Lo dedico innanzitutto alla mia fanciulla d’argento, la mia
fairy girl, Hellionor, che mi ha regalato bellissime parole di Barcellona e
frasi scritte che serberò in me per sempre, poi la dedico ai miei genitori, che
mi hanno reso partecipe delle loro giornate trascorse in una grande sala da
ballo, intenti sempre a ripetere figure, a tornare sui propri passi, e infine a
Roma, la mia assurda città che io detesto eppure amo, soprattutto quando, nelle
serate estive, sa renderti così maledettamente ebbra e audace.
E infine, al maestro di ballo dei miei genitori, che ho
appena saputo, ci ha lasciati. Grazie uomo con la valigia.
L’abito rosso e il
ventaglio nero
L’aveva preso dall’armadio con un gesto quasi involontario.
Aveva aperto le ante del mobile scuro e senza lasciar
indugiare la sua mano, aveva saputo cosa prendere tra ogni altro indumento.
Quell’abito rosso.
Da quanto tempo non lo metteva?
Faceva ancora male indossarlo, pensò Clarissa, o meglio
avvertì, toccando la stoffa dell’abito rosso, ma ormai pensava che il dolore
fosse anch’esso soltanto un vecchio ricordo sbiadito.
Come quell’abito rosso.
Lo portò alla luce e rimase a contemplarlo per un attimo.
Aveva quel vecchio taglio asimmetrico che all’epoca
adorava, spalle scoperte e scollatura che osava troppo. Svasatura finale per
permettere alle gambe un maggior campo di apertura.
Che buffo, pensò, era passato tanto tempo, ma il vestito
sembrava perfetto, appena comprato e questo, a dir la verità, le faceva un po’
paura.
E dopo averlo guardato ancora per un istante, lo indossò
infine.
Lasciandoselo scivolare addosso, sentì un brivido lungo la
schiena, se lo sistemò sul corpo e si guardò allo specchio.
Sotto la luce, il vestito sembrava accendersi di bagliori
sinistri e nello stesso tempo magnifici, come se l’abito fosse stato pronto ad
ardere per un’ultima volta, ad essere usato nel modo più degno, pochi passi
prima della fine.
Un filo di trucco, matita, poco rossetto, del mascara.
Clarissa non aveva bisogno di altro per apparire bella e
le poche gocce di profumo con cui si bagnò i polsi sottili e il collo, non
servirono che ad amplificare il suo profumo naturale.
Scarpe dal tacco sottile, nere naturalmente, un ventaglio
scuro che veniva da lontano.
Quel ventaglio nero, per farsi del male, fino alla fine,
per testare quanto la sua anima potesse dimenticare, ricordare, riportando alla
luce e nuovamente sopportare.
Portò alla luce il ventaglio, schermandosi gli occhi e i
disegni dell’oggetto si stamparono sul suo corpo, muovendosi quasi,
raggiungendone ogni parte.
Lo chiuse, con uno scatto e non si riguardò allo specchio.
Sapeva di essere bella.
Non lo erano tutti nel momento di massimo godimento,
nell’ultimo minuto, prima della caduta, prima dell’abisso?
Uscì dunque, i lunghi capelli ondulati che si muovevano
all’ondeggiare delle sue gambe, all’ondeggiare della sua vita nel mondo.
Qualche testa si volse al suono dei piccoli tacchi sul
selciato, alla sua bellezza che si diffondeva nell’aria, ma lei sembrò non farci
caso, aspettò con pazienza che il taxi arrivasse e quando questo giunse, aprendo
la portiera, si infilò dentro senza dire una parola.
-
Dove la porto signora?
-
Al numero 42 di Via Veneto.
Appoggiò la fronte al freddo vetro del finestrino e si
riempì gli occhi della luci della città.
Amanti che si tenevano per mano sembravano professarsi
amore eterno guardandosi negli occhi, un vecchio che portava il suo cane a
passeggio invece, pensava a quanto solitaria risultava essere la sua vita dopo
la morte della sua tenera e forte donna, una ragazza dai capelli cortissimi che
correva tagliando trasversalmente una piazza sembrava rincorrere un orizzonte a
lei sempre distante e beffardo, un mendicante che strimpellava su una chitarra
aveva la stessa voce del mare che aveva ingoiato il suo paese, una donna di
colore camminava pesantemente sotto il peso delle buste della spesa e sotto il
carico di ricordi che ad ogni faticoso passo che compiva le logoravano l’anima
con un lento fuoco.
Clarisse guardò fuori senza guardare veramente.
Si sentiva uno spettatore annoiato ad una commedia teatrale
di pessima qualità e dalla trama di dubbio gusto.
Chiuse gli occhi, nauseata.
Era dovuta uscire per forza.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per non farlo, dopo quelle
infauste notizie, aveva deciso di mollare tutto.
Avrebbe voluto solo dormire, senza accorgersi di niente,
dormire finché la nera signora non fosse arrivata e non l’avrebbe accompagnata
senza permetterle di accorgersi di alcunché.
Ma a quell’invito, non aveva potuto dire di no, quindi
aveva detto a Marie che si sarebbe fatta vedere.
Aveva indossato il suo abito rosso ed era uscita di casa.
La festa che la sua esuberante amica Marie aveva indetto,
si trovava in una delle zone più in di tutta Roma.
I locali sembravano fare a gara sul prestigio e sulla
raffinatezza. C’erano luci, tante luci, e profumi dei più svariati.
C’era il lusso e c’era la libidine.
Ma agli occhi di Clarissa non c’era niente che le destasse
l’attenzione.
Tutto sembrava solo tanto fumo negli occhi e in quel
grigiore, in quel tripudio di colori spenti e opachi, solo l’abito rosso
brillava come solo l’ultima fiamma maligna sa fare.
Quando il taxi si fermò, lei pagò con un sorriso educato e
il tassista tornò a casa facendo più attenzione del solito.
Aprì la porta di una casa muta per mancanza di figli, e
quella sera, decise di prendere per mano la moglie, silenziosa quanto fragile, e
dopo esser rimasto a guardare la sua bellezza che stava ormai sfiorendo, fece
l’amore con lei.
Sempre in silenzio, per carità.
In quella sera c’era solo il silenzio e il rosso del
sangue.
Clarissa entrò con il suo passo deciso, respingendo con lo
sguardo la giovane cameriera che la stava raggiungendo, non avendo con se
soprabiti se non un leggero scialle di seta nera che preferì tenere addosso.
Temeva il vento freddo della sera, anche se si era ad
agosto.
Oh, quanto temeva il freddo.
Nel locale scuro la sua amica Marie sembrava risplendere
come un fulgido sole, avvolta com’era in quell’elegantissimo abito bianco che
l’avvolgeva come avrebbe fatto il più lascivo degli amanti.
I capelli chiarissimi e gli occhi del nocciola più intenso.
Marie sembrava esattamente ciò che era.
Una deliziosa duchessa francese che sarebbe diventata una
bellissima madre
Marie de Mont-Claire, aveva deciso di festeggiare appena
aveva saputo della sua gravidanza, e con le sue famose doti di festaiola nata
aveva organizzato in pochissimo tempo un ricevimento con i fiocchi.
Aveva ottenuto con uno schiocco delle dita il ristorante
più prestigioso della città, una lista di invitati che vantava nomi famosi tra
stilisti, cantanti, artisti e celebrità varie con il consenso della stragrande
maggioranza.
Guardandosi attorno Clarisse si chiedeva cosa ci faceva tra
quella gente.
Era ancora in tempo a tornare a casa, pensò, ma la sua
vecchia amica la raggiunse in un batter d’occhio e la cinse tra le sue grandi
braccia.
-
Sono così felice che tu sia venuta Clarissa, non ci speravo più.
-
È per questa nuova vita, Marie. Lo devo a te e a lei.
La donna le sorrise e Clarisse rispose spiegando le labbra
come un piccolo uccello farebbe sul mare, poi andò a cercarsi un posto solitario
da dove poter ammirare lo sfrenato e insolente luccichio della notte
artificiale.
Il quartetto di archi cominciò a suonare e il pianoforte lo
seguì come farebbe un innamorato.
Ed era in una selva, pensò lei, era una foresta di suoni e
odori dove lei correva e il pianoforte la seguiva, o meglio dire la pedinava.
I minuti scorrevano veloci, tra quella musica che
accompagnava le risate di rito dei commensali, e Clarissa sembrò quasi
dimenticarsi dell’abito rosso che indossava e si perdeva in quell’atmosfera che
le ricordava la sua gioventù, ma ci fu un imprevisto.
Un imprevisto, nel bel mezzo della serata.
Un imprevisto che aveva un viso spagnolo.
Gli occhi di giada, la pelle di scuro miele, le labbra
disegnate da un artista divino, il corpo che si muoveva veloce tra ogni anima.
I suoi occhi verdi si fermarono su di lei, senza che
Clarissa potesse farci niente.
O forse, prima di incontrare il suo sguardo, incontrarono
quello dell’abito rosso che fiammeggiava, mosso da un motore maledetto in quell’apatica
notte.
-
Clarissa…- mormorò la sua voce.
Clarisse si alzò improvvisamente e si diresse veloce verso
la porta, con il cuore in gola, un cuore che – diamine - aveva ricominciato a
battere e a farsi sentire. Squassava il corpo come se fosse un tamburo infernale
e Clarisse pensò di avere paura, ne fu assalita, pervasa quasi, da un
eccitamento che le faceva lacrimare gli occhi e tutto, tutto, ebbe il suo apice
nel suo polso che sembrava vibrare, stretto dalla sua mano, e dal suo corpo, che
la spingeva al muro, in una zona dove occhi indiscreti non potevano disturbare
quel colloquio segreto e impossibile.
L’uomo sentiva il corpo di lei fremere, tremare, ma non
ebbe la pietà che aveva avuto tempo fa.
Fece le sue domande.
-
Clarisse…
-
Come hai fatto a trovarmi?
-
Non ti ho trovata. Mi avevi detto di non cercarti e io non l’ho fatto. Ho
rispettato la tua scelta, ma adesso tu devi rispettare le mie parole e onorarle.
Clarisse lo guardò.
-
Eri la migliore ballerina che avevo mai conosciuto. Nessuna donna aveva
mai incarnato in se stessa il tango come l’avevi fatto tu. Tu eri l’anima stessa
del tango. Le tue gambe, le tue mani, le tue braccia, il tuo respiro. Riuscivi a
dar vita a qualcosa che era rimasto assopito da secoli. Perché hai lasciato il
tango Clarissa?
Lei lo guardò.
-
Perché hai lasciato me?
Lei abbassò lo sguardo.
Lui glielo rialzò con un dito
Questa era la sua punizione, pensò Clarissa, aveva osato
indossare l’abito rosso senza pensare alle conseguenze.
E tutto perché lui conosceva quell’abito rosso.
L’aveva toccato, abbracciato, gliel’aveva tolto infinite
volte.
Così tante da poterle dimenticare, ma erano così preziose
che loro le ricordavano tutte.
La stoffa stessa, rammentava ogni volta.
Clarissa alzò le braccia e intrecciò le mani a quelle di
Miguel, si alzò appena sulle punte e lo baciò a fior di labbra, poi parlò, con
la sue bella bocca ad un soffio della sua.
-
Questa sera ti donerò l’ultimo bagliore di questo abito, Miguel, l’ultima
fiamma che una come me può accendere.
Miguel allora le prese la mano e la portò centro della
sala.
Ad un suo cenno una cameriera raccolse tra le sue mani il
prezioso scialle e il nero ventaglio di lei, e una fisarmonica e un violoncello
dal suono corposo cominciarono a suonare.
-
E sia – disse Clarissa qualche secondo prima.
-
Che tu sia – aggiunse Miguel
Cominciarono a ballare.
Furono più che altro passi i movimenti iniziali, passi
mossi con sapiente e abile memoria, ignoranti della paura e dell’angoscia.
Il corpo e l’abito rosso sapevano ogni cosa da tempo
immemorabile e si impossessarono delle loro menti, le prevalsero.
Clarissa ora era la donna e Miguel era l’uomo.
E basta.
E fu.
Furono solo passi all’inizio, passi decisi che non
conoscevano esitazione, quelli di lui avanzarono e quelli di lei arretrarono. Si
sentivano i tacchi sul marmo nero e i loro corpi percepivano gli sguardi di
tutti senza registrarli.
Furono solo passi all’inizio, poi lei si abbandonò al corpo
di lui mentre faceva risalire una gamba sul suo fianco.
Lui si piegò indietro assecondando le sue movenze e prima
di cominciare veramente si guardarono negli occhi.
Poi qualcuno chiuse un ventaglio di scatto e allora
cominciarono.
Furono solo passi all’inizio, eco di istruzioni e lezioni
antiche, severe, omicide, troppo sensuali per una bambina appena donna, per un
ragazzo che non conosceva la sua lingua, che non sapeva con che parole parlare.
Poi si mossero come avevano fatto per centinaia di notti sotto il cielo
dell’Andalusia, nelle camere dalle luci fioche, nei piccoli locali tutti uguali
della costa.
Raddrizzarono le loro schiene e la mano di lui strinse bene
la schiena di lei e cominciarono a volteggiare nel locale, con un gioco di gambe
che erano parole che non avevano il tempo di pronunciare, che non erano capaci
di formulare senza la giusta abilità che quel complicato e doloroso discorso
avrebbe richiesto.
Ma la verità era che non avrebbero mai saputo parlare, e la
magia della loro storia era il silenzio. Quello intenso, quello che fa bene, che
fa male, che insegna, che punisce, che ti fa vivere.
Tra le sue braccia lei disegnò figure.
Con la maestria di una donna che sa tutto, con l’arroganza
di una donna che non ha più niente da perdere.
Giri di gamba e di corpo, i piedi che si muovevano al ritmo
della fisarmonica e quelle caviglie mai viste che imponevano il loro governo su
ogni cosa.
Con i suoi occhi e le sue mani lui la guidava, le
permetteva di brillare.
Era puro vento che andava ad alimentare e fomentare un
fuoco che sarebbe diventato un incendio devastante e benedetto.
L’abito rosso ballava elegante, gioioso e mortalmente
sensuale.
Miguel sentiva il piacere che li avvolgeva come un’onda di
marea.
Assaporava l’aria che si spostava quando lei girava e
rigirava i fianchi, il profumo di lei che sembrava l’eterno ricordo di quelle
passeggiate sotto una Barcellona in festa, di quel ventaglio nero che le aveva
regalato avvolgendolo nelle lenzuola del letto dove avrebbero fatto l’amore e
ancora il fantasma di una Clarissa intenta ad osservare il tramonto in lacrime,
di nascosto, celata dal movimento dei panni stesi ad asciugare.
Miguel fece inginocchiare con una gamba sola Clarissa e la
fece girare su se stessa un paio di volte , poi se la portò al petto,
rialzandola con una mano.
Fecero due passi larghi ma lenti, con enormi pause al
termine di ognuno.
Il suo naso sfiorava la guancia vellutata di lei, andando a
cercare lacrime che non ci sarebbero mai state.
Si spostarono ai margini della pista e la musica accompagnò
ogni loro movimento.
Frenetico, esatto, composto, silenzioso, preciso, sapeva di
tempesta e di segreto.
Lei mosse più veloce i suoi piedi attorno alle sue gambe
che si alzavano e si abbassavano.
Capirono entrambi che si stava arrivando alla fine.
E non fu la musica a deciderlo, o il rintocco crudele
dell’orologio del corridoio, ma fu l’abito rosso.
Furono solo pochi passi all’inizio, e già l’abito rosso
sembrava destarsi. Come un cuore che ricomincia a battere, come un uccello
divino che viene liberato dalle catene, si riaccendeva del suo colore. Ad ogni
loro prestabilito movimento tornava ad ossigenarsi, ridipingendosi del suo rosso
più intenso, più violento, più impressionante, che feriva gli occhi di chi non
sapeva come una visione insopportabile di tremenda bellezza. E il suo rosso si
trasformava ad ogni figura, ogni giravolta, ogni movimento di gambe, ad ogni
mezzo passo, ad ogni giro di pista fino ad avere il suo apice.
Quando lei avvolse la sua lunga gamba alla vita snella di
lui e i loro respiri si toccarono e si avvolsero stretti ancora di più delle
loro labbra, ecco, l’abito divampò, avvolse tutto, sembrava un pericoloso sole
sul limite del collasso, e mai occhio umano avrebbe potuto capire in fondo
l’ondata di piacere che li avvolse, o per meglio dire li imprigionò nella sua
immensa stretta, e fu molto più del piacere che provarono mai nel fare l’amore,
nel possedere i loro corpi, perché in quell’esatto momento, come mai,
possederono le loro anime.
Poi il colore cominciò a scemare definitivamente.
Furono solo pochi passi alla fine e loro ansimavano appena,
esausti e devastati per la portata di ciò che avevano fatto per un’ultima volta.
Furono solo pochi passi alla fine, ancora qualche giro, lui
che si chinava su di lei, e Clarissa che faceva ciò che il corpo di Miguel le
chiedeva.
Furono solo pochi passi alla fine e uno splendido casché e
il vibrare delle ultime note dei due strumenti e un lungo assordante applauso
che si sprigionò dalle mani pesanti di oro degli invitati.
Solo dopo Clarissa si accorse delle lacrime che rovinavano
il trucco di Marie, perché lei era impegnata a fare altro.
Si inchinarono e lei scappò, si diresse all’uscio, riavendo
il suo scialle e il suo ventaglio nero arabescato.
Ma ancora Miguel la fermò un’ultima volta e la guardò.
Lei, così bella da far male.
Lei, un passato che va via.
Si chinò a baciarle la bella mano senza un gioiello, la
pelle profumata ancora ardente che lottava contro la frescura della notte.
Quando si rialzò si sorprese vedendo una lacrima furtiva
che le rigava il bel volto marmoreo, le labbra rosse di lei sembrarono muoversi
per dire qualcosa ma poi scappò via in silenzio, eccezione fatta per i piccoli
tacchi, nella notte di Roma, così violentata da quelle luci volgari e da quegli
odori eccessivi, disturbata da vite che le si aggrappavano come parassiti.
Passarono tre mesi ed arrivò Novembre, con il suo freddo
che Clarissa tanto detestava e mal sopportava, pur adorando quanto soffice fosse
abbandonarsi al tepore salvifico degli indumenti di lana.
La telefonata arrivò in una serata gelida che era nata in
un tramonto spettacolare.
Un fuoco che aveva incendiato tutto il cielo.
-
Hablo con el senor Miguel?
-
Quien habla?
-
Miguel sono io, Marie. Torna a Roma, Clarissa è morta.
Del viaggio Miguel non ricordò nulla, nemmeno del funerale
che era stato veloce, con un discorso affrettato di un parroco da un agenda
fitta di impegni, nascosta nel suo consunto breviario.
Miguel ricevette le ceneri di Clarissa.
Le avrebbe portate con se, sulla costa andalusa, e le
avrebbe sparse nel vento del mare, dalle banchine degli stabili in cui loro
avevano ballato per innumerevoli notti.
Prima di partire Marie, dalla pancia sempre più prominente,
avvolta da seta nera, il viso coperto da un cappello con veletta, lo raggiunse e
con voce stanca ma ferma gli consegnò una lettera, poi gli mormorò addio.
La vide sparire, nel plumbeo cielo di novembre.
Miguel, caro Miguel, mio amato, unico amico mio.
Ed ecco, ora sono nelle tue mani, e poi sarò solo tanta
cenere al vento, intenta a fuggire e a fluttuare nell’aria, sopra la terra,
sopra il mare e il cielo, sopra questo mondo assurdo che ha divorato e innalzato
la mia giovinezza.
Se hai questa lettera è perché te lo dovevo e perdonami
se è solo alla mia morte che la ricevi, perdonami se non mi sono persa ancora
nei tuoi occhi di foglia.
Lo sai, lo hai sempre saputo che sono sempre stata
quella che prima di salire su un treno, su un aereo, su una nave, non si è mai
voltata indietro. Io sono quella degli addii veloci, Miguel.
Per quanto quel meraviglioso tango sia stato più
prolisso di un lungo discorso mi sento in dovere di affidarti le mie ultime
parole. Sei stato l’unico Miguel, sei stato la mia anima.
Sono, o meglio ero, malata di cancro, Miguel.
Al cervello, inoperabile, scoperto troppo tardi.
Ho rifiutato la chemioterapia, ti rammenti della mia
vanità? Avrei preferito morire subito piuttosto che rinunciare alla mia
bellezza, sparire piuttosto che diventare un cadavere che cammina, per quanto io
potessi esserlo già…
Mi hai chiesto perché abbia mai abbandonato il tango,
quella sera.
L’ho fatto perché il mio fisico non avrebbe retto, e
credo che questa sia una risposta più che sufficiente.
Riguardo al perché avessi abbandonato anche te, tu
sbagli.
Non ti ho mai abbandonato Miguel, mai.
Sei stato sempre con me, in me, ovunque. Nell’aria che
respiravo al mattino, nelle mie lacrime donate ai tramonti, nelle parole che
pronunciavo, e il tango era te e tu eri me e rivivevi sempre in quell’abito
rosso e in quel ventaglio nero con cui mi sono fatta bruciare. Miguel, oh Miguel,
avrei voluto amarti, ma non ne sono stata capace, non ne ho avuto la
possibilità, ma almeno ti ho risparmiato la mia agonia, donandoti solo l’ultima
fiamma di quell’abito rosso, donandola solo a te e a nessun altro, quel sacro
fuoco, reliquia di tempi che furono e che mai ritorneranno e rivivranno,
conservala in te.
Ti amerò per sempre Miguel, per l’eternità.
Ti amo.
Addio
Clarissa
Fine |