Uno:
Maledetto il giorno in cui ti ho conosciuto
Mi
ero sempre comportata come se, l’unica persona importante al
mondo,
fossi io.
La
condizione di vita degli altri esseri viventi, per quanto parte
integrante della popolazione mondiale e degni di nota proprio come
me, apparivano ai miei occhi come una sorta di spettri, fantasmi che
avevano il permesso di condividere la mia stessa aria ma che, al
contempo, avevano l’unica regola di starmi il più
lontano
possibile.
Alle
volte ero io a cercare della compagnia.
Mi
aggregavo ad una vecchia cerchia di amici e lì ridevo,
parlavo, mi
comportavo insomma come una normale adolescente. In quei momenti la
me stessa cupa ed asociale tendeva a rintanarsi in un angolo della
mia mente, al freddo, tenendo per sé ogni commento crudele
ed ogni
accenno di sarcasmo.
Ma
quando non ne potevo più del continuo chiacchiericcio degli
altri e
il mio odio verso l’universo raggiungeva vette mai viste
prima,
allora tutto cambiava e quella parte di me veniva fuori
all’istante,
ostacolando ogni individuo ancora prima che avesse tentato di dirmi
anche un semplice ‘ciao’.
Crescendo,
quel mio essere tanto scorbutica, divenne una sorta di religione per
me.
Arrivai
alla soglia dei diciotto anni sentendomi completamente sola, se si
considerava la mia non
appartenenza a nessun gruppo preciso all’interno della mia
classe o
fra i miei coetanei, però ero appagata: l’unica
cosa di cui mi
importava era la scrittura, metodo attraverso il quale avevo imparato
ad esprimere le mie idee senza difficoltà e, soprattutto,
senza il
timore che la mia voce non trovasse la forza di uscire dalla bocca.
Quando
scrivevo ero forte, implacabile, ed ogni parola si imprimeva come a
fuoco sulla carta, rimanendo indelebile per i giorni, forse perfino
per i secoli, a venire.
Ero
felice a questo pensiero, perché così una parte
di me avrebbe
continuato a vivere anche quando io, come è ovvio, non ci
fossi
stata più.
Inutile
dire che, la lettura, fosse subito al secondo posto nella mia
classifica di gradimento su ‘le cose che mi piace
fare’.
Anche
lì, sfogliando le pagine di un tomo pesante tanto quanto un
mattone,
mi chiudevo nel mio mondo senza permettere ad anima viva di
intromettervisi.
Là,
nella mia testa, immersa fino al collo nelle profondità
della mia
stessa fantasia, l’impressione che tutto fosse perfetto non
mi
abbandonava mai.
Era
un sogno.
«Te
lo avevo detto che l’avremmo trovata a leggere.»
…peccato
che, dai sogni, bisogna pur sempre svegliarsi.
Alzai
lo sguardo piano, lentamente, ponderando ogni movimento con estrema
accuratezza ed imprimendo nei miei occhi una sorta di luce fredda ed
annoiata poiché, figuriamoci, già sapevo chi
aveva osato
interrompere la mia beneamata pausa.
Non
biasimavo tanto uno dei due personaggi che si erano messi proprio di
fronte a me, togliendomi la flebile luce del sole e mettendomi
all’ombra nel grande cortile della scuola. Sapevo che era
stato
trascinato suo malgrado dal tifone che, entrambi, avevamo la sfortuna
di chiamare amico, ma, pur pensandolo, non mi astenni dal proferire
queste precise parole:
«Non
avete niente altro da fare che andare in giro a tormentare delle
povere anime pie come me?»
Detestavo
essere interrotta così, senza motivo alcuno.
E,
credetemi quando ve lo dico, ero praticamente
certa
che non ci fosse un valido motivo dietro a quell’interruzione.
«No.»
rispose il primo che aveva parlato, alzando le spalle «Che
cosa
leggi?»
Chiusi
il mio libro con un tonfo, riducendo gli occhi a due fessure.
«Non
dirmi che sei venuto qui fuori, al freddo, portandoti dietro
Sebastiano, solo per chiedermi cosa sto leggendo!»
«Ok,
non te lo dico.»
«Seriamente?!»
«Che
c’è?» sbottò lui, alzando le
mani come a volersi discolpare
«Sono stufo di tutte quelle ragazzine che mi girano intorno
come api
attratte dal miele, dovevo pur fare qualcosa!»
«E
perché quel qualcosa
deve comprendere l’infastidire me?»
«Forse
è il tuo charme.»
«Emanuele,
te lo ha mai detto nessuno che sei insopportabile?»
«E
a te lo ha mai detto nessuno che quando ti arrabbi sei assolutamente
adorabile?»
Arrivati
a questo punto, io mi fermai, vinta come al solito da quelle sue
stupide uscite: non avevo mai delle certezze con lui e, per quanto mi
ci impegnassi, non riuscivo a capire se quando diceva quelle cose era
perché le pensava veramente o perché mi vedeva
come una delle
tante, come una delle fan che cadevano a terra con gli occhi ridotti
a cuoricini per una sciocchezza che all’apparenza
poteva sembrare un complimento.
Presi
a fissarlo con insistenza, serissima.
Solo
quel ragazzo, nella sua infinita spavalderia, riusciva a darmi del
filo da torcere.
«Ora
che il nostro bel dibattito è finito…»
continuò Emanuele,
sistemandosi al mio fianco sulla panchina ed ignorando volutamente il
mio sguardo di fuoco «…mi piacerebbe che tu
rispondessi alla mia
domanda.»
Io
sospirai e mi allungai sul tavolo in legno di fronte a me, uno dei
tanti sparsi per il cortile che, nei pomeriggi, quando faceva
più
caldo, usavamo per mangiarci sopra. Presi a guardarmi la punta delle
dita delle mani come assorta, cercando dentro di me la forza di
sostenere un altro inutile discorso con lui.
Era
così evidente che stava lì solo per sfuggire a lei
e non certo per un manipolo di galline che, di solito, o ignorava o
premiava con occhiatine dolci. Magari avevano litigato e non aveva
voglia di vederla. Poteva essere, visto che non è che il
loro
rapporto fosse tutto rose e fiori.
«…I
racconti di Earthsea.» dissi infine, imprimendo poca gioia in
quella
risposta nonostante fossi stata entusiasta di quel libro da quando lo
avevo comprato «Lo conosci?»
«Ne
ho sentito parlare.»
«…vuoi
che te lo presti?»
«Assolutamente
no, figurati se mi metto a leggere un libro del genere! Ho altro da
fare, io!»
In
quel momento lo avrei preso a randellate ma, per mia enorme, enorme
fortuna, c’era con noi un terzo personaggio che, come suo
solito,
aveva la facoltà di intervenire quando era più
giusto farlo.
«Ehi,
è il libro da cui hanno tratto il film che ti piace tanto?
Sì, dai,
quello di…di Goro Miyazaki.»
Sorrisi
teneramente a Sebastiano mentre, alzando la testa, mi voltavo verso
di lui.
Come
gli volevo bene.
La
sua presenza aveva per me lo stesso effetto della camomilla o di un
cuscinetto salvavita: nel caso della camomilla, mi calmava, in quello
del cuscinetto salvavita, mi impediva di ammazzare Emanuele quando
l’impulso si faceva più che pressante.
«Esatto.»
mormorai, tornando improvvisamente più vivace.
«Me
lo hai fatto vedere a casa tua l’anno scorso, se non sbaglio.
Mi
era molto piaciuto.»
«Carino,
vero?» ecco, adesso ero del tutto rianimata, una nuova luce
mi
riempiva gli occhioni scuri. Succedeva sempre così quando
avevo la
fortuna di incontrare qualcuno che la pensava come me su un film, un
libro o qualsiasi altra cosa di cui mi intendessi «Pensa che
qui,
nel capitolo che sto leggendo ora, si scoprono le origi di
Sparviere!»
«Adoravi
quell’uomo! Mi hai fatto una testa così per tutta
la sera.»
«Momento,
momento, momento…»
Entrambi
ci girammo a fissare il nostro amico che, per via del nostro
entusiasmo, era stato tagliato fuori dalla conversazione nel giro di
pochi attimi.
Aveva
la fronte corrugata, lo sguardo torvo, e forse potevo scorgere una
punta di dissenso sul suo viso.
«…quando
è successa questa cosa?»
Noi
due non rispondemmo di fronte a quella domanda tanto criptica.
Quando
era successo cosa?
«Quand’è
che vi siete incontrati a vedere un film di sera?»
«Un
anno fa, l’ho ben detto.» esclamò
Sebastiano, stringendosi nelle
spalle.
«E
come mai io non c’ero?»
«Guarda
che ti ho chiamato» mugugnai io, incrociando le braccia al
petto
mentre mi chiedevo ancora come mai avesse quell’espressione
addosso
«sei tu che non sei voluto venire. ‘Un
film troppo noioso, per me’,
ricordi?»
«Io
non ricordo niente.»
«Beh,
è così che è andata.»
«Potevi
insistere di più, così sarei venuto.»
«Io
ho
insistito visto che mi
avevi promesso
che saresti venuto.»
Zittendosi
– non credete, rimarrà zitto solo per qualche
secondo, il tempo di
non
pensare e dire la prima gastroneria che gli viene in mente –,
Emanuele appoggiò il mento ai palmi aperti, sbuffando
sonoramente.
«…secondo
me ho ragione io, non ti sei impegnata, e questo perché in
realtà
volevi stare sola con Sebbolo.»
Probabilmente,
sia io che il diretto interessato sgranammo gli occhi increduli.
«Come,
scusa?» domandammo, all’unisono.
Non
potevo parlare per Sebastiano, ma personalmente trovavo alquanto
stupida quell’affermazione: era vero, il fatto che lui fosse
di
colore come me – ok, io sono sul caffelatte, ma è
uguale – e
che, quindi, mi comprendesse decisamente meglio di quanto avrebbe
potuto fare chiunque altro per certi versi, lo rendeva il migliore
degli amici che avrei mai potuto sperare di avere; mi metteva a mio
agio, insomma, però la cosa finiva lì.
Arrivare
a pensare che avessi voluto qualcosa di più dal nostro
rapporto
era…strano.
Non
dico impossibile, solo strano.
«Hai
capito bene.»
Oh,
sul fatto che avessi capito non c’erano dubbi, il punto era
che
preferivo sostenere il contrario pur di non dovermi far scoppiare un
embolo per colpa sua.
Respirai
a fondo, stringendo le mani in due pugni.
«Stai…»
al primo colpo non riuscii neanche a dirlo, tanto mi risultava
assurdo «Stai insinuando che io ti abbia volutamente
tenuto lontano quella sera – cosa che sappiamo non essere
vera –
solo per stare sola con il mio amore segreto, ovvero
Sebastiano?»
L’altro
annuì, fischiettando.
Non
gli importava ciò che pensavo io, ormai si era convinto
della
veridicità dei suoi pensieri e questo, lo sapevano tutti,
equivaleva
al rendere vano ogni tentativo esterno di fargli capire il contrario.
«…sei
un vero cretino.» sibilai, alzandomi di scatto in piedi ed
allontanandomi da lui.
Camminai
speditamente, senza voltarmi, salendo le scale e chiudendomi in bagno
per un periodo di tempo che apparve infinito mentre, con la mano
premuta sul petto, laddove batteva il cuore, e l’altra
stretta al
mio libro, cercavo di recuperare il fiato che stava svanendo per via
della tachicardia. I sensi avrebbero potuto abbandonarmi da un
momento all’altro ma io, con le lacrime a rigarmi il volto,
mi
aggrappai con tutta la forza che avevo al mio orgoglio: non sarei
svenuta per una cosa del genere, non avrei permesso a quelle crudeli
eppure ignare parole di ferirmi più di quanto già
non facesse la
sua sola esistenza.
Il
mio problema al cuore, infondo, era complicato ma non invincibile.
Tornando
in classe, qualche minuto dopo il suono della campanella, mi sorbii
le parole piene d’ira del professore senza fiatare, la mente
piena
solo di domande circa la ramanzina che, ne ero certa, Sebastiano
aveva sottoposto ad Emanuele.
Mi
chiesi cosa gli avesse detto, come lo avesse rimproverato, e me lo
domandai con ancora più insistenza quando lo sciocco venne a
parlarmi poco prima della fine dell’ultima ora. Avevamo avuto
ginnastica, entrambi stavamo in divisa, e siccome ero stata
incastrata a mettere via del materiale lui si era fermato per darmi
una mano, imponendosi come seconda scelta all’insegnante.
Per
un po’ rimanemmo in silenzio, come sempre dopo che avevamo
litigato, ma quando questo divenne insopportabile si decise a dire
ciò che doveva, omettendo ovviamente la parte che
più mi
interessava sentire.
«Quel
film…» disse «…lo voglio
vedere anche io.»
Non
si scusò, quindi, però non ne ero sorpresa.
Uno
così non si sarebbe scusato mai, neanche di fronte
all’evidenza
delle sue cattive azioni.
«Noleggiatelo.»
E
io non avrei mai lasciato correre questa sua mancanza, atteggiandomi
a dura quando invece dentro ero molle quanto un budino.
«Voglio
vedere proprio il tuo dvd, guarda il caso.»
«Ma
davvero…?»
Sarcasmo.
Una
delle mie armi migliori.
Lo
sentii sbuffare e, nonostante non potessi vederlo in faccia, ne
sorrisi. Era sempre bello sapere di averlo offeso e/o infastidito.
Suvvia,
non guardatemi male, per lui era lo stesso!
«Sai
bene cosa sto cercando di fare.»
«Per
saperlo lo so, ma purtroppo non lo stai facendo come si deve ed io
non ti capisco.»
Bisognava
sempre spingerlo contro il muro, a quello, altrimenti col cavolo che
diceva addio alla sua corazza di robot senza cuore cercando di venire
incontro a quelle che erano le tue di esigenze.
Emise
un altro piccolo sbuffo e poi, appoggiandosi allo stipite della
porta, mise le mani in tasca prima di ricominciare a parlare. Iridi
grigie incontrarono iridi marroni e allora, solo allora, percepii con
distinzione il peso dei miei sentimenti verso di lui.
Pur
non meritandoselo affatto, avrei continuato a perdonargli ogni torto,
sempre, rimanendogli accanto come l’amica che mi vantavo di
essere
ma che, nella realtà dei fatti, risultava essere la peggiore
delle
mie mascherate. Questo non perché non fossi brava a mentire
a me
stessa e agli altri, fingendomi totalmente disinteressata nei suoi
confronti, piuttosto perché vivere vicino a quel ragazzo
come
semplice amica mi metteva sempre nella condizione di doverlo vedere
mentre se ne andava con un’altra.
Una
persona che non ero io.
Una
persona che non sarei mai stata io.
«…guardiamo
quel film stasera, a casa tua.» disse alla fine.
«Non
ho altra scelta?»
Scosse
il capo.
«Chiamerò
Seb-»
«No.
Niente Sebbolo.» aveva una voce calma, vellutata, e in cuor
mio
sapevo che era lo stesso tono che usava quando voleva abbindolare
qualcuna delle sue fangirl «Solo…io e
te.»
Corrugai
la fronte.
«Niente
cuscinetto salva vita?»
«…che?»
«Cioè,
volevo dire…» con le dita attorcigliate ad una
ciocca di capelli,
arrossii appena per via della mia stessa gaffe. Nessuno oltre a me
sapeva di quel ‘soprannome’ per quanto anche un
beota, a conti
fatti, avrebbe potuto capire a chi mi riferissi esattamente.
«Solo
io e te?»
«Sì.»
«…a
che ora?»
Inutile
mentire, ero elettrizzata per ciò che sarebbe successo
quella sera:
lo sapevo da me, non era niente di eclatante per due comuni amici,
però per me, quel ‘solo
io e te
’, era una sorta di manna dal cielo, un regalo, un miracolo
che mai
mi sarei aspettata di poter godere. Non stavamo soli da mesi ormai, e
ciò era da ricondurre al fatto che Emanuele, nella sua
infinita
demenza, aveva sempre dato la precedenza alle belle donne piuttosto
che ai suoi amici. E ora, finalmente, dopo tutto quel tempo, avrei
potuto stare di nuovo in sua compagnia.
Avrei
potuto fare finta che esistessimo solo noi, al mondo, inebriandomi
delle sue attenzioni e facendo con lui quella sequela di ironici
commenti che, se sentiti dalle persone che osservavamo nella
televisione, probabilmente avrebbero spinto alla depressione molta
gente ma che avevano la facoltà di farmi ridere un sacco.
Avrei
accettato perfino le sue frecciatine, quella volta, tanta era la mia
gioia.
Nei
camerini feci la doccia e mi cambiai di volata, correndo poi per i
corridoi come se avessi avuto alle calcagna un intero branco di lupi
affamati, digiuni non da giorni, ma da anni.
Farlo
aspettare era fuori discussione.
Ogni
attimo era prezioso. Ogni istante, oro colato.
Correvo,
correvo veloce come mai lo ero stata, ritrovandomi a chiedere scusa
almeno cento volte a persone con cui non mi ero neanche mai
intrattenuta.
Tutto
per la stessa persona che, di lì a breve, mi avrebbe
nuovamente
delusa.
Fu
infatti quando arrivai al piano terra, poco distante
dall’entrata,
che li vidi: Emanuele ed Alessia erano là, fuori dai portoni
aperti
della nostra scuola, a parlare tutti sorridenti di chissà
che mentre
io, a fissarli, recuperavo un poco del fiato perso nella corsa. Li
osservai con un’attenzione chirurgica, studiando sin nei
minimi
dettagli ogni loro espressione, ogni movimento del corpo. Ero brava,
in questo, e non mi sfuggiva mai nulla.
Le
persone per me erano sì dei fantasmi, ma non opachi e senza
forma,
no. Erano fantasmi un poco speciali, che, quando facevo tanto di
avvicinarmi, si tramutavano in una sorta di specchi: in quelle
superfici rilucenti non mi specchiavo io, ma i loro pensieri e
sentimenti.
Io
li guardavo, annuivo, e poi mi allontanavo.
E
lo avrei fatto anche questa volta se non fosse stato per il fatto che
volevo sentirmi dire da lui ciò che già sapevo.
Lasciai
che Alessia se ne andasse prima di affacciarmi all’uscita,
seria in
volto. Emanuele si girò e mi sorrise, gentile, cauto.
«Ho
come la sensazione che tu debba darmi una cattiva notizia.»
esordii
io, ben sapendo che non avrebbe avuto il coraggio di cominciare da
sé.
«Purtroppo
mi sono ricordato di avere un impegno, oggi.»
Bugiardo.
«Non
credo proprio di poter venire da te, per vedere quel film.»
Bugiardo…
«Questo
è un vero peccato, volevo tanto vederlo e passare un
po’ ti tempo
con te!»
Bugiardo,
bugiardo, bugiardo!
«Capisco.
Sarà per la prossima volta.» queste parole
uscirono dalle mie
labbra, le stesse che si stavano stringendo in una smorfia di
trattenuto astio «Ciao.»
Feci
per andarmene, quell’andatura fiera e da valchiria che mi
contraddistingueva a dare un tono alle mie movenze perfino in un
momento in cui, le mie gambe, avrebbero preferito cedere per farmi
accasciare in terra, fra i pianti. Se voleva mentire poteva farlo,
però non poteva credere davvero che io mi bevessi le sue
sciocchezze. Non io, non colei che smascherava sempre tutto e tutti.
Il solo pensarlo gli avrebbe fatto capire di non conoscermi affatto.
«Ehi!»
la sua voce mi fermò, anche se per breve tempo
«Non mi fai nessuna
scenata? Di solito mi salti addosso quando disdico un
appuntamento.»
Di
voltarmi non se ne parlava nemmeno, ma almeno rispondere potevo
farlo.
«…e
perché dovrei? Infondo non è colpa tua se hai
dimenticato un
impegno.» mi morsi un labbro andando avanti «Per
questa volta ti
perdono.»
E,
detto ciò, proseguii per la mia strada, incurante dello
sguardo che
si era posato curioso sulla mia schiena.
La
mano corse ancora al petto, ma stavolta non cominciai ad ansimare.
Se
ne stava lì perché sì, il cuore
batteva con una tale forza da
farmi del male, tuttavia non così tanto da spingermi a
preoccuparmi
per il peggio. Da quando lo conosceva ero stata in quello stato tante
di quelle volte, che ormai avevo perso il conto dei falsi allarmi che
mi avevano portata a credere di stare per morire da un momento
all’altro.
Arrivata
a casa, chiusami la porta alle spalle, mi accasciai con la schiena su
di essa, scivolando piano piano a terra, le ginocchia tenute vicino
al petto.
Quello
era diventato il mio
posticino, l’unico che consideravo come zona neutrale:
lì ero
ancora in tempo a piangere per i dolori della giornata prima di
cominciare con l’altra parte della mia vita,
l’unica che mi desse
una vera e propria soddisfazione; lì ero ancora la fragile
ragazzina
diciottenne perdutamente innamorata della persona sbagliata, e non
una scrittrice di successo, pronta a fare il suo debutto nel
firmamento dei più grandi pensatori di tutti i tempi.
Rannicchiata
così, dunque, formulai il solito, odioso e dannatamente
giusto
pensiero.
“Maledetto
il giorno in cui ti ho conosciuto.”
La voce dell'Autrice: La demenza di Emanuele alle volte mi sconcerta...ma, siccome è un maschio, non posso fare altro che guardarlo dall'alto della mia superiorità di donna e cercare di passare oltre le idiozie che compie. ù.ù
Che poi, non posso biasimarlo. Se anche io fossi un ragazzo fare forse anche di peggio. *COFF COFF*
Aw, mi dispiace per Angela. Non so, è triste. Malata ed innamorata di un pessimo figuro quale quello là! Pessima accoppiata!
Chissà che ne verrà fuori... *come se lei non lo sapesse* |