Sou arché eimi
Heracles
aveva sempre voluto un immenso bene a sua madre, da che aveva memoria.
Nutriva nei suoi confronti quel misto d’amore e ammirazione
che non si limitavano all’affetto che un figlio poteva
provare nei confronti della madre, era convinto che il suo cuore fosse
troppo piccolo per poter contenere tutto l’amore nutrito nei
confronti di quella donna che, nell’infanzia, era stata il
perno della sua esistenza. Tutto gravitava attorno alla sua figura,
tutto con lei aveva inizio e fine, tutto poteva esistere solo perché
c’era lei a mostrarglielo.
La prima
volta che le esternò i suoi sentimenti, la donna rise di una
cristallina e melodiosa risata che solo lei era capace di fare,
baciandolo poi sulla fronte.
«Questo
è perché sono la tua arché.»
fu il commento della madre, che, lasciandosi scappare
un’ultima risata gioiosa, lo lasciò solo a
riflettere sull’oscura frase.
All’epoca
il significato di quella parola non gli era del tutto chiaro:
“arché” significa
origine, genesi, però, conoscendo la madre e il suo sottile
ingegno, dubitava che intendesse dire “Mi vuoi bene
perché ti ho generato.”, ma quello era un cruccio
troppo complicato per la sua mente puerile, e ben presto lo
accantonò, soggiogato dall’invitante ombra di un
olivo profumato sotto cui schiacciare un pisolino. Heracles si stese
sul soffice prato verde e fresco, con la testa lievemente poggiata sul
fusto dell’olivo, che con le sue poche fronde permetteva al
volto del piccolo di ripararsi dai flebili raggi del sole crepuscolare,
mentre il rustico paesaggio greco s’imbruniva lentamente.
Chiudendo gli occhi, il piccolo Heracles si lasciò
dolcemente cullare dal tepore dell’ultima luce di quella
giornata primaverile tra le braccia di Morfeo.
Afferrò
con la paffuta e tozza mano da bambino la bianca e soffice veste che la
donna indossava. Anche se ve ne fossero state miliardi uguali,
l’avrebbe distinta tra tutte, quella di sua madre. Emanava
una buona fragranza, un misto di olivo, argilla e salsedine, un odore
pungente che penetrava con prepotenza nelle sue piccole narici, un
profumo che sapeva di lei.
«Mammina…»
pronunciò con tono infantile, la voce rotta dai singhiozzi e
le gote rosse e rigate dai solchi delle pesanti lacrime che ancora
fiottavano candide dagli occhioni verdi, verdi come quelli che lo
stavano fissando di rimando, trasmettendo tutta la dolcezza che solo
una madre poteva dedicare al figlio di cinque anni che tremava dal
pianto dinnanzi a lei.
«Hai
fatto un brutto sogno, Heracles?»
Il bimbo si
limitò a scuotere il capo con veemenza, tirando su col naso
per cercare di darsi un po’ di contegno, ma il suo tentativo
fu vano, le copiose lacrime non volevano saperne di cessare.
La donna,
piegando le labbra in un sorriso materno, portò la candida
mano a carezzare la liscia guancia del figlio, asciugandola
dall’umido pianto. Gli erano sempre piaciute le mani di sua
madre: grandi come quelle di un forte protettore, ma sottili e
affusolate, dal tocco così lieve e aggraziato da farne
innamorare all’istante chiunque.
«Vuoi
dormire con me, stasera?» chiese con una punta
d’apprensione.
Il piccolo
Heracles rifiutò mutamente l’invito della madre,
agitando il capo per far segno di no.
La donna
sospirò intenerita, quasi orgogliosa, anche se
quell’esalazione d’aria sembrava contenere
un’amara sfumatura d’agrodolce rassegnazione, che
si perse nell’aria serale. Suo figlio, lo stesso bimbo che a
tre anni coglieva ogni occasione per intrufolarsi nel caldo lettone
della madre per dormire assieme a lei, si stava facendo grande.
«Allora vuoi raccontarmi il tuo sogno?»
«Non
è stato bello, mammina. Ho avuto tanta paura!» il
piccolo sembrò quasi sputare quelle parole, tanti furono la
violenza e il terrore che le accompagnavano quando si gettò
ad abbracciare la leggiadra veste che velava le gambe della donna.
«Ero…
- iniziò poi a raccontare singhiozzando, il volto ancora
premuto sulla stoffa immacolata – Ero davanti ad un albero,
un grande albero. Un albero così grande che toccava il cielo
con i rami, mamma! All’inizio i rami erano pieni di grandi
foglie verdi, che poi sono ingiallite e cadute, come in autunno! Solo
che non era autunno, mamma! Era troppo presto! Le foglie
dell’albero sono poi cresciute di nuovo, e sono nati anche i
fiori, mamma! E… E poi… Dopo i fiori è
uscita della frutta, poi la frutta è caduta e
l’albero ha iniziato a perdere le foglie, di nuovo! Ed
è successo per un po’ di volte,
mammina!» urlò, allontanandosi dalla pallida veste
e iniziando a dimenare agitato le piccole braccia.
La madre,
adagiandosi al suolo con delicatezza, invitò il piccolo a
sederlesi accanto, quello che le stava raccontando il figlio aveva
tutta l’aria di essere un ònar,
un sogno premonitore.
«E
poi, mamma, ero in una casa! Al centro c’era una di quelle
grandi pietre bianche coi disegni e i buchi che abbiamo anche in
casa!»
La donna
accennò un sorriso divertito, l’innocente
goffaggine con cui il figlio descriveva il sogno l’inteneriva
«Una colonna?»
«Sì,
una colonna! Era grandissima anche quella, mamma!»
esclamò il piccolo allargando le braccia per indicare
l’imponenza della colonna, nel parlarne l’aveva
assalito una buffa eccitazione, come se quello che stava raccontando
fosse il più bello dei sogni «Era alta alta e
bianca, e sembrava tanto forte… era bellissima!» Sembrava
te, mamma.
Il piccolo
fece una pausa, portandosi il pollice alla bocca, mentre ai lati dei
begli occhi verdi si formarono di nuovo grossi lacrimoni. Stavano
arrivando al cuore dell’incubo. «Poi la colonna ha
iniziato a rompersi… C’era un gatto, mamma, un
grosso gatto! Era bianco e aveva delle macchie rosse sulla coda, e
aveva il muso che non si vedeva, era come se avesse una
maschera… Che paura, aveva iniziato a colpire la colonna,
mamma! La colpiva forte, la
mordeva, la graffiava… Alla fine si è rotta,
e… e… e poi…- il piccolo tirava forte
col naso, le lacrime calde rotolavano di nuovo inarrestabili sulle sue
guance – Il gatto mi ha rapito, mamma Mi ha portato
via!» urlò stringendosi convulsamente alla vita
della madre.
«Su,
Heracles, basta, calmati.» sussurrò la donna,
carezzando amorevolmente il minuto capo del figlio, mentre con un
braccio gli cingeva il corpicino scosso dai tremiti.
Passarono
alcuni minuti così, Heracles che abbracciava la madre,
continuando a singhiozzare disperato, e lei che lo consolava con tutta
la premura di cui era capace, ma il piccolo non voleva saperne di
calmarsi.
«Vuoi
che ti racconti una storia?»
Il figlio
annuì deciso, mentre stritolava tra le manine paffute la
stoffa del vestito della madre.
La donna
sorrise. L’unico modo per far calmare il piccolo Heracles era
sempre stato raccontargli storie, era come ipnotizzato dai suoi bei
racconti narranti di dei ambiziosi e vendicativi, dee invidiose e
potenti, uomini forti e desiderosi di potere, eroi astuti, mostri
spaventosi e oracoli controversi.
«Allora
oggi ti racconterò della dea Notte e dei suoi figli. Solo se
mi prometti di smettere di piangere, però.» fu la
tenera ammonizione che la madre gli dedicò, asciugandogli
delicatamente le gote con le affusolate mani, al che il bambino
annuì nuovamente, cercando di calmarsi quanto più
poteva.
«Devi
sapere, Heracles, che in principio c’era il Caos,
cioè un miscuglio universale e disordinato della materia, in
cui nulla si riusciva a distinguere: il cielo era come la terra, che
era come il mare; una massa informe e indescrivibile. Dal Caos, poi,
iniziarono a formarsi delle divinità, queste però
erano torbide, malevole e capricciose. Il primogenito fu Fato, la cui
volontà era insindacabile. Fato era potentissimo e molto
pericoloso, nessun Dio aveva la possibilità di opporsi alle
sue decisioni. – Heracles ascoltava estasiato il racconto
della madre, assorbendo ogni parola che le sue labbra articolavano come
un’arida spugna assorbe l’acqua limpida del fiume
in cui viene immersa – Dopo Fato nacquero molte altre
divinità, come Erebo, un tenebroso abisso senza fondo, la
bieca Discordia, la triste Vecchiaia e, per finire, Notte, una
divinità sì buia e misteriosa, ma che portava con
sé riposo e buoni consigli. Notte ebbe, a sua volta, molti
figli, alcuni concepiti con Erebo, come Etero, Emera o Caronte, altri
le nacquero spontaneamente, come le Parche, che gestivano la durata
della vita di ogni essere umano. Questa misteriosa e oscura
divinità ebbe due gemelli: Hypnos e Thanatos. Essendo
gemelli, i loro poteri erano simili: il primo, a cui presto furono
affiancati i fratelli Morfeo, Fobetore e Fantaso, aveva un potere tale
da far addormentare uomini e dei, solo momentaneamente,
però. Il secondo, invece, nacque dotato di possenti ali
nere, un cuore di ferro e di viscere di bronzo, e i suoi poteri,
nonostante non potessero estendersi sugli dei immortali, erano capaci
di addormentare le persone per sempre, e…» la
donna stava per continuare il suo racconto, quando si accorse che il
piccolo Heracles ormai le giaceva inerme sul grembo, il torace si
alzava e abbassava ritmicamente, mentre la sua mente stava
probabilmente vagando nell’onirico mondo di Morfeo. Le
sfuggì una tenere carezza dietro la nuca del figlio che
dormiva.
Portando una
bruna ciocca di capelli dietro l’orecchio, continuando a
carezzare il volto del piccolo lasciò che sulle sottili e
rosee labbra si dipingesse un amaro sorriso.
Il figlio
aveva avuto un ònar.
Un pessimo ònar.
Magna Grecia
si era sempre distinta tra tutti gli altri imperi antichi per la sua
cultura, la raffinatezza e l’immensa saggezza che la
contraddistinguevano, quel portamento regale che l’aveva
portata a soggiogare anche chi era riuscito a conquistarla con la forza
pura. Suo figlio avrebbe dovuto presto prendere il suo posto, sarebbe
toccato a lui affascinare gli altri con elegante intelligenza e
raffinata eloquenza.
Il suo
momento stava per giungere.
Delicatamente,
prese il figlio in braccio, cullandolo con affetto.
Si
è fatto più pesante.
Heracles
stava crescendo in fretta, molto in fretta. Quasi trovava
difficoltà nell’accoglierlo tra le lattee braccia,
che fino a pochi anni prima le sembravano così grandi e
forti per una creatura fragile come
il neonato che accoglievano. Cresceva in fretta, ma non abbastanza da
esser preparato ad affrontare il fato che l’attendeva.
Trasse un
profondo sospiro, che sapeva d’un misto d’angoscia
e rassegnazione.
«Almeno
un altro po’… – borbottò,
rivolgendosi ad un interlocutore immaginario – Come puoi
lasciare Heracles solo, Thanatos? Come puoi non avere pietà
di una creatura tanto piccola?»
Fece una
pausa. Un altro sospiro le uscì di bocca, quasi spontaneo.
«Non
per niente le tue viscere sono in bronzo e il tuo cuore non
è altro che un gelido accumulo di nero ferro. I sentimenti
non possono sfiorarti senza rischiare di esser risucchiati nel
vorticoso oblio delle tue oscure spire.» si rispose da sola,
per poi immergersi in un nuovo istante di meditativo silenzio.
«E’
ancora troppo piccolo. – ripeté, le labbra si
muovevano meccanicamente – Non la prenderebbe con filosofia.
Non saprebbe prenderla con filosofia. Anche perché non sa
nemmeno cosa sia, la filosofia, non gliel’ho ancora
spiegato.»
Con un
andamento raffinato e fiero, leggiadro, veloce e composto come quello
di una gatta, attraversò gli ampi corridoi in pietra battuta
dell’immensa dimora sua e di suo figlio, il piccolo che
ancora le sonnecchiava beatamente in braccio, accucciato come un
indifeso micetto nell’incavo tra spalla e collo. Si
fermò solo quando giunse dinnanzi alla stanza dove il
piccolo Heracles dormiva in completa solitudine.
Lì,
immobile, sembrava una bellissima statua marmorea, dal portamento
regale capace di incutere impotenza e soggezione anche nel
più ostile dei nemici, dallo sguardo che trasmetteva quel
misto di forza e saggezza, da quella particolare e spartana bellezza
che le donava un’aria mistica, divina.
Aspettò
qualche istante prima di adagiare con tutta la premura di cui era
capace il bambino nel suo giaciglio, donandogli un’ultima,
tenera, carezza e sorridendo quando vide il piccolo contorcersi e
mugolare per il fastidio provocatogli dalla superficie setosa del suo
letto, così fredda rispetto alla tiepida pelle della madre.
Gli
lasciò un ultimo bacio sulla fronte, prima di lasciarlo solo
a dormire nella stanza. Lei sarebbe andata a riflettere un
po’ all’aria aperta. Osservare il cielo le aveva
sempre fatto bene, le stelle la facevano sentire protetta, sorvegliata,
mai sola. Misteriosi punti di luce posti su un’oscura tela,
posta così lontano dalla terra da esser irraggiungibile per
i comuni mortali. Solo gli dei e gli eroi avevano il diritto di
toccarla, solo chi aveva vissuto una vita gloriosa poteva aspirare a
farne parte, un giorno.
Si
affacciò ad una delle finestre di casa, troppo strette per
far passare un uomo robusto, ma adatte alle minute spalle della donna,
la luce lunare le illuminò flebilmente i tratti del volto e
il braccio a cui era appoggiato per sorreggersi e scrutare al meglio il
cielo scuro. Il plenilunio conferiva una particolare
luminosità a quella sera.
La donna
fissava incantata la sfera di candida luce bianca. Secondo il sogno del
figlio, non avrebbe vissuto ancora a lungo; se tutto fosse andato per
il meglio, massimo sei, sette anni.
Mentre il
pallore della luna si rifletteva tutt’intorno e sulla sua
lattea pelle, Magna Grecia continuava a riflettere sul significato del
sogno premonitore del suo piccolo Heracles.
«L’albero
che fiorisce e appassisce – mormorò –
sta ad indicare il tempo che passa. La colonna sono io, suppongo. Solo
io posso rappresentare la stabilità di mio figlio,
è troppo piccolo per poter contare sulle proprie forze. Il
misterioso gatto dal volto nell’ombra rappresenta il mio
assassino.» si raggomitolò meglio nelle spalle,
appoggiando poi la schiena ad uno dei freddi stipiti in pietra della
finestra, rimuginando sul nefasto futuro che l’attendeva, i
lineamenti belli e severi, aggrottati in una tesa espressione
addolorata, erano illuminati dai fiochi raggi lunari, mentre fiumi di
pensieri torbidi come il mare in tempesta turbinavano nella sua mente.
Rimase a
lungo in quella posizione, a riflettere. Riflettere sulla sua vita, su
quella di suo figlio, su quella del loro impero. Era curioso come anni
prima se ne sarebbe infischiata di morire.
Lei era
Magna Grecia, anche se fosse morta, sapeva che avrebbe lasciato un
segno permanente nell’animo del mondo, chiunque
l’avrebbe ricordata con onore e stima, e questo le bastava.
Le bastava finché non le nacque Heracles.
Quel piccolo
pigrone dai vispi occhi verdi aveva totalmente sconvolto i suoi piani
di vita: con lui sentiva di non aver del tutto adempiuto al compito che
le era stato assegnato, far vivere il figlio senza l’amore e
il sostegno degni della migliore delle madri le avrebbero impedito di
cadere nelle braccia dell’insensibile Thanatos in pace. Gli
voleva troppo bene per poterlo lasciare solo al mondo.
Serrò
nervosa una mano attorno all’altro sottile avambraccio,
quello che sorreggeva il volto, finché le nocche non
divennero di un curioso colore ancor più biancastro del
naturale color latte della pelle della donna.
«Dovrò
insegnargli quanto più possibile. Devo farlo per me, per
poterlo lasciare un po’ più tranquilla. Devo farlo
per lui, per sapere che il mio figlioletto un giorno potrà
sbocciare e fiorire ancor più bello e forte di quanto lo sia
stata io.»
Le parole
che pronunciò, determinate e ferme, furono portate via dalla
fresca brezza primaverile, ma la promessa che racchiudevano, quella non
si sarebbe smossa nemmeno col più forte dei venti di Eolo.
La donna
gettò un’ultima occhiata alla luna, il pallido
bianco immerso nei suoi occhi creava una lieve sfumatura di grigio
nella limpida iride verde chiaro, per poi avviarsi, seria e composta
verso la sua stanza. Nonostante la quiete trasmessa
dall’elegante e fluida camminata, nell’animo della
donna ruggiva forte il suo ultimo desiderio, il più
importante e difficile di tutti.
Giurava su
tutti gli dei dell’Olimpo che il figlio, prima che lei
morisse, sarebbe stato pronto a spiccare il volo, librandosi alto senza
rischiare che le sue fragili ali bruciassero per la troppa vicinanza al
sole.
Heracles
aveva amato intensamente la madre, e la amava ancora, nonostante tutto
quel che di lei gli rimaneva erano i resti delle sue antiche e
bellissime costruzioni, delle sue mille e più colonne
bianche e alte.
Gli ultimi
anni in cui aveva vissuto assieme alla madre gli erano serviti a
forgiare quello che si sarebbe rivelato un vero eroe, un vero saggio.
Aveva
studiato assieme alla madre l’epica, la mitologia,
l’architettura e, soprattutto, la filosofia.
Da quando
era divenuto un uomo adulto, molte cose gli erano chiare: sapeva che
sua madre, quel giorno in cui ebbe lo spaventoso incubo sul gatto che
rompeva la colonna, era divenuta conscia della sua imminente fine,
così come aveva compreso perché, per farlo
riaddormentare, aveva deciso di raccontargli a proposito degli dei
Thanatos e Hypnos.
Voleva
tranquillizzarlo. Aveva cercato di inculcargli l’idea che tra
morte e sonno l’unica differenza era che la prima era eterna,
il secondo no; come se i vivi, dormendo, avessero la
possibilità di entrare nella dimensione in cui viveva chi
ormai aveva abbandonato il mondo terreno.
Lui nei suoi sogni l’aveva cercata, e a lungo. E per farlo
era divenuto ancor più pigro e indolente, ogni occasione era
buona per appisolarsi alla ricerca della porta che l’avrebbe
condotto nel posto da cui la madre, ne era sicuro, continuava a
vegliare su di lui.
Aveva
inoltre compreso, finalmente, il significato della curiosa frase che
gli disse una volta: «Sou arché eimi.»
“Sono
la tua arché”
Per i
filosofi, l’arché era
l’origine, era ciò grazie a cui il Kosmos poteva
esistere, era la forza matrice dell’universo e di tutti gli
esseri che lo ospitavano.
Sua madre
era stata la sua arché.
Grazie a lei aveva conosciuto il mondo, le sue bellezze e le parti
peggiori, era merito suo se tutto ciò che i suoi sensi
percepivano poteva avere
senso, sotto la sua guida era riuscito a vedere la
realtà sotto una luce particolare, diversa da quella di
tutte le altre nazioni, più completa rispetto a quella di
chiunque altro. Tutto questo solo grazie a sua madre.
«Pròton
mou arché èsta, mèter, allà
kài nyn mou psyché eì.»
Un tempo eri la mia arché,
mamma, ma ora sei anche la mia anima.
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Angolino
dell'autrice:
Alors~, partiamo
dal presupposto che sono un tantino arrugginita con le fic (non ne
scrivo una seria da un bel po'), e che questa è la prima
volta che scrivo una FF in questo fandom. Quindi abbiate almeno un
minimo di pietà. xD
Detto questo,
aggiungo solo... SAAALVE! :D Avevo da un po' di tempo voglia di
scrivere qualcosa su Grecia e sul suo rapporto con la madre, visto che
Himaruya l'ha sempre buttata molto sul vago .w."... Ho sempre amato
tutto ciò che concerne l'Antica Grecia, quando ho saputo che
ne esisteva anche il personaggio Hetaliano ho detto "Ok, ora o le
dedico tutta la mia spasmodica attenzione o le dedico ben
più." Ho scelto di dedicarle il più :P
Il titolo, letteralmente, significa
"Sono la tua origine" in greco antico (e, a proposito, si dovrebbe
leggere come un'unica parola con l'accento sulla e di Arché, tipo
"Suarchèeimi", essendo sou ed eimi parole
non toniche), ma il suo significato più appropriato nel
contesto, come avete potuto leggere, non è quello. Mentre
nell'ultima frase, mou arché si
legge "Muarché" per lo stesso discorso di sou
arché,nyn si pronuncia
"niùn" e mou psyché "Mupsiuché".
Ci tengo a fare questi appunti semplicemente
perché considero il Greco antico una lingua
spettacolarmente bella, anche se poi nei compiti in classe mi fa un po'
dannare ç//////ç *caccia un fazzoletto e si
soffia il naso*.
Anyway, se qualche classicista
più esperto di me nota qualche
imperfezione o errore nel modo in cui ho reso la frase in greco, non
esiti a farsi avanti! ^^ Purtroppo il Greco
anrtico è una di quelle lingue di cui puoi
scrivere solo ciò che ricordi. E non sempre quello che
ricordo io è esattamente corretto. "x3
Ringrazio tantissimo anticipatamente chi legge o magari commenta la
fic, o chi addirittura la aggiunge alle preferite! ^///^
Ape
P.s.
Mi ero completamente scordata gli ardui litigi che devo fare
ogni volta coi codici HTML... <.<"
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