Piccola
noticina prima di
lasciarvi alla lettura.
Se
non vi piace lo slash o
comunque pensate sia altamente folle concepirlo fra Massimo e Commodo, tornate
indietro.
Se
invece siete delle pazze come
me, proseguite pure.
Nella
mia fic, Massimo trascorre il
periodo estivo nella villa rustica imperiale, da qualche parte nella
campagna
laziale.
I
due hanno una differenza d’età di
quattro anni, quindi Massimo ne ha [quasi] venti, Commodo sedici.
Sub umbrosa siliqua
–Hai
riposto la bulla* da tempo, stai
per compiere
vent’anni… Tuo padre ti ha già trovato
una promessa sposa, vero, Massimo? –
domandò il ragazzo dagli occhi d’un verde
ghiacciato, mentre s’incamminava con
l’amico più grande nei dintorni del terreno
coltivato a ulivi. Era un’estate
placida e scanzonata per il figlio dell’Imperatore, e ne
stava trascorrendo le
ultime settimane nella cordiale campagna laziale insieme al compagno
d’infanzia, il cui padre era affezionato al suo da tempo
immemorabile. Erano
gente ispanica, fedelissimi all’Impero e dalle maniere
schiette ma posate.
–Sì.
Perché la cosa ti sta tanto
a cuore?
–Quando
sarò a Roma vederci sarà
un diletto meno frequente.
–Vero,
io sarò presto impegnato
con l’esercito e tu a frequentare quegli ambienti di cui un
giorno dovrai
occuparti come Imperatore.
–Oh,
sì! – disse Commodo, alzando
gli occhi verso il sole all’orizzonte in cerca della sua
futura luce di gloria
– Sarai mio devoto compagno allora, così come hai
promesso di essere per mio
padre?
–Tu
fa’ solo in modo che io non
debba avversarti. – sospirò l’altro,
raccogliendo un sasso e scagliandolo
contro un tronco con un tonfo secco.
–Anche
tu? – Commodo tremò di
rabbia per un istante, e lo tirò per il polso,
costringendolo a guardarlo negli
occhi – Anche tu, come mio padre, ritieni che potrei mai fare
qualcosa di…
sbagliato?
Massimo
non rispose, perché
sapeva che qualsiasi cosa avesse detto, si sarebbe rivoltata contro di
lui.
Conosceva bene Commodo e il barlume di malsana esaltazione che si
accendeva nei
suoi occhi all’idea di dover detenere un potere
più grande di lui in un futuro
ancora lontano. L’amico era autoritario, impaziente,
beffardo, troppo vanitoso
e suscettibile. Insomma, ad ammetterlo, andava forse bene come amante,
ma
l’ispanico dubitava fortemente che incarnasse le perfette
fattezze di un
oculato imperatore.
–Rispondimi!
– sibilò il più
piccolo, deluso. Come poteva una delle persone che più
ammirava al mondo,
trattarlo in quel modo, fissandolo con quello sguardo di sufficienza?
–Perchè
non ti godi questa
camminata? L’estate sta finendo, e sarà
l’ultima che passeremo insieme. –
borbottò Massimo, sciogliendosi con delicatezza dalla presa
dell’altro.
Continuò a camminare senza dire nulla, saltando oltre il
muretto a secco che
segnava il confine dell’agro. Si arrampicò oltre
il piccolo crinale sentendo
Commodo che arrancava dietro di lui, più perché
era infastidito dalla loro
conversazione che dalla fatica.
Il
futuro Imperatore s’arrestò
all’improvviso al suo fianco, incrociando le braccia in un
cenno di stizza. –La
tua insolenza mi offende!
Davanti
a loro si apriva una
valletta invasa di sterpaglie, accarezzata dal rosseggiante sole del
tardo
pomeriggio, e immersa in un venerabile silenzio.
–Vediamo
chi arriva prima a
quell’albero laggiù! – Massimo
lanciò la sfida e si gettò slealmente
già giù per
la discesa. Commodo si scagliò subito al suo inseguimento,
sfrecciando dietro
di lui senza mai riuscire a superarlo. Corsero con quanta
più forza avevano
nelle gambe, con schiaffi d’aria tiepida in faccia e fruscii
d’erba calpestata
in tutta fretta a ronzargli nelle orecchie. Massimo frenò
per primo la sua
corsa appoggiandosi al tronco nodoso e saldo del vecchio carrubo con un
sorriso
soddisfatto. Boccheggiavano entrambi, forte.
–Maledizione
a te e a queste
erbacce! – Commodo col fiato corto zoppicò accanto
a lui, sedendosi fra due
radici che spuntavano dal terreno battuto. Si scrutava seccato le gambe
graffiate e brontolava come un vecchio retore*
in congedo. – Stai lì a guardare?
–Cosa
vuoi che faccia? – domandò
Massimo, strizzando gli occhi e strofinandosi i palmi sudati delle mani
contro
la tunica tutta impolverata e corta sulle cosce.
–Ad
esempio, aiutare il tuo
Imperatore…
–Uhm,
non lo sei ancora, sono
spiacente! – si schernì l’ispanico, ma
nel momento in cui parlava, già si stava
chinando verso le piccole ferite dell’altro. Commodo lo
guardò con
approvazione, muovendo impercettibilmente la testa in segno
d’assenso. Spinto
da un fare premuroso e innocente, il più grande gli
sfiorò con le dita i
graffietti gonfi e arrossati prima di detergerli con dei colpetti
umidi, delicati
e lenti della lingua. Fu dolce e salato insieme, era sangue, polvere e
sudore…
poi posò un bacio delicatissimo sul ginocchio di Commodo, e
il giovinetto gli
afferrò il mento fra le mani, teneramente.
–Bravo,
Massimo… Sei prezioso. –
mormorò, leccandosi le labbra secche. Le meravigliose labbra
dal disegno
impreciso e la misteriosa cicatrice che portava fin da nascituro.
Massimo doveva
smettere di guardarle, o sarebbe impazzito, o sarebbe accaduto
ciò che accadeva
sempre, all’improvviso.
–E
tu sei una donnicciola! –
scherzò quello, deglutendo nervoso.
–Ti
senti tanto in vena di
facezie? – ribatté Commodo, scagliandosi contro di
lui. Animarono la soporifera
quiete della valletta con una zuffa goliardica dal sapore teso e intimo
al
tempo stesso. Si voltolarono fra gli sterpi e la polvere, affannandosi
a
prevalere l’uno sull’altro, minacciandosi in
maniera poco credibile con qualche
vituperio ghignato fra un colpo e una risata. Le loro gambe
s’intrecciavano, le
braccia tentavano di soverchiarsi e loro non smettevano un solo istante
di
guardarsi negli occhi, con tacito e tangibile desiderio. Fu Commodo ad
accendere la solita miccia quando, atterrati con decisione i polsi
dell’altro,
gli strappò un bacio virile, fatto di morsi, violento e
proibito.
Massimo
lasciò che il più piccolo
si spingesse a leccargli il mento appena ruvido di barba, mentre
pensava che
ancora una volta si stavano abbandonando a un piacere poco consono,
vergognoso
e da tenere assolutamente nascosto. Molte volte il cuore gli era quasi
scoppiato in petto per la paura rovente che qualcuno li scoprisse
mentre si
concedevano a quegli strani impeti di Venere. Eppure, Massimo non aveva
alcuna
pallida voglia di essere altrove, né in altra compagnia. Si
chiedeva cosa
sarebbe accaduto quando avrebbero smesso di poter fare tutto quello, ma
ogni
volta gli interrogativi cadevano senza importanza in un pozzo di cieca
e
sanissima bramosia.
Erano
due giovani vigorosi, e
altrettanto vigorosi erano i loro furtivi amplessi, anche se acerbi.
Cosa ne
potevano sapere dell’arte della delicatezza,
dell’attesa, delle infinite
delizie celate nei meccanismi naturali dei loro corpi?
S’avviluppavano alla
bell’e meglio, con foga e poca grazia, ma a loro sembrava
andar bene così.
Commodo
ansimò all’orecchio di
Massimo, quando, facendo sgusciare la mano sotto la tunica,
incontrò il fallo
turgido dell’altro. L’ispanico sentiva quello
dell’amico premergli addosso, e
quel vizioso si divertiva a strofinarsi contro di lui come una gatta
accalorata. Aveva imparato presto!
–Prendimi,
Massimo, qui… sotto
l’ombroso carrubo.
Evidentemente
il giovane aveva lo
speciale dono di mormorare parole da meretrice senza cadere nel
femmineo. Erano
già due uomini, due maschi alfa che insieme suggellavano
un’alfa doppia,
qualcosa che non capita spesso d’incontrare, forse come gli
epici Achille e
Patroclo. Come si sarebbe potuto dire che l’uno o
l’altro fosse meno uomo solo
perché giacevano insieme fra le braccia di Venere? Sarebbe
stato folle non
vedere il sacro fuoco mascolino nei loro sguardi, nei loro lombi, nel
battito
furioso del loro cuore.
L’ispanico
fu scosso da un’ondata
impetuosa di desiderio che travolse e spazzò via la sua
indole razionale. Ribaltò
le posizioni alzando altra polvere intorno, e strusciarono entrambi
alle radici
del carrubo con la coscienza in fiamme, annebbiati dalla libidine
incalzante. Massimo
agguantò l’altro per le spalle, respirando
convulsamente contro la sua bocca
quanto lo desiderasse. Commodo fu subito carponi, ad inarcare
ferinamente la
schiena all’intrusione delle dita ruvide
dell’ispanico. Gemette di dolore, l’attrito
era difficoltoso con quelle dita aride e, sbuffando
un’imprecazione, girò la
testa di scatto quel che bastava per fulminare l’altro con lo
sguardo. Serrando
saldamente le labbra, Massimo trattenne le scuse e si limitò
a bagnarsi le mani
di sputo –rude, ma d’altronde non avevano altro a
disposizione– prima di
accarezzarsi in fretta il membro bollente. Tentennò un
istante ma alla fine
decise di umettare anche la piccola fessura che l’attendeva
per portarlo all’estasi,
perché Commodo avesse il meno possibile di che lamentarsi.
Tenendo allargate le
natiche dell’amante, l’ispanico cercò di
non perdersi nei capogiri e diede un
deciso affondo che tolse ad entrambi il respiro nel petto. Rimase
immobile in
lui giusto il tempo di abituarsi e abituarlo alla ancestrale fusione
corporea,
e quando la parte animale di sé lo chiamò
fortemente al dovere, fu meglio di
ogni altra volta. Forse perché sapevano che sarebbe stata
l’ultima, poi le loro
vite li avrebbero separati, e quei pomeriggi d’estate
avrebbero sbiadito il
ricordo come lavati dalle acque verdastre del Tevere. Commodo
sentì le lacrime
pizzicargli i bellissimi occhi, un po’ per il dolore acre che
non smetteva
ancora, un po’ per il timore di dover smarrire presto quella
sensazione di
completezza, quel sentimento così simile all’amore
ma di cui non era sicuro
nessuno dei due. Lui era il figlio dell’Imperatore, futuro
Cesare, avrebbe
dovuto immaginare la sua esistenza come la quintessenza della
magnificenza,
degli onori e delle vittorie… ma sentiva invece che non
c’era persona al mondo
che l’amasse come lui sognava. Non c’era persona al
mondo che l’apprezzasse,
che applaudisse la sua sfacciata intraprendenza, che gli dicesse che
sarebbe
stato magnifico un giorno, che sarebbe stato grande e il popolo
l’avrebbe
acclamato. Lo trattavano tutti come un bambino e no, non era
perché portava
ancora per poco la bulla aurea
appesa
al collo.
Perfino
Massimo non era mai
chiaro su quello che li univa, sembrava accontentarsi del silenzio,
delle sfide
a chi correva più veloce, tutt’al più
qualche verso e poi la brama cocente…
Ma
ora, si convinse Commodo, ora
nulla aveva importanza quanto la potente frustata che subivano i suoi
sensi
sotto le spinte vivaci dell’altro, sempre più
ardite, ad ogni modo perfette. Era
come stordito dal delirante appressarsi del picco altissimo di immenso
piacere
che si sarebbe riversato sui suoi affanni da cuore ferito.
E
mentre gli ansimi, ormai
slegati da ogni pudore, osceni e strozzati, scaldavano l’aria
nei loro polmoni,
il furore carnale li rendeva del tutto ciechi agli affari terreni.
Scorse poi il
munifico seme, con empia soddisfazione e grida elevate ai piedi del
carrubo. Riposarono
sotto le fronde cariche di frutti immaturi, sudati, accovacciati
l’uno sul
petto dell’altro, tolti i gravosi indumenti di dosso. Nessuno
dei due poteva
lontanamente immaginare quello che sarebbe accaduto un giorno, come il
destino
li avrebbe avvinghiati con un nastro colore del sangue, sangue
delittuoso,
sangue macchiato dall’odio più oscuro…
*Bulla: Ciondolo di metallo e cuoio
contenente un amuleto, che i
fanciulli romani portavano appeso al collo fino all'età
della toga virile.
*Retore: Presso gli antichi Greci e Romani, nome
con cui si indicavano gli
oratori e i maestri di eloquenza.
|