dei tre energumeni.
Prendendomi
per le braccia mi scortarono fuori. Percorso il corridoio entrammo
nell’ascensore a destra, quello grande, che funzionava solo
con l’apposita
chiave. L’altro era un inutile ammasso di ferraglia
utilizzato solo dai bambini
per giocare, ma che nessuno per quanto cretino avrebbe provato a usare.
Poco dopo
ecco che si arrivò alla Sala Grande. Mi fecero sedere su una
delle pericolanti
sedie di metallo scomode come un porcospino incavolato, e mi lasciarono
li, per
prelevare gli altri detenuti e portarli nello stesso luogo. Eravamo
circa 250
in quell’istituto, ma solo una cinquantina era in grado di
muoversi e di usare
il proprio cervello senza causare danni. Le sedie erano quasi tutte
piene, ne
mancavano giusto 10, e anche quelle si riempirono in fretta.
Roger
discorreva con un paio di sorveglianti a bassa voce. Mi trovavo nella
terza
fila delle 5 disposte a semicerchio nella Sala e di fianco a me si
trovavano
due ragazzi della mia età: Mello a destra, e Near a
sinistra. Fra me e Mello
c’era uno strano rapporto. Non era quello che si dice un
amico per me, ma un
paio di volte avevamo avuto modo di divertirci insieme architettando
scherza a
scapito della nostra vittima preferita: Near. Un omuncolo bianco,
arrogante e
saccente. Era forse per questo che si era leggermente allontanato da
me.
Sorrisi leggermente, e ripresi a lasciare che il corso dei miei
pensieri
girasse vuoto sui
soliti argomenti. Solo
dopo una quindicina di minuti, qualcosa accadde: Roger
liquidò velocemente i
sorveglianti e si rivolse a noi.
“Buongiorno
ragazzi.” Esordì con la sua voce illusa che gli
rispondessimo senza che dovesse
chiederlo per una volta.
“Cosa
mi
dovete rispondere?” chiese con una leggera e ben celata aria
di minaccia.
“BUONGIORNO
ROGER” rispose all’unisono la sala.
“Buongiorno
scassa-palle” si distinse Mello senza essere sentito.
Mi
ripromisi
di chiedergli se cercava qualcuno con cui litigare, quel giorno, lui
non si
ritirava mai a una richiesta di fare a botte.
“Oggi,
come
vi avevo detto, si aggiunge alla nostra Grande famiglia-
continuò Roger, muovendo energicamente le braccia,
quasi a
volerci abbracciare tutti come suoi figli -un
componente nuovo! Mi aspetto che lo accogliate con
l’educazione che vi insegno
ogni giorno. Mi auguro sinceramente- e qui guardò me- che
non abbia problemi a
integrarsi!”
Alzai gli
occhi al celo. Sembrava che avessimo due anni dalle sue parole.
“Lascio
che
sia esso stesso a presentarsi.” Concluse dunque, facendo un
piccolo gesto
all’indirizzo di un uomo e facendosi da parte.
E
finalmente,
entrò, in mezzo a due guardie.
Era una
ragazza.
Sui 17
anni
direi, si. Lungi capelli boccolosi le ricadevano sulle spalle, neri, ma
con una
qualche sfumatura bionda. I suoi occhi, anch’essi neri,
lampeggiavano per la
sala, guardandoci tutti uno a uno.
Si
levò
qualche fischio: erano poche le belle ragazze li.
Lei
reagì
fulminando tutti con lo sguardo e continuando a camminare, con un
portamento
fiero che subito ammirai.
Indomabile,
mi venne in mente.
Era
vestita
in modo semplice, senza fronzoli, solo una collanina d’oro e
una treccina, che
le ricadeva graziosamente sul viso, ricordando qualcosa di infantile.
Aveva
delle
mani dai movimenti veloci, molto automatici, e portava,
lo notai dopo poco, delle lenti a contatto
spesse.
Si
fermò al
posto di Roger, e indugiò, senza sapere bene cosa fare.
“Presentati,
prego” la invitò infine lui, incoraggiante.
“Umh…
salve.”
Cominciò con voce un po’ perplessa. Aveva una voce
forte, mi dissi subito.
“Io
mi chiamo
Eloin Edud… ho 17 anni e sono qui…
perché… beh… mi sono infiltrata nei
computer
della CIA e dell’FBI e ho usato i dati trovati
come… come mi pareva” concluse
con un certo orgoglio.
Un’haker,
quindi.
Sorrisi
leggermente,
e continuai a osservarla.
Non
passò
molto che ci scortarono nuovamente nelle camere. Erano le 10, la
colazione, che
di solito si teneva un’ora prima, quel giorno era proprio a
quell’ora. Uscii,
dunque, e, seguito come sempre a vista dalle telecamere, mi avviai alla
mensa.
Ora. Vi
chiederete perché tutto il casino di prima se potevamo
benissimo andare da
soli. Beh, fino a due mesi fa facevano così. Ma poi ci fu un
omicidio fra i
detenuti, proprio mentre si radunavano, e non si fece in tempo a
fermarli. Non
guardatemi così, io non c’entravo! Comunque sia,
dopo il fatto, ci scortarono
sempre. Una pizza…
Arrivai
alla
mensa, una grande sala con una serie di lunghi tavoli in file
orizzontali e in
fondo, un lungo bancone dove bisognava passare con un vassoio per
ricevere il
cibo. Di solito, dopo essermi seduto a un tavolo, nessuno mi disturbava
o mi si
sedeva vicino, tutti conoscevano il mio cattivo carattere, ma quel
giorno non
accadde. Infatti, Mello si lasciò pesantemente cadere alla
mia destra, e cominciò
a mangiare. Aspettai che parlasse. E infatti, dopo poco…
“BB..
ti va
di fare qualcosa al nano?”
“Mello
non lo
vedi che sto mangiando, lasciami in pace” risposi atono.
“Si
ma-
continuò lui imperterrito- mi è venuta
un’idea grandiosa, davvero!”
“Mello
vattene o giuro che fra poco ri spedisco fuori da quella fottuta
finestra.”
Mello
fece
spallucce, abituato sia al mio linguaggio colorito, sia ai miei modi
bruschi, e
si cercò un altro posto. Ma il danno era fatto. La nuova
arrivata, infatti, si
era avvicinata. Se nessuno mi avesse disturbato avrebbe capito che non
lo
doveva fare anche lei probabilmente, ma grazie a Mello…
Si
sedette
davanti a me, e senza rivolgermi parola, sistemò il vassoio
e incominciò a
sfamarsi.
Non la
guardai, ma lei guardava me, lanciandomi qualche occhiata di sfuggita,
per
capire chi fossi.
“Ciao.
Come
ti chiami?” disse poi, con un tono gentile.
Non
risposi,
ma alzai lo sguardo per un momento. Di solito bastava. Di solito non
appena le
mie iridi venivano viste negli occhi degli altri arrivava il ribrezzo,
la
paura, e ciò bastava a tenermeli lontani.
Lei,
invece,
tranquillissima mi chiese: “che hai, sei muto? Ti ho chiesto
come ti chiami!”
Alzai un
sopracciglio. “E perché dovrei dirlo a
te?”
“Perché
te
l’ho chiesto, e perché se no ti
chiamerò tenerone davanti a tutti!”
“Che
te ne
frega di come mi chiamo?”
“E
a te che
te ne frega di sapere che me ne frega di come ti chiami?”
rispose prontamente
lei, seguendo la stessa logica.
“Senti:
non
mi rompere i coglioni, chiaro?”
“Oh,
no
grazie! Ma non mi hai ancora risposto!”
La
guardai
molto male.
“Lasciami in pace”
“Si,
dopo.
Ora rispondimi.”
Ostinata
e
cocciuta ragazza!
“Allora?”
Non
risposi
fino a che ne ebbi la forza, giuro. Ma dovetti cedere.
“Beyond
Birthday” esalai quasi fosse il mio ultimo respiro.
“Eloin
Edud”
rispose lei allegramente porgendomi la mano.
Era
cominciata.
A nulla
era
servito il mio caratteraccio, a nulla il mio ostentare voglia di stare
da solo.
Infine,
era
cominciata.
La mia
prima
amicizia era cominciata.
Mi
presi la
testa fra le mani e mi chiesi perché.
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