È sempre lei.
Impossibile non ricordarla. Quindici giorni fa
camminava irrequieta avanti e indietro lungo la banchina che
costeggiava il
binario sei, sussultando ogni volta che quel gracchiante altoparlante
emetteva
un suono. Ed era chiara e sconcertante l’espressione di
delusione all’annuncio
di un treno diverso da quello che attendeva.
Uno squillo. Un messaggio. Un
sorriso in grado di illuminare
anche una triste e grigia mattinata di Dicembre come quella. Una di
quelle
mattine in cui il freddo ti entra nelle ossa rendendo difficile
qualsiasi
movimento. Eppure
lei sembrava quasi
accaldata mentre, con dita tremanti, componeva una breve risposta. Gli
occhi
proiettati in avanti, lo sguardo che aveva già raggiunto il
punto lontano da
cui sarebbe comparso un anonimo treno. Anonimo per molti ma non per lei.
Un rapido sguardo attraverso uno specchietto a
forma di
farfalla, due buffetti sulle guance ad accentuare un rossore
già presente, per
il freddo, per l’attesa.
E poi finalmente…
Mentre l’ammasso di ferraglia, arrugginito e ricoperto da
variopinti schizzi di colore di qualche ragazzino annoiato, faceva il
suo
ingresso in stazione e la gente si affannava per raggiungere, carica di
bagagli, il punto in cui sarebbe dovuta salire per intraprendere un
viaggio che
sarebbe stato molto più breve di quello degli altri
occupanti del treno, lei
era ferma. Immobile e sorridente.
Piccole nuvolette bianche si condensavano davanti alle sue
labbra naturalmente rosse, il respiro era visibilmente affrettato e mi
ritrovai, di riflesso, a respirare affannosamente anche io.
Lo stridio dei freni sulle rotaie sembrava una dolce
melodia, dal modo in cui i suoi occhi si socchiudevano, come per
assaporarla
meglio.
Una delle porte si era fermata proprio davanti a lei che aveva
piegato di lato testa per scorgere il suo viso attraverso il vetro ricoperto da uno spesso
strato di polvere e
grasso.
Finalmente insieme ma ancora lontani, separati solo
fisicamente da quel treno che li aveva riuniti. Non potevo vederlo con
chiarezza ma, lo sapevo, si stavano
già abbracciando con gli occhi.
Era sceso per primo, con calma, senza staccare lo sguardo da
lei, che se ne stava ancora ferma, immobile, come se raggiungerlo e
toccarlo lo
avesse fatto dissolvere. Si era girato un attimo indietro, ad aiutare
un’anziana
signora con un pesante bagaglio, in un gesto talmente naturale che
sembrava
fosse solito compiere, e la donna non finiva di ringraziarlo,
benedicendolo ed
augurandogli ogni bene. Tipico di una vecchietta del sud. Lui sorrideva
un po’
imbarazzato e un po’ impaziente di poter raggiungere lei,
alla quale lanciava
eloquenti sguardi e promettenti sorrisi.
Girarmi fu spontaneo. Non volevo invadere il loro spazio,
non volevo intromettermi in quell’attimo che doveva essere
solo loro.
Mi ero rigirata dopo poco, fallendo miseramente nel mio
intento.
Li avevo ritrovati abbracciati, finalmente. Il viso di lui
affondato nella piega del collo di lei, le mani di lei a circondare il
capo di
lui. Immobili insieme, con i soli cuori che battevano
all’unisono. Potevo sentirli.
Sapevo bene com’era quel suono. E sapevo bene anche cosa
voleva dire
quell’abbraccio. Era un attimo che serviva per cercare di
contenere la voglia
l’una dell’altro, quella voglia di ignorare cose,
persone e luoghi.
Era stata lei a staccarsi per prima, per guardarlo meglio in
viso, per riscoprire quei tratti che amava: gli occhi, il naso
perfetto, le
labbra morbide, quella piccola cicatrice che gli adornava la fronte,
probabile
ricordo del suo essere un bambino vivace.
Ma era stato lui che si era avventato sulla bocca di lei,
premendole addosso fino a piegarla, piccola e arrendevole. Le mani che
scendevano sulle braccia, infastidite dai pesanti vestiti, il palmo che
premeva
sulla sua schiena per avvicinarla ancora di più.
Quell’impercettibile e tutt’altro che involontario
strofinio
dei lombi, volto a calmare bollori alimentati da giorni, settimane,
mesi di
astinenza, o semplicemente ad alimentarli in modo che sarebbero esplosi
una
volta arrivati a casa, senza nemmeno perdere tempo a raggiungere il
letto o
anche il divano, una sedia, il tavolo. Bollori che li avrebbero
incendiati lì,
poggiati al muro, con i vestiti addosso e l’urgenza nel
cuore. Urgenza di
amarsi, di prendersi, di imprimersi l’uno sulla pelle
dell’altra.
Questo e tanto altro era così evidente dai loro volti, dai
sorrisi che si scambiavano mentre, mano nella mano, lasciavano la
stazione.
Mi aveva fatto male vederli, allora. Mi fa più male. Adesso.
Il viso della ragazza non è colorito, sembra pallido e
segnato. Probabilmente da una notte d’amore e di pensieri e
di promesse
sussurrate con il dolore dell’addio. Il modo in cui getta
sguardi al punto da
cui, a minuti, comparirà il treno, non è carico
di aspettativa e di impazienza,
ma di ansia e angoscia.
Lui è silenzioso, la guarda appena, fa finta di controllare
i bagagli, il biglietto, di non aver dimenticato nulla. In
realtà l’unica cosa
che ha dimenticato è come fare a lasciarla, come fare a
dirle un
arrivederci che non
sa quando li rivedrà
di nuovo insieme.
Mentre il treno fa il suo ingresso in stazione, già colmo di
addii pronunciati, di promesse sussurrate, di separazioni dolorose, lui
l’abbraccia.
Il movimento è rapido, disperato ed io non riesco a
trattenere una lacrima, che
scende piano, facendomi sentire distintamente il bruciore che provoca
sulla
pelle fredda del viso.
Le sue, invece, scendono velocemente, amare e salate. Lui le
asciuga le guance con i pollici e le sussurra un “ti
amo” spezzato a metà da un
leggero bacio sulla bocca.
I passeggeri si affrettano a salire, si passano bagagli e si
affannano ad occupare il proprio posto.
Lui sembra quasi volerlo perdere quel treno e rimanere con
lei, a baciarla, a fare l’amore in quel modo tutto loro di
farlo. Come se ogni
volta fosse la prima…come se ogni volta fosse
l’ultima.
Ma mentre il capotreno comincia a fischiare, i due si
separano. Lui sale e si gira giusto in tempo per mimarglielo di nuovo
con le
labbra, mentre la porta si chiude. In quel momento, quando lui non
può più
sentirla, le lacrime silenziose diventano rumorosi singhiozzi ed i
passi si
affrettano per seguire il movimento del treno che, ancora una volta, lo
porta
lontano da lei.
Nonostante le lacrime, lei gli sorride ed io lo sento, ciò
che vuole dirgli.
“Ti amo…non
preoccuparti, ce la farò ed appena sarà possibile
sarò di nuovo qui ad
aspettarti…sempre”.
Il treno abbandona il suo incedere lento e comincia la sua
spietata corsa.
Lei si ferma un attimo. Fruga nella borsa ed afferra il
cellulare, selezionando il numero e portandoselo all’orecchio.
Quando passa svelta davanti a me, riesco a sentire solo:
“Hey…”.
Mi chiedo se abbia già telefonato a lui, per sentirlo, per
chiedergli se si è sistemato, chi sono i compagni di
viaggio…come facevo io…
Quando anche lei va via, il binario rimane improvvisamente vuoto. Anche
oggi.
Prendo il mio telefono e scorro la lista dei messaggi…
“A domani…”
Lo rileggo come se potesse nascondere altro, come se potesse
rivelarmi qualcosa che non so, che non ho capito. Ma l’unica
cosa che so, che è
chiara, è che quel domani è stato
l’ultimo giorno che l’ho visto.
Mi alzo in piedi e mi guardo intorno come se ci fosse
qualche speranza.
Nessuno…
M’incammino verso il sottopassaggio, pensando solo al giorno
in cui non scenderò questi gradini da sola, al giorno in cui
lo vedrò scendere
di nuovo da quel treno.
E quel giorno io ci sarò.
Ci sarò sempre.