Capitolo 12
Pov
Edward.
Il limite.
Qual è il
limite di un uomo innamorato? Era una domanda che mi ero posto spesso,
sin da
quando avevo compreso quanto affetto mi legasse a Bella e cosa
rischiassi,
trascorrendo con lei ogni istante. Osservandola crescere. Permettendo
al mio
sguardo di soffermarsi sul suo viso dai lineamenti acerbi dapprima e
sulla
delicata bellezza sbocciata, quando era maturata, sotto il mio sguardo
ormai
bramoso. Ma avevo soffocato quei sentimenti, tentando di mettere a
tacere ciò
che sentivo, ciò che ero consapevole non sarebbe mai stato giusto e
neppure
opportuno.
Avevo
tentato.
Lottato.
Sperato.
Eppure non
avevo mai avuto il coraggio di allontanarmi da lei e non avevo mai
compreso per
quale motivo; se nella speranza di un mutamento nei miei sentimenti, o
più probabilmente
nei suoi sentimenti.
Ma cosa
importava, ormai?
Ero fuggito,
correndo per le strade sconosciute, celando la mia presenza agli umani,
grazie
alla fitta boscaglia, tentando invano di scaricare l’amarezza ed il
dolore, separandomi
da lei.
Correvo per
sottrarmi alla presa di quelle parole.
Correvo per
sfuggire alla realtà, conscio che ai suoi occhi non ero stato che un
mostro
inaffidabile.
Una
consapevole che avevo negato, sino all’ultimo istante.
Eppure ognuno
di quei passi compiuti non era che un colpo al mio cuore muto. Un cuore
morto
che non avrebbe dovuto provare dolore, ma che invece agonizzante
doleva,
serrandosi in una stretta e angosciante morsa.
Un mostro
con dei sentimenti e delle emozioni inopportune. Ironico, vero?
La risata
amara che sfuggì alle mie labbra riecheggiò nel silenzio di quella
foresta
attorno a me, mentre i miei piedi si muovevano sempre più veloci, per
sfuggire
a quella sofferenza che mi tallonava, tenendo il mio passo.
Perché
potevo scappare da lei, ma non da quell’amore che avvelenava la mia
mente ed il
mio cuore.
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Dieci
giorni.
Quanto
possono apparire eterni dieci miseri giorni, quando nulla conta e nulla
vale?
Quando non
si ha nulla per cui sorridere.
Nulla per
riaprire gli occhi, al mattino, immerso in quel finto sonno.
Perché un reale oblio, tra le braccia di Morfeo, era una fortuna di cui
non
avrei mai potuto beneficiare.
Avrei voluto,
lo avevo desiderato mentre, disteso sul mio letto, in una cittadina
desolata
dell’Alaska, mi limitavo ad osservare il soffitto umido e macchiato di
muffa,
senza però realmente vederlo.
I rumori
della strada mi apparivano ovattati e distanti, soffocati dal ruggito
assordante che riecheggiava nella mia mente e che tentava invano di
portare la
mia attenzione sulla fame logorante, che mi premuravo di ignorare.
Assurdo e
assolutamente
irresponsabile, considerando quanto il mio controllo fosse divenuto
sempre più
labile, di giorno in giorno, sino a quando solo la stanchezza mi
tratteneva
dall’avventarmi sulla fonte di quelle pulsazioni che spesso percepivo
al di là
della porta della mia camera.
Era un
vecchio modelle cadente, dove ben poche persone azzardavano ad
avventurarsi.
Qualche
turista sfortunato, qualche coppietta anziana, le cui risa come pugnali
affilati mi rammentavano la mia solitudine, ad ogni ora del giorno.
Mi
ricordavano ciò al quale non avrei mai dovuto aspirare e verso il quale
aveva
egoisticamente allungato la mia mano. Sciocco.
Uno sciocco
che volontariamente si affamava.
Ma forse era
altro a spingermi ad agire così, a non nutrirmi, non solo il disgusto
per me
stesso e per la mia condizione. No. La consapevolezza di essere un
mostro, di
esserlo sempre stato, anche quando ostentando una civilità ed
un’umanità che
rappresentava solo una misera facciata. Una maschera le cui crepe
mostravano la
realtà che avrei desiderato celare, ma invano.
Allora perché
non abbandonarmi del tutto a quella natura?
Perché non
cedere a quegli impulsi che erano sempre stati parte di me e che mi ero
ostinato a sopprimere, per una finzione priva di valore?
Erano quelle
le domande che mi tormentavano, che avvelenavano la mia mente,
alimentate da
quella fame persistente, che mi strappava ogni barlume di razionalità,
lasciandomi annegare in quegli oscuri e dolorosi pensieri; l’unico
appiglio per
sfuggire ai ricordi.
Per recidere
quel legame che ancora mi legava ad essi, compiendo quell’ultimo passo
che lei
non mi avrebbe mai perdonato.
Peccato che
la mia memoria volesse persuadermi a scacciare quegli intenti,
rammentandomi
quegli insegnamenti che avevano nutrito la mia mente, per secoli. Ma
soprattutto quel viso paffuto e quel corpo caldo, troppo umano. Come
avrei mai
potuto affondare i canini godendomi il sangue stillante, nella mia
bocca,
quando quel calore e quel dolce sapore mi avrebbe ricordato la mia
piccola
Bella?
Come avrei potuto strappare la vita a qualcuno, rammentando i suoi
caldi occhi
color cioccolato ed immaginando l’orrore riflettersi in essi?
Non avrei
potuto, semplicemente.
La memoria,
quale maledizione.
Quale atroce
tormento, essere capaci di rievocare anche il più effimero dettaglio.
Il suo
profumo, un dolce sorriso, la sensazione che anche un misero contatto
casuale
poteva destare in me.
Uno
sfioramento.
Un bacio
fraterno.
Dita sottili
che giocavano con le ciocche dei miei capelli, tentato di dare un garbo
a
quella massa informe.
Piccoli
ricordi, di un quotidiano che rimpiangevo, malgrado la consapevolezza
di quanto
quella rinuncia fosse necessiaria.
Eppure
benchè la mente possa essere ormai certa di dove risieda la ragione ed
il
giusto, il cuore non segue sempre le vie e le strade dell’intelletto.
Perché
esso si inoltra in impervi cammini, aggrappandosi ad una ragionevolezza
sua,
fatta del calore dei sentimenti, dei bisogni e delle necessità che
divengono
primarie, come il respiro.
Ed il mio
cuore non aveva compreso, tantomeno accettato quella decisione, quella
lontananza, che avrebbe gravato su di me in eterno.
Perché la
memoria di un’immortale, come lui, non si piega alle intemperie del
tempo.
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Un mese
Logorato
dalla lontananza, dal senso di colpa, dai timori e da quelle domande
prive di
risposta, vagavo per le strade di una città conosciuta, circondato dal
candore
della neve, che sembrava ricoprire ogni dove, con il suo gelido manto.
Ed io mi
paragonavo a quella terra brulla, soffocato dal ghiaccio, che serrava
la mia
mente ed il mio cuore. O forse questo è ciò che avrei desiderato.
Avrei voluto
anestetizzare con il freddo ogni mio caldo sentimento, sfuggendo così
al
tormento ed a quei quesiti, senza risposta, che come un tarlo
riecheggiavano
dentro di me.
Bella
era tornata a casa? Era con Matt?
Avevano chiarito? Lo aveva perdonato?
Probabilmente
si… non nutrivo alcun dubbio su quell’ultimo punto, conscio della
natura
caritatevole della mia Isabella.
Mia.
Solo nei
miei sogni; in quelli che la mia natura immortale non mi concedeva.
Il sorriso
amaro sulle mie labbra strappò l’ennesimo sospiro alla mia
accompagnatrice, che
aveva insistito per accompagnarmi, quel giorno, nella mia consueta
passeggiata.
Peccato che quelle ore, trascorse nel totale isolamento delle natura,
erano
dettate dal mio bisogno di solitudine, al quale quel giorno mi ero
visto
costretto a rinunciare.
«Dovresti
accettare la realtà ed andare avanti. » mi rammentò, posando una mano
guantata
sulla mia spalla, tentando di concedermi quella consolazione che le sue
dita
fredde non potevano donarmi.
Avrei voluto
poter chiudere gli occhi, percepire il calore irradiarsi sulla mia
pelle,
attraverso quel lieve contatto, anche attraverso la stoffa, illudendomi
che
fossero le dita di Bella a sfiorarmi, provando a risollevarmi. Ed
invece…
Ed invece
non ero che il solito sciocco, che tentava di crogiolarsi in vane
fantasie, che
lo avrebbero condotto sempre più a fondo, in quel baratro tetro che lo
stava inghiottendo.
Che mi stava inghiottendo. – mi corressi, scrollando la spalla, per
sottrarmi a
quella delicata presa, che non faceva altro che alimentare i miei
cattivi
pensieri. «Io accetto la realtà, se non fosse così sarei da lei, a
combattere
per qualcosa di impossibile.»
«Forse non
la ami abbastanza per combattere. – mi pungolò Tanya, fermandosi nel
bel mezzo
di quella stradina, puntano i suoi occhi dorati su di me, con
quell’espressione
di biasimo che ormai conoscevo sin troppo bene. – Sai benissimo che il
mio
interesse va ben oltre la semplice amicizia e che la tua presenza, qui,
non può
far altro che rendermi felice. Perché, nonostante tu ora mi rifiuti, il
tempo
potrebbe mutare la tua decisione e mostrarti ciò che potrei donarti.
Quidi puoi
immaginare quanto mi sia difficile rivolgerti queste parole. »
continuò,
esitando appena, mordendosi quelle labbra tumide, arrossate a causa del
vento
che sferzava sui nostri volti.
Scossi il
capo,
portandomi le mani sul viso, strofinando con forza, tutt’altro che
intenzionato
ad ascoltare tutto ciò. In un momento come quello non potevo fare i
conti con i
sentimenti di Tanya, non quando avevo già abbastanza problemi con i
miei, con
quelle emozioni che non ero in grado di controllare. Ero consapevole
che lei
sarebbe stata la scelta più opportuna, assolutamente la più giusta, per
quelle
innumerevoli qualità che in lei avevo sempre apprezzato, ma non solo.
Ma sarebbe
stata una farsa, proprio come quella in cui avevo vissuto, sino ad
allora. E la
mia amica non meritava certamente quel fittizio amore, che sarei stato
in grado
di donarle, conscio che il mio cuore sarebbe sempre stato altrove. «
Non è
necessario.» protestai, con voce soffocata e smorta, ricevendone in
risposta
solo uno schiocco di labbra deciso ed un’occhiata pungente.
«Tu non hai
combattuto e ti stai semplicemente aggrappando a delle parole che, sai
benissimo, erano state pronunciate dalla rabbia. Dall’esasperazione. –
continuò, ignorando la mia interruzione, pronunciando quelle frasi con
sempre
maggiore veemenza. – Dio, io vi osservati insieme, più di quanto avrei
mai
voluto ed ho notato quanto potevi essere impossibile, con le tue
soffocanti
pretese, con le tue premure, completamente fuori luogo, perché non più
rivolte
ad una bambina, ma ad una donna. Bella è una donna. » continuò,
scandendo
quelle parole con estenuante lentezza, quasi fosse lì a parlare con un
moccioso, cosa per altro non totalmente errata, pensai, mentre
osservavo me
stesso attraverso i suoi ricordi. Scorgevo quelle figure sconosciute,
seguendo
quei battibecchi assurdi che mi strapparono un sommesso sorriso,
malgrado la
morsa al mio cuore sempre più salda.
«Le parole
fanno male, possono ferire più di quanto non si voglia. – sussurrò,
avvicinandosi a me, accarezzando con dolcezza la mia guancia, con i
suoi caldi
occhi color caramello nei miei e le sue labbra piegate in una triste
smorfia. –
Tu non sei scappato solo da lei, ma anche dai tuoi demoni, dalle tue
paure, dal
tuo timore di essere un mostro. Stai scappando da te stesso e sino a
quando non
comprenderai questo, sino a quando non ti accetterai, non sarai mai in
grado di
capire lei e ciò che vuole. » concluse, stranamente criptica, celandomi
i suoi
pensieri oltre una colte di futili immagini, prima di posare la sua
bocca
tumida sulla mia, in un bacio appena accennato.
Un leggero
sfiorarsi, un impalpabile contatto, prima che i miei occhi potessero
seguire la
figura di Tanya, che ripercorreva il sentiero, verso casa.
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Due mesi.
Lo scorrere
lento del tempo, l’alito caldo del vento, in quella cittadina
sconosciuta, dove
avevo deciso di alloggiare, per qualche tempo. Avevo abbandonato
l’Alaska,
deciso ad affrontare i miei personali demoni, la mia natura, spronato
forse
dalle parole di Tanya, sebbene una parte di me trovasse inutile anche
solo
provarci. Quale sarebbe stato il premio per i miei sforzi? Una pacca
sulla
spalla e la pace interiore? Dubitavo su quest’ultima, considerando il
tumulto
dei miei pensieri e la sensazione di perdita che gravava sul mio cuore,
nonostante il trascorrere incessante dei giorni.
Avrebbe
dovuto affievolirsi quel sordo dolore al petto.
Avrebbe… -
rimuginai, passandomi stancamente una mano tra i capelli, osservando le
mura
spoglie di quella casa. Era stata Alice ad indirizzarmi verso quel
luogo, con
una telefonata, la settimana precedente. L’avevo ignorata, deciso a non
fidarmi
di lei, conscio della sua natura di subdola manipolatrice ma qualcosa,
come al
solito, mi aveva indotto a cedere.
Forse non
era il luogo più accogliente che avrei mai potuto desiderare, ma era
questo ciò
di cui avevo bisogno. Un mondo isolato, nel quale tentare di ritrovare
quella
parte di me perduta. Quel mio essere che si era sgretolato, giorno dopo
giorno,
dall’arrivo di Bella nella mia vita. Avevo perso parti di me, preso da
lei, da
quelle guance rosse, da quello sguardo sveglio, da quella boccuccia
rosea, che
aveva rappresentato per me un tormento, negli ultimi anni.
Ma, in fin
dei conti, forse era stato giusto così, naturale questo brusco
allontanamento. Perché
si può amare, ma quale amore può essere quando ci si annulla
completamente, per
l’altra persona? Non è amore quello che ci porta a rinnegarci, a
sopprimere
parti di noi. Non è amore quello che ci esorta a dimenticare chi siamo,
cosa
siamo, trasformandoci, mutandoci. Giusto è crescere insieme, limare il
proprio
carattere, maturare.
Io invece,
avevo soffocato quella la mia natura, forzandomi in schemi che non mi
appartenevano, per essere più simile a lei, per essere degno di lei,
senza comprendere
quanto folle fosse il mio atteggiamento e quale frustrazione ciò
alimentasse.
Una frustrazione che su di lei sfogavo, inconsciamente consapevole di
quanto i
miei sforzi sarebbero andati in contro semplicemente al fallimento.
Il mio
totale e completo fallimento. – precisai, mentalmente, abbandonandomi
all’ennesimo
profondo sospiro, nello stesso istante in cui il fruscio della carta,
al di
sotto della porta, attirò il mio sguardo, sulla mia possibilità di
essere
felice, sotto forma di una variopinta busta da lettere.
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