Prologo:
Dimmi cos’è l’amore.
Amore.
Il
mondo pare girare attorno a questo perno.
È
sulla bocca di tutti, è nel cuore di tutti, eppure nessuno,
ma
proprio nessuno,
sa davvero che cosa esso sia.
Affetto,
tenerezza e attaccamento sono solo alcuni dei sinonimi di questa
grandiosa emozione e, per quanto ci forniscano un piano
d’insieme
per cominciare a studiarlo, ancora non riescono a farti intendere per
bene che
cosa è l’amore.
È
troppo grande, no?
Troppo
vario, nella sua interezza, per poter avere delle limitazioni o delle
definizioni.
Noi
ci proviamo ad imbrigliarlo, a capirlo, ma ogni nostro sforzo appare
inutile.
Gli
esseri umani non sono fatti per avere ogni conoscenza e, per quanto
frustrante possa essere, questo è uno di quei misteri che
mai
troveranno una risposta.
Non
una completa comunque.
Ricordo
che una volta mi è stato chiesto che cosa ne pensassi, io,
dell’amore.
In
principio non dissi niente. Rimasi zitta, impassibile, e quando capii
di non avere nulla da dire di preciso alzai le spalle, intrecciando
le dita in una ciocca dei miei lunghi capelli. Faccio sempre
così
quando sono agitata, quando non so come ribattere a qualcosa. Lo
detesto perché, quando succede, mi sento debole ed allo
scoperto.
«Dai,
dovrai pur avere una qualche idea a riguardo.» aveva
continuato il
mio inquisitore, sghignazzando sommessamente di fronte alla mia
apparente ignoranza.
Non
potevo biasimarlo visto che, a quei tempi, non avevo ben chiaro un
concetto tanto difficile - e, a dire il vero, non ce l’ho
chiaro
neanche adesso - e la sola idea di dovermi cimentare in un discorso
così filosofico mi dava quasi la nausea, ma non appena notai
quell’accenno d’ironia nel suo sguardo, qualcosa si
accese in me:
m’infervorai, dimentica del mio indicibile odio verso un
qualcosa
che rende le persone deboli e più inclini
all’infliggere dolore a
qualcuno.
«L’amore
è…» cominciai, fiduciosa della mia
parlantina e sicura di me
stessa.
Dovevo
farcela. Ne andava del mio orgoglio.
«…è…»
Già,
cos’era l’amore per chi, come me e mio fratello,
era frutto di un
rapporto che si basava su tutto meno che su quello?
Io
non potevo rispondere, non potevo perché anche se di certo,
alla mia
età, già mi ero infatuata di qualcuno, non avevo
l’assoluta
certezza di essermi anche innamorata.
Infatuazione
ed innamoramento
sono due cose ben diverse, infondo.
Rimasi
perciò a fissare il vuoto, conscia della mia totale
sconfitta: una
della mia risma non avrebbe mai saputo un fico secco su
quell’argomento. Faceva troppo male, feriva troppa gente, e
io
avevo il terrore di provare dolore.
È
allora che lo vidi.
In
quel preciso istante, il primo giorno del mio primo anno di Liceo,
durante quella che, lo sapevo, si sarebbe rivelata come la
più
noiosa delle mattinate, io vidi l’aspetto
dell’amore
e infine compresi.
Non
puoi definirlo perché non hai più parole, una
volta che ti scontri
con lui.
Non
puoi scriverne, discuterne, non puoi neanche raffigurarlo su carta o
tramutarlo in musica perché non sarà mai come te
lo senti dentro,
nel petto.
E
poi, ora che tutto mi era chiaro, ero anche assolutamente certa di
un’altra cosa: l’amore è soggettivo
poiché è diverso per
ognuno di noi. Anzi, lo è poiché ha sembianze
diverse per ognuno di noi.
Il
mio aveva assunto quelle di un ragazzo alto, di bell’aspetto,
dai
capelli neri e lo sguardo sicuro.
Ma,
forse, potevo riassumerlo anche in un’unica caratteristica:
il mio
amore risiedeva in due occhi grigi, profondi, nei quali mi sarei
persa volentieri fino alla fine dei miei giorni perché,
lì dentro,
riscoprivo me stessa.
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