Sherlock x 2

di BuFr
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Dopo qualche ora in quell'epoca Sherlock aveva già voglia di lasciarla senza rimpianti; faticava ad adattarsi a una realtà in cui non c'era la tecnologia ad agevolare il passaggio tra la deduzione e l'azione che ne conseguiva, il risultato. John lo aspettava nella Baker Street ottocentesca e il suo amico cercò di spiegargli nel modo più asciutto possibile quale fosse la propria idea.

“Mi vuoi convincere del fatto che dovremmo buttarci giù dalla sommità del Big Ben?”

“So come funziona la mente di Moriarty.”

“Sì, Sherlock. Lui vuole ucciderci, lo so bene anch'io come funziona” rispose John che reputava quella proposta quanto più di inaccettabile potesse concepire.

Erano tutti e quattro sulle scalette davanti casa, all'aperto; i due Holmes e i due Watson. L'accoppiata ottocentesca si limitava ad assistere al dialogo con un atteggiamento opposto: l'investigatore smaniava in silenzio, annuendo, quasi desse pienamente ragione al suo omonimo, il medico invece manifestava una cauta preoccupazione.

“Anche quando siamo finiti qui è stato dopo la sensazione di cadere, ricordi?” chiese Sherlock veemente, sforzandosi di convincere il suo migliore amico.

“Questa non è una deduzione, non ha alcun senso!” protestò John.

“Se posso permettermi di intervenire” fece Holmes prendendo finalmente la parola: “Non credo che voi possiate veramente morire, considerato che voi qui non esistete.”

“Holmes, la vuole piantare?” lo apostrofò Watson, che non tollerava questa mancanza di tatto.

L'altro non fece una piega e si strinse nelle spalle: “Volevo solo aiutare.”

Ignorando ogni consiglio, John continuò a parlare a Sherlock: “Ti stai facendo guidare dalla tua ossessione per Moriarty...”

“Proviamo almeno ad andare lì. Se ho ragione, lo sapremo solo una volta saliti” disse Sherlock molto serio.

John lo squadrò poco convinto, assottigliando gli occhi, poi commentò: “E' un trucco. Tu vuoi ingannarmi.”

Arrendendosi, Sherlock roteò gli occhi e fece qualche passo indietro. Prese il suo posto Holmes che parlò giulivo a John: “Dai una possibilità al tuo Holmes. Almeno ha avuto un'idea. Alla peggio, vi togliete di mezzo.”

“Non è un gioco per noi” ribatté John indicando se stesso: “A voi non cambia molto, state solo assistendo a uno strano fenomeno temporale, ma io e quel pazzo rischiamo la vita!”

“Vi accompagno io” risolse con serietà Watson, andando in mezzo alla strada per fermare una carrozza: “Dò ragione all'altro Holmes, forse dovremo almeno andare a vedere.”

“Ah, così dà ragione a tutti gli Holmes dell'universo tranne a me, eh?” commentò il suo compare risentito, ostentandolo in maniera teatrale: “Potrei legarmela al dito...”

“Negli altri universi gli Holmes mi sembrano più dotati di buon senso, non è colpa mia se a me è capitato quello bacato” dichiarò Watson impassibile, mentre intanto un omnibus rallentava accanto a loro.

Salì sull'omnibus seguito a ruota da Sherlock, John pronto ad imitarli scoccò una veloce occhiata comprensiva all'altro Holmes, sempre così bastonato dal suo Watson come uno scolaretto dal maestro. Lui non sarebbe mai stato in grado neanche in mille anni di tenere Sherlock tanto in riga; meno che mai se trattarlo così avesse provocato in lui un'espressione simile.

Trovò a domandarsi se, per caso, nel predisporre quei due mondi paralleli ci fosse stato qualche errore nell'assegnazione delle parti. Lui non aveva il nerbo e il carisma dell'altro Watson, Sherlock non sarebbe mai stato una persona tanto umana e interiormente 'fragile' come il suo emulo.

Arrivarono vicini al Big Ben dopo un viaggio silenzioso e teso; nessuno sapeva bene cosa dire. In un caso o nell'altro, forse le loro strade si sarebbero divise adesso. Strano trovare il modo di separarsi da qualcuno che non conosci ma che in qualche modo è, molto semplicemente, te stesso.

“Dobbiamo andare soli, tu e io” disse Sherlock a John.

“Noi vi aspettiamo qui, nel caso succedesse qualcosa” comunicò Holmes pratico, alludendo alle pendici della celebre torre.

“State attenti a schivarci, nel caso ci sfracellassimo” scherzò caustico John, pallido e per nulla convinto. Aveva bisogno di infrangere la tensione.

Si strinsero la mano goffamente, prima John e Watson poi Watson e Sherlock, infine John e Holmes. I due Holmes si limitarono a un breve cenno di congedo, ancora entrambi preda di una diffidenza naturale. A nessuno dei due piaceva in fondo l'idea che esistesse, da qualche parte nell'universo, qualcuno altrettanto unico al mondo e meritevole della medesima celebrità.

Poco prima che Sherlock facesse ingresso nel palazzo, John si mostrò dubbioso e gli chiese: “Mi dai solo un momento? Tu vai avanti?”

L'altro si voltò perplesso: “Non sarà una scusa per tagliare la corda, vero? Non lo riterrei molto sensato. Rimarresti comunque in questa epoca chissà per quanto.”

“Non è per quello, devo solo dire... una cosa” spiegò John.

Immaginando che si trattasse di qualcosa tra John e l'altro Watson, Sherlock annuì: “Va bene. Sbrigati.”

Quando fu certo che Sherlock fosse fuori portata d'ascolto, John fece qualche passo per tornare indietro e mandò un grido in direzione dei loro alter ego: “Mi scusi... Signor Holmes, posso scambiare due parole con lei in privato?”

Entrambi gli altri manifestarono uno stupore controllato; poi, composto e teso, Holmes si staccò da Watson per avvicinarsi a John con contegno garbato.

“Di qualunque cosa abbia bisogno, non esiti a chiedermelo, altro-Dottore” dichiarò l'Holmes dagli occhi grandi e scuri con una trasparenza che John, finora, non aveva ancora ravvisato.

“Beh, sì, io... volevo farle sapere che...” cominciò lui guardando a terra e muovendosi nervosamente: “Volevo farle sapere solo che mi dispiace.”

Stranito, Holmes chiese disponibile: “Le dispiace di cosa?”

John provò a tirare su gli occhi, ma non aveva la forza di sostenere quello sguardo. Parlò comunque a cuore aperto, con una smorfia: “Io credo che lei si senta molto solo da quando Watson è andato via da Baker Street e io lo capisco... Perché anche io sono come lei. Non avevo niente, prima di conoscere Sherlock... il mio Sherlock, intendo. Un bel giorno questo periodo finirà e io non so come reagirò. Ciò che sono adesso dipende totalmente da lui. E... insomma, ho un'idea esatta di che vuol dire quando non sembra di avere altro aggancio con la vita che una sola persona” rise tra sé in modo tetro e malinconico: “Strano, no? Lo pensavo prima, è come se i due mondi avesse invertito i ruoli...”

“No” negò Holmes consapevole guardandolo in maniera franca e amichevole: “Anche Watson era come te all'inizio. Lui ha sempre amato farsi rapire da me e trascinar via dal mondo comune, banale... Ma il fatto è, mio piccolo dottore, che prima o poi la meraviglia svanisce e Holmes resta solo un povero eremita sociopatico. In un batter d'occhio tu, che sei come gli altri, desideri una vita, una normalità, una routine. Non c'è cosa più difficile che smettere la maschera dell'avventura ed essere all'altezza di una vita e di affetti normali e voi Watson potete farlo, noi Holmes no.”

Mosso da quel discorso, John si illuminò nello sguardo e con più dolcezza, dopo una lunga e fiduciosa riflessione, disse triste: “Per quello credo che non ci sia pericolo. Il mio Sherlock è una persona forte, impermeabile. Sopravviverà di certo a una mia dipartita” rise più sonoramente: “Forse si dimenticherebbe di me nel giro di un quarto d'ora, distratto da un nuovo caso stimolante di omicidio, dalla scoperta di un nuovo tipo di tabacco, da un nuovo temibile avversario alla metà della sua altezza. Io sono solo un comprimario sullo sfondo, nemmeno importante come il suo Watson.”

Holmes lo guardò a lungo in una maniera sorridente e vaga. Misterioso, rispose solo dopo un lungo silenzio: “Vedremo chi ha ragione. In futuro.”

Fu l'ultima volta che quelle due persone che non avrebbero dovuto neanche incontrarsi ebbero la possibilità di confrontarsi.

 

Quando John arrivò al di sopra dell'orologio e uscì all'aperto, nel vento, trovò finalmente Sherlock che guardava il panorama nel vento e lo attendeva. Ai suoi piedi, rossa come il sangue, era posata proprio sul bordo della balaustra una mela, che ovviamente non aveva messo lì lui. Il medico sorrise tra sé; come al solito, persino nell'azzardo, Sherlock finiva sempre per avere in qualche modo più ragione degli altri. Detestava quel lato di lui. 

Adorava quel lato di lui.

Questo era ciò che lo rendeva un centro di gravità nella sua vita.

“Allora, sei disposto alla caduta?” chiese Sherlock, tronfio che i segni fossero dalla sua parte.

“Solo se tu cadi con me” si arrese John, andando alla sua destra.

“John...”

L'aveva chiamato con un tono inaspettato, anche se non lo stava guardando. Rivolgeva ancora gli occhi al panorama della vecchia Londra sotto di loro, familiare e sconosciuto fino a provocare le vertigini. John si voltò verso di lui in attesa, aspettando che dicesse qualcos'altro. Alla fine Sherlock si decise: “Ti sbagli se credi che io non capisca. So esattamente come si sente Holmes.”

John trasalì, il battito che si faceva doloroso, non potendo credere che in qualche modo Sherlock avesse udito la sua ultima conversazione. Solo ora quest'ultimo rivolse l'azzurro sguardo onesto verso l'amico e continuò molto serio: “Un giorno tu ti stancherai di questa vita, ti sposerai, farai un numero vergognoso di figli e di nipoti. Io invece sarò sempre io, così come mi conosci adesso. Tu mi ripeti tante volte quali sono i miei difetti, però rimani con me, mi ascolti, mi fai dono della tua fiducia a priori. Credi in me, sei l'unico. E io mi sto abituando. Quando quest'abitudine mi verrà a mancare, io...”

Quella frase si spezzò, nemmeno Sherlock con la sua stoica sincerità seppe come terminarla di primo acchito. John lo fissava, senza parole. Alla fine il consulente investigativo distolse di nuovo lo sguardo da lui, riprendendo a fissarlo avanti con accettazione: “Quel giorno, io sarò spacciato, uguale a come si sente adesso Holmes.”

John osservò il vuoto sotto di sé. Non gli faceva paura, sentiva lo stomaco tanto leggero che era certo sarebbe rimasto sospeso nell'aria una volta che si fosse buttato.

“Andiamo?” chiese il medico con un sorriso, per dissipare quella tensione a cui il suo amico si era spontaneamente assoggettato. Possedeva abbastanza tatto per non costringerlo a stare in quel ruolo a lui poco congeniale ancora a lungo.

“Andiamo” assentì Sherlock, apprezzando il gesto dietro quella domanda.

Nello stesso momento, si lasciarono cadere. Tutto divenne bianco e il salto durò poco, quasi si trattasse solo di pochi metri. Poi a John parve di passare drasticamente all'incoscienza di sé.

 

Si risvegliò al buio nella sua camera con ancora addosso la sensazione di cadere. Sentì la propria fronte imperlata di sudore e ci volle quasi un minuto per ripetere a se stesso che era a casa e si era trattato solo un sogno. Moriarty, la mela. La caduta. Soprattutto, gli altri due Holmes e Watson.

Rise tra sé, scioccato di aver potuto credere a quel mondo assurdo senza alcuna logica e di avere d'altro canto avuto abbastanza fantasia da immaginare una Londra tanto tangibile, antica, materiale. Di uno strano color seppia, tra l'altro.

A poco a poco il sogno sembrava sfuggirgli dalla memoria, come accade in questi casi, però delle sensazioni restavano ben vivide: il ricordo dell'altro Watson, tanto gentile eppure con quello sguardo costantemente triste e senza speranza, era tra i più accesi.

Trasalì nell'udire lo scricchiolio della porta della camera che si apriva. Vide che fuori la luce era accesa, ritagliando la sagoma in pigiama di Sherlock. Seduto sul letto, John tremò, non aspettandosi quell'apparizione.

“Sherlock! Che ci fai qui?” gli chiese. Lui non l'aveva mai visitato di notte.

“Ho fatto uno strano sogno in cui c'eri anche tu. Sembrava tutto vero” disse l'uomo con la voce ancora un po' impastata. Contrariamente al solito, John notò in lui un'aria vulnerabile, come quella di un bimbo che ha fatto un incubo e viene a chiedere conforto alla mamma. Provò un'indicibile tenerezza.

“Anch'io ho fatto un sogno strano, c'era un altro Sherlock Holmes e pure un altro Watson, completamente diversi da noi, e noi parlavamo con loro...” disse John, tanto per riempire il silenzio mentre Sherlock restava sulla soglia.

Quest'ultimo trasalì, spalancando gli occhi di fronte a quelle parole. Poi, invece di dire altro, preferì: “Posso dormire da te stanotte?”

John stentò a credere di aver capito bene.

“Fa nulla” sbottò Sherlock orgoglioso e fece per andarsene.

“No, no, ok, dormi pure qui!” virò John emozionato e frettoloso, spostando la coperta in imbarazzo. Sherlock si voltò, circospetto come un animale selvatico che si avvicina al cibo offerto dall'uomo. A piccoli passi fu accanto al letto e vi si sedette, inoltrandosi sotto le coperte.

“Anche tu hai sognato di cadere, vero?” domandò serio a John, dandogli per ora le spalle.

“Sì” rispose lui col cuore in tachicardia.

“Mmh...” borbottò Sherlock, tenendo gli occhi aperti: “Tu non sei una persona molto intuitiva, perciò te lo dico in modo chiaro. Mi piacerebbe dormire qui anche altre volte, d'ora in poi.”

John arrossì e non rispose niente, comprendendo che quella notte in realtà avrebbero finito per dormire poco.

 

“Allora... Se non c'è più niente da aggiungere, io tornerei a casa. Mary si starà preoccupando, tanto per cambiare” disse teso Watson dopo aver finito di mettere un po' d'ordine alla bell'è meglio nell'appartamento di Holmes, sotto lo sguardo grato del povero Gladstone, che ormai mostrava da tempo al suo vecchio padrone l'espressione bisognosa d'aiuto di un ostaggio.

Holmes stava fissando la notte fuori dalla finestra, pensoso, in uno di quei momenti tipici di riflessione ombrosa che raramente Watson era capace di scalfire. Come se non avesse sentito niente di ciò che aveva detto, l'investigatore esordì: “Quando il loro Moriarty è venuto da me, io non sapevo che si trattasse di una persona malvagia...”

“Come dice?” chiese Watson rimanendo fermo di botto.

“Quell'essere è molto bravo a recitare... Darà loro filo da torcere” continuò Holmes per la sua strada: “Ma mi ha assicurato che non avrebbe fatto loro del male. Sono arrivati a casa sani e salvi, per lui era solo un divertimento. Come il gatto col topo. Tuttavia non sarà sempre altrettanto indulgente con loro.”

“Si può sapere di cosa sta parlando?” lo interruppe il dottore senza più capirci alcunché.

Finalmente Holmes si voltò verso il suo vecchio socio: “Un uomo del loro secolo, il professor Moriarty, è venuto da me anticipandomi che un altro Holmes e un altro Watson sarebbero arrivati dal futuro. Desiderava far loro uno scherzo, mostrando che potevano esistere mille altri universi alternativi dove le cose non vanno poi così diversamente.”

“E cosa gli ha domandato di fare?” disse Watson cauto.

“Voleva semplicemente che mi curassi di loro e li conducessi verso la giusta strada di ritorno, null'altro. Per quanto fosse senza senso, alla fine quello Sherlock è riuscito ad arrivarci da solo. Non è poi così male.”

“E che le ha offerto in cambio?” domandò ancora l'amico.

Stavolta, incerto se rispondere, Holmes finì per restare in un silenzio colpevole.

“Mi dica che cosa le ha offerto in cambio!” ribadì alzando la voce Watson: “Lo sa che quei due ragazzi, per causa sua, avrebbero potuto finire molto male?”

“Ma non è successo” rispose lui con finta leggerezza, un sorriso abbozzato: “Comunque ormai non conta più. Lo vuole sapere davvero?”

“Sì” confermò Watson cupo in volto.

“Moriarty mi ha promesso che, in cambio, avrei potuto vedere una realtà in cui Holmes e Watson non dovevano separarsi per forza.”

A quel punto il dottore impallidì e perse finalmente la parola. Una reazione che l'amico, sorridendo, si aspettava.

“L'altro Watson... E' così un bravo ragazzo, non trova? E sicuramente quell'Holmes è più assennato di me. Forse loro avranno fortuna.”

“La smetta” lo pregò Watson, ora a voce bassa e tremante.

“Me l'ha chiesto lei” ricordò asciutto Holmes, che aveva semplicemente offerto la verità su un vassoio.

“Lei non mi perdonerà mai, vero?” domandò Watson colpevole: “Non fa altro che usare ogni suo mezzo – e i suoi mezzi sono tanti, infiniti – al fine di rimanere sempre al centro della mia attenzione...”

“Oh, sì” ammise Holmes, tranquillo: “Ma sul fatto che non la perdonerò si sbaglia. Io l'ho già perdonata... come disse un tempo qualcuno molto migliore di me” ridacchiò.

“E lei ha sempre successo nell'attirare la mia attenzione, anche se non potrei più permettermelo...” riconobbe Watson mortificato. Improvvisamente si sentì vecchio, senza più la forza di lottare.

“Watson, se vuole davvero indietro la sua vita, io la lascio andare. Anche immediatamente” dichiarò Holmes per la prima volta da che si conoscevano. Indicò la porta con gli occhi, eloquente: “Prometto di non trattenerla più.”

“Lei non capisce...” disse dopo una pausa atterrita il dottore, con un filo di voce. Più addolcito, ripeté: “Lei non ha mai capito. Senza Holmes Watson non esiste. Il me stesso del futuro lo sapeva bene” ricordò: “Al contrario, senza Watson, Holmes continuerà sempre a esse straordinario.”

L'investigatore sorrise dolcemente, riponendo i sentimenti che da tanto tempo lo attanagliavano deciso a non investire più quel carico sulle spalle di Watson. Con semplicità, ricordò: “Si sbaglia di nuovo. E' o non è sempre Watson a raccontare la storia di Holmes? Non si può scindere il nome dell'uno da quello dell'altro. Non credo che nessun Holmes lo vorrebbe.”

L'altro annuì, stavolta pieno d'accettazione. Si guardò intorno, osservando a lume di candela l'ambiente angusto e che pure gli era familiare come poche altre cose. In un momento di gaudente debolezza, si strinse nelle spalle: “Ormai è tardi. Che cosa ne dice se, per stanotte, rimanessi qui? Come ai vecchi tempi...”

Il volto di Holmes si illuminò speranzoso, troppo per aggiungere altro senza temere che una parola mutasse quest'ultima risoluzione. Si limitò a tornare a guardare attraverso la finestra e dire: “Faccia portare del tè, allora.”

Watson acconsentì, con un sorriso masochista; c'erano ricaduti ancora una volta, nella dipendenza. Andava bene così. Anche nell'altro mondo, aveva scoperto il dottore, le cose non sembravano diverse. Forse era come una condanna, o semplicemente era il loro destino. Pensò a John e Sherlock e sperò che potessero essere felici.

 

*

 

Nel frattempo, in un terzo universo, quello originariamente creato da Conan Doyle...

“Pare che per qualche ragione siamo tornati di moda, Watson.”

Allibito da ciò che avevo visto, risposi a Holmes: “Quei quattro individui dovremmo essere noi?”

Sdraiato supino sul divano col braccio sugli occhi per ripararsi dalla luce, il mio amico esalò: “Si lamenta? Io dovrei essere secondo loro uno sbarbatello arrogante alto due metri oppure, in alternativa, uno yankee americano privo di educazione...”

“E quelle... ehm... strane vibrazioni che si ostinano a vedere tra di noi...”

“Arthur ne sarà distrutto.”

“Dovremmo forse, non so, lamentarci di tutto questo?” chiesi a Holmes: “Una volta erano i casi di crimini e la sua genialità nel risolverli il centro delle nostre storie, mentre adesso...”

“No, lasci perdere” mi consiglia lui rassegnato: “Mi dia solo un'altra dose di cocaina.”

“Forse dovrei cominciare anch'io a farne uso” commentai io, scuotendo la testa tuttora sbigottito. Non credo che mi abituerò mai ai nostri lettori del nuovo millennio.

Alle lettrici poi meno che mai.


 

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