Note: partecipo
anche io alla Klaine Week! Che ho scoperto esistere poco prima della
mezzanotte di lunedì... In due ore e qualcosa ho fatto il
possibile, è un po' insulsa, ma volevo contribuire.
Il titolo è preso dall'omonima canzone dei Beatles. Buona
settimana a tutti!
Capitolo 1. Klaine as babies
Quando suo padre gli aveva detto un paio di giorni prima che quel
sabato sarebbero andati al matrimonio di una cugina di sua madre, Kurt
non ne era stato entusiasta. Non ricordava nemmeno il nome di questa
sua zia, non gli piaceva la campagna, e soprattutto l’idea di
tanti altri bambini con cui giocare, secondo quanto detto dai suoi
genitori, in verità non lo allettava per nulla. Ma
all’ennesimo tentativo di fuga, e all’ennesimo no, Kurt, non puoi rimanere a
casa da solo perché hai solo sette anni,
cedette. Non che avesse molte alternative, suo padre in fondo era
così alto e così forte che niente lo avrebbe mai
buttato giù.
E
così quella mattina si ritrovò sul sedile
posteriore dell’auto con indosso una camicia azzurra e
un’espressione corrucciata, mentre guardava scorrere
velocemente la strada fuori dal finestrino. Era più che
convinto che la sua camera fosse un posto confortevole e adatto a
passare le giornate, mentre vedeva qualche cartone animato, spolverava
il suo mini servizio da tè e dipingeva con lo smalto di sua
madre le macchinine che suo padre gli aveva regalato
all’ultimo compleanno. E invece era lì, in
quell’inferno verde, ed era esattamente come se lo era
immaginato, se non peggio: troppo caldo, troppi insetti e soprattutto
troppi bambini.
Sospirò,
stringendosi di più alla mano di sua madre –
finché la teneva nessuno poteva fargli niente, no? Quindi
non l’avrebbe lasciata mai.
“Kurt,
vuoi andare a giocare?” gli chiese dolcemente lei,
accarezzandolo sui capelli.
“No.
Sto bene qui con te”.
“Kurt…”
tentò suo padre, passandosi una mano sul viso.
“Puoi almeno provarci?” Ma bastò
un’occhiata della moglie per farlo desistere. Burt si sedette
su una sedia, passandosi due dita sotto al colletto della camicia.
“Puoi
rimanere seduto qui, noi andiamo laggiù a portare i nostri
regali. Kurt, non ti muovere” concesse lei.
Il
bambino annuì convinto, guardando poi i suoi genitori
allontanarsi tra un “Posso levare la cravatta,
ora?” e un “Pensi sia semplice camminare con un
tacco 10 sull’erba? E no, Burt, non sei calvo, la gente non
ti sta guardando per questo”. Stette lì, immobile
su quella sedia, per diversi minuti, o almeno fino a quando non decise
che dondolare le gambe nel vuoto non era poi così divertente
dopo le prime cinquanta volte; forse poteva almeno guardarsi
attorno… Fu così che notò un movimento
sospetto sotto il tavolo affianco al suo. La lunga tovaglia bianca
arrivava fino a terra, ma c’era decisamente qualcosa che si
agitava al di sotto di essa. Forse un gattino, come quello che la loro
vicina di casa gli lasciava accarezzare quando era triste.
Senza
pensarci più di tanto si alzò e si
avvicinò al tavolo, alzando il tessuto e sbirciando al suo
interno con un enorme sorriso stampato sulle labbra.
Enorme
sorriso che scomparve appena vide che non c’era alcun
gattino, ma solo… “Un bambino”
sussurrò sconsolato. E uno nemmeno tanto carino, per la
cronaca.
“Ehi!”
gridò quello spaventato, voltandosi verso di lui e sbattendo
la testa contro il tavolo.
“Ti
sei fatto male?” chiese Kurt, preoccupato.
“Entra,
sbrigati!”
“Come,
scusa?”
“Vieni
qui!” e senza troppi scrupoli gli prese la mano e lo
trascinò sotto al tavolo, riposizionando bene la tovaglia a
terra.
Kurt
si guardò attorno spaesato, per quanto quel metro quadrato
glielo permettesse, e si focalizzò poi sull’altro
bambino. Camicia rossa a quadri, strani capelli ricci, due occhi
nocciola che lo fissavano con un’intensità quasi
minacciosa. “Ehm… Perché sei qui sotto?
Ti sei perso? Mia mamma dice che-”
“Come
mi hai trovato?”
“Beh.
Ero seduto qui accanto e a un certo punto ho visto agitarsi qualcosa da
questa parte, così ho pensato che-”
“Lavori
per loro, vero?”
“Cosa?”
“Lo
sapevo!”
“Io
non so di cosa tu stia-”
“Adesso
sei il mio ostaggio!”
“Mi
lasci almeno finire di parlare?” sbottò Kurt,
leggermente sopra le righe, ma riuscendo a far chiudere la bocca a quel
ragazzino esuberante, che sembrò colto alla sprovvista.
“Volevo solo vedere se c’era un gattino qui sotto,
non voglio stare con te e non lavoro per nessuno. Il mio
papà dice che quelle sono cose da grandi”
spiegò, sistemandosi distrattamente un ciuffo sulla fronte.
L’altro
lo squadrò incerto, ma poi sorrise. “Okay, ti
credo. Wes e David staranno ancora tentando di trovarmi,
dopotutto”.
“Chi?”
“Nessuno
ci era mai riuscito prima d’ora, sono il migliore in questo
gioco!” si vantò. “Da ora in poi quindi
noi due siamo migliori amici” evidenziò,
sorridendo ampiamente.
“E
perché mai?”
“Beh,
perché mi hai trovato” rispose convinto.
“E perché sei carino come una bambina, e mi piace
tenerti per mano” concluse, stringendo leggermente le dita
dell’altro che ancora teneva saldamente nel proprio palmo.
Kurt
si ritrovò ad arrossire appena, prima di corrucciare la
fronte. “Le bambine non sono carine”.
“Certo
che lo sono!” s’impuntò quello.
“Lo dice anche mio padre!”
“Le
bambine non sono carine” ripeté Kurt, ponderando
bene le sue parole. “Le bambine sono…
pulite”.
L’altro
sembrò pensarci su per qualche secondo, aggrottando le
sopracciglia e fissando un punto imprecisato del tavolo sopra la sua
testa. “Mi sa che hai ragione”.
Kurt
annuì compiaciuto, per poi ricordarsi di una cosa.
“Ma perché stai qui sotto? Non ti piacciono gli
altri bambini? Nemmeno a me!”
“Oh,
no” disse quello. “Stiamo giocando”
spiegò, “è divertente! Ti va di giocare
con me? Sono il migliore in assoluto!” si vantò,
sfoggiando un sorriso enorme.
“E
come funziona?”
“Devi
nasconderti in un posto e stare immobile finché quelli della
squadra avversaria non ti trovano, e poi correre velocemente fino
all’auto di Thad, che è la nostra base e i suoi
genitori sono troppo lontani per accorgersene, o almeno così
ha detto”.
Kurt
piegò la testa da un lato, pensieroso. “E
dov’è il divertimento? Sembra faticoso”.
“Oh”
il viso dell’altro sembrò intristirsi
improvvisamente, e Kurt si ritrovò a pensare che preferiva
di gran lunga il suo sorriso. “Beh, se non ti piace possiamo
giocare ad altro, tanto io sono il capo!”
“Il
capo?” chiese incredulo.
“Certo.
Perché sono il più alto” si
vantò, battendosi una mano sul petto.
Kurt
si ritrovò a sorridere senza nemmeno sapere bene
perché, decidendo che quel bambino forse era meglio di
qualsiasi gattino che avrebbe potuto accarezzare.
“D’accordo” acconsentì, ma la
luce del sole li colpì entrambi all’improvviso e
fece loro chiudere gli occhi.
“Kurt!”
si sentì chiamare. “Ti avevo detto di non
allontanarti”.
Kurt
si sentì immediatamente colpevole sotto il tono accusatorio
di sua madre, ed uscì lentamente da sotto al tavolo.
“E
questo chi è?” sentì suo padre dire,
probabilmente rivolgendosi al bambino che era ancora attaccato alla sua
mano.
“Ehm…
lui è…”
“Signora
mamma e signor papà di… ehm, Kurt, mi chiamo
Blaine Anderson, i miei genitori hanno quella macchina nera
laggiù, un giorno sarò alto come mio fratello, ma
più gentile, e sono il migliore amico di Kurt” si
presentò, con un sorriso raggiante.
“Oh,
molto piacere, Blaine” rispose la madre di Kurt, sorridendo e
passandogli una mano tra i ricci.
“Quello
è l’ultimo modello uscito di una BMW?”
“Burt”.
“E’
importata direttamente dall’Europa!”
“Burt!”
“Okay”
capitolò, tornando a guardare suo figlio, per poi
corrucciare la fronte. “Perché lo tieni per
mano?”
“Perché
è il mio migliore amico, signore”
spiegò Blaine con fare sicuro, mentre Kurt arrossiva.
“E,
Kurt, vuoi andare a giocare con lui?” propose sua madre.
Quello
annuì piano, mentre l’altro bambino gli sorrideva
e lo trascinava via.
“State
dove posso vedervi!” urlò Burt, un po’
burbero, mentre i due correvano verso un albero poco lontano, dove
altri bambini si stavano radunando.
L’ultima
cosa che Kurt vide fu sia madre che rideva mentre suo padre incrociava
le braccia al petto. Non sapeva bene se era nei guai o no, ma era certo
che non doveva preoccuparsene. La sua mamma riusciva sempre ad averla
vinta.
*
“Kurt!”
“Mh?”
“La
tua mamma è proprio bellissima”.
Kurt
sorrise, sdraiato sull’erba dietro al muretto dove si
trovavano. “Lo so, è la mamma più bella
del mondo”.
Blaine
annuì pensieroso, sdraiandosi accanto a lui e tenendogli
ancora la mano. “Ha il tuo stesso colore di occhi. Non ho mai
visto un colore così” disse, avvicinandosi un
po’ al suo viso.
“Non
è niente di particolare” ammise l’altro,
scrollando una spalla. A
me invece piace il tuo, pensò.
“Tu
le somigli tanto” gli disse subito dopo, sorridendo.
“Oh”
arrossì. È
bellissima, gli aveva detto. “Grazie”.
Blaine
si limitò a stringergli di più la mano, e poi si
ritrovarono a guardare gli alberi sopra le loro teste che si muovevano
piano con il vento della tarda mattinata.
Non
seppero quanto tempo passò, ma quel silenzio e quel calore
erano le cose più piacevoli che avevano mai provato.
“Blaine?”
chiese Kurt dopo poco.
“Mh?”
“Pensi
che ci troveranno mai qui?”
“…
No”.
“Si
sta bene”.
“Sì.”
“…
Ho un po’ fame”.
“Anche
io!”
È
sempre dalle piccole cose che si capisce la nascita di una grande
amicizia, in fondo.
“Ti
do la metà del mio dolce se mi riporti dai miei
genitori”.
“E
mi fai provare il tuo papillon?”
“Solo
per cinque minuti”.
“Affare
fatto!”
O
di qualcosa di più.
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