Crying Rain
Immagino abbiate presente
quelle enormi città, iper-affollate, con
grattacieli altissimi, che
sembra non finiscano più e ti guardano con tutti quegli
occhietti illuminati
sembrando minacciosi. E poi le macchine, tante macchine che non sapete
neanche
come possa ancora esserci del posto dove infilarle per parcheggiare. In
più,
non so se v'è mai capitato, ma scendere dal marciapiede pare
un'impresa da
folli, se si conta che gli automobilisti tengono le mani sul volante
come se
avessero in mano la bacchetta magica di Dio (perché io me lo
immagino con in
mano una bacchetta magica, con una stella piena di brillantini sulla
punta), e
si sentono onnipotenti come lui, quindi autorizzati a decidere se farti
crepare
prematuramente o meno. All'opposto ci sono quei marciapiedi
sopracitati, dove
la gente la mattina corre senza sosta, formando fiumi scroscianti e
vorticosi,
mentre la sera cammina quasi con eccessiva lentezza.
Adesso che avete
inquadrato questo panorama stereotipato e senza alcuna
particolarità,
prendetene un altro che ne rappresenta il contrario.
Non andrò a parlare di
luoghi fantastici né da cartolina. Andrò a
parlare di una semplice zona
industriale in disuso di quella stessa stereotipata città.
Comunque sia, trovo
che un posto del genere sia in qualche modo più affascinante
ed intimo
rispetto a molti altri. In un certo senso, trovo che faccia quasi meno
tristezza (ovviamente non tutti gli occhi possono vedere il nero come
nero ed
il bianco come bianco).
C'era una ragazza che
vedeva -come me- i colori a tinte diverse rispetto agli altri. Aveva
iniziato a
passeggiare per quel viale ampio (nella scala media dell'ampiezza) e
fangoso,
che però scompariva fra gli alti stabili di una fabbrica. I
lati di quello
stesso viale erano colorati con spruzzi di verde incolto, che donavano
ulteriore allegria al posto. Il crepuscolo pareva arrivato in anticipo,
quel
pomeriggio. Anzi, pareva esserci sempre stato solo e soltanto il
crepuscolo sin
da quando era uscita di casa. Eppure erano appena le tre del
pomeriggio... o forse
le otto di sera. Le otto di sera con un'insolite luce grigiastra,
oppure una
grigiastra oscurità. Insomma, siete liberi di decidere l'ora
come volete.
Quello che è certo, è che le nuvole -di quello
stesso grigiastro sopra
accennato- si muovevano repentinamente tranquille, assumendo la forma
di sbuffi
di vapore che si può seperare di vedere solamente nei quadri
o in foto scattati
nel luogo e momento giusto, ma, soprattutto, con una
macchina fotografica più che giusta.
E, perché no, anche con l'aiuto di un buon programma di
grafica al pc.
Comunque, la ragazza
camminava a piedi nudi, da quel che so. A quanto pare aveva deciso di
lasciare
scoperti quei piedi delicati da fatina. A dirla tutta, era quasi
completamente
scoperta, se non fosse stato per quella veste di un bianco spento, che
non le
ricopriva neanche le spalle, ed arrivava appena sopra le ginocchia, non
riuscendo a nascondere le gambe che, anche a piedi uniti, non si
sarebbero mai
sfiorate. Nonostante si trattasse di una misura piccola (forse la
minore), lei
avrebbe potuto starci almeno due volte, in quell'abito. Eppure, sentiva
di
occupare ancora troppo spazio. Con le dita sottili come i rami di un
esile
albero d'inverno, scostò le ciocche dei lunghi capelli neri
che le ricadevano
davanti al viso come una tenda leggera. Tornarono subito dov'erano
prima, però.
Sperava che rimanessero dove li aveva sistemati (ovvero dietro le
orecchie)
nonostante fossero tanti e nonostante stesse piegata in avanti, intanto
che
camminava piano e guardava con attenzione in pozzanghere d'acqua scura.
So
anche che ogni tanto si fermava come meravigliata, per poter osservare
il dorso
della mano così magra che uno avrebbe dovuto avere paura a
stringergliela.
Eppure, vi dirò, non aveva un'aria malaticcia come si
potrebbe immaginare. Il
bianco della sua pelle era pari alla luce che si può vedere
riflessa dalla
luna, non quello di qualcuno che ha l'ittero, per fare un esempio. In
più, le
labbra non erano cianotiche, ma rosa, ed anche abbastanza accese.
Ancora, i
capelli erano tanti, lunghi e brillanti, nonostante il nero scurissimo.
Se però
alzava il viso, non si riusciva a distinguere il colore degli occhi
né la forma
o la loro profondità (nel caso qualcuno avesse voluto
provare a farci un
viaggio all'interno in un gesto di interesse). Erano cerchiati di nero,
e non
si capiva se fosse semplice trucco oppure un vero e proprio tatuaggio.
La
frangia consistente, e che a momenti pareva disegnata con un righello,
confondeva ancora di più i colori di quella parte
inaccessibile del suo viso,
nonostante si dicesse che avesse gli occhi grandi ed anche belli.
Quando si fermò per la ventottesima
volta ad osservare la mano, e poi a cercare qualcosa in un altro
specchio a
terra, iniziò a piangere, o forse era la pioggia. In quel
caso, potrei dire che
il dettaglio non possa fare più molta differenza. Quasi
quasi gridava, mentre
continuava a piangere, altrimenti riprendeva a camminare senza neanche
singhiozzare. Qualcosa la prendeva a schiaffi dall'interno facendola
sussultare. Qualcos'altro la faceva diventare inerme.
Nel momento in cui in
quel posto iniziò a dominare solo una grigiastra
oscurità, lei si fermò -ora
inerme- chinandosi davanti ad un'altra pozzanghera. Non riuscendo a
comprendere
se la figura che vi aveva visto riflessa fosse di natura reale o meno,
sfiorò
con i polpastrelli lo specchio freddo. Il tocco, per quanto delicato,
fece
scomparire l'immagine fra sottili e ripetute increspature. Attese
perché queste
(che le erano parse come violente) cessassero di creare scompiglio
nella pozza
scura. Notò di nuovo, con un certo sollievo, che il volto
pallido al pari di
quello suo, si rifletteva ancora. Occhi cerchiati di nero di cui la
forma ed il
colore si potevano distinguere. Capelli neri che rimanevano al loro
posto, in
un loro ordine e delle labbra che non facevano a botte con tutti gli
altri
colori di quel volto dai tratti maschili. Sicura di avere davanti a
sé qualcosa
di concreto, alzò lo sguardo per verificare che le punte
delle di lui scarpe
bianche fossero giusto a mezzo metro di distanza da lei. Come faceva a
sapere
che erano scarpe bianche, vi chiedete? Sono del parere che a volte sia
inutile
porsi certe domande, che ogni tanto sono superflue, ma vi
dirò, per quelli che
proprio non ci dovessero arrivare, che lei semplicemente sapeva che lui
aveva
quelle scarpe.
In ogni caso, a parte per
quel particolare, lui era vestito compeltamente di nero. A parte per il
verde
ai lati del viale e per le labbra della ragazza, a quanto pare in quel
posto la
scala cromatica era davvero molto limitata.
Quando lei si alzò
lentamente, poté notare che la pioggia pareva in qualche
modo non infrangersi
sulla pelle e sui vestiti dell'uomo, tant'è che le parve un
peccato essersi
messa con le braccia aperte per fargli capire che avrebbe dovuto
abbracciarla,
visto che era completamente zuppa d'acqua, o almeno così si
sentiva. Nonostante
tutto, lui -decisamente più alto di lei- esaudì
quella richiesta che, per
quanto spontanea, era a suo modo molto, molto timida. Vi
dirò anche che non le
ci volle molto per tornare quasi completamente asciutta. Rimase,
però, quasi
gocciolante dal petto sino al ventre.
Due
ore dopo, la
ritroviamo piegata sulla stessa pozzanghera di prima, a cercare ancora
qualcosa
o qualcuno.
NdA
Non ho assolutamente nulla da dire :'D Se non che, come al solito,
ognuno può interpretarla come vuole. Baci baci <'3
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