Flowers&Gunfire ~ Reprint Collection

di My Pride
(/viewuser.php?uid=39068)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #02. Coniglio ~ Try again, Roy ***
Capitolo 2: *** #06. Coccinella ~ Say goodbye to your driver license ***
Capitolo 3: *** #03. Pinguino ~ A buon intenditor... ***
Capitolo 4: *** #09. Cane ~ Peaceful Sunday ***
Capitolo 5: *** #01. Gatto ~ Quando si dice la curiosità ***
Capitolo 6: *** #10. Pulcino ~ Quel che non si impara dai libri ***
Capitolo 7: *** #07. Farfalla ~ Disguidi insensati del giorno dopo ***
Capitolo 8: *** #08. Pecora ~ Battute ambigue e cavalli imbarazzati ***
Capitolo 9: *** #04. Panda ~ Fever (or maybe bot) ***
Capitolo 10: *** #05. Tartaruga ~ It's the story of my life (Special) ***



Capitolo 1
*** #02. Coniglio ~ Try again, Roy ***


Try again, Roy Titolo: Try again, Roy
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 3150 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Cedric Berk, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali › 02. Coniglio
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff
Rating: Giallo / Arancione
Avvertimenti: 
Shounen ai ; What if?


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    Un piacevole dormiveglia si era impossessato di me, quella mattina.
    Ero adagiato fra i cuscini, con una voglia d’alzarmi pari allo zero. La sera addietro ero praticamente crollato addormentato fra le braccia del mio compagno, dopo un’estenuante lotta su chi avrebbe dovuto comandare quel gioco a cui avevamo dato poi vita. Alla fine ci eravamo ritrovati chi sopra chi sotto, cambiando anche i ruoli senza nemmeno accorgercene pienamente. E adesso ne pagavo le conseguenze. Ero stanco e assonnato, con in dosso nient’altro che me stesso e il lenzuolo a coprirmi mentre un leggero e piacevole venticello entrava dalla finestra socchiusa.
    Quasi inconsciamente andai a strofinarmi l’occhio cieco, lasciando poi ricadere la mano sul materasso con un piccolo sbuffo. Mi girai su un fianco, infischiandomene delle coperte che erano scivolate un po’ via, allungando un braccio per far vagare a tentoni la mano, alla ricerca della mia benda. Non trovandola lasciai perdere, aprendo di poco l’occhio destro. Vedevo tutto sfocato, come sempre. Sbadigliai sonoramente aspettando che la mia vista si abituasse, voltandomi frattanto nella direzione del mio compagno, con l’intenzione d’abbracciarlo. Peccato, però, che trovai solo il materasso. Sbuffai ancora, tornando a chiudere l’occhio con fare sconsolato. Avevo quasi sperato in una bella mattinata movimentata quanto la sera prima, e invece probabilmente si trovava già in cucina o in un altro punto di casa a fare chissà cosa. Anche di giovedì mattina, con tanto che avevamo tre o quattro giorni di ferie pagate, trovava sempre un pretesto per svignarsela. E il che era strano, visto che il primo pigrone era lui. Forse il tutto si poteva benissimo spiegare dalla presenza di due piccole pesti in casa.
    Lasciai perdere e abbandonai i miei pensieri, affondando il viso nel cuscino mentre mi stendevo a pancia in giù sul materasso, nascosto solo da un lembo del lenzuolo. Potevo permettermi altri cinque minuti, in fondo. Quasi fui colto da un’altra ondata di sonno che in un primo momento decisi di ignorare. Ma poi mi riaddormentai, e anche saporitamente. Mi accorsi di averlo fatto solo quando sentii un movimento ben poco silenzioso nella stanza che mi fece risvegliare ancora una volta. Alzai ancora assonnato e infastidito il viso, sentendo i capelli incollati alla fronte sul lato che avevo schiacciato contro il cuscino. In un primo momento pensai che fosse Edward e che stesse prendendo un qualche vestito dall’armadio, data l’altezza della figura. Ma quando la misi meglio a fuoco, notando poi l’avvicinarsi d’un’altra, mi trattenni dallo spalancare la bocca dallo stupore ed inveire contro di loro. Ormai era diventata un’abitudine per quel ragazzo stabilirsi a casa nostra. Come minimo, una settimana sì e una no. Non vedevo l’ora che si iscrivessero entrambi a quella benedetta Accademia Militare. In fondo mancava soltanto... un anno? Era una vita.
    «Che diavolo cercate nel mio armadio, voi due?» sbottai con voce ancora impastata dal sonno, vedendoli sussultare appena. Un sorriso spavaldo si disegnò, però, sulle labbra di uno dei due quando si voltarono in simultanea, ognuno con una camicia sottobraccio. Ora che li guardavo meglio, sembravano tutti in ghingheri. Forse un po’ troppo in ghingheri, per un semplice giovedì. E poi... da quando Jason era così alto? Lo ricordavo più basso. Sbattei la palpebra perplesso, vedendo l’altro idiota sorridere a sua volta.
    «Ben svegliato, Signor Mustang», mi salutò Cedric, ma sentii risuonare una nota quasi ironica e furba nel tono della sua voce. Quei due non me la raccontavano giusta. Ne stavano sicuramente architettando una delle loro di prima mattina.
    «‘Giorno, ‘Ka-san», fece a sua volta Jason, ridacchiando un po’.
    Aye, ne stavano pensando una delle loro. Cercai di pensare positivo - per quanto risultasse impossibile - mentre mi strofinavo ancora una volta l’occhio, tirandomi su il lenzuolo per coprirmi alla bell’e meglio mentre nascondevo anche la cicatrice con la frangetta, spostandomela un po’ su quel lato. Ancora non mi andava che si vedesse. Eravamo a fine agosto ormai ed era passato un bel po’ da quando era successo, però dovevo ancora farci meglio i conti. Già era tanto se toglievo la benda di notte. Decidendo di non pensarci oltre, li guardai, osservando il loro vestiario. Indossavano entrambi un pantalone per le grandi occasioni di colore nero, con tanto d’un paio di scarpe classiche del medesimo colore. Jason si era persino ravvivato i capelli all’indietro, fermandoli con del gel. Combinato a quel modo, ricordava vagamente me un paio d’anni prima. Beh... forse un po’ di più, d’un paio d’anni prima. «Allora, volete spiegarmi che cercate?» domandai nuovamente, attendendo una risposta. 
    Si guardarono fra loro, come a chiedere conferma negli occhi dell’altro. Poi scrollarono le spalle
in simultanea, e fu Jason a parlare. «Ci servivano due camicie», rispose semplicemente, come se quello spiegasse tutto. Invece non spiegava un bel niente. In primis, erano in camera nostra a scavare nel mio armadio. Come seconda cosa, invece, il resto della stanza non era poi così presentabile. E nemmeno io, bisognava aggiungere.  
    «Di camicie ne hai, Jaz», gli tenni presente in tono ironico, cercando con la coda dell’occhio i miei boxer e la mia benda, rimpiangendo però di non poter tenere quei due sotto controllo per far questo in tranquillità. Mi toccò difatti distogliere di poco lo sguardo, non trovando purtroppo ciò che cercavo. L’intimo probabilmente era stato raccattato da Ed e messo a lavare. Ma la benda non la trovavo da nessuna parte. Sentii quei due tossicchiare, e li vidi, quando mi voltai, richiudere l’armadio senza aver però posato le mie camicie. Le mie preferite, tra l’altro. Quelle che indossavo per le grandi occasioni. «Con quelle non andate da nessuna parte», feci, indicandole. 
    Le osservarono a loro volta, con espressioni sorprese. Strano, perché avrei dovuto esserlo io. «La prego, Signor Mustang, ci servono solo per questa volta», attaccò Cedric, assumendo quel cipiglio supplicante che era solito usare quel degenerato di mio figlio.
    Subito si aggiunse una seconda vocina, angelica come non mai.  «Dai, ‘Ka-san, vogliamo fare bella figura», rincarò la dose Jason, sbattendo le ciglia graziosamente. Quei due mi preoccupavano sempre di più. Bella figura con chi? 
    Incrociai le braccia al petto, squadrandoli, non prima di essermi ancora una volta sistemato le lenzuola sulle parti basse. Non mi andava di ritrovarmi di nuovo nudo davanti a quei due idioti. «Spiegatemi a che vi servono e forse ve le faccio indossare», misi a condizione.
Si guardarono ancora una volta, come se stessero valutando la mia proposta. Poi, sistemandosi meglio la camicia sottobraccio, Jason si grattò la testa, quasi pensoso. «Ieri sera abbiamo adocchiato due ragazze», cominciò. E solo da quelle parole già prevedevo guai. Tanti guai, avrei osato dire.  
    «Solo che sono due tipe fru fru, non so se ha presente», riprese per lui il discorso Cedric, facendo un eloquente gesto con la mano sinistra, roteando quindi il polso. Oh, eccome se avevo presente donne simili. Tutte snob e chic, buone per una scopata ma non per starci insieme a vita. Se eri ricco, riuscivi a mantenerle. Se avevi uno stipendio un po’ agiato, alla fine restavi a culo in aria. Ti spennavano e adieu.
    Scossi la testa e tornai sdraiato, liquidandoli con un gesto della mano. «Lasciatele stare due tipe così», li istruii, sbadigliando. «Meglio perderle che trovarle».
    «...disse l’uomo che ne frequenta un altro», ironizzò Jason, guadagnandoci da me un’occhiataccia quando alzai di poco il viso. Sebbene non vedesse nulla di strano nella relazione che avevamo io e Edward, non condivideva a pieno le nostre scelte e i nostri gusti, per metterla su quel piano. E forse non gli avrei dato torto, se fossi stato l’uomo di... beh, di quasi vent’anni prima.
    «Andate fuori, se non volete che vi abbrustolisca», li minacciai, riuscendo solo a farli ridere un po’. Non serviva più a niente usare quella tattica. Tanto sapevano che aprivo il fuoco solo in presenza di Maes.
    «Ah, Signor Mustang», mi richiamò la voce di Cedric, e a malapena li vidi che avevano rimesso a posto le mie camice e si erano diretti alla porta per andare ciondolando altrove. Probabilmente li avevo convinti a lasciar perdere. Però, stavolta, gli vidi reggere qualcosa di familiare. Quella non era la mia... «L’abbiamo trovata accanto alla porta», riprese, sventolando come se nulla fosse la benda prima di lanciarmela verso il letto. «Insieme a quelli». Indicò Jason, che indicava a sua volta qualcos’altro. E stavolta mi ritrovai ad arrossire violentemente. Non tanto per i boxer raggomitolati sul pavimento. Ma più per quello che era in bella mostra sopra di essi, abbandonato lì senza pudore. Io ancora mi domandavo come avessero fatto a finire laggiù, figurarsi.
    «E la prossima volta vi consiglio un luogo più appartato o di comprare per noi degli appositi tappi per le orecchie», continuò a sua volta Jason, stringendosi nelle spalle tranquillamente. «Sentivamo tutto identico e preciso».
    Se ero arrossito, adesso ero sicuro che il colore del mio viso tendesse al violaceo. Quei due grandissimi...! «Fuori di qui!» tuonai, ormai livido per la vergogna. Eseguirono sì il mio ordine, ma ridendo come due matti. Persino dal corridoio riuscivo ancora a sentirli. Non era poi una cosa così allettante, quella che ero appena venuto a sapere. Tra me e Edward, la sera addietro, gridolini e ansiti si erano sprecati. E ci eravamo dimenticati che la camera di Jason non distava poi tanto dalla nostra. Che razza di situazione...
    Sconsolato, mi infilai nuovamente la benda, scansando via la frangetta prima di liberarmi anche delle lenzuola e poggiare i piedi oltre il materasso. Scavai nel cassetto alla ricerca di un paio di boxer puliti, infilandomeli svelto. Una volta alla soglia, poi, rimasi lì impalato, indeciso se incamminarmi in corridoio solo con quelli indosso o meno. Gettai appena uno sguardo al groviglio che stava lì accumulato, storcendo un po’ il viso in una smorfia tutt’altro che contenta. Avrei dovuto pensarci la sera prima, o forse avrei dovuto pensarci adesso. Ma poi me ne infischiai, dirigendomi in cucina. E per mia fortuna, vi trovai solo Edward a trafficare con i fornelli. Aleggiava un buon profumo di caffè.
    Probabilmente avvertendo la mia presenza si girò, regalandomi uno di quei sorrisi strafottenti che tanto amavo. «Alla buon’ora», sghignazzò, prendendo due tazzine. «Pensavo dormissi tutto il giorno».
    Borbottai tra me e me senza dar peso alla sua nota ironica, avvicinandomi per togliergli la tazza ormai riempita dalle mani. «Quei due?» chiesi in risposta, sorseggiando piano il mio caffé dopo aver soffiato. Si poggiò contro il lavandino soffiando a sua volta, alzando il viso verso di me. 
    «Appena usciti», mi informò, bevendo anche lui un sorso. «Sembravano parecchio divertiti».
    «E ci credo», feci sarcastico, allontanando la tazza dalle labbra.
    «C’è il tuo zampino, per caso?» mi domandò velatamente divertito, sollevando appena un angolo della bocca in un sorriso derisorio. 
    «Il tuo, direi», quasi sbottai. «Hai dimenticato di gettare un palloncino».
    Inarcò finemente un sopracciglio, assumendo un’aria pensosa. Distolse poi lo sguardo altrove come se si stesse concentrando, accarezzandosi le labbra con la punta delle dita della mano libera mentre quella d’acciaio reggeva la tazza di caffè. Scoppiò a ridere d’un tratto, quasi rischiando di rovesciarselo addosso.
    «Guarda che io non ci trovo nulla da ridere...» borbottai ancora, come a volerglielo tenere presente. Ma ci guadagnai soltanto un’altra sonora risata e una bella pacca su una spalla. Così forte che quasi cadde anche a me il caffè, con il rischio d’un bagno fuori programma.
    «Ehi, io li gonfio e tu li butti no?» sghignazzò di rimando, cercando di finire di bere senza ridere. E fu un’impresa abbastanza ardua, visto che ogni volta che mi lanciava un’occhiata si ritrovava a dar vita ad un nuovo sbuffo d’ilarità. Decisi di non badargli oltre prendendo il pacco di biscotti dalla credenza, andando ad accomodarmi. Trovai solo quelli mezzi rotti che come suo solito Jason non mangiava. Era un vizio che gli era rimasto, quello. Voleva solo i biscotti sani, lui. Consumai la mia colazione in silenzio, seguendo solo di tanto in tanto con la coda dell’occhio i movimenti di Edward, affaccendato per la cucina mentre sghignazzava ancora un po’. E rideva anche quando cercava d’intavolare un discorso. Era davvero un caso perso. Sparì solo per poco andando in corridoio, comparendo con l’oggetto della sua ilarità subito dopo. Lo tenne ben in alto per farmelo osservare, facendomi poi una linguaccia prima di sbarazzarsene. Lo odiavo, quando faceva così.
    «Eliminata la prova del delitto, oh mio Generale», mi prese in giro, avvicinandosi al tavolo della cucina per farmi scansare un po’, in modo da potersi sedere a cavalcioni sulle mie gambe. E con il misero indumento che indossavo, non potevo nascondere nulla se fosse stato richiesto. Mugolai un po’ quando mi sfiorò i capezzoli con i pollici, pressando apposta quello d’acciaio per farmi penetrare a fondo il freddo nella pelle. Quel piccolo...
    Si chinò poi un po’ verso di me, alitandomi nell’orecchio. «Ti dirò la verità, quei cosi sono scomodi», sussurrò, ridacchiando un po’, spostandosi con lentezza estenuante verso il viso. «Preferisco non avere restrizioni». Mi sfiorò la cicatrice al fianco e baciò la benda, forse aspettando una mia reazione. E quest’ultima non tardò ad arrivare, lasciandomi sfuggire un piccolo mugolio. «Allora, Generale?» mi chiese, e non resistetti.
    Mi ritrovai ad alzarmi in piedi sentendo appena una piccola esclamazione sorpresa, chino poi su di lui disteso sul tavolo della cucina. Il pacco di biscotti era caduto a terra, e solo per miracolo non era successa la stessa cosa anche alla tazzina di caffè, in bilico.  «Se li trovi scomodi vorrà dire che ci daremo al sesso selvaggio», feci in risposta, ricevendo una piccola occhiataccia indispettita da quelle iridi dorate.
    Mi gettò però le braccia al collo, assumendo un’aria di superiorità. «Non esagerare, adesso», mi ammonì, in tono severo. «Non mi sono scordato dell’ultima volta».
Vacillai un po’, a quelle parole, quasi abbandonando la voglia, ma annuii piano. Quella era una cosa che era meglio non ripetere. «Aye scusami, parlavo a sproposito», mormorai, sentendo l’attimo di complicità sfumare. Ma lui riaccese la passione attirandomi a sé, consumando quel bacio insieme all’ossigeno. Mi poggiò un dito sulle labbra, scuotendo di poco la testa. 
    «Non aggiungere altro e datti da fare», liquidò la questione, tornando a cingermi il collo con le braccia per attirarmi ancora una volta verso di lui. Mentre le labbra lottavano mi sistemai meglio fra le sue gambe, che aveva ora aperto poggiando i piedi sul bordo del tavolo per sorreggere il proprio peso. Una mia mano vagò a sciogliergli l’alta coda, lasciando che i capelli si spargessero come tanti raggi dorati sulla superficie legnosa. Mugugnò il suo disappunto mentre mi spingevo di più verso di lui, in modo di avvicinare maggiormente le nostre intimità, una più vogliosa dell’altra. Un rivoletto di saliva gli colò all’angolo della bocca quando ci separammo, e quasi mi parve inarcare la schiena quando intensificai il contatto, sentendolo gemere.  Le sue mani artigliarono la mia schiena nuda, e la sinistra affondò le unghie.
    «Muoviti invece di farmi impazzire, brutto stronzo!» esclamò fuori di sé. Oh aye, ora sì che era pronto. Stavo quasi per ribattere che ecco due schiamazzi familiari sul pianerottolo, prima che si sentisse lo scatto della serratura e il loro vociare nel corridoio. Entrarono in cucina trovandoci così, eroticamente distesi su quel tavolo. Dapprima perplessi, alla fine spalancarono la bocca. Non tanto per come ci avevano trovati. Ma forse per altro. 
    «Ma che schifo, non anche in cucina!» esclamò difatti Jason, storcendo il viso in una smorfia. «Ma siete peggio dei conigli, voi due!»
    Proprio un bell'animale, aveva scelto. Quasi glielo avrei fatto notare, se non fossi stato impegnato -Come Edward, d’altronde- a darmi un’aria composta e sistemata una volta tornato nella giusta posizione. 
    «Ne ho viste di coppie con una passione inesauribile, ma voi le battete tutte», trovò il lusso di dire Cedric, anche lui forse un tantino sulle sue. «I miei complimenti».
    Non sapevo se fosse detto con sarcasmo o meno. O addirittura una presa in giro. Ma non volli indagare. «Filate a mettervi qualcosa per la casa», ribatté il mio compagno, visibilmente innervosito. «Non vi voglio a tavola con i vestiti che usate per uscire». Indicò la soglia con il dito d’acciaio, imponendogli di muoversi. Stranamente non se lo fecero ripetere, sparendo di gran carriera in corridoio. Si notava parecchio che era incazzato, allora. Le sue iridi dorate si appuntarono su di me, prima che traesse un sospiro. «Beh, meglio adesso che dopo», ironizzò, dirigendosi nuovamente ai fornelli. «Pensa invece se fossero arrivati mentre eri già andato in buca».
    In realtà non ci volevo assolutamente pensare. Non era poi il massimo farsi beccare da quei due con la tipica espressione del piacere in volto. «Prima o poi cambierò le serrature», feci in risposta, promettendolo più a me stesso che a lui.
    Gli scappò una risatina mentre riempiva la pentola d’acqua. «E’ cresciuto scassinatore grazie a te, credo servirà a poco», volle screditarmi, mettendola poi sul fuoco. «Ma come si dice, meglio prevenire che curare».
    «Lui è un male incurabile», feci sarcastico, facendolo ridere ancora un po’. Lo aiutai a cucinare infischiandomene se fossi solo in mutande, sentendo vagamente le chiacchiere di Jason e Cedric provenire dal salotto dove probabilmente si erano rifugiati per confabulare tra loro come al solito. Quando fu pronto li chiamammo, e ci misero un po’ per accomodarsi. Restii dal farlo, probabilmente, dopo la scena che avevano visto. Però mangiammo in tranquillità, anche se poi dovemmo subirci ancora una volta le loro battute sui conigli e sulla loro riproduzione. Ci toccava, secondo loro. E lasciai correre anche per tutto il resto della giornata, avendo pace solo la sera. Quelle due pesti ci avevano dato un taglio, finalmente.
    Mi stavo adesso apprestando a prendere dei vestiti per farmi una doccia rinfrescante, ma quando entrai in bagno lo trovai già occupato. A quanto sembrava Edward mi aveva preceduto, però sorrisi con soddisfazione. Potevo rifarmi, magari. «Ed?» lo chiamai non curante, non ottenendo risposta. Già stava cominciando a stuzzicarmi, bene. La cosa si prospettava parecchio interessante.
    Mi avviai quindi tranquillo al lavandino cominciando a togliermi la benda, guardando appena dallo specchio la tenda della doccia. Sorrisi ancora un po’, concentrandomi poi sul mio occhio. «Che ne diresti di riprendere quel nostro discorsetto interrotto?» continuai, tamponandomi un po’ le cicatrici al viso con dell’acqua calda per ammorbidirle. Anche quest’operazione era meglio eseguirla prima d’ogni cosa. «Però stasera comando io», imposi subito, liberandomi della canotta che avevo indossato durante il pomeriggio. Edward ormai era diventato bravissimo, nulla da dire. Ma seguire i suoi ritmi, spesso, era davvero estenuante.  «E invece del solito missionario potremmo provare altro.» continuai distrattamente, pronto a liberarmi anche dei boxer per seguirlo sotto la doccia e cominciare lì i preliminari. Ma mi bloccai quando lo vidi sulla soglia del bagno, a sbattere perplesso le palpebre.
    «Con chi parlavi?» mi chiese, stranito. E io lo ero più di lui. Guardai la tenda della doccia, dietro la quale l’acqua era ancora aperta. Se Edward era davanti a me... chi c’era lì sotto?
    Nemmeno il tempo di dirlo che la capoccia in questione sbucò dal tendaggio della doccia, con le guance un po’ arrossate ma tranquillo. E quando vidi il volto di Cedric spalancai la bocca per lo stupore. Ancor più quando, ironico, disse, «Sono lusingato, Signor Mustang, ma io ho altre tendenze»
.






_Note inconcludenti dell'autrice
Erano secoli che non postavo qualcosa in questa sezione che comprendesse la coppia Roy/Ed
Questa storia in verità è un bel po' vecchiotta, solo che l'ho trovata ripulendo il pc - cosa non si trova su questo ridicolo pezzo di plastica e circuiti! - e, spinta da un'insana nostalgia provocatami anche a causa delle role con la nipotola, ho deciso di cogliere la palla al balzo e di postare questa vecchissima storia.
Si può benissimo notare, infatti, la presenza di una o due personcine che i vecchi lettori - sappiate che vi mando un saluto grande come il mondo - hanno imparato a conoscere bene negli scorsi anni. Sto parlando di Jason e Ced, i quali mi mancavano un casino, lo ammetto. Anzi, mi mancava tremendamente il fandom, e non mi ero resa conto di quanto potesse mancarmi fino a questo momento.
Ecco, sto anche cominciando a straparlare, si vede che sono piuttosto emozionata... comunque sia, questa raccolta sarà composta da dieci piccoli capitoli, e spero tantissimo che l'amore per il Roy/Ed vi spinga a seguirla.
Commenti e critiche sono ben accetti.
Alla prossima. ♥


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** #06. Coccinella ~ Say goodbye to your driver license ***


Say goodbye to your driver license Titolo: Say goodbye to your driver license
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 3409 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali › 06. Coccinella
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff
Rating: Giallo / Arancione
Avvertimenti: 
Shounen ai ; What if?


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    Più del solito, quel giorno, non avevo voglia di lavorare.
    Avevo provato ad impietosire Riza dicendole che avevo affaticato un po’ troppo l’occhio destro per tentare di scansarmi qualche scartoffia, ma ormai le rifilavo quella scusa da quasi quattro mesi. E, com’era naturale, non ci cascava più. Prima di congedarsi, infatti, mi aveva rivolto un falso sorriso rassicurante, posando nuove documentazioni sulla mia scrivania andandosene poi tranquilla, mormorando distrattamente - e quasi con una punta d’ironia, avrei osato aggiungere - un “Le faranno compagnia.” Odiavo quando faceva del sarcasmo a mie spese.
    Mi trovavo ancora in ufficio, adesso, a firmare controvoglia quei fogli. Sbadigliavo in continuazione, faticando a tenere l’occhio aperto. Stavo morendo di sonno. Avevo dormito su per giù quattro o cinque ore, e ora ne pagavo le conseguenze. Dopo un altro sbadiglio, mi grattai di sfuggita il mento, poggiandolo subito dopo sul bordo della scrivania con la stilografica abbandonata in una mano. Ero troppo stanco. Avrei lavorato in seguito. Quello che mi occorreva, in quel momento, era una bella dormita.
    Adocchiai il divano e non ci pensai due volte: mi sarei scaricato lì sopra. Nel momento stesso in cui mi alzai, però, la porta del mio ufficio fu gioiosamente spalancata, rivelando la figura dell’ultimo uomo che avrei voluto vedere quel giorno. Già ne bastava una, di rottura di coglioni. «Ehilà, Guercino!» mi salutò, accomodandosi sulla poltrona dinnanzi alla mia scrivania come se fosse stato invitato a farlo.
    Ci rimediò una mia occhiataccia, prima che raccattassi i fogli e riponessi al suo posto la penna. «Ti ho detto mille volte di piantarla di chiamarmi così», lo ammonii, giusto per far scena. Ormai non gli davo più peso, in realtà. La prima volta che mi aveva affibbiato scherzando quel soprannome, ero stato quasi sul punto di strozzarlo per davvero, certo. E tutto perché ero ancora sconvolto dalla notizia. Ma poi avevo lasciato perdere, imparando ad accettare quello che era ormai diventato un mio difetto. Perderci tempo su sarebbe stato inutile.
    Vidi di sfuggita Maes giocherellare con una delle mie stilografiche con falsa attenzione, mentre sbadigliava sonoramente. «Andiamo, ti sta benissimo», borbottò, tranquillissimo e non curante. «Tra tutti quelli che avevo scelto questo qui è quello più normale, credimi».
    Alzai l’occhio al soffitto, ritrovandomi a scuotere la testa. Era un caso veramente perso. «Ma tu non dovresti lavorare?» gli domandai ancora sollevando il sopracciglio, e stavolta mi gettò una rapida occhiata che avrebbe potuto significare tutto. 
    «E cosa sto facendo, secondo te?» scherzò, stiracchiandosi. 
    «Stai cazzeggiando nel mio ufficio», risposi subito a tono.
    Agitò distratto una mano lasciando cadere la stilografica sul tavolo, rialzandosi in piedi per darmi poi una bella pacca su una spalla. «Dai che ti ho portato una bella notizia», fece, quasi distrattamente. «Alla fine sei riuscito a fare pietà a Riza. Ti ha concesso il resto della giornata libero».
    Mi venne quasi voglia d’esultare, con il rischio che mi sentissero anche ai piani inferiori. Per mia fortuna, però, mi trattenni e non lo feci. Mi limitai a sfoggiare un sorrisino compiaciuto, già pronto a godermi la mia tanto agognata libertà. Ero ad un passo dal filarmela che mi bloccai, ricordandomi un piccolo particolare. Edward avrebbe lavorato fino a tardi, quel giorno. Quindi le alternative erano due. O attendevo la fine del suo turno - cosa che non mi andava assolutamente di fare - oppure cominciavo ad andare giù alla Hall fino alle scale e me la facevo a piedi fino a casa, visto che ancora non potevo - anzi, mi era stato categoricamente vietato di farlo - guidare tranquillamente. A meno che...
    Colto da un’illuminazione, mi voltai in direzione di Hughes, allargando quasi il sorriso da un orecchio all’altro. «Ti ho mai detto quanto ti voglio bene, Maes?» me lo ruffianai ben bene, nel tentativo di comprarlo per il mio secondo fine. Se non potevo guidare, potevo farmi dare un passaggio. Lo vidi inarcare ironico un sopracciglio, assumendo un cipiglio scettico.
    «Quando il Diavolo accarezza vuole l’anima», fu la sua risposta, e lasciai vacillare il sorriso per dar vita ad un broncio bambinesco. 
    «Che malfidente», bofonchiai, incrociando le braccia al petto. 
    «Per ovvie ragioni», ribattè ancora lui, avvicinandosi a me solo per avviarsi alla porta.
    Lo afferrai però per un braccio, bloccandolo a metà strada. Con l’espressione più innocente che riuscii a trovare, poi, lo osservai con attenzione. «Me lo dai un passaggio?» gli chiesi, atteggiando il viso alla ormai classica espressione alla Jaz. La stessa identica espressione che era solito utilizzare lui quando voleva qualcosa. Peccato però che con Maes non funzionasse. Difatti scosse la testa, facendomi mollare la presa.
    «Abbiamo un bel po’ di lavoro, giù al Tribunale», fu la sua scusa, scrollando le spalle. «Sono passato solo per avvisarti che potevi andare».
    «Eddai, non si abbandona un amico in difficoltà.» provai a fargli pena, ricevendo la medesima risposta. Continuai così per una buona manciata di minuti, forse dieci o poco più. Ma, alla fine, mi ero ritrovato a bocca asciutta. Mi aveva salutato frettoloso, defilandosi senza nemmeno prestarmi attenzione. E adesso bofonchiavo imprecazioni verso di lui nella Hall, diretto vero il parcheggio del Quartier Generale, con in mano le chiavi d’una delle macchine in dotazione all’esercito. Non mi interessava assolutamente se secondo medici o altri non avrei ancora dovuto guidare. Non me ne sarei andato a piedi, se potevo evitarlo. In fondo che ci sarebbe stato poi di così diverso? Era una strada che facevo da una vita. Avrei anche potuto farlo chiudendo l’occhio.
    Sorpassai la mia macchina - le cui chiavi erano state diligentemente sequestrate da Edward - e mi diressi verso una di quelle prese in prestito, aprendo la portiera. Seduto al posto di guida infilai le chiavi nel quadro d’accensione, sentendo il rombo del motore. La retromarcia non fu un passo difficile, anzi. Filai fuori perfettamente, senza incidenti. Potevo guidare benissimo, l’avevo appena dimostrato. Il tutto divenne però un po’ più complicato nelle strade trafficate. Fui costretto a fermarmi due o tre volte sul ciglio della strada, nel tentativo di non affaticare troppo la vista, dato che sentivo l’occhio bruciarmi un po’. Avevo dimenticato il problema profondità. Certe volte ancora sbagliavo a premere al primo colpo l’interruttore della luce, figurarsi quindi come stava il resto. Anche nel fare l’amore con Edward ero diventato un pochino lento. Lui naturalmente dava la colpa di questo alla mia età, non alla mia vista, ma io speravo di più che fosse per la seconda ipotesi.
    Prima di ripartire mi massaggiai l’occhio, rimettendo in moto. Nuovamente in strada, cercai di fare attenzione a tutto, quasi rischiando però di tamponare due o tre auto davanti a me. Le evitai per un soffio. O almeno quelle. Proprio a metà strada, infatti, tamponai proprio la piccola auto della polizia stradale. Ero davvero un uomo fortunato, eh? Nemmeno avessi spiaccicato una fottuta coccinella e mi stessero punendo per averlo fatto. Sarcasmo a parte, quand’erano scesi e si erano avvicinati, mostrar loro il mio orologio d’argento o i gradi di Generale era valso a ben poco. Uno di loro - una donna un po’ grassoccia sui cinquanta che quasi mi ricordò la professoressa di Jaz - prese a farmi una ramanzina che temetti non finisse più, chiedendomi poi senza un minimo di tatto da quanto ero in cecità parziale. Mi ero di poco trattenuto dal non darle fuoco, anche se avrei voluto. Così almeno avrebbero avuto un buon motivo per tenermi in stato di fermo.
    Alla fine di tutto quel gira e rigira, comunque, quello che ci era andato male alla fine ero stato io. E adesso ero ad una cabina pubblica per chiamare a casa, dove sperai si trovasse Jason. Non potevo lasciare la macchina lì e nemmeno riportarla indietro, visto che quei due idioti mi avevano ritirato senza tanti convenevoli la patente. Attesi lì con la cornetta all’orecchio, contando gli squilli. Due, tre. Sperai solo di non aver sbagliato numero, visto che avevamo cambiato casa. All’ottavo squillo, quando già stavo per perdere la pazienza, finalmente qualcuno rispose. «Pronto?» fece la voce familiare, anche se un po’ assonnata. 
    «Jaz... sono io».
    Ci fu un piccolo tentennamento. «‘Ka-san?» chiese, forse scettico. «Perché hai chiamato?» 
    Anche se non poteva vedermi, mi grattai non curante dietro al collo. «Beh, vedi... avrei un problema», cominciai.
    «Problema?» 
    Cercai altri spiccioli, sentendo chissà come che quella conversazione sarebbe stata lunga. «Aye... sono sulla 25ª, potresti venire qui?» 
    «Perché?» domandò ancora, perplesso. Domande e domande come avevo pensato. Peggio di quand’era bambino.
    «Smettila di chiedere, non ho tutti ‘sti soldi appresso», quasi sbottai. 
    «Ma scusa, se mi tocca scarpinare fin lì spiegami almeno il perché!»
    Borbottai tra me e me qualche imprecazione. Mi toccava dirglielo. «Mi hanno ritirato la patente», feci schietto. 
    «Ti hanno...» ripeté, prima di scoppiare in una sonora risata che quasi rimbombò nella cornetta, tanto che fui quasi costretto ad allontanarla dall’orecchio. 
    «Piantala di ridere, idiota», mi risentii, nervoso e non poco.
    Con qualche residuo d’ilarità lui cercò di tornare serio e di rispondermi. 
    «No no, scusa ‘Ka-san... ma era troppo divertente», fece, tra sbuffi di risa. «Non avevi detto però che non potevi guidare? Che hai fatto, te ne sei fregato?» 
    Colpito e affondato. Dannazione, odiavo la perspicacia di quel ragazzo. Anche se poi, beh... non era poi così difficile indovinarlo. Che ero una testa calda ormai lo sapevano anche i muri della nuova casa. «Sta
zitto e vedi di muoverti», aggirai svelto il discorso, interrompendo la comunicazione prima che potesse aggiungere qualcosa. Agganciai bene la cornetta uscendo fuori dalla cabina, pronto a riattraversare la strada per restare vicino all’auto. Ci mancava solo che la rubassero o altro.
    Mi poggiai contro la carrozzeria a braccia conserte, guardando di tanto in tanto il mio orologio per controllare lo scorrere del tempo. La mia attenzione era concentrata svogliatamente sulle altre auto che sfrecciavano sulla strada o su alcuni passanti sul marciapiedi, ma ancora non vedevo la capoccetta mora che mi interessava. Non sapevo nemmeno se sarebbe venuto a piedi o con l’auto di Edward. E quello era un altro piccolo inconveniente. Passarono dieci minuti o poco più, credo. Non ne ero poi così sicuro. Fatto sta che, alla fine, riuscii finalmente a vederlo. O meglio... a vedere l’auto che guidava. Scoprendo così anche perché aveva fatto tardi. Indovinate un po’ chi c’era con lui? Oh, aye, la seconda catastrofe della mia vita. Il suo miglior amico, Cedric Berk. Avrei dovuto immaginarlo...
    Si fermarono al ciglio della strada, rivolgendomi entrambi un sorriso divertito dal finestrino. «A piedi, Signor Mustang?» mi prese in giro Cedric, e dovette ritenersi fortunato che non indossassi i miei guanti. Altrimenti, nervoso com’ero, gli avrei dato fuoco sul serio.
    Borbottando tra me e me, mi staccai dall’auto, vedendo proprio Ced scendere da quella che Jaz aveva adesso parcheggiato dietro quella che avevo preso in prestito. «Sali ‘Ka-san, ci pensa Ced a portare quella al Quartier Generale», mi informò, additandola.
    Mi accigliai, mentre vedevo il suo amico dirigersi alla portiera per sedersi al posto di guida, dove avevo abbandonato le chiavi nel quadro d’accensione. «Cosa volete per questa improvvisa gentilezza?» mi insospettii, ed entrambi atteggiarono il viso ad un’espressione assolutamente innocente.
    Ormai seduto, Cedric mi guardò con quegli occhioni castani. «Mi sono offerto io perché tanto dovevo già andare lì», spiegò, tranquillissimo. «Mio padre mi ha chiesto di raggiungerlo per dare una mano anch’io giù al Tribunale. Ha detto che così almeno imparo già il mestiere».
    Cavoli, allora era vero che avevano da fare. Credevo fosse solo una balla di Maes. Sperai solo che non si trattasse ancora di catalogare documenti attinenti a quella faccenda. «Nessun secondo fine, quindi?» chiesi ancora, non del tutto convinto.
    Quasi in simultanea - manco fossero stati gemelli - si portarono una mano al petto, come se volessero promettere qualcosa. «Siamo innocenti stavolta, ‘Ka-san», fece Jason dall’auto, sporgendosi appena un po’. 
    «Mai stati più innocenti di adesso, vero», ribadì ancora il concetto Cedric. 
    Decisi di non volerli più ascoltare. Quella battaglia su due fronti non l’avrei mai vinta. Salutai frettoloso Cedric dirigendomi all’auto di Edward, salendo dalla parte del passeggero con la solita aria indispettita che adottavo quando mi toccava farlo. Vidi l’auto in cui era Ced partire, e dopo poco lo facemmo anche noi, diretti a casa. Il lato positivo, almeno, era che Jason aveva preso la patente e poteva scarrozzarmi lui da qualche parte se Edward era troppo impegnato per farlo. Odiavo però dipendere da loro. Non aspettavo altro di poter guidare nuovamente.
    Il silenzio che vigeva tra noi fu rotto dalla voce di Jaz, ed ero così immerso nei miei pensieri che ci misi un po’ ad accorgermi che lui aveva parlato. «Come va l’occhio, ‘Ka-san?» mi chiese, guardandomi appena di sottecchi senza abbandonare la strada che stava percorrendo.
    Sorrisi un po’ a quella sua preoccupazione rinata. Faceva tanto il duro, ma infondo era sempre stato un cocco di mamma.  E a me non dispiaceva affatto, dovevo ammetterlo. Colpa del mio vizio di viziarlo. Mi stiracchiai sul sediolino, scompigliandogli poi affettuoso i capelli, rimediandoci così una piccola lamentela come al solito. «Si stanca un po’ come sempre, ma mi sto abituando», risposi, tornando composto. «Tempo un altro mese e starò alla grande».
    Mi lanciò appena un’altra occhiata, vagamente scettica. «Lo dici per consolarmi come tuo solito o fai sul serio?» mi pose un’altra domanda, con un tono di voce vagamente somigliante a quello imperativo che era solito usare Edward quando mi negava senza sentir ragioni il sesso. 
    Sbuffai, agitando però disinvolto una mano. «La sera fatico a distinguere i profili, se le luci sono soffuse. Ti va bene così?» ironizzai, vedendolo però corrucciarsi mentre si concentrava sulla strada senza prestarmi attenzione. Su quel viso da prendere a schiaffi s’era dipinta quella maledetta espressione colpevole. Porcaccia, dovevo imparare a tacere. «Stavo scherzando», provai a mentirgli, per cancellargliela dal viso. In realtà a volte era vero, faticavo a vedere le sagome in penombra. Tutto perché dovevo sforzare l’occhio. 
    «Non è vero», bofonchiò, girando velocemente le mani sul volante per prendere una curva. «Adesso lo stai dicendo per non farmi sentire colpevole, ti conosco troppo bene».
    Mi lasciai sfuggire un lamento esasperato. Ed eccolo che riattaccava con quella storia... peggio delle sue infinite domande quand’era piccolo. «Maledizione, Jaz, non ricominciare», sbottai, già irritato di mio. «Vai avanti da quattro mesi a ripeterlo, dammi tregua».
    Sbuffò, muovendo le mani sul volante per prendere una curva. Eravamo nel nostro quartiere adesso, quasi sotto casa. «Se lo ripeto ci sarà un motivo, no?» replicò, fermandosi al ciglio della strada quando arrivammo.
    Mi massaggiai l’occhio, scuotendo la testa. Era un caso davvero disperato... «Il motivo è che sei un idiota patentato, ecco quale», ribattei, strappandogli con mia sorpresa una piccola risata, forse un po’ amara.
    «Beh, almeno io una patente ce l’ho a differenza tua», cambiò discorso divenendo sarcastico, rigirando le mie parole per provare a fare una battuta.
    Lo guardai storto, sollevando ironico un sopracciglio. «Non faceva ridere per niente», gli tenni presente, ricavandoci un piccolo sbuffo.
    «Non volevo far ridere, infatti», disse a mo’ di spiegazione, spegnendo il motore per poi togliere le chiavi dal quadro d’accensione. Tolta la cintura di sicurezza, scese, chiudendosi dietro la portiera. Potei vedere benissimo la sua espressione imbronciata e quasi annoiata. Borbottando fra me e me lo imitai, alzandomi forse troppo in fretta e con foga. Venni colto da un capogiro che mi fece vedere puntini di luce e dovetti reggermi sul tettuccio della macchina, richiamando la sua attenzione. Sembrava guardarmi apprensivo, adesso. «Tutto okay, ‘Ka-san?» mi chiese, con il tono delicato d’un bambino. 
    Mi ritrovai a sorridere stupidamente mentre chiudevo la palpebra, così da calmare il giramento di testa e riprendermi. Ahhh, che cocco di mamma... era normale che fossi felice che lo fosse? Forse sì, dato che la mamma in questione ero io. «Solo un piccolo calo di pressione», feci tranquillo, riaprendo l’occhio per guardarmi intorno. La testa non mi girava se osservavo i dintorni, bene. E anche la vista era normale.
    «Dovresti deciderti ad andare in pensione», lo sentii dire, e alzai lo sguardo verso l’altro lato della macchina per fissarlo attentamente. Forse con un po’ di nervosismo.
    «Stai forse insinuando che sto invecchiando?» domandai, vedendolo stirare le labbra in un sorriso.
    Aggirò l’auto accostandosi a me, offrendomi il suo braccio destro come se fossi una donna bisognosa d’aiuto. «Non stai invecchiando, sei sempre stato vecchio», ribatté semplicemente, scansandosi subito dalla mia traiettoria quando mi vide pronto a colpirlo. Ridacchiando, filò in giardino, sorpassando le siepi fino a raggiungere il pianerottolo e defilarsi in casa una volta cacciate le chiavi per aprire la porta.
    Mi ritrovai a scuotere piano la testa, non potendo però evitarmi di sorridere. Quel ragazzo era capace di farmi incazzare per un nonnulla, ma poi riusciva a cavarsela sempre. E i rapidi cambiamenti d’umore che aveva, poi, erano dovuti al fatto che cercava di non pensare a ciò che era successo un po’ di tempo addietro. A quei pensieri mi accarezzai la benda, scuotendo per l’ennesima volta la testa prima di entrare in casa, trovando Jason già comodamente spaparanzato sul divano. Buste varie di patatine e bibite gassate erano un po’ dappertutto, abbandonate soprattutto sul tavolino davanti a lui. Fra quel mucchio si riusciva a scorgere persino la copertina di qualche libro. «Cos’è tutto questo macello?» domandai immediatamente, con una vaga nota stizzita.
    Lui, che si era appropriato di una lattina, mi guardò sbattendo le palpebre. «Stavo facendo uno spuntino prima che tu chiamassi», spiegò, come se fosse la cosa più semplice e banale del mondo prima che bevesse un sorso.
    Alla faccia dello spuntino, evitai di commentare, guardandolo solo di traverso. Ben sapeva che non amavo tutto quel disordine. Specie per uno spuntino, come l’aveva chiamato lui. «Muoviti a rimettere tutto a posto», quasi sbottai, liberandomi della giacca della divisa prima di lasciarla sull’altro divano, ancora indenne da quel caos.
    Sbuffando e borbottando finì la sua bibita, poggiando la lattina ormai vuota sul tavolino. Afferrò poi una busta di patatine, sgranocchiandone un po’. «Quando fai così mi sembri una casalinga isterica», disse, mangiando un’altra patatina. «Un po’ di disordine ci vuole, fa capire che ci vivono tre uomini in casa».
    Che razza di ragionamenti faceva... «Non ci voglio nemmeno discutere con te, guarda», ribattei, ritrovandomi io stesso a togliere qualcosa dal tavolino o dal divano. Arraffai anche lattine e altre buste di patatine, rimediandoci un lamento quando gli strappai di mano anche quella con cui si stava nutrendo. Mi guardò male, mettendo su il broncio. Proprio un eterno bambino, non c’era niente da fare. E se lo dicevo io che ero peggio di lui... beh, era tutto dire.
    «Quella la stavo mangiando», parve tenermi presente, corrugando le sopracciglia. Non me ne fregai più di tanto, continuando con le mie pulizie. Ne presi altre, mettendo tutto sottobraccio.
    «Metti in ordine il resto», ordinai. «E vedi di darti una mossa».
    Lo lasciai lì fra le buste e le lattine vuote, portando invece con me quelle ancora chiuse mentre sentivo i suoi strepiti e le sue lamentele seguirmi fino in cucina. Non gli diedi peso, naturalmente. Mi limitai solo a posare tutto e a richiudere la credenza, lasciandomi sfuggire uno sbadiglio. Mi sarei fatto un bel bagno caldo e poi dritto a nanna. Aye, l’idea era abbastanza allettante... però non potei pensarci oltre che un rumore sordo e improvviso mi fece trasalire, spaventandomi. Poi sentii dei passi veloci e il vago tintinnio delle chiavi. 
    «‘Ka-san, io esco!» sentii esclamare Jason, prima che la porta dell’ingresso venisse sbattuta quasi con violenza e foga. Restai senza parole, sbattendo le palpebre. Mossi qualche passo, sentendo il rombo del motore dell’auto fuori nel vialetto. Sembrava che Jason vi si fosse messo alla guida per andare chissà dove. Scossi solo la testa, avviandomi in soggiorno. Se voleva uscire bene, ma aveva messo in ordine. O almeno così sperai. Rimasi però interdetto quando entrai, non riuscendo a credere ai miei occhi. Non sapevo come diavolo aveva fatto, ma il tavolino e lampada a lato di uno dei divani erano rovesciati a terra fra le buste vuote e qualche briciola. Probabilmente era inciampato nel filo, facendo cadere tutto.
    La cosa che l’aveva fatto scappare, però, era proprio la lampada. Era abbastanza vecchia, una di quegli oggettini d’antiquariato che si pagavano un occhio della testa. L’avevo comprata perché ero sempre stato attratto da quelle cose, anche se Edward certe volte non condivideva quella mia passione dicendo che ero all’antica. A me piacevano, però, che potevo farci. Il mio sguardo che ne osservava i cocci quindi, in quel momento, avrebbe potuto incenerire chiunque se solo avesse osato parlare o muoversi. Interdetto, mi chinai a prenderne un frammento, non riuscendo a capacitarmene. Razza di...!
    «Jason, quando torni ti ammazzo!» gridai al nulla per sfogarmi, pronto a mordermi le mani. E giurai a me stesso che, se avesse rotto qualcos’altro - anche solo per sbaglio - costato un patrimonio, non l’avrebbe passata liscia. Parola di Roy Mustang!







_Note inconcludenti dell'autrice
Anche questa storia, come la precedente, è stata scritta parecchio tempo fa.
I contenuti sono rimasti gli stessi, ho giusto sistemato la punteggiatura che, lo ammetto, era tutta sballata... cose del genere capitano, purtroppo, specialmente quando passa tutto questo tempo e ci si rende davvero conto di quanto il proprio stile degli anni scorsi fosse ad un livello ancora prematuro.
Tutto ciò per dire che mi sono resa realmente conto di quanto il mio modo di scrivere, a lungo andare, sia cambiato, e questa è certamente una cosa positiva per chiunque scriva, che sia esso una fanwriter o uno scrittore.
Il fandom è abbandonato a sé stesso come quando l'ho lasciato, certo, ma ho deciso di portare a termine questa raccolta di dieci one-shot e lo farò, non importa come e non importa quanto tempo impiegherò, dovesse volerci anche un mese intero o una misera settimana.
Commenti e critiche, comunque, sono ben accetti.
Alla prossima. ♥


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** #03. Pinguino ~ A buon intenditor... ***


A buon intenditor Titolo: A buon intenditor...
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2022 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Jason Mustang, Famiglia Hughes
Tabella/Prompt: Animali › 03. Pinguino
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff
Rating: Giallo / Arancione
Avvertimenti: 
Shounen ai, What if?


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    Eravamo a casa di Maes e aspettavamo pazientemente che Glacier ci chiamasse per la cena, chiacchierando del più e del meno mentre Elicia, nella sua camera, aiutava quello sbarbatello di Jason con quella benedettissima matematica. Che fosse negato con quella materia, ormai lo sapevano anche i muri di casa Hughes.
    Anche se Maes aveva guardato il “nostro caro figlioletto” con un’aria alquanto sospettosa, come per dire “Tocca mia figlia e ti ritrovi senza attributi”, alla fin fine se n’era stato in silenzio e li aveva lasciati andare a studiare, facendo accomodare me e Edward in salotto, dove ci trovavamo adesso. Can che abbaia non morde in fondo, no? Evitavo quindi di dire che, tanto per cambiare, aveva messo in mezzo me dicendo che con i miei consigli l’avrei portato sulla cattiva strada. Era davvero malfidente...
    A ridestarmi dai miei pensieri, furono le loro improvvise risate, e capii solo in seguito che mi ero perso gran parte del discorso in cui si erano gettati. Difatti li guardai stranito, senza capire. O almeno finché Edward non mi diede una bella pacca sulla spalla con la mano d’acciaio. «Ehi, svegliati, mammina!» esclamò divertito, soffocando un’altra risatina.
    Così immerso nei miei pensieri, non mi ero nemmeno accorto che si era gettato sul divano accanto a me e mi stava squadrando, con quel cipiglio bambinesco nonostante i trent’anni e passa. Sbattei un po’ le palpebre, stringendomi poi nelle spalle. «Stavo pensando, scusate», borbottai.
    Vidi Maes portare mano ad alcuni stuzzichini, inghiottendone uno. «Ammettilo che è colpa dei cinquanta!» fece a sua volta in tono spassoso, battendosi una mano su una coscia. «Mi sa che ti toccherà davvero passare in farmacia, se continui così!»
    «Stavolta vado in sua difesa!» replicò prontamente Ed, tappandomi la bocca con la mano d’acciaio prima che potessi rispondere a tono. «In quel campo è ancora arzillo!»
    Scansai la mano dal mio viso con più garbo che riuscii a trovare, nonostante la vaga stizza che la conversazione mi stava procurando. «Preoccupati delle tue prestazioni, Maes, non delle mie», sbottai nervoso, sentendo Edward trattenere una risata, come se tutta quella situazione lo divertisse.
    «Non ho mica problemi, sono ancora un giovincello», sghignazzò, adagiando la schiena al divano su cui era accomodato. «Io almeno resto sveglio, non crollo addormentato!»
    «Mai addormentato!» mi sentii in dovere di informarlo, incrociando le braccia al petto prima di indicare con un cenno del capo Edward. «Lui, semmai, si è addormentato!»
    Il diretto interessato smise di ridacchiare di botto, guardandomi torvo. Mi tirò una guancia con tutta la sua forza, gli occhi ambrati ridotti a due fessure. «Ma non avevamo nemmeno cominciato», specificò, in tono grave e incazzato. «Qui il vecchietto sei tu, non io», soggiunse, quasi con una punta di perfidia. Non appena mi mollò la guancia me la massaggiai, atteggiando il viso ad un’espressione offesa mentre, poco distante, Maes se la rideva bella grossa. Succedeva sempre questo. E da un bel paio d’anni, ormai. Ero diventato il bersaglio preferito a cui lanciare frecciatine, sia per il mio bel biondino e mio figlio, sia per il mio migliore amico. Che senso aveva, però, continuare a dire di smetterla? Lo facevo da un mucchio di tempo e non aveva mai funzionato.
    Continuammo a parlottare poi del più e del meno, senza avere un vero e proprio filo logico, o lasciandoci andare in discorsi che superavano non poco la linea della castità. Venimmo interrotti da Glacier non più di una ventina di minuti dopo. Entrò in salotto con il suo bel grembiule con i pinguini, richiamandoci con un colpetto di tosse proprio nel bel mezzo di una di quelle che lei, o qualsiasi altra donna, avrebbe reputato “battuta squallida e sconcia”.
    Un tantino a disagio e imbarazzati ci voltammo simultaneamente tutte e tre nella sua direzione, vedendola sulla soglia con una mano poggiata sul fianco. «Se uno di  voi “uomini”», disse poi, mimando le virgolette con due dita. «potesse farmi il favore di aiutarmi con i piatti, ve ne sarei molto grata».
    «Ti aiuto io», liquidò subito la questione Edward, alzandosi per raggiungerla. Era lui, in fondo, che aveva dato inizio a quel botta e risposta.
    Alla fine, comunque, toccò a me e a Maes alzarci per andare a richiamare i nostri figli. Continuammo a ridere ancora un po’ nel corridoio, come due stupidi. O almeno finché lui non si apprestò a bussare. Si fermò a pochi millimetri dal legno della porta, ascoltando proprio come me. Dall’interno si sentivano le voci di Elicia e Jason, e non sembrava affatto che stessero studiando...
    «Tiralo un po’ fuori, è troppo dentro!»
    «Ma che pretendi, non l’ho mai fatto!»
    «Stammi a sentire, allora, tiralo fuori che altrimenti ti fai male!»
    «Ma è sempre così quando lo si fa? Non si può direttamente cominciare?»
    «No, come minimo devi prima sapere come fare...»
    Ci furono poi degli attimi di silenzio, rotto solo pochi secondi dopo dalla voce squillante di Jason.
    «Facciamolo e basta, mi sono rotto dei preliminari!»
    Da fuori, restammo tutti e due basiti ad ascoltare, prima che Maes sfondasse letteralmente la porta della camera. Vi si fiondò dentro come una furia, con la grinta furibonda d’un padre che vuole proteggere l’illibatezza della figlia. «Non azzardatevi a fare nulla!» esclamò, incazzato e non poco.
    Io mi sporsi giusto un po’ dallo stipite, cercando di capire quel che stava succedendo. Se stavano facendo quel che credevo io, non volevo assolutamente assistere. Ma sbattei accigliato le palpebre, quando realizzai, così come Maes che aveva abbassato le braccia lungo i fianchi, la situazione. Jason - perfettamente vestito, c’era da sottolineare - se ne stava seduto sulla sedia accanto al materasso, dove invece si trovava Elicia. Fra le mani reggevano dei sacchetti e dello spago, e sul letto erano sparsi pezzi di stoffa e persino l’imbottitura che si usava per i peluche. Vari aghi da cucito, poi, erano appuntati ad un puntaspilli, vicino ai libri di studio abbandonati. Guardandoci, con un ago per uno in mano, loro sbatterono, accigliati quanto noi, le palpebre.
    «Che c’è papà?» chiese Elicia, un tantino perplessa. Senza parole, Maes di limitò a sbattere ancora una volta le palpebre, indietreggiando un po’. Sembrava quasi esserci rimasto male dal non aver trovato qualcosa di scandalistico.
    Ridacchiando nervoso, il mio figlioletto nascose dietro la schiena quel che aveva in mano, rivolgendomi un sorrisino tirato. «Ci siamo presi una piccola pausa per distrarci», si scusò sulla difensiva. «Avremmo ripreso a studiare presto, ‘Ka-san, davvero».
    Non era di quello, però, che mi ero preoccupato al principio. Da fuori il discorso sembrava tutt’altra cosa. E per fortuna Edward era andato ad aiutare Glacier! Deciso finalmente a lasciare quella mia specie di nascondiglio, entrai un po’ nella stanza, poggiando una mano sulla spalla di Maes come a tirarmelo via. Era ancora un tantino scombussolato, data l’espressione che gli vedevo in viso. Lo spinsi fuori, nel corridoio, vedendolo ciondolare verso la cucina come se non se ne capacitasse. Di cosa, però, mi era ancora sconosciuto.
    «La cena è pronta», mi limitai a dire poi, gettando un’occhiata ad Elicia, e, intercettato il mio sguardo, lei parlò.
    «Ma che è successo, Zio Roy?» mi domandò, abbandonando sul materasso quel piccolo sacchetto che reggeva fra le mani. A guardarlo meglio, era lavorato in modo che sembrasse quasi una bambola rudimentale. Una di quelle che da un po’ di tempo andavano così di moda fra i giovani.
    Mi grattai dietro al collo, un tantino a disagio. Come potevo dir loro che io e Maes, cretini com’eravamo, avevamo pensato stessero facendo altro? Semplice, non gliel’avrei affatto detto. Se la sarebbe vista Maes con Elicia, io al massimo mi sarei limitato a fare un discorsetto a Jason. «Meglio se lo chiedi a tuo padre, Elicia, credimi», dissi semplicemente, dando vita ad una di quelle scrollate di spalle che potevano significare tutto o niente.
    Loro si lanciarono un’occhiata veloce, palesemente perplessa. «Non capisco che vi è preso», disse infine Jaz, scuotendo la testa prima di alzarsi finalmente in piedi e stiracchiarsi alla bell’e meglio. Anche Elicia lo imitò, radunando tutti gli oggetti che avevano usato per poggiarli sulla scrivania. Raggiunta la soglia sulla quale c’ero ancora io, mi sorpassarono, pronti a dirigersi in cucina. Ma prima che si allontanasse a sua volta, poggiai una mano sulla spalla di Jason per fermarlo.
    Mi guardò, interrogativo. «Avrei fame anch’io, ‘Ka-san», fece sarcastico, sollevando un sopracciglio scuro. Gettai una rapida occhiata intorno, passandogli un braccio dietro alle spalle. E il suo volto divenne quasi annoiato, se non svogliato. Sapeva bene che facevo così quando cominciavo discorsi che duravano un mucchio di tempo ma che, alla fine, non gli entravano in testa. «Che ho fatto adesso», borbottò, con il tono della voce ormai arreso.
    Gli massaggiai il deltoide sinistro, come a farlo rilassare. «La prossima volta fammi il favore di studiare in salotto, con Elicia», dissi semplicemente, ricevendo così un’occhiata incomprensibile.
    «E ora che c’entra?» chiese, grattandosi innocentemente una guancia. Persino l’espressione del suo viso, in quel momento, lasciava trapelare solo innocenza. Ed era molto difficile crederlo, conoscendolo.
    «Ti dirò la verità, Jaz», cominciai sarcastico. «Pensavamo che stesse succedendo ben altro, lì dentro».
    Forse si scandalizzò, perché sgranò gli occhi azzurri, dilatandoli. «Ma siete due vecchi maniaci pervertiti!» esclamò d’impeto, e dovetti tappargli la bocca con una mano per soffocargli il grido. Sarebbe stato difficile spiegare le sue parole, se fosse giunto alle orecchie di chi stavo pensando io in quel momento...
    «Zitto, brutto idiota», sbottai, ignorando deliberatamente gli appellativi che aveva usato. Specialmente la parola “vecchio”.
    Bofonchiò qualcosa, con la bocca ancora coperta dalla mia mano. Fu lui stesso ad allontanarla, guardandomi in cagnesco. «Bella fiducia che hai in tuo “figlio”», fece, più che innervosito. «Invece di saltare a conclusioni affrettate potevate concederci il beneficio del dubbio».
    Alzai gli occhi al soffitto, esasperato. Sembrava non si rendesse conto della situazione. Maes, quando si trattava di certe cose, era iper-protettivo. Certo, ogni padre difendeva sua figlia... ma lui superava davvero ogni limite! «E voi potevate evitare discorsi fraintendibili», replicai in risposta, lanciandogli un’occhiata di sbieco.
    Incrociò le braccia al petto, imbronciandosi come suo solito. «Siete tu e lo Zio Maes ad avere le menti malate», ribatté, come se volesse avere ragione lui.
    Mi limitai a trarre un lungo sospiro, scuotendo piano la testa. «Non so tu, ma io un “Tiralo fuori” lo interpreto in un solo modo», dissi ironico. E lui storse la bocca in una smorfia, agitando le mani in aria come se volesse scacciare un’immagine che non gli piaceva affatto.
    «‘To-san fa bene a negarti il sesso», mi tenne poi presente, senza peli sulla lingua. Ma non me ne stupii più di tanto. Era sempre stato spontaneo e diretto, su certe cose. Chissà perché, eh?
    «Non dirlo nemmeno per scherzo», mi ritrovai a borbottare, lasciandolo finalmente libero.
    Inclinò un po’ la testa di lato per guardarmi in volto in quel modo, dando vita ad uno di quei soliti sorrisi che soleva usare quando voleva farsi perdonare qualcosa. O, per meglio dire, quando voleva qualcosa. «Se mi presti la macchina faccio in modo di lasciarvi soli per divertirvi», disse in tono dolce e smielato, sbattendo quasi graziosamente le ciglia. Ecco, lui sì che sapeva rapidamente cambiare discorso. Ma stavolta aveva sbagliato richiesta. Già una volta mi aveva sfondato la macchina!
«Te lo puoi anche scordare», sbottai, per niente intenzionato a dover riparare - o ricomprare - anche quella di cui usufruivo adesso.
    Continuò a sbattere le ciglia, imperterrito. «Tieni di più alla tua auto che alle serate passate a letto con ‘To-san?» mi chiese, accentuando il sorriso per renderlo così malizioso e quasi maniacale. Diavolo, quel ragazzo era tremendo. E io ero un fottuto idiota. Sapeva troppo bene quali erano i miei punti deboli, maledizione! E puntava soprattutto sul fatto che io e Edward non potevamo concederci tutto il tempo che ci spettava per vari motivi.
    Lo guardai negli occhi, e fu un grave errore. Stavo ormai tentennando, perdendomi in quell’azzurro. Cosa che feci ben presto, ritrovandomi a sospirare quasi afflitto. «Cerca di riportarmela intera», mi arresi.
    Esultando, mi abbracciò dandomi diverse pacche sulla schiena e sulle spalle, alzando poi il viso per fondere gli occhi nei miei. «Grazie, ‘Ka-san, avrei davvero fatto una figuraccia andando a piedi a prendere la ragazza con cui esco!» esclamò, allargando il sorriso. E fu a quel punto che mi maledii, dandomi del cretino. Aveva già programmato tutto, questo piccolo figlio di buona donna... ed ero io l’idiota che ci cascava sempre!







_Note inconcludenti dell'autrice
Sto praticamente tirando fuori tutte le vecchie storie che avevo in sospeso, e ho l'assoluta intenzione di portare tutto a termine. Per il momento mi concentrerò su questa raccola, a cui mancano soltanto sette capitoli, e poi, pian piano, mi dedicherò a tutte le altre storie che non aggiorno da un'eternità di tempo, concludendo anche quelle. Il fandom non è più lo stesso e me ne rendo conto, però non si può far nulla contro la nostalgia e quindi alla fine, anche non volendo, eccomi qui. Il motivo per cui sono tornata nel fandom è proprio questo, e credo che queste piccole storielle in cui è presente Jason ne siano la prova più assoluta.
Commenti e critiche, ovviamente, sono ben accetti.
Alla prossima. ♥


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** #09. Cane ~ Peaceful Sunday ***


Peaceful Sunday Titolo: Peaceful Sunday
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2193 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali › 09. Cane
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff
Rating: Giallo / Arancione
Avvertimenti: 
Shounen ai, What if?


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    Risi mentre sentivo le sue gambe nude strusciare contro di me, il suo naso sfregare contro una spalla, le sue braccia gettate al collo e quel senso di tranquillità e benessere che ci avvolgeva riempire completamente la nostra camera da letto.
    Era domenica mattina, e potevamo finalmente goderci qualche attimo d’intimità dopo quella dura settimana di lavoro, standocene rintanati sotto alle coperte avvinghiati l’uno all’altro, con i nostri corpi nudi che si riscaldavano a vicenda. Amavo l’inverno solo per quel motivo. Mentre fuori nevicava e tutto si imbiancava, io potevo starmene al calduccio con la persona che amavo, senza dovermi preoccupare di null’altro. Il pranzo e la cena potevo benissimo ordinarle da casa, quindi l’unico pensiero che maggiormente mi premeva era coccolare un po’ Edward, ora che potevo permettermelo. Da quanto tempo non facevamo l’amore? Fin troppo, probabilmente.
    Sentii le sue labbra premute sulla pelle, la sua piccola lingua rosea l’accarezzava di tanto in tanto, facendomi ridere ancora come un bambino. Presi, con lentezza e sensualità, a far scorrere le mie mani sulle sue spalle, sulle braccia, facendo attenzione a non intrappolarmene una nel suo auto-mail. Da un po' di tempo quell’affare aveva bisogno di un controllo, ma ancora non si era deciso a farsi dare un’occhiata da Winry. E tanto meglio, secondo me. Mi giunsero alle orecchie i suoi mugolii appagati quando cominciai a baciargli con dolcezza il collo, succhiandone i lembi di pelle fino a renderla arrossata, dandogli poi un piccolo morso. Le sue mani scesero ad accarezzarmi il fondoschiena, e gemetti quando il desiderio si impadronì completamente di me, facendomi respirare affannoso e lasciarmi sfuggire rantoli fin troppo marcati. Non mi sfuggì il sorrisino un po' doloroso che si era dipinto sulle labbra di Edward, sebbene vedessi alla perfezione che si trovava nella mia stessa condizione. Non potevamo rimandare oltre...
    Lui ribaltò delicato le posizioni, ma prima che la sua mano sinistra potesse scendere verso il mio basso ventre, tutta l’atmosfera sfumò, cancellata dall’improvviso suono del campanello. ‘Fanculo, chiunque fosse. Cercammo di ignorarlo, ma non smise di suonare, e ad esso si aggiunse anche l’insistente abbaiare del cane dell’inquilino al piano di sotto. Irritato, frustrato, e anche con un certo bisogno fisico di cui liberarmi alla svelta, una volta che Edward si fu spostato e rintanato nuovamente sotto al piumone mi alzai, lanciandogli una fuggevole occhiata.
    Lui scrollò le spalle, come se nulla fosse. «Vedi chi è e torna qui alla svelta», brontolò, ma stava sorridendo. «Aspetto il mio fuoco per scaldarmi», ironizzò, lasciandosi scappare una grossa risata prima di rotolare all'indietro sul letto, come se ciò che lui stesso aveva appena affermato fosse particolarmente esilarante.
    Sospirai, rassegnato. Arraffai poi la prima cosa che trovai legandomela intorno alla vita, e con tutto che faceva freddo, cercai di dirigermi più in fretta che potei all’ingresso malgrado il problema e stando attento che non mi cadesse di dosso quel vestiario improvvisato. Senza badarci troppo, però, gettai un’occhiata allo spioncino, imprecando. L’avrebbero pagata cara, parola di Roy Mustang! Avrei volentieri dato fuoco ad entrambi. Spalancai con rabbia la porta, senza nemmeno curarmi delle mie condizioni. «Che cazzo, voi due!» sbraitai, facendoli accigliare e sussultare. «Devo pensare che lo facciate apposta!» Era la terza volta, in quel mese, che mi ritrovavo fra i piedi Maes e Havoc, e sempre quando io ed Edward tentavamo di starcene per conto nostro... se non era mio figlio, erano loro!
    «Ehi, non ti scaldare, Roy», fece Maes, senza guardarmi. Potei notare dalla sua espressione che era un tantino sconvolto... 
    «Non pensavamo di trovarla impegnato di prima mattina», disse per dargli man forte Havoc, guardando con un certo interesse la pavimentazione.
    Stavo per ribattere, ma una terza voce si fece sentire, facendomi sbiancare. «Colpa mia, ‘Ka-san».
    Nay, vi prego... non era come pensavo. Mi venne quasi voglia di sbattere la porta in faccia a tutti e tre. Dalle spalle di Jean fece la sua comparsa la testa mora del mio caro figlioletto, una peste di vent’anni che avrebbe dovuto trovarsi all’Accademia. Un’altra sospensione? O solo una licenza da lui voluta? Mi portai una mano a coprirmi il volto, afflitto. Non ne potevo più. «Statemi a sentire», cominciai, sorridendo amaramente e trattenendomi a stento. «Non devo di certo spiegarvi cosa avete interrotto... vero?!» Il mio abbigliamento e qualcos’altro, parlavano da soli... era impossibile non capire.
    «Non è mica colpa nostra se decidi di divertirti con Edward alle dieci del mattino!» esclamò a voce fin troppo alta Maes, guardandomi per qualche secondo.
    «Guarda che ti ho sentito, Hughes!» fece di rimando, squillante, la voce di Edward dalla stanza, e Maes prese a rigirarsi i pollici, vagamente imbarazzato mentre Jason e Jean avevano cominciato a ridersela bella grossa. Ci guadagnai da uno dei due una pacca sulla spalla, fondendomi in un sorriso.
    «Dai, ‘Ka-san, pensa positivo», sghignazzò quel degenerato di mio figlio, gli occhi azzurri vispi e divertiti come non mai. «Noi lo facciamo anche per il tuo bene».
    Mi venne voglia di prenderlo a schiaffi. Non lo feci solo perché i suoi occhi erano tentatori. Maledettissimo azzurro cielo! «Spiegami piuttosto perché sei qui e non all’Accademia», domandai eloquente, ma invece di rispondermi lui si intromise Havoc. Stranamente non aveva sigarette in bocca, ma non gli chiesi il perché.
    «Vede, si è presentato al Quartier Generale», cominciò, traendo un sospiro. «Avevamo da fare gli straordinari quando l’ho trovato a gironzolare nella Hall».
    «Non mi sembra d’aver chiesto questo», borbottai in risposta, sistemandomi meglio il lenzuolo che copriva le mie nudità. Ormai la mia eccitazione era scoppiata come una bolla di sapone, per colpa loro. Dannazione.
    «Ci stavo arrivando», fece ancora lui, quasi annoiato. Ma fu Maes a continuare, interrompendo sia lui che Jaz, che stava tentando di prendere la parola.
    «Questo genio di tuo figlio ha ben pensato di seguire le tue orme», disse, come se quella semplice spiegazione desse una risposta a tutto. Inarcai un sopracciglio, però, senza capire.
    «Cazzeggiava, Roy,» fece ancora, un po’ innervosito. Avrei dovuto esserlo io, non lui! Mi avevano interrotto sul più bello!
    «Non vedo quale sia il problema», bofonchiai punto nel vivo. Anche lui cazzeggiava, all’Accademia. Non poteva dare la colpa a me se lo faceva anche Jason. I ragazzi erano ragazzi, no?
    «Visto, Zio, te l’avevo detto che per ‘Ka-san non c’erano problemi», si fece sentire la voce del mio pargolo, tutto contento.
    Sbuffai fra me e me, non volendo indagare oltre. Qualsiasi cosa avesse fatto, ben sapevo che non mi sarebbe piaciuta. Così, dopo un altro paio di parole e scambi di convenevoli, feci entrare quel degenerato, salutando loro con un ampio gesto della mano prima di chiudere la porta. Jason mi seguì tranquillo per un bel tratto di strada, fermandosi solo quando mi voltai per fulminarlo con lo sguardo. «Trovati qualcosa da fare», berciai imbronciato. «Ho un affare da concludere»,
    Scettico, fece vagare il suo sguardo ceruleo su di me. Si soffermò sul lenzuolo che tenevo legato in vita, tornando poi a guardarmi in viso con quella sua solita espressione da so tutto io. «Oh, certo, vedo bene che affare», replicò, sarcastico. Lo fulminai con lo sguardo. Uno di quelli che volevano dire “Sono cazzi miei.” E proprio di quelli si parlava. «Lo vedi, tanto meglio», sbottai, sebbene non mi andasse a genio essere preso in giro.
    Jason sbuffò un po’, sollevando un angolo della bocca. «Non fa bene non portare a termine il lavoro, sai?» fece ancora, ironico. E a quel punto volli davvero prenderlo a schiaffi. Sembravano invitanti, quelle guance... ma, per mia sfortuna, mi trattenni nuovamente.
    «Di chi è la colpa di questa interruzione, secondo te?» gli tenni solo presente con irritazione, vedendolo fare spallucce.
    «Mia no di certo», rispose con innocenza. «Io l’avevo detto a Zio Maes che probabilmente eravate impegnati a fare sesso».
    Sempre schietto. Non c’era nulla da fare. Ed era anche sempre pronto a scaricare la colpa su altri. Ma gira e rigira era sua, quando venivamo interrotti!
    «Che succede?» chiese dopo poco la voce di Edward, richiamando l’attenzione di entrambi. Era poggiato alla stipite della porta, senza nulla addosso. Alla vista di Jason arrossì un po’, nascondendosi prima di sollevare un sopracciglio. «Tu non dovresti essere qui», costatò. Bell’intuito davvero. E ci era arrivato da solo, eh.
    Vidi il nostro figlioletto dar vita ad una di quelle scrollate di spalle che potevano significare tutto o niente, sorridendo rivolto al suo indirizzo. «Anche io sono felice di vederti, ‘To-san», ironizzò, ricevendo un’occhiataccia dal mio compagno.
    Edward borbottò qualcosa fra sé e sé, gettando poi un rapido sguardo verso di me. Ahia. Non mi piaceva come mi guardava. Vuoi vedere che ora ci andavo di mezzo io? E stavolta non avevo fatto nulla! «Spiegazione?» domandò, con quella voce un po’ nervosa. Ecco, io lo sapevo...
    Mi grattai con non curanza dietro al collo, scrollando anche io le spalle. Ne sapevo quanto lui, molto non potevo dire. «Stavolta non so nulla», feci sincero. «Devi chiedere a Maes o a Jean», scoccai un’occhiata a Jason, che sbadigliava tranquillo. «O al qui presente Jaz, il diretto interessato».
  Gli occhi color whisky del mio compagno si posarono su di lui, anche se sembrava tutt’altro che intimidatorio nascosto com’era dietro la porta. «Allora, Jaz?» gli chiese, ottenendoci solo un’altra non curante scrollata.
    «Mettiamola così», iniziò, ponendo poi entrambe le mani avanti come a voler imporre già da quel momento una tregua. «C’entrano le donne».
    A quella eloquentespiegazione, non volemmo chiedere più nulla. Sicuramente aveva fatto una qualche cazzata delle sue. Non sapevo quale, certo. Ma ero pronto a scommettere che era bella grossa, se gli aveva fatto lasciare per l’ennesima volta  l’Accademia. Vidi Edward alzare lo sguardo al soffitto, sconsolato. E non gli davo torto. Era una mina vagante, quel ragazzo. «Vai in salotto, Jaz», disse di punto in bianco, con un tono quasi arreso. «Leggiti un libro, una rivista, mettiti a mangiare... ma vedi di stare lontano dal corridoio». Corridoio forse era troppo espansivo. Camera nostra esprimeva meglio il palese divieto.
    Jason scosse la testa, borbottando fra sé e sé. «Quando volete spassarvela siete veramente intrattabili», costatò, ricevendo un’occhiata ammonitrice da entrambi. Intrattabili noi, certo. E lui allora? Quando cominciava con le solite sparate sulla sua altezza era insostenibile. Peggio di Edward, certe volte. E avevo detto tutto.
    «E io lo diventerò ancora di più se non finiamo», riprese Ed, assottigliando lo sguardo.
    Il viso di Jason si contrasse un po’ in una piccola smorfia, scuotendo la testa. «Contenti voi», borbottò quasi sottovoce, quasi non volesse farsi sentire. Ma lo sentimmo bene.
    Edward si avvicinò anche maggiormente a lui così da essere alla sua stessa altezza - il che non era difficile - e lo guardò attentamente negli occhi, nervoso. Nemmeno gli importò se era completamente nudo sotto il suo sguardo. Tanto, ormai. «Jason Mustang», disse, e mi sembrò quasi imperativo. «O te ne vai in salotto senza disturbare o ti ci spedisco io a suon di calci. Sono stato chiaro?»
    Emettendo un basso borbottio contornato da uno sbuffo, lui agitò distratto una mano. Come se non gliene importasse. Ma fu bofonchiando che si diresse in salotto. Proprio come gli era stato ordinato. Mi stupivo sempre quando Edward riusciva a farsi ubbidire. Sia da Jason, sia da me. Che fosse lui il cane alfa, in quella casa?
    Vidi Edward osservarmi curioso e malizioso, mentre mi faceva cenno di seguirlo in camera da letto. Si buttò sul materasso, spostando un pò il piumone. Picchiettò poi la parte libera con la mano d'acciaio, invitandomi. «Su, credo che adesso non ci disturberà più almeno per un bel po' di tempo», mi sorrise, passandosi allusivo la lingua sulle labbra. Un gesto lento ed erotico che mi mandò letteralmente in delirio. Strano, però, visto che di solito mi liquidava sempre con una scusa. Jason in casa? Niente sesso. Ma non volli ricordarglielo. Così, come un predatore, mi avvicinai al letto, balzando su di lui e strappandogli un urletto divertito mentre mi avventavo voracemente sul suo collo, con le sue mani aggrappate alle spalle.
    Stavo per prepararmi a spingermi oltre quando sentii un insistente scalpiccio e qualche tonfo. La previsione di Edward, a quanto sembrava, era sbagliata. Anche a distanza faceva casino. Imprecai fra i denti e mi riconcentrai su di lui che mi aveva nuovamente attirato a sé, lasciando perdere i rumori che provenivano dal soggiorno. Aveva davvero voglia, a quanto sembrava. Ma qualcosa di pesante che cadeva frantumò completamente tutto. Per l’ennesima volta. E prima ancora che ce ne rendessimo conto, la porta s’aprì con non curanza, rivelando la figura di nostro figlio che reggeva fra le mani qualcosa. Aveva il volto dispiaciuto, nonostante non lo fosse poi così tanto. «Mi sa che l’ho rotto», disse tranquillo, incurante che fossimo entrambi nudi sotto il suo sguardo azzurro. Ma quando il mio si posò sull’oggetto in questione, sbiancai. Era uno dei miei spadini da collezione, quello?
    Spalancai la bocca, incredulo, dimenticandomi persino di Edward. E ce ne voleva, bisognava aggiungere. Ma quella volta l’aveva fatta grossa, il nostro pargolo. Come diavolo aveva fatto a romperlo?! Me ne fregai di tutto, anche del fatto che ero nudo, alzandomi di scatto. Ero a dir poco furioso, e quel degenerato se n’era accorse. Tanto che, urlando un “Non l’ho fatto apposta!” cominciò a fuggire verso il salotto, chiedendo invano pietà.
    Inutile dire che una vena ballerina cominciò a pulsare sulla mia fronte, mentre lo rincorrevo per casa seguito dalle esclamazioni di disappunto di Edward. «Jaz! Questa volta non mi scappi!»







_Note inconcludenti dell'autrice
Stavolta non ho molto da dire, se non che, come le precedenti, anche questa è una vecchia storia
Sono vecchie storie come questa che i fanno sorridere e provare una certa quanto bizzarra nostalgia, e non posso far altro che sospirare afflitta quando vedo il fandom così abbandonato
Io continuerò comunque a postare, dunque se qualcuno legge, commenta o passa anche solo per caso da queste parti, spero che un piccolo sorriso gli venga strappato con queste piccole storie
In fondo Jaz è un amore, no? *Cuore di mamma mode on*
Commenti e critiche sono ben accetti.
Alla prossima. ♥


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** #01. Gatto ~ Quando si dice la curiosità ***


Quando si dice la curiosità Titolo: Quando si dice la curiosità
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2335 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali › 01. Gatto
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff
Rating: Giallo / Arancione
Avvertimenti: 
Shounen ai, What if?


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    Appena uscito dalla doccia, ero piacevolmente rilassato.
    Ci avevo passato una buona mezz’oretta, avvolto fra nuvolette di vapore e acqua scrosciante, più che mai intenzionato a rilassarmi dopo una stressante giornata di lavoro. Avevo poi indossato il mio solito pigiama, costituito solo da un paio di boxer e da una canotta enorme, che in quel periodo primaverile era la soluzione migliore per il clima leggero e certe volte torrido che vigeva nell’afosa South City.
    Sbadigliando, mi passai l’asciugamano fra i capelli per liberarli dall’acqua in eccesso, attraversando il corridoio fino a giungere in salotto, con il presupposto di accomodarmi sul divano e riprendere la lettura d’un interessante libro che avevo comprato qualche giorno addietro. Ne avevo comprato più di uno in realtà, mescolandoli anche con quelli d’alchimia che sarebbero sicuramente interessati a Jaz. E proprio lui vidi seduto sul mio divano quando entrai. Sembrava concentrato, ma non riuscivo a capire che stesse facendo.
    Piano, di soppiatto, mi avvicinai col passo più silenzioso a cui riuscii a dare vita, sporgendomi un pò per sbirciare oltre la sua spalla. Reggeva fra le mani un libro aperto, la copertina poggiata sulle gambe accavallate. E, data l’espressione del suo volto, sembrava completamente immerso nella lettura. Un classico, avevo pensato in un primo momento, conoscendolo troppo bene. Sin da bambino si era sempre appassionato alla lettura, interessandosi in particolar modo all’alchimia quando una lontana sera di dieci anni addietro era stato proprio Edward a fargliela scoprire. Non potei non sorridere a quei ricordi. A quel tempo aveva solo tre anni ed ero io o il mio biondino a leggergli qualcosa. Adesso che ne aveva tredici, invece, già mi sentivo di troppo. Non avrei mai smesso di dare ragione a Maes. Crescevano troppo in fretta.
    Dato che non si era ancora accorto della mia presenza mi sporsi un po’ incuriosito, cercando di leggere un passaggio per capire cosa lo stava appassionando così tanto da estraniarsi a quel modo. Ma quando lo feci sgranai gli occhi, non potendo evitarmi d’arrossire. «Jason!» esclamai quasi al suo orecchio, facendolo trasalire e lanciare un urletto spaventato.
    Sussultando, chiuse di scatto il libro, nascondendolo svelto sotto i cuscini del divano. Quando si voltò verso di me, aveva il viso completamente sbiancato. «C-Che c’è, ‘Ka-san?!» farfugliò nervoso, troppo in fretta e con impeto per risultare credibile in qualsiasi modo se avesse aggiunto altro in seguito. 
    Ancora senza parole mi limitai ad aggirare il divano per trovarmi così dinnanzi a lui, tirando fuori dal suo nascondiglio il libro nonostante cercasse di evitarmi di farlo. Letto il titolo, divenni, se possibile, ancor più scarlatto. Anzi, avrei quasi detto che il mio volto tendeva al violaceo. Porca pu... «Dove l’hai preso?» gli chiesi infine, cercando di mantenere il tono della mia voce composto e serio, senza nessuna incrinazione. Anche se dovevo ammettere che era un bel po’ difficile.
    Lo vidi guardare altrove e grattarsi la testa, stavolta rosso in viso quanto me. «Era accanto a quelli d’alchimia», rispose, come se quella cosa spiegasse tutto. E in effetti... probabilmente avevo dimenticato di rimetterli a posto sui ripiani più alti, proprio dove ero più che sicuro che lui non li avrebbe presi. Non ci arrivava. Ma mai dire certe cose in sua presenza! Si sarebbe solo incazzato.
    «Non avresti comunque dovuto prenderlo», volli aver ragione, nonostante sapessi da solo che la colpa, in fin dei conti, era solo mia. Ero io l’adulto. Dovevo essere io a far attenzione. Gli avevo praticamente permesso di leggere un libro vietato ai minori, cavoli! Non volevo nemmeno immaginare la ramanzina di Edward se l’avesse saputo. Io molti problemi non me ne facevo, in fondo. Con la madre con cui ero cresciuto era tutto dire. Non ero mai stato un vero e proprio bambino innocente, già dai dieci, undici anni.
    Ancora una volta Jason si grattò la testa, puntando il suo sguardo azzurro su uno dei cuscini foderati del divano sul quale anch’io, adesso, mi ero accomodato. «Non sapevo fosse un libro di quel genere», quasi ci tenne a precisare, rosso in volto. «La trama mi piaceva, volevo solo vedere se anche il libro mi avrebbe fatto la stessa impressione e...» 
    «...e ti sei ritrovato a leggerlo comunque fino a quel punto», conclusi per lui. 
    Annuì brevemente, come se si vergognasse. Beh, grazie tante. Mi vergognavo anche io e non ero poi così casto e puro! Avevo comprato quei libri proprio per quel motivo. Per la voglia di fare sesso. Ce n’era parecchia, non lo negavo affatto, ma cercavo di frenare i miei bassi istinti di “uomo” come meglio potevo.E non negavo nemmeno che, certe volte, quando veniva a trovarci e riuscivo ad avere quella rara e fugace visione di Edward appena uscito da sotto la doccia, beh... Il resto era facile da immaginare. Ero solo un uomo, in fondo.E quella, anche se patetica, era una via d’uscita. Quando se ne tornava a Central, era la sua immagine che mi restava impressa sulle retine ed era il profumo di noi che mi inebriava le narici in quei momenti di solitudine.
    Fu lo sguardo ceruleo di Jason a distogliermi appena in tempo dai miei pensieri. Dopo quell’imbarazzante scoperta, ci mancava solo il sull’attenti da parte mia. «‘Ka-san», mi chiamò, forse vagamente imbarazzato, «quello è proprio così?» 
    Perplesso, sbattei più volte le palpebre. «Quello cosa?» chiesi in risposta, vedendolo farsi più serio. 
    «Il sesso». 
    E stavolta arrossii parecchio. O forse ero io che mi sentivo accaldato? Ecco comunque la domanda che tanto avrei voluto evitare anni addietro. Distolsi lo sguardo cominciando a tormentarmi un po’ le mani, passandone poi una fra i capelli per perdere svogliatamente tempo con qualche ciocca. Stavo tergiversando, lo ammettevo. «Devo proprio risponderti?» feci infine, voltandomi appena per incatenare nei miei occhi quel cielo azzurro che erano i suoi. 
    Lo vidi atteggiare il viso ad un’espressione pensierosa, quasi corrucciata. «Non sono più un bambino», mi disse, con tono vagamente accusatorio. Non era un bambino, infatti. Era poco più d’un ragazzino che sfociava nei suoi primi anni di pubertà. Ma perché proprio io mi trovavo a dovergli fare un discorso simile? Mi maledissi mentalmente per non essere rimasto più tempo sotto la doccia, borbottando fra me e me qualche insulto alla mia persona come se quello bastasse a cancellare le domande di Jaz. Aveva cominciato a scuotermi, proprio come quando era più piccolo. Voleva sapere, ed ero sicuro che avrebbe saputo. Che fossi volente o nolente io. 
    «Su questo non posso risponderti», dissi infine, non volendo cedere.
    Però lo vidi corrugare maggiormente la fronte. «E perché no?» subito mi chiese in riposta. 
    «Non sono mai stato con una donna», mentii immediatamente, vedendolo sollevare con fare molto ironico un fino sopracciglio scuro.
    «Bugiardo», fece, con lo sguardo quasi assottigliato. «E tutti i nomi di donna cerchiati in rosso che erano sull’agendina che sta sulla tua scrivania allora cosa sono?»
    In un primo momento, non capii di cosa parlasse. La mia agendina l’avevo ceduta tempo addietro ad Havoc, proprio nel periodo in cui io e Edward avevamo cominciato a frequentarci. Poi, permettendomi nonostante la situazione un sorriso, compresi. Anche se quello sarebbe stato un altro atto da legare al dito. «Primo, smettila di frugare tra le mie cose», dissi con tono ammonitore, non provocando per mia sfortuna l’effetto desiderato. «Secondo, quelle sono semplicemente le mie note d’Alchimia».
    «Alcuni nomi sono note d’Alchimia, ‘Ka-san», quasi parve voler tenere il punto. «Altri no».
    Quel piccolo teppistello maledetto. Era riuscito a decifrarli.
    «Sono tutte note», ribattei. «E non avresti nemmeno dovuto metterne su mano». 
    A quelle mie parole, Jason borbottò contrariato fra sé e sé, nonostante apostrofasse ancora per non volermela dare vinta in nessun modo. Secondo lui era assurdo che io stessi con il suo papà ed appuntassi annotazioni d’alchimia sotto forma di nomi, date e incontri con donne. Ma era un’abitudine che andava avanti da anni. Non potevo di certo cambiarla solo per quel motivo! Non mi sarei più raccapezzato di ciò che scrivevo, poi.
    Per un bel po’ Jason non disse nulla, decidendo solo di spostarsi in cucina quando mi ci avviai anche io. Avevo bisogno d’un caffè forte corretto con del buon vecchio whisky, uno di quelli che Maes mi spediva ogni tanto - o che lui stesso portava qui quando veniva a trovarci - erano davvero l’ideale, un toccasana. Con il mio moretto al seguito preparai il tutto, cercando poi una tazzina prima di mettere la macchinetta sul fuoco.
    Lanciai giusto un’occhiata alle mie spalle, vedendo Jaz accomodato al tavolo con un bacco di biscotti a tenergli compagnia. Teneva lo sguardo basso, solo di tanto in tanto lo alzava per ricambiare le mie occhiate. Scrollai le spalle tornando a guardare il cucinotto, fischiettando un motivetto inventato sul momento. Mi stavo apprestando a versarmi il caffè appena fuoriuscito dalla macchinetta nella tazzina, quando Jaz si fece sentire, raggelandomi con le sue parole.
    «Ancora non mi hai spiegato se è davvero così», disse, con uno strano tono serio che non avevo mai sentito. Porcaccia. E io che avevo sperato che, dopotutto quel gira e rigira, se ne fosse dimenticato. A quanto pareva mi ero sbagliato. Volevo arginare il discorso, certo, ma sembrava inutile.
    Mi voltai molto lentamente, adagiandomi contro il cucinotto che avevo ora di schiena per sorreggermi. Ci misi qualche momento prima di decidermi a rispondere, nonostante la mia mente avesse assimilato quelle parole da un bel po’ di tempo. «Ma non ti sembra d’essere un po’ troppo piccolo per voler conoscere certe cose?» gli dissi, osservandolo con fin troppa attenzione. Persino con occhi critico, avrei aggiunto. Ero convinto che stesse bruciando un po’ troppo in fretta le tappe, e allora? Quello era diventato un mio difetto, negli anni. Consideravo Jason come un eterno bambino, ed ero sicuro che non avrei cambiato idea nemmeno quando sarebbe arrivato alla mia età. Ero troppo protettivo e volevo farlo restare innocente più a lungo che potevo, forse? Beh, allora voleva dire che mi ero calato perfettamente nei panni di mamma chioccia. Non volevo che il pulcino lasciasse il nido.
    A distrarmi dai miei pensieri fu il suo sproloquio sul fatto che tiravo in ballo la sua altezza su quell’appellativo, che io usavo - per inciso - solo in modo affettuoso. «Ho tredici anni, ‘Ka-san! Tre-di-ci!» sillabò, battendo le dita sul bordo del tavolo per dare maggior enfasi alle sue parole.  
    «Appunto perché ne hai tredici è prematuro», ribadii il concetto, tornando all’attacco come “tutore appiccicoso e apprensivo”. Io alla sua età non ero mica così...  d’accordo, lo ammettevo. Il paragone non si poteva nemmeno porre, dato che mi comportavo molto peggio sebbene i miei fossero altri tempi. Dal ’98 ad oggi le cose erano cambiate, anche se di poco. Ma dubitavo comunque che i ragazzini avessero certi pensieri per la testa... va bene, ammettevo che anche quella che stavo pensando era un’immane cazzata.  Era solo una mia convinzione quella di credere dei tredicenni ancora bambini. Non era forse quella, in fondo, l’età dello sviluppo?
    «Ci credi davvero a quello che dici, eh, ‘Ka-san?» ribatté con tono sarcastico, quasi riuscendo a mettermi a tacere. Diavolo, era peggio di Edward. Uno più testardo dell’altro. E per fortuna era cresciuto con me!
    Dovetti arrendermi all’evidenza, abbandonando l’idea di quel bel caffè forte per andare a prendere posto dinnanzi al mio moretto. «Da quanto tempo?» domandai infine, traendo un lungo sospiro. Mi sentivo davvero una madre apprensiva, diamine. Ma lui ricambiò il mio sguardo sbattendo le palpebre, come se non avesse compreso il mio quesito.
    «Cosa?» chiese difatti in risposta, facendomi sospirare nuovamente. O era bravo a fare lo gnorri, o voleva solo esasperarmi.  
    «Da quant’è che ti interessi alle ragazze così tanto?» ripetei paziente, servendogli parola per parola su un piatto d’argento. Da piccolino diceva a destra e a manca di avere delle fidanzatine, certo, ma a quei tempi non ne capiva il vero significato. Adesso che era in fase di pubertà era ben diverso.
    Lo vidi scrollare le spalle con semplicità, atteggiando il viso ad un’espressione pensosa mentre incurvava le labbra all’ingiù, quasi come se la cosa per lui fosse indifferente. Menefreghismo, perfetto. «Direi da un po’», la gettò sul facile, senza darmi momenti precisi. 
    Decisi intenzionalmente di non indagare oltre, anche perché d’altarini o scheletri nell’armadio non volevo scoprirne. Meglio restare ai tempi in cui lui si chiedeva perché la sua mamma fosse un papà e ancora non aveva ben capito quella situazione delicata. «Continuo ad insistere che è presto», mi intestardii, non volendo guardare in faccia la realtà. Il pulcino avrebbe presto spiegato le ali, maledizione.
    «Ma, ‘Ka-san, a me le ragazze piacciono!» ribatté, come se stesse cercando di far valere la sua autorità, la sua parola in merito o chissà cos’altro. «Un po’ di tempo fa ne ho anche baciata una!»
    Chiusi gli occhi, lasciandomi sfuggire un gemito. Questo avrei preferito non saperlo. Mi toccò dunque intraprendere quel lungo e intricato discorso che anni addietro avrei volentieri scaricato a Edward - e, data la sua inesperienza, mi sarei persino fatto quattro risate nel sentirlo spiegare il sesso a Jason, che ne sapeva ancor meno di lui -, chiedendomi al tempo stesso chi me lo avesse fatto fare di uscire da quella maledetta doccia. Avrei potuto prolungarla ancora, aspettare che Jaz si addormentasse e magari nemmeno accorgermi che aveva preso quel dannato libro erotico. Era un vero e proprio idiota.
    Il mio caro figlioletto mi ascoltò rapito, acciambellandosi prsino sul divano come avrebbe fatto un grosso gatto che si era appena pappato un topolino succulento. E in quel caso il topolino in questione ero proprio io. Sembrava quasi che gli stessi raccontando una favola della buonanotte, dato il modo in cui aveva cominciato ad osservarmi e i continui quesiti a cui aveva dato vita. Quelli che passarono mi parvero attimi infiniti, e potei trarre un sospiro di sollievo solo dopo aver concluso.

    Dopo tutta quella chiacchierata l’unica cosa che volevo fare era una bella dormita - sperando che la sua curiosità non me lo impedisse, dato che avevo un assoluto bisogno di schiacciare un pisolino -, quando un’altra sua domanda si fece sentire, facendomi sfuggire un altro lungo gemito e preannunciando un ennesimo discorso fatto di contro sensi e quant’altro.
    Quando si diceva, per l’appunto, la curiosità!







_Note inconcludenti dell'autrice
Questa volta non mi perdo molto in chiacchiere, per quanto mi piacerebbe davvero tanto ricevere un piccolo parere da tutti coloro che leggono
Siete in molti e, dato che il fandom è stato abbandonato a se stesso, se perdeste almeno qualche minutino in più a lasciare una piccola recensione per far sapere cosa ne pensate della storia, fareste felice una piccola fanwriter che ha riscoperto il proprio amore per questa meravigliosa coppia dopo essersi arenata per mesi e mesi nel fandom di One Piece. Sono ancora arenata lì, a dirla tutta, e, se per caso a qualcuno interessasse, sto portando avanti una raccolta ZoSan intitolata
Waiting for ~ 30 Shattered Pieces
Commenti e critiche sono sempre ben accetti
Alla prossima. ♥


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** #10. Pulcino ~ Quel che non si impara dai libri ***


Quel che non si impara dai libri Titolo: Quel che non si impara dai libri
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2232 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali › 10. Pulcino
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff
Rating: Giallo
Avvertimenti: 
Shounen ai, What if?


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    «Non mi sembra così difficile», borbottai con cipiglio sarcastico, gettando quasi svogliato il quaderno degli appunti di Jaz che, seduto alla scrivania in biblioteca come me, picchiettava annoiato la stilografica su un foglio, come se non sapesse cosa scrivere. Indietro con le lezioni da un bel po’, gli era toccato, quella domenica pomeriggio, studiare sodo  e recuperare tutti i compiti arretrati. E non erano mica pochi. Se si escludeva matematica - in cui era assolutamente negato -, doveva studiare venti pagine di filosofia e altrettante di storia, senza contare poi che gli sarebbe toccato scrivere un saggio su ciò che avrebbe letto. Eravamo in quella stanza da ore, però, era quasi sera tarda e ancora nessun risultato.
    Dopo un lungo sospiro, incrociai le braccia al petto, osservandolo mentre continuava a non far niente, sbadigliando di tanto in tanto. Con la coda dell’occhio guardai Edward che, subito tirato fuori da quell’intoppo, se ne stava comodamente sdraiato sul divano, immerso nella lettura di uno dei suoi libri. Riportai la mia attenzione su Jason, che mi lanciò a sua volta un’occhiata, reggendosi il volto sul dorso della mano.
    Annoiato al massimo, abbandonò la penna per allungare pigramente un braccio verso la busta di patatine che stava consumando, prendendone una e sgranocchiandola. Inghiottendo, mi guardò ancora, imbronciato. «Per te è diverso, ‘Ka-san, queste cose le hai studiate quand’eri giovane», fece ironico, prendendo un’altra patatina con non curanza.
    Inarcai maggiormente un sopracciglio, poggiando i gomiti sul bordo della scrivania. «Solleva ancora una volta l’argomento “età” e ti lascio qui a studiare da solo, così ti becchi un bel non classificato anche in queste due materie, uhm?» replicai, sfoggiando uno dei miei miglior sorrisi.
    Lasciò cadere la patatina che aveva preso, spalancando la bocca. «Ma questo è un ricatto!» esclamò incredulo, richiamando l’attenzione di Edward. Proprio lui ci guardò, abbassando di poco sul naso gli occhiali da lettura. Anche una delle sue sopracciglia bionde era inarcata con scetticismo.
    «Jaz, mettiti a studiare», disse, con il tono più normale e tranquillo che riuscì a trovare, prima di voltarsi verso di me. «E tu, Roy, finiscila di istigarlo e aiutalo». Dettato questo suo semplice ma imperativo comando, si drizzò a sedere sul divano chiudendo di poco il libro, alzandosi poi per dirigersi verso di me e scoccarmi un bacio a timbro sulle labbra. «Quando avete finito ti aspetto di là», mormorò, allusivo e sorridente, dando poi una pacca a Jaz, come se in quel modo volesse dargli manforte. Distratto, poi, agitò il libro, uscendo dalla biblioteca per lasciarci soli nei nostri studi.
    Jason sbuffò ancora, chinando afflitto il capo, con il mento poggiato sui molteplici fogli che ingombravano la scrivania. «Non finirò mai», si lagnò con voce infantile, allungando nuovamente una mano verso la busta di patatine. Ma prima che potesse prenderne una, l’afferrai spostandola lontano dalla sua portata. Ci guadagnai così un’occhiataccia, prima che si tirasse su a sedere. Picchiettò il legno con un dito, gli occhi azzurri ridotti a due fessure. «Senza quelle non studio», disse con voce neutra ma decisa.
    Per tutta risposta, posai la busta poco lontano. «Non studiare e fatti bocciare, poi ne riparliamo», replicai.
    «Se mi bocciano, ‘To-san darà la colpa a te», ribatté convinto, come per avere l’ultima parola. «E ti negherà il sesso».
    Ecco, quella era una cosa che non volevo accadesse. Assottigliai lo sguardo, quasi grugnendo. «Finisci filosofia», rimbeccai di rimando, senza voler sentir ragioni. «Altrimenti non saranno solo queste patatine ad esserti negate, ma anche altre».
    Cogliendo la sfumatura fra le righe, spalancò ancor più incredulo la bocca, sgranando gli occhi. «Ma perché usi sempre lo stesso ricatto!» urlò, battendo un pugno sul bordo del tavolo.
    «Uso solo la tua stessa moneta», la buttai lì tranquillissimo.
    «E’ una mossa vile!»
    «Anche la tua».
    «Ahhhh! Non riesco nemmeno a risponderti a tono dopo tutto questo tempo perso sui libri!» Frustrato, si passò freneticamente entrambe le mani fra i capelli scuri, scompigliandoli vigorosamente e lasciando che alcune ciocche gli cadessero a nascondere il viso. Conciato in quel modo, ricordava vagamente un pulcino spellacchiato. «‘Sto quinto anno è cominciato uno schifo!»
    Non riuscii a soffocare una risatina, riprendendo distratto il suo quaderno degli appunti. Aperto, ripresi a leggere in mente il problema di matematica, guardando poi lui.  «Prendi la penna e muoviti a togliere di mezzo almeno matematica», dissi, trattenendo un sonoro sbadiglio. Doveva fare una sola cosa, in quella materia, e ancora non l’aveva cominciata. Aveva solo scritto un paio di appunti di filosofia, ma non più di tanto. E dopo mi sarebbe toccato dettargli anche la fine prima di passare a quella dannatissima materia che era storia, anche se non mi aveva voluto dire l’argomento.
    Lo vidi accantonare per poco la sua aria da cane bastonato per allungarsi nullafacente verso la penna, quasi prendendola a moviola. Quando si fu finalmente sistemato e munito di stilografica, mi lanciò uno sguardo che poteva significare tutto, aspettando che gli esponessi il problema. Trassi un profondo respiro, sperando che almeno quello che lo saremmo tolto di mezzo in fretta. «Allora. Ascoltami attentamente perché non ripeto», cominciai, poggiando la schiena alla sedia. «Se una casa editrice deve spendere 60.000 Cens di spese fisse per produrre un libro, aggiungendoci anche 800 Cens per la carta, e ogni copia non deve superare i 1.000 Cens, quante copie del libro devono stampare?»
    Mi guardò stranito, come se avessi parlato un’altra lingua. Aveva persino la penna sospesa a mezz’aria, sopra al foglio completamente bianco. Non aveva scritto niente. «Che diavolo è ‘sto coso?» mi domandò allibito, sbattendo più volte le palpebre. Inutile, era un caso disperato...
    Trattenendomi dal lasciarmi sfuggire un lamento, mi coprii gli occhi con una mano, scuotendo avvilito la testa. «L’argomento che state studiando», ribattei sarcastico, guardandolo poi attraverso la fessura delle dita. «Le disequazioni, hai presente?»
    Scosse la testa con quella sua solita espressione innocente dipinta in volto, gli occhi azzurri esprimevano tutta la sua sincerità. Non aveva minimamente idea di cosa stessi parlando, perfetto. Cominciai, pazientemente, a spiegargli tutto dal principio, anche come dover svolgere cose molto più semplici del banalissimo problema che gli avevo esposto. Ma, dopo una mezz’oretta circa, quasi stavo per lanciare un urlo frustrato. Glielo rispiegai ancora e ancora, finché finalmente, alzò un indice e prese la penna, cominciando a scribacchiare qualcosa sul suo foglio. Poi me lo porse con un sorriso compiaciuto, incrociando le braccia al petto.
    «Adesso non ho sbagliato», disse gongolante, e mentre io ero concentrato a leggere quell’inguacchio che inchiostrava il foglio, lui allungò una mano verso la busta di patatine che avevo abbandonato poco lontano, arraffandosela. Beh, almeno aveva capito sul serio...
    Lo guardai mangiucchiare, prima di porgerglielo nuovamente. «Leggimi che hai scritto», feci tranquillo.
    Lui abbandonò per un attimo la busta ma, sgranocchiando, riprese il foglio mantenendolo dinnanzi agli occhi con due dita per poter leggere. «60.000+800x < 1.000x.» bofonchiò quasi con la bocca piena, continuando svogliato. «60.000 < -800x+1.000x, che diventa poi 60.000 < -200x. Il risultato è x > di 60.000 fratto -200, cioè 300 copie. Adesso leviamo di mezzo questa insulsa materia?» soggiunse spazientito, prendendo ancora una volta una patatina per mangiarsela al volo, prima che gli soffiassi nuovamente la busta.
    «Almeno hai capito bene quello che hai detto e il procedimento da svolgere?» domandai ancora, puntiglioso.
    Se avesse nuovamente preso un non classificato, ci avrei rimesso ancora una volta io. «Ho capito, ‘Ka-san, finiamo storia e filosofia piuttosto, ho sonno!» si lagnò come un poppante, abbandonando entrambe le braccia in avanti.
    Non volendolo sentire oltre lo accontentai, prendendo il suo libro di testo e voltando le pagine alla ricerca dell’argomento che avrebbe dovuto studiare. Cominciai a dettarglielo, assonnato quasi quanto lui mentre di tanto in tanto mi concentravo sulla stilografica che reggeva e che, lentamente, scorreva sul foglio, lasciando che la scrittura fluida di Jason lo riempisse. Se ne andarono, credo, altri quarantacinque minuti. E non perché l’argomento fosse lungo, non c’era poi molto da dire su Pitagora, ma perché, puntualmente, mi interrompeva per filare in bagno, per andare a prendersi un bicchiere d’acqua oppure un’altra busta di patatine. Dire quindi che mi ero quasi spazientito era un eufemismo. Ero letteralmente sull’orlo di una crisi di nervi.
    Quando finimmo anche quello, concentrai la mia attenzione sul libro di storia, allungando un braccio per afferrarlo e girare, altrettanto svogliato, le pagine. «Che argomento vi tocca studiare, stavolta?» chiesi distratto, leggendo e non i titoli d’intestazione.
    Non parlò limitandosi a guardare come se fosse estremamente interessato le venature della scrivania, evitando così il mio sguardo. Inarcai un sopracciglio a quel suo modo di fare, prendendo il suo quaderno degli appunti per colpirlo in testa con quello. «Ahia!» esclamò, massaggiandosi offeso il capo. «Che ho fatto adesso!»
    Lasciai cadere il quaderno sulla scrivania, guardando scettico il suo volto. «Come ti aiuto in storia se non mi dici l’argomento?» gli tenni presente in tono esageratamente ironico, ma lui, a quelle mie parole, si grattò distratto la testa. Forse a disagio, si massaggiò la spalla, guardando altrove. Poi, con la penna ben impugnata e senza degnarmi della minima attenzione, prese il foglio scrivendo il titolo del tema con la sua grafia ordinata ma alquanto insicura. Lo girò in modo che leggessi, ma non disse una parola. E quando lo feci, poggiai entrambe le mani sul bordo del tavolo con una tale violenza che lui sussultò, osservandomi smarrito con i suoi occhi azzurri, mentre mi alzavo per dirigermi verso la soglia. «Con quell’argomento non ti aiuto, preferisco che ti becchi un’insufficienza», sbottai innervosito, uscendo del tutto dalla biblioteca con al seguito le sue proteste. Ma non gli badai, andandomene in cucina. Piuttosto che mettere nero su bianco quelle esperienze, avrei davvero voluto che avesse un non classificato completo anche in storia. Non gli avevo mai negato nessun racconto quando all’occorrenza me li chiedeva, ma con quello non ci sarei assolutamente riuscito.
    A distrarmi, mentre prendevo un bicchiere dalla credenza per riempirlo di whisky, fu la sua presenza incerta sulla soglia, titubante e silenziosa. Mi versai il liquore che avevo appena recuperato, voltandomi verso di lui. Era mesto e imbronciato, vagamente intristito. «Perché non vuoi mai parlare della guerra d’Ishvar?» mi domandò flebile, mordendosi immediatamente il labbro inferiore come se volesse rimangiarsi quello che aveva chiesto.
    Io, d’altro canto, non risposi. Ero passato dallo stato di tranquilla pigrizia domenicale a quello d’incazzatura totale in poco tempo. Ma chiunque, probabilmente, avrebbe avuto la mia stessa reazione. «Perché quella non è stata una guerra, è stato un massacro», ribattei schietto, con le mani abbandonate sul bordo del lavandino, lo sguardo puntato sul bicchiere pieno a metà che avevo appena posato.
    Calò un silenzio carico d’attesa, subito dopo. Anche la presenza di Jason era quasi diventata assente. Finché non decisi di voltarmi verso di lui a braccia conserte, incamminandomi verso il tavolino al centro della cucina e spostando la sedia prima di accomodarmi. Con i pugni chiusi sulle cosce lo guardai, cercando di decifrare la sua espressione. «Scrivi solo questo sul tuo tema», ripresi, forse più nervoso di quanto avessi voluto sembrare. «Puoi anche sorvolare le cause».
    «Se non vuoi parlarmene tu lo chiederò ai tuoi commilitoni», replicò altrettanto duro, sfidandomi con lo sguardo. «Anche se preferirei che fosse mio padre a spiegarmi cosa accadde».
    Per parecchio non fiatammo, concentrato ognuno sugli occhi dell’altro. Lui si era persino avvicinato e seduto al tavolo, abbandonando fogli e penne su di esso per squadrarmi attentamente, come se temesse che potessi sgusciare via. E l’avrei sicuramente fatto, se quegli occhi agguerriti non mi avessero incatenato al suo sguardo. Mi arresi all’evidenza non più di una quindicina di minuti dopo. Aveva continuato a guardarmi per tutto il tempo, senza battere ciglio.
    Imbestialito o quasi, serrai la mascella, lanciandogli un’occhiata in cagnesco. «Se te ne parlo devi farmi la cortesia di non chiedermi più nulla», misi a condizione, sperando che capisse, almeno in parte, quanto mi costasse raccontarlo. E fortunatamente, in tacito silenzio, annuì, mettendo mano alla penna. Ripiombai in quei giorni, mentre gli raccontavo le cause dello scoppio della guerra, il disfacimento che l’esercito aveva portato nei suoi primi anni fino all’utilizzo di noi Alchimisti di Stato, spediti sul campo di battaglia alla stregua di vere e proprie armi. Non mi sfuggì il suo improvviso sussulto, a quella rivelazione. E nemmeno l’espressione che aveva assunto il suo volto quando continuai. Fu quasi con un certo rammarico che, una volta che tacqui, cominciò a scrivere sotto forma di tema gli appunti che aveva preso, in emerito silenzio. Così in silenzio che, per molto, sentii solo il graffiare della penna che scorreva sul foglio.
    Quando concluse, lo piegò di lungo e ci scrisse nome e cognome, evitando ancora di guardarmi. «Grazie, ‘Ka-san», mormorò, con quel tono dispiaciuto che usava quando, ancora bambino, veniva a chiedere scusa per una marachella commessa.
    Non volendo sollevare questioni agitai una mano, alzandomi per tornare al lavello, dove mi aspettava ancora il bicchiere di liquore. Lo presi bevendone giusto un sorso, vedendo distrattamente, con la coda dell’occhio, Jason alzarsi per andarsene, diretto forse alla biblioteca che era ormai la sua stanza. Quando mi voltai, però, rimasi stupito. Sul tavolino, fra i fogli bianchi, c’era il suo tema e, accanto, un altro foglio sul quale era abbandonata la penna, con la quale aveva finito di scrivere quel piccolo messaggio che stavo leggendo in quel momento.
    “Se ti fa star male preferisco un’insufficienza.” C’era scritto a lettere cubitali. Ma fu quando lessi la scritta più piccola che mi sentii invaso da quella che forse era tristezza. O, più semplicemente, orgoglio paterno. E quella che mi infastidì gli angoli degli occhi, forse, fu una lacrima. “Va tutto sepolto nel passato”.







_Note inconcludenti dell'autrice
Questa era una di quelle storie un po' malinconiche che avevo dimenticato nel mio piccolo archivio personale
Come si può immediatamente notare, la storia ad un certo punto ruota intorno alla guerra di Ishvar, poiché ho pensato che essa potesse essere un avvenimento importante nella storia di Amestris e che, a distanza di anni, potesse essere inserita nelle sedi scolastiche, un po' come la prima e la seconda guerra mondiale quando si tratta di guerre significative per quel che riguarda il nostro mondo.
Diciamo più che altro che volevo che Roy e Jaz affrontassero quest'argomento, difatti ho fatto in modo che Edward se ne andasse altrove e attendesse il suo compagno. Ogni tanto un pizzico di malinconia ci vuole, suppongo
Commenti e critiche sono ben accetti, ovviamente
Alla prossima. ♥


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** #07. Farfalla ~ Disguidi insensati del giorno dopo ***


Disguidi insensati del giorno dopo Titolo: Disguidi insensati del giorno dopo
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 1612 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Tabella/Prompt: Animali › 07. Farfalla
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff
Rating: Giallo
Avvertimenti: 
Shounen ai, What if?


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    Il vento infuriava fuori fra le vie, uggiolando negli anfratti dei vicoli e sferzando con la sua potenza le rade fronde degli alberi, le cui foglie autunnali si sarebbero sicuramente staccate dai rami per mulinare lontano, accompagnando la pioggia scrosciante che picchiava contro i vetri della mia finestra.
    Avvolto nel mite tepore delle lenzuola, in un stato di dormiveglia appagante, sfregavo in continuazione il viso contro il cuscino, nel tentativo di riscaldare il naso,
mentre ascoltavo il rumore delle porte chiuse che sbattevano appena e il tamburellare delle gocce sul tetto. Con gli occhi ancora categoricamente chiusi e pesanti, mi accorsi poco a poco di star abbracciando qualcosa di molto morbido, ma non vi prestai attenzione più di tanto, pensando che, come mio solito, avessi capovolto l'altro cuscino di piume d'oca ritrovandolo al mio fianco, usandolo un po' a mo' di pupazzo. Però, pian piano, tutto stava acquistando maggior consistenza, e dovetti ammettere che per essere un cuscino era ben modellato. Fin troppo modellato, avrei osato aggiungere.
    La mia mano vagò in rassegna di quell'oggetto lentamente, come se cercassi di capire con esattezza cosa fosse, e fu proprio per tentare di far chiarezza nei miei dubbi che aprii piano gli occhi velati di sonno solo per scorgere un baluginio dorato offuscarmi leggermente la vista. E mi ritrovai a fare i conti con la dura realtà. Specialmente quando mi accorsi dove si era fermata la mia mano e cosa stava toccando. Non ebbi il tempo di ritrarla di scatto che un pugno d'acciaio, lanciato contro di me a tutta velocità come se si fosse trattato di un treno in corsa, mi centrò in pieno una guancia, quasi facendomi ritrovare ai piedi del letto.
    Le polle d'ambra di Acciaio, luccicanti e fiammeggianti d'ira, mi osservavano con tutto il disprezzo che fosse mai stato possibile.
«Dovevo immaginarlo che non sarebbe stato di parola!» mi accusò iracondo, puntandomi con fare minaccioso l'indice contro. «Voleva approfittare di me mentre dormivo, razza di pedofilo depravato!?»
    Spiazzato e boccheggiante, intontito per il sonno e per il colpo che mi era stato appioppato, non sapevo né cosa dire in mia difesa né tanto meno riuscire a fare qualcosa per calmare la sua rabbia, che sembrava insormontabile. Dormivo, l'avevo toccato accidentalmente. Come spesso mi capitava, difatti, dimenticavo in che luogo mi addormentavo e, cosa molto più importante, con chi. Ma era da più o meno due anni che non mi ritrovavo in un letto con qualcuno, più che plausibile quindi che non ne fossi più abituato. Deglutendo senza distogliere lo sguardo da quelle iridi dorate ardenti di collera, mi rimisi in piedi portandomi una mano alla guancia, che mi pulsava in maniera spropositata per il colpo ricevuto. Ne aveva di forza, quel soldo di cacio.
«Senti, lasciami spiegare, Acciaio», provai, alzando subito le braccia per rendere veritiera la mia resa e il mio addio alle armi.
    Lui, però, stizzito come non mai, trasmutò il suo auto-mail e, senza minimamente pensarci due volte, mi puntò con foga la lama d'acciaio alla gola.
«Non c'è nulla da spiegare!» sbraitò, il corpo scosso dalla rabbia, dimentico che ci trovavamo in un motel dove avrebbe potuto sentirci chiunque in qualsiasi momento. «Mi ha palpato ben bene! Dopo che aveva giurato che non mi avrebbe toccato!»
    E sei anche ben fornito, evitai di dirgli, per non alimentare la sua ira. Non sarebbe risultato un complimento, in quel momento esatto. Così, accordai con me stesso un'altra inutile scusante.
«E' un banalissimo equivoco», cercai ancora una volta di spiegargli, ma il suo sguardo di fuoco mi bloccò, così come il rombo di un tuono che, come se avesse seguito la sua collera, squarciò il cielo.
    Il suo volto diventava man mano sempre più rosso, mentre indietreggiava sul materasso.
«Per lei è banale, forse!» ribadì a voce sempre più alta, scansando così velocemente la lama che mancò poco che mi colpisse tagliandomi la gola. «Sono i miei gioielli quelli che ha toccato, porco!»
    La questione stava prendendo una piega un pp' troppo imprevista. E anche la sua spropositata presa di posizione per quella faccenda, stava degenerando sempre più.
«Cerca di darti una calmata», dissi in tono basso, ponendo entrambe le mani in avanti. «Ritrasmuta il tuo auto-mail e siediti, per favore».
    Lo vedevo distintamente tremare, anche se non capivo se fosse per rabbia o per altro, mentre la lama d'acciaio tentennava. Aveva il respiro velocizzato e si mordeva violentemente il labbro inferiore, quasi facendolo sanguinare per come stringeva i denti. Piano poi, molto piano, abbassò la lama quando battè le mani, riportando il braccio al suo stato normale mentre si lasciava cadere in ginocchio sul materasso, seduto sulle proprie gambe. Evitava di guardarmi, per imbarazzo o per disagio, era difficile da stabilire.
    Sospirando rasserenato per il momento di quiete che mi stava concedendo, mi sedetti sul bordo del materasso, lanciandogli un'occhiata di sottecchi.
«Adesso vuoi ascoltarmi?» gli domandai con voce piatta, vedendolo distogliere maggiormente lo sguardo, quasi fosse offeso. Ma annuì svogliato, senza arrischiarsi ad incrociare i miei occhi. «Giuro sul mio onore, Acciaio, che non volevo», eloquii pacato, spostandomi appena verso di lui  per avvicinarmi un po'. «Mi ero dimenticato di non essere solo, pensavo fossi nel mio letto».
    «Sa quanto le credo», borbottò subito a bassa voce, continuando cocciuto a tenermi il muso con lo sguardo puntato verso il muro.
    «Puoi credermi come non farlo», dissi saccente, alzando lo sguardo al soffitto inumidito della stanza, incrociando poi le gambe sul materasso. «Continuare a insistere sulla mia innocenza sarebbe esattamente come gettare benzina sul fuoco».
    Per un bel po' di tempo, né io né lui parlammo, a riempire quel vuoto e il silenzio imbarazzato che si era creato fra noi c'era soltanto l'insistente scrosciare della pioggia sulle tegole del tetto del motel. Poi, sebbene non me lo aspettassi, lui mi lanciò un'occhiata che colsi con la coda dell'occhio, e lo vidi massaggiarsi distrattamente il braccio sinistro, come se gli facesse male.
«Ho esagerato, mi scusi», bofonchiò sulla difensiva, e sul suo volto si dipinse la tipica espressione di chi era costretto ad inghiottire contro voglia un rospo. E letteralmente, c'era da aggiungere. Era raro, difatti, che chiedesse scusa per qualcosa. Specialmente a me.
    Riabbassai completamente lo sguardo per osservarlo meglio, trovandolo contrariato.
«Mi spieghi che t'è preso?» gli chiesi, e lui sussultò, quasi a disagio. Ancora una volta si massaggiò il braccio, cominciando nervosamente a stuzzicarsi la carne del labbro inferiore con i denti. Mi lanciò un'occhiata, le guance imporporate di rosso mentre lasciava ricadere entrambe le braccia in grembo, grattandosi poi distratto una coscia.
    «Non lo so», mormorò, lo sciabordio quasi coprì il suo sussurro. «E' che... è stato strano, ecco». Poi, come se si fosse reso conto che ciò che aveva detto era stupido, si sbatté una mano sulla fronte, scuotendo la testa. «Cioè, so che in certi contesti si hanno... come dire... delle reazioni ma... non pensavo che...» si interruppe per scuotere ancora una volta la testa, rosso in volto. «Lasci perdere, Taisa», soggiunse sottovoce, le bionde sopracciglia corrugate in un'espressione quasi rammaricata.
    Dal canto mio, cercavo di capirci qualcosa. Mi aveva aggredito a quel modo... perché aveva paura di cosa? Che potesse eccitarsi? O la mia mente deviata aveva interpretato male le sue parole? Il tarlo del dubbio mi fece aggrottare la fronte, ma non osai chiedergli altro per il timore della sua lama d'acciaio nuovamente alla gola. Me lo sarei domandato a lungo il perché, supposi.
    Vidi distrattamente Acciaio portarsi dietro alle spalle i capelli che aveva lasciato sciolti la sera addietro, poi, sollevando un sopracciglio, mi osservò con una strana espressione. Si lasciò sfuggire una piccola risata. Né divertita né triste. Solo non entusiasta.
«Spesso mi comporto da stupido, vero?» disse di punto in bianco, con un tono di voce che sembrava cercasse conferma da me. Non sapendo cosa dire, mi limitai a sbattere le palpebre perplesso. Lui si grattò non curante dietro al collo, gattonando a ritroso per poggiare i piedi sul pavimento, oltre il bordo del letto. Mi guardò, con un sorrisetto privo di ogni sfumatura. «Credo di aver capito perché ha tanta fama con le donne, Taisa», il sorriso d'un tratto si accentuò, acquistando tonalità e sarcasmo. «Con un semplice tocco manda in panne il cervello». Dandomi le spalle, recuperò la sua giacca dal comodino e se la infilò, sistemandosi il colletto prima di guardarmi di nuovo. «Mi sono sentito un po'», si fermò, come a voler cercare le parole adatte, «colto di sorpresa e mi è andato il sangue alla testa, visto che non sono abituato... oltretutto, ha delle mani molto calde», soggiunse quasi pensoso, distogliendo non curante lo sguardo.
    Io, frattanto, cercavo di razionalizzare ogni pensiero che mi gironzolava per la testa senza che ci fosse un filo unico che li connettesse tutti. Dapprima la sua rabbia, poi il suo imbarazzo. Adesso era ironia, o complimenti? Non sarei mai riuscito a capire quel mistero che era per me Edward Elric, l'Alchimista d'Acciaio. Scuotendo la testa mi alzai a mia volta per recuperare la mia camicia e gli stivali, rivestendomi più in fretta che potei. E tutto con lui voltato da un'altra parte. Deciso più che mai a porre fine alla questione, mi avvicinai a lui arrischiandomi a cingergli le spalle, riuscendo persino a sentire il battito del suo cuore come se si fosse trattato di una farfalla intrappolata nelle mie mani. Ci guadagnai un'occhiata, ma sollevai appena le sopracciglia prima di socchiudere gli occhi e sorridere mesto.
«Credo sia ora di tornare a casa, aye?» la buttai poi lì quasi distrattamente, mollandolo per incamminarmi.
    Dopo poco, però, lo sentii al mio fianco, la sua aria allegra e serena era tornata vivace sul suo volto. E 
mi sorrise con fare sarcastico, forse persino con un velo d'imbarazzo. «La prossima volta lo scelgo io il motel».






_Note inconcludenti dell'autrice
Questa storia si colloca subito dopo il capitolo quattordici della raccolta Hearts Burst Into Fire, ovvero quando Roy e Edward si ritrovano a dormire nel motel dopo essersi dichiarati in un certo senso i loro sentimenti
Come le precedenti, questa storia è parecchio vecchiotta, e ci ho dovuto mettere un po' mano per sistemarla come si conveniva, date le virgole fuggite in ogni dove
Era un peccato lasciare a marcire queste storie dentro l'archivio del mio computer, però, così ho voluto postarle una volta per tutte prima di completare tutte le storie che mi restano da finire
Proverò, comunque, a scrivere qualcosa di nuovo prima della conclusione di questa raccolta, dato che ne ho assoluto bisogno
Commenti e critiche sono ben accetti, ovviamente
Alla prossima. ♥


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** #08. Pecora ~ Battute ambigue e cavalli imbarazzati ***


Battute ambigue e cavalli imbarazzati Titolo: Battute ambigue e cavalli imbarazzati
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 1041 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Maes Hughes, Jean Havoc
Tabella/Prompt: Animali › 08. Pecora
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff
Rating: Giallo
Avvertimenti: 
Shounen ai, What if?


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    «Sa, Colonnello, ancora non riesco a crederci!» esclamò di punto in bianco Havoc, alzando un tantino la voce per sovrastare il baccano che quella sera si era creato nel locale.
    Io, lui e Maes eravamo usciti per bere qualcosa, una serata fra amici - così l'avevano definita loro, almeno - e, essendo solo a casa poiché Edward era nuovamente dovuto tornare a Reesembool per la riparazione del suo auto-mail - con il quale, a causa della scarsa manutenzione che faceva, aveva quasi rischiato di castrarmi - mi ero ritrovato a seguirli per passare un po' di tempo in compagnia, dato che non c'era nemmeno Jaz. Ormai aveva una lista di ragazze lunga un chilometro, e quasi ogni sera usciva con una diversa, fregandomi soldi per pagare le sue serate grazie alla sua aria da cucciolo bastonato. Ero un cretino che ci cascava sempre, insomma.
    A quei miei stessi pensieri, scossi il capo, bevendo un lungo sorso di whisky
prima di rispondere ad Havoc. «Non riesci a credere a cosa, esattamente?» chiesi di rimando con fare sarcastico, approfittando del fatto che il trambusto si era bene o male calmato, sebbene il vociare fosse ancora parecchio alto.
    Lui si sfregò una mano sulla fronte, gettando uno sguardo a me e a Maes.
«Nulla, Colonnello, pensavo a lei e a Edward», mi informò, riempiendosi il bicchiere per osservare poi il liquore ondeggiare al suo interno. «Era da un bel po' che volevo chiedervelo... voi due eravate come cane e gatto, come diavolo avete fatto a trovarvi... fidanzati?»
    A quella domanda innocente, non fui io a ridere, bensì Maes, seduto al mio fianco. Guardando con un cipiglio ironico Havoc, diede a me una pacca sulla schiena, cingendomi le spalle con un braccio. 
«Coraggio, illuminaci, Flame Alchemist!» esclamò divertito, allungando l'altro braccio per prendere il suo bicchiere di whisky e bere giusto un sorso.
    «Come se tu non lo sapessi», replicai, inarcando un sopracciglio e scorgendo un sorriso sulle labbra sue e quelle di Havoc, seduto di fronte a noi mentre si rigirava di tanto in tanto il suo bicchiere fra le mani e guardava poi gli altri clienti con finto interesse.
    «Ma lui non lo sa», mi tenne presente Maes in tono ilare, indicando distrattamente Jean con un cenno del capo. «Ed è più che logico che sia curioso, non ti pare?»
    Sentendo lo sguardo di entrambi puntato addosso, mi ritrovai a sospirare, probabilmente persino affranto, sapendo bene che non c'era modo di controbattere, con loro. Li conoscevo da troppi anni per credere che me la lasciassero passare liscia, e Maes, quando voleva sapere qualcosa, riusciva sempre a cavare un ragno dal buco. Bene o male, infatti, era capace di farmi parlare anche contro voglia. 
«Beh», borbottai grattandomi la testa, non sapevo bene da dove cominciare. «All'inizio era insopportabile, lo ammetto». Mi ritrovai a sorridere al ricordo di quei tempi, in cui aveva solo dodici anni e aveva appena superato l'esame per diventare alchimista. «Tentava sempre di ribattere i miei ordini, e non ne voleva quasi mai sapere di ubbidire». Vidi Havoc che mi osservava, quasi curioso di sapere cosa avessi detto adesso. Impacciato e quasi nervoso dalla loro attenzione, allungai distratto una mano ad accarezzare il bordo del mio bicchiere con la punta delle dita, senza smettere di sorridere. Era strano quel mio modo di comportarmi, certo. Ma ero innamorato, che potevo farci.  «Pian piano, ho imparato a conoscerlo», continuai quasi inconsciamente, inclinando la testa di lato, mentre continuavo a giocherellare con il bicchiere. «E, conoscendolo, alla fine ci sono cascato con tutte le scarpe e me ne sono innamorato come un ragazzino».
    Sentii Havoc battere piano le mani e fischiare ilare, e, riscuotendomi, alzai lo sguardo per osservarlo, vedendo il suo volto profondamente colpito, come se da me, parole del genere, non se le sarebbe aspettate. Al mio fianco invece, Maes non la smetteva, per qualche oscuro motivo, di sghignazzare.
«Davvero toccante, Colonnello, e non scherzo», disse Jean, con voce estremamente seria. O probabilmente era capace di camuffare troppo bene l'ilarità che riuscivo benissimo a leggere sul suo viso. «Ho sempre pensato che fosse un libertino senza speranza, e invece!»
    Sollevai di poco un sopraccigliom fissandolo con attenzione. «Lieto di sapere, allora, che hai riesaminato il tuo punto di vista», replicai sarcastico, senza però potermi evitare di sorridere, quasi compiaciuto da quell'apprezzamento.
    «Che bella cosa, l'amore!» esclamò Maes, e voltandomi verso di lui con un sopracciglio inarcato, lo vidi portarsi teatralmente una mano al petto. «Così caldo, passionale!» Mi lanciò una rapida occhiata divertita, per poi guardare Havoc e indicare invece me con il pollice della destra. «Pensa che questo scemo non si era ancora deciso a sfondare con il suo carroarmato le linee nemiche!»
    A quelle sue parole, io arrossii tutto d'un botto nel sentirli ridere al contempo, forse per la mia espressione più che imbarazzata. Ma erano cose da dire, così, su due piedi?! E mentre parlavamo di cose per me serie, tra l'altro?! Imbarazzato ai limiti dell'impossibile, gli assestai una poderosa pacca sulla schiena facendolo quasi accasciare in avanti sul tavolino tanto era stata forte, mentre sghignazzava ancora.
«Scusa, eh, ma potevi evitartela, quella sparata!» esclamai offeso, vedendolo voltarsi verso di me con le lacrime agli occhi per il troppo ridere.
   
«Andiamo, Roy, da uno come te non era una cosa che ci si aspettava!» rimbeccò tra uno scoppio di risa e l'altro. Si tolse gli occhiali, passandosi con non curanza sulle guance il dorso della mano, prima di risistemarseli sul naso con uno sbuffo divertito. «Pensavamo che ti saresti mangiato la pecorella in un attimo, dato che sei sempre stato un lupo famelico!» continuò, scoppiando nuovamente a ridere senza controllo. Di fronte a me, Havoc se n'era approfittato per accendere una sigaretta, nonostante fosse vietato fumare in quel locale. Ma va a dire ad uno come lui Non fumare... 
    «Suvvia, Colonnello, è normale», replicò divertito, tirando una bella boccata. «Non ha detto nulla di male, in fondo», continuò, facendo cadere la cenere dentro al bicchiere. «Ormai la bandiera l'ha piantata, non c'è nulla di cui vergognarsi, arrivati a questo punto!»
    Sentii una vena pulsarmi sulla tempia alle loro battutine ironiche e alle risate e gli sbuffi divertiti che si lasciavano sfuggire quando mi gettavano uno sguardo. Aye, avevo deciso.
Con quei due, non sarei più andato nemmeno a bere un caffé!






_Note inconcludenti dell'autrice
Questa storia è talmente vecchia e assurda che me ne ero quasi dimenticata.
In verità in archivio ho ancora un casino di storielle che, per un motivo o per un altro, non ho postato per niente, ma non credo che comincerò una nuova raccolta per postarle, anche se non si può mai sapere.
Quel che è certo, però, è che una volta terminata questa raccolta mi dedicherò alle storie in sospeso, dunque spero che mi seguirete anche lì, in un modo o nell'altro.
Commenti e critiche sono ben accetti, ovviamente
Alla prossima. ♥


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** #04. Panda ~ Fever (or maybe bot) ***


Fever (or maybe not) Titolo: Fever (or maybe not)
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: Flash Fiction
[ 602 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Tabella/Prompt: Animali › 04. Panda
Genere: Generale, Sentimentale ; Fluff
Rating: Giallo
Avvertimenti: 
Shounen ai, What if?


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    Gli occhi mi si riaprirono piano, ancora febbricitanti.
    Sul lavoro mi ero beccato una brutta influenza, e mi ero subito rintanato sotto le coperte una volta sfilata l'uniforme. In un primo momento, Riza aveva creduto che quella fosse una mia nuova trovata per evitare le scartoffie e filarmela a casa senza fare niente, ma, quando era quasi crollato sulla scrivania, con le guance in fiamme e il respiro ansimante, si era avvicinata preoccupata e mi aveva poggiato una mano sulla fronte, costatando allarmata che non mentivo come aveva creduto. Beh, di tanto in tanto anche io non dicevo bugie per scappare dal lavoro, a quanto sembrava.
    Per non rischiare di contagiare anche Edward con la febbre, comunque, non avevo nemmeno potuto salutarlo come si conveniva, neanche da parte di Maes. Ci aveva pensato Jaz a farlo al mio posto, filandosela poi il più in fretta possibile per andare in giro con quell'altro scavezzacollo del suo migliore amico, Cedric. Due pesti che mi avevano reso la vita impossibile, se la si voleva mettere su quel piano. Adesso, steso sul letto con le coperte fin sotto al naso, guardavo il mio mame-chan mentre si affaccendava svelto per la stanza, con più silenzio e attenzione possibile. Per non svegliarmi, forse. Sorrisi. Tanto ero già sveglio.
    «Ehi, Acciaio», tossichiai, drizzandomi a sedere sul materasso con una piccola smorfia. Avevo la testa che mi scoppiava e non capivo granché di ciò che mi succedeva intorno, però non potevo di certo restarmene a letto tutto il giorno... da solo, per giunta. Preferivo andarmene in salotto, sedermi sul divano e prendermi un bel bicchiere di whisky, per quanto sapessi che Edward non me l'avrebbe mai permesso.
    E proprio lui si voltò finalmente verso di me, sollevando un angolo della bocca.
«Approfittane e dormi, Roy», ridacchiò sarcastico, riponendo nell'armadio a destra alcune camicie. «Hai un bel paio di giorni di degenza, meglio non farteli scappare».
    Sorrisi ancora di più, a quel dire.
«Oh... ho un permesso, quindi?» chiesi, sistemandomi le coperte.
    Edward posò un altro paio di indumenti prima di sedersi accanto a me sul materasso.
«Esatto, mo dubh», rispose, palpandomi la fronte per controllare la mia temperatura, e mi lasciai cadere con il capo sul morbido cuscino.
    «Posso sfruttarlo a mo...» starnutii, e lui allontanò la mano, osservandomi prima che riprendessi a parlare. «...a modo mio?» conclusi con tono malizioso, e lui parve comprendere dove volessi andare a parare, perché scoppiò a ridere, divertito.
    «Non approfitterò del tuo corpo malato», rimbeccò, facendo sì che corrugassi appena le sopracciglia.
    «A me sembrava lo definissi salutare», feci, con profonda ironia.
    Edward mi diede un buffetto sul naso, costringendomi poi a sdraiarmi nuovamente mentre mi rimboccava le coperte.
«Aye, salutare, certo», mormorò comprensivo. «Ma non quando sei febbricitante e sembri ragionare con qualcos'altro. Dovresti anche guardarti allo specchio, hai decisamente un aspetto orribile», soggiunse in tono ironico. «Hai due occhiaie da fare invidia ad un panda».
    Sbuffai di rimando e strofinai il naso contro l'orlo del piumone senza curarmi della sua nota sarcastica, beandomi del piacevole tepore che la coperta riusciva a donarmi prima di guardare Edward con fare bambinesco. «Giochiamo al dottore?» sghignazzai, ricevendo un'occhiata obliqua.
    Sotto il mio sguardo a dir poco accigliato, poi, Acciaio si sdraiò su un fianco accanto a me, accarezzandomi piano i capelli, con il volto poggiato sul palmo dell'altra mano. Fu poi scosso da un accesso di tosse e si liberò delle scarpe per infilarsi a sua volta sotto il piumone, strofinando il viso contro la mia spalla.
 «Avrei dovuto dirtelo... anche il dottore è malato!» 
    Rimasi a bocca aperta, nel sentirlo, e per poco non mi schiaffai una manata in faccia. Se non era ironia quella!







_Note inconcludenti dell'autrice
Alla fine il giochetto che voleva fare Roy è stato drasticamente tagliato dal fatto che anche Edward si è ammalato... povero vecchio Colonnello, non gliene va mai bene una.
Comunque sia, sebbene mi dispiaccia che il fandom sia stato abbandonato a se stesso e che non ci siano più tutti i lettori di una volta, ringrazio chi sta seguendo la raccolta e informo che la prossima sarà l'ultima storia.
Non sono ancora certa, dunque non ho idea se sarà una storia già scritta oppure ne scriverò una nuova sul momento, però arriverà molto presto, dato che in questo periodo sono iper attiva con la scrittura.
Commenti e critiche sono ben accetti, ovviamente
Alla prossima. ♥


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** #05. Tartaruga ~ It's the story of my life (Special) ***


It's the story of my life Titolo: [ Special Chapter ] It's the story of my life
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 10727 parole [info]fiumidiparole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali › 05. Tartaruga
Genere: Generale, Sentimentale, Fluff, Malinconico
Rating: Giallo / Arancione
Avvertimenti: 
Shounen ai, What if?, Spoiler!, Narrazione al presente, Prima parte raccontata da un bambino di cinque anni


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

    Sono seduto sul tappeto, tra pupazzi e macchinine, e sulle gambe ho il mio orsetto, ma mi annoio un po’. Mi giro verso il tavolo, dove ‘Ka-san è seduto da tanto. Ha il volto concentrato, mentre la penna che ha in mano va veloce sui fogli che ha davanti. Ormai è sempre così. Io gioco da solo e lui lavora. Mi mancano quelle volte in cui giocavamo insieme con ‘To-san. Prima era tutto diverso. Quando gli chiedo perché, ‘Ka-san dice sempre che sono piccolo per capire bene. Ma ho quasi cinque anni, non sono piccolo! Non mi dice mai niente. Anzi, è raro che parli, certe volte. Si siede lì e lavora per ore, concentrato ma triste. Forse è perché ‘To-san non c’è.
    Sbuffo un po’, prendo l’orsetto fra le braccia e corro verso il tavolo. «‘Ka-san?» lo chiamo, tirandogli poi l’orlo della camicia. Si gira appena, sistemandosi quei così che chiama occhiali sul naso prima di guardarmi con quegli occhi scuri scuri. Ogni volta che li vedo, mi sembra di osservare il cielo durante la notte. Sono belli, però, mi piacciono. Anche se a volte mi fanno un po’ paura. Mi arrampico sulla sedia libera, poggiando le braccia sul bordo del tavolo pieno di carte. Curioso, ‘Ka-san solleva un sopracciglio fino. Metto la testa di lato, imbronciandomi. «Vuoi giocare con me ‘Ka-san?» gli chiedo, abbandonando l’orsacchiotto su uno dei suoi fogli.
    Mi sorride ancora un po’ triste, allungando una mano per scompigliarmi i capelli, rimediandoci da me un piccolo sbuffo contrariato. Lo sa che mi da fastidio, ma lo fa sempre. «Ho del lavoro arretrato, Jaz», mormora, con la voce dolce che usava con ‘To-san. «Scusami davvero piccolo». Dice sempre così. Ogni sera. Si mette lì dopo mangiato e lavora. Non è giusto, però.
    Mi imbroncio ancora, cercando di farlo sentire in colpa. «Ma io mi annoio...» borbotto, ricevendo un altro suo sguardo scuro.
    Sospira. Quel sospiro che fa sempre quando non sa che fare. Lo vedo abbassare la penna per lasciarla poi sulle carte, su cui vedo appena uno di quei disegni che mi piacciono tanto. Si scompiglia poi i capelli neri, lasciando la fronte scoperta prima di togliersi gli occhiali. Mormora qualcosa a bassa voce, e io non lo sento. E’ una di quelle rare volte in cui parlotta da solo, dicendosi chissà cosa. Lo lascio fare, finché non mi guarda di nuovo. «Ti annoi davvero tanto?» mi chiede, e il suo tono mi sembra quasi dispiaciuto.
    Annuisco, vedendo che si alza per venire più vicino a me. Istintivamente allungo le braccia verso di lui, sentendo poi le sue prendermi per fianchi prima di mettermi in piedi sulla sedia e prendermi in braccio. Strofino il viso contro la sua spalla, sentendola calda. Anche se è estate, come dice lui, è piacevole. Anche le volte in cui mi prende in braccio sono rare, e quando posso me le godo.
    «Scusami, Jaz», mi dice ancora, baciandomi la testa. «In questo periodo sono stato occupato e non mi sono preoccupato molto di te. Sono una pessima mamma». Lo dice con un tono che sembra voler far ridere, ma lo guardo triste. E’ vero che è sempre stato a lavoro. Ma non è una pessima mamma, anche se non capisco bene cosa vuol dire. E anche il suo viso è triste.
    Gli butto le braccia al collo, scuotendo piano la testa contro di lui. «Non è vero, ‘Ka-san», dico piano, come per rassicurarlo. «Io ti voglio bene».
    Ride un po’, leggero e silenzioso come fanno sempre lui e ‘To-san. Mi bacia di nuovo i capelli, prendendomi meglio in braccio prima di incamminarsi insieme a me verso il soggiorno della casa nuova. «Ti voglio bene anche io», dice sottovoce, chinandosi appena per prendere uno dei pupazzi che ho lasciato in giro. Me lo porge, e lo stringo a me poggiando la testa contro il suo petto. Sento il cuore che batte, quasi cullandomi. Se chiudo gli occhi mi addormento, sono sicuro.  Li chiudo però lo stesso, sentendo la mano di ‘Ka-san poggiarsi sulla mia testa per accarezzarmi i capelli. Lenta e calda, come le ninna nanne che mi canta la sera. Comincia lui stesso a coccolarmi, forse per farmi addormentare. Mi piace quando fa così. Mi ricorda prima, quando stavo nel lettone con lui e ‘To-san. Il caldo delle lenzuola e le loro voci. I giochi che facevamo ogni tanto. I momenti che passavano con me. Adesso invece dormo da solo. ‘Ka-san mi fa dormire con lui solo quando faccio brutti sogni. Non so perché. Prima che andassimo alla casa nuova dormivamo insieme. Mi diceva paroline dolci all’orecchio e mi stringeva fra le sue braccia, dicendo che avremmo chiamato ‘To-san il giorno dopo. E manteneva la promessa, giocando poi con me. Ora lo chiama poco e lo vediamo poche volte. Ho provato a chiedere anche questo, ma la risposta non cambia mai. Sono piccolo, ma io non mi sento bambino a volte. Però ‘Ka-san insiste. E la smetto di domandarlo solo quando vedo i suoi occhi scuri intristirsi. Allora gli do un bacio sulla guancia e prendo il libro di ‘To-san. Quello è l’unica cosa che mi distrae un po’.
    Sento ‘Ka-san che continua ad accarezzarmi la testa, mentre il rumore dei suoi passi riempie il silenzio. Non parla, come sempre. Ma sospira. Alzo la testa e le palpebre, vedendo appena il suo viso. Le labbra sottili sono all’ingiù, imbronciate. «‘Ka-san?» lo chiamo di nuovo, e lui abbassa lo sguardo, sorridendomi un pochino. Ma vedo ancora la tristezza. Siamo in corridoio, adesso, forse per andare nella mia cameretta.
    «Dimmi, piccolo», dice ancora piano. Gonfio un po’ le guance per come mi ha chiamato, però non gli dico niente e non mi arrabbio come faccio di solito. Mi accoccolo solo contro il suo petto ancora una volta, aggrappandomi con una mano alla sua camicia mentre abbraccio il mio pupazzetto.
    «Perché sei triste?» gli chiedo, sentendo un battito in più.
    Mi carezza i capelli, riprendendo a camminare. «Non sono triste», mi risponde, ma la voce mi sembra strana. «Sono solo un pochino stanco».
    «Allora perché lavori, se sei stanco?» gli faccio un’altra domanda, e lui ride un poco, come prima.
    «Perché altrimenti non mangiamo».
    «E perché?»
    I suoi occhi neri mi osservano. Un po’ chiusi. «Jaz...» dice, senza aggiungere altro. Ma io ho capito, e strofino un po’ di più il viso.
    «Va bene, ‘Ka-san, la smetto...» borbotto. Quando comincio a fare domande e poi lui dice solo il mio nome significa sempre che non gli va di rispondermi. Voglio insistere, ma ‘Ka-san è triste e non voglio intristirlo di più. Anche se mi dice che è solo stanco io non ci credo.
    «Ti va un gelato?» lo sento dire, e ritorno a guardarlo. Mi sta sorridendo, sembra quasi che mi voglia distrarre. Scuoto la testa, tornando ad accoccolarmi contro di lui, sentendolo sospirare ancora un po’. Accende la luce nella mia cameretta, avvicinandosi al lettino per poi lasciarsi cadere sopra. Mi trovo seduto sulle sue gambe, e mi scompiglia ancora una volta i capelli, portandomeli dietro alle orecchie. «E’ ora di andare a nanna», mi dice, sorridendo ancora un po’. «Domani ti prometto che giocheremo insieme, okay?»
    Mi imbroncio di nuovo, chinando il capo. Io non ho sonno, voglio giocare. Però annuisco, e ‘Ka-san mi prende in braccio per mettermi poi in piedi sul materasso. Lo vedo aprire il cassetto e tirare fuori il pigiama, ma stavolta non mi dice di metterlo. E’ lui che mi sveste e me lo infila, senza che parlo. Ora ne sono sicuro. ‘Ka-san è triste. Dopo avermi sistemato il pigiamino mi da un bacio sulla fronte, togliendomi un altro po’ i capelli dal viso. Mi infilo sotto le coperte da solo portando con me il mio pupazzetto, e lui me le rimbocca subito dopo. Quella brutta espressione, però, è rimasta.
    Mi intristisco anche io, prendendo le lenzuola fra le manine. «Sei triste perché non c’è ‘To-san, ‘Ka-san?» glielo domando, e stavolta i suoi occhi scuri si aprono un po’ di più. Si siede sul letto, girato un po’ verso di me. Allunga una mano per accarezzarmi i capelli, lentamente. Il sorriso che ha sul volto non mi piace. Non è un sorriso.
    «Un pochino», mi risponde, sottovoce. «E’ da tanto che non lo vediamo».
    Annuisco, imbronciandomi e nascondendomi un po’ di più. E’ vero. ‘To-san non viene più. Con una mano mi strofino una guancia. Mi viene da piangere. «‘Ka-san... ma perché siamo qui senza ‘To-san?» Glielo chiedo per non piangere, anche se sento che sto per farlo. Perché sono triste anche io, adesso. Quando lo sono piango sempre. ‘Ka-san invece non lo fa mai. Nessun grande lo fa mai.
    Vedo ‘Ka-san sospirare, poi mi accarezza di nuovo i capelli. «E’ un po’ difficile da spiegare, Jaz», risponde piano, sempre più triste. «Te lo dirò fra un paio d’anni». Ancora con la storia che sono piccolo, lo sapevo. Ma quanti sono un paio d’anni? «Adesso dormi, dai», dice ancora, e stavolta vedo i suoi occhi chiudersi un po’. Passa due dita sopra uno di essi, le labbra sono di nuovo all’ingiù. Però mi sembra che tremino.
    Allora mi alzo, avvicinandomi a lui. Lo guardo bene in viso. E poi la vedo. Una di quelle gocce salate. «‘Ka-san...» lo chiamo, tirandogli un po’ la camicia. «...stai piangendo?» Glielo chiedo e lui mi stringe forte forte, forse per non farmi vedere il suo viso. Non so che cos’ha, ma è molto triste e riprende ad accarezzarmi piano i capelli, coccolandomi e cullandomi fra le sue braccia. Solo di poco riesco a guardare la sua faccia. E ancora una goccia salata gli scende dagli occhi. Vede che lo sto osservando e subito si passa una mano sul viso, sorridendo. Ma lo sento che quel sorriso nasconde il vero.
    Nasconde quelle gocce che cadono ancora.
 
 
Quella fu la prima volta che vidi ‘Ka-san piangere.
 
 
    Da Central City ‘To-san mi ha inviato un libro. L’ha spedito dieci giorni addietro, in modo che arrivasse in tempo per il mio undicesimo compleanno.  Adesso lo sto osservando girando qualche pagina con lentezza, quasi per paura di rovinarlo. Dall’ingresso sento la voce di ‘Ka-san, che sta parlando animatamente al telefono con ‘To-san. Mi sembra un pochino arrabbiato. Scendo dal divano per affacciarmi oltre la soglia del soggiorno, dove immediatamente mi giunge il buon profumo della torta al cioccolato che sta preparando ‘Ka-san.
    «Avevi detto che ti saresti liberato per il suo compleanno», sta dicendo con tono quasi accusatorio, reggendo forte la cornetta. «Sono quasi quattro mesi che non ti vediamo». Voglio avvicinarmi di più per sentire almeno quello che ha da dire anche ‘To-san, però non voglio che la mia presenza accanto al telefono sia un pretesto per litigare. A volte succede. «Non tirare in ballo il fatto che potrei venire io lì, adesso», borbotta, tamburellando con le dita sul tavolino. «Il mio lavoro di Generale è ben diverso dal tuo, lo sai». Sospiro in silenzio, sempre nascosto dietro lo stipite per evitare che ‘Ka-san possa vedermi. Anche quelle parole non fa altro che ripeterle sempre, quando parla al telefono con ‘To-san.  «Senti, lasciamo stare...» dice adesso, rendendo la voce dolce. «Davvero non ce la fai a liberarti per venire qui? Magari domani?»
    Mi sporgo un po’ reggendo bene il libro, a quelle parole. Spero che ‘To-san dica di sì.  Non fa niente se non ci sarà al mio compleanno. Ma se ci sarà domani, festeggeremo nuovamente con lui.
    «Ah...» fa però ‘Ka-san, in tono rammaricato. «L’ispezione...»  E tutti i miei progetti vanno in fumo. ‘To-san non verrà qui. Lo capisco dalla voce di ‘Ka-san.  «Pensavo fosse la settimana prossima», riprende, sempre più dispiaciuto. «Ecco spiegato perché anche Maes ha disertato l’invito».  Non so cosa voglia precisamente dire così, ma ‘Ka-san ha ragione. Lo zio Maes, che di solito è il primo a volermi vedere, ha chiamato ieri dicendo che non veniva. La cosa un po’ mi dispiace, anche se spesso lo zio è un vero rompiscatole.
    Sento ‘Ka-san parlare un altro po’ della festa, di me e poi del lavoro. Chiacchiera tanto su quell’argomento, spiegando cose un po’ complicate. Da dove mi trovo continuo a sentire, guardandolo poi mentre si gira di spalle. Questa volta ridacchia, tenero come non l’ho mai sentito.
    «Aye, ci stavo pensando anche io l’altra sera», mormora, dolcissimo. Parla così solo con ‘To-san. O quelle rare volte con me quando cerca di farmi collaborare in cose che non voglio fare. Con ‘To-san però è sempre più dolce, come se condividessero un segreto.  «Non sai quanto mi piacerebbe averti qui e giocare, in questo momento», dice allegro, marcando parecchio la parola. Anche il termine giocare lo usa spesso, a telefono. Rimediandoci sempre una sgridata da parte di ‘To-san che riesco a sentire persino io. «Oh aye, di questi tempi le mie fantasie sono aumentate», ride un po’, leggero. Ecco un’altra cosa che fa sempre. Ride senza un motivo con la cornetta del telefono all’orecchio. Scherza e ride anche con me, ma quella è una risata strana. Complice.  «Hai mai provato il sesso telefonico?» dice ancora sghignazzando, e stavolta lo sento bene.
    La voce di ‘To-san che lo ammonisce subito.  Inviperita e parecchio alta, tanto che ‘Ka-san allontana il ricevitore. «Sei un depravato, Colonnello dei miei stivali!» esclama dalla cornetta. ‘Ka-san ride ancora una volta, tornando a parlargli. Altri scambi di convenevoli, altre risatine divertite da parte di ‘Ka-san. Poi riattacca con il sorriso sulle labbra, sorriso che vedo di più quando si volta verso di me. Mi vede e resta immobile lì, sbattendo le ciglia scure.«Da quanto sei lì?» mi chiede, con una strana nota nella voce.
    Sbuco ormai dal mio inutile nascondiglio, con il libro sotto braccio. Di poco scrollo le spalle, disegnando con il calzino che ho al piede un cerchio invisibile.  «Da un po’, ‘Ka-san», gli dico, tanto sarebbe inutile mentire. Lo vedo spalancare un pochino la bocca e arrossire. Ancora non capisco perché arrossisce sempre. Ormai ho undici anni. Ho persino perso il conto delle volte che l’ho sentito parlare di quello con ‘To-san.
    Si gratta dietro al collo, tossendo un po’ prima di avvicinarsi a me. «Quindi... hai sentito tutto?» mi domanda ancora, stavolta a disagio.
    Non ci penso su nemmeno due volte. Annuisco e basta. Si scompiglia i capelli scuri con fare frustrato, scuotendo poi la testa. Borbotta qualcosa fra sé e sé, masticando delle paroline fra i denti. I suoi comportamenti sono sempre così strani. Proprio non lo capisco. «Non dovresti origliare», se ne esce poi, come a voler ammonire me. Era lui che parlava di certe cose. Mica io. 
    «Non volevo farlo», gli tengo subito presente. «Volevo solo parlare con ‘To-san. Non verrà, vero?» Faccio risuonare questa domanda in tono triste, abbassando lo sguardo. Speravo di passare del tempo tutti insieme. Ma invece nulla. Proprio come quando ero più piccolo.
    Sento ‘Ka-san avvicinarsi a me, per prendermi poi il mento e alzarmi il viso. Guardo i suoi occhi color pece, tristi come la sera di tanti anni addietro. «Non è colpa sua, Jaz», cerca di andare in sua difesa. Ma vedo bene che invece vorrebbe imprecare come lo sento fare spesso. Una volta è stato ore a borbottare in cucina e a dire volgarità mentre cucinava. Tra tutte le parolacce che gli ho sentito dire, ci potrei fare un vocabolario dividendolo fra quelle semplici da manuale e quelle più spinte che si possono sentire solo da uno scaricatore di porto. «Ha cercato di venire qui, ma non ha fatto in tempo», lo giustifica ancora.
    Io penso invece che già lo sapeva. Altrimenti non mi avrebbe mandato il regalo con due giorni d’anticipo. Odio quando ‘Ka-san tenta in tutti i modi di non far ricadere la colpa su ‘To-san. E’ colpa sua quanto lo è della stessa ‘Ka-san. Ma non me la sento di giudicarli entrambi. Sono adulti. Sanno quello che fanno. Io sono solo un bambino un po’ più grande. 
 
 
Il giorno del mio compleanno, invece, capii che la vita non era affatto facile.
 
   
    La scuola non è poi così male, se sai bene come giostrarti. Io me ne sto semplicemente seduto a scaldare la sedia, facendo finta d’ascoltare le noiose lezioni dell’insegnante mentre è il mio migliore amico a prendere appunti anche per me. Sono due anni che ci conosciamo, ormai. Cedric Berk. Dall’indole vivace e una gran mole. Qui a Central, dove mi trovo adesso con ‘Ka-san e ‘To-san, è l’unico amico fidato che ho. L’unico a conoscenza della mia vera famiglia. A volte mi dispiace doverlo schiavizzare così, ma non più di tanto. Infatti spesso è lui ad offrirsi di aiutarmi. Perché dovrei negargli questo privilegio?
    Osservo svogliato la sua mano che scrive veloce sul foglio, seguendo le parole dettate. Mi chiedo sempre come diavolo faccia. E’ peggio dell’ormai Maggiore Falman, uno della brigata di mamma. Stiamo seguendo entrambi i corsi estivi. La cosa non mi va giù, ma non me la sono sentita di farlo notare a ‘To-san e a ‘Ka-san. Quest’ultimo ha già il suo “personale problema” da affrontare. E non è una cosa facile. E’ successo da poco infondo, deve ancora farci i conti. Così come me per quel che è accaduto. Sembro tranquillo adesso, vero, ma a volte quelle immagini ritornano. La mano non ancora del tutto guarita poi, spesso brucia come a volermi dolorosamente ricordare la colpa che ho commesso. Ma, anche se avrei voluto non farlo, sono convinto che fosse la cosa giusta. ‘To-san e ‘Ka-san dipendevano da me.
    Sospiro un po’, guardando con la coda dell’occhio Cedric. Non gli ho raccontato quello che è successo all’incirca due mesi fa, anche se più volte in questo periodo ha provato a chiedermelo. Potrei anche farlo, ma non ne ho il coraggio. Si sono accavallate troppe cose, una peggiore dell’altra. Però non mi è sfuggito il modo in cui ha fissato ‘Ka-san quando è venuto a trovarci il mese scorso. E’ stato in quel momento che ha cominciato a fare domande. E posso capirlo. L’avrei fatto anche io.
    Mi riscuote un suo veloce sguardo, e lo vedo lasciare sul banco la penna. Si stiracchia, coprendosi la bocca e sbadigliando. Quando torna a guardarmi, ha gli occhi un po’ lucidi di sonno. Li posa poi sul mio quaderno aperto, bianco come al solito, scuotendo la testa. «Non scrivi mai nulla, eh?» ironizza in tono di rimprovero.
    Non ci faccio caso più di tanto. Si lamenta sempre ma poi lascia perdere. Tanto sa che non prenderò appunti. Faccio spallucce, come ad indicare disinteresse. «Sono qui solo per scaldare la sedia, non per altro», scherzo a mia volta.
    Alza gli occhi al soffitto, quasi sbuffando. «Quando spegnerai le candeline la settimana prossima, sarò io ad esprimere un desiderio», dice sarcastico, sottovoce per non farsi sentire dal professore. «Chiederò che questi diciott’anni ti facciano entrare un po’ di sale in zucca».
    Sorrido, divertito. Ecco perché è il mio miglior amico. Sempre a preoccuparsi per me anche se non lo da a vedere. «Sarebbe un desiderio sprecato», gli faccio notare, ricevendo un’occhiataccia. Chiacchieriamo un altro po’ del più e del meno sempre tenendo il tono basso. Ci manca solo che quel rompiscatole del professore ci faccia un richiamo. Chi li sente, poi, ‘Ka-san e ‘To-san! Finalmente passano quel paio d’ore di carcere forzato, e siamo fuori a respirare l’aria fresca e pulita dalla fragranza di fiori estivi. In una bella giornata come quella siamo stati costretti a scuola. E’ violenza bella e buona, e anche gratuita, quella! Fortuna che almeno per questa settimana, è finita. Domani e anche domenica possiamo rilassarci.
    «Che fai, vieni da me o torni a casa?» domando a Cedric, voltandomi un po’ verso di lui.
    Sbadiglia sonoramente sistemandosi lo zaino in spalla, prima di scompigliarsi i capelli e stiracchiarsi come non mai.  «Se non sono di disturbo...» butta lì, anche se so che alla fine verrà lo stesso. Ha solo preso l’abitudine di dirlo da quando ha visto ‘Ka-san. 
    «Muoviti, idiota», sbotto, incamminandomi quando sento il suono d’un clacson. E’ Jean, costretto come al solito a venirmi a prendere. Quando saliamo in macchina borbotta come sempre un saluto, masticando fra i denti il filtro della sua solita sigaretta. Da un po’ fuma come una ciminiera. O forse l’ha sempre fatto e non lo sapevo. Non ci scambiamo nemmeno una parola, ma lo sentiamo bene che impreca fra i denti qualcosa, forse rivolto alla mia cara mamma che lo schiavizza. Mi evito di ridere, mentre vedo con la coda dell’occhio Cedric tentare di fare lo stesso. Certe scene le vediamo due giorni si e uno no. E’ troppo divertente.
    Arriviamo a casa e con un altro saluto Jean ci lascia e se ne va, partendo alla volta di casa sua. Poveraccio, quell’uomo, certe volte. Salite le scale e aperta la porta dell’appartamento, sento un bel via vai. Di sfuggita poi, vedo ‘To-san con una scatola. Stiamo finalmente ristrutturando un po’ casa, e in special modo la mia camera. Posso vantarmi di avere finalmente quel tanto agognato letto a due piazze, adesso. E anche delle pareti decenti.
    «‘Giorno, Signor Elric», dice Cedric al mio fianco, richiamando la sua attenzione prima che sparisca nel corridoio adiacente.
    Si volta verso di noi quasi stupito, per poi issarsi meglio sul braccio d’acciaio la scatola. «Havoc ha fatto presto stavolta?» sghignazza invece divertito. «Comunque ciao ad entrambi, ora scusate che devo finire un po’ di sistemare in giro». 
    Alzo un pochino lo sguardo al soffitto, scuotendo la testa. Fanno sempre di testa loro. «Vi avevo detto di aspettarmi», dico, come a volerlo ammonire. «Tu e ‘Ka-san non dovreste affaticarvi troppo».  I medici avevano infatti detto che sarebbero dovuti restare ancora in ospedale. Riabilitazione sotto osservazione. E non avrei dato loro torto, se non avessero voluto costringere anche me a stare lì. Fortuna che sia ‘To-san che ‘Ka-san avevano dato sfoggio del loro potere militare minacciando l’ospedale di chissà cosa se non ci avessero fatti tornare a casa entro una settimana. I volti sconvolti dei dottori ancora me li ricordo perfettamente. Si sa però che i miei tutori non sono tipi da starsene con le mani in mano. Quando vogliono divertirsi, forse. Ma non se devono star relegati in un letto ospedaliero. Ferite o altro a quel punto passano in secondo piano. Forse perché ci sono abituati, chissà. Anche se credo che almeno ‘Ka-san avrebbe dovuto seguire il consiglio.
    Appena un po’, ‘To-san agita distratto una mano, facendo attenzione che non gli cada nulla. «Sono passati due mesi, stiamo benissimo», borbotta, facendo valere la sua autorità di padre. Proprio benissimo, però, non direi. Di recente si sono visti allo specchio? Vedo di sfuggita Cedric aprire la bocca, forse per chiedere qualcosa, e come colto da un’illuminazione mi fiondo a tappargliela. So cosa vorrebbe chiedere. E ancora non posso permetterglielo. Mugola tentando di liberarsi, sfruttando la sua mole. Fortuna, però, che ho un po’ di forza nelle braccia per contrastarlo.
    «‘Ka-san?» domando, cambiando tempestivamente discorso. Sebbene mi stia ora osservando con un sopracciglio inarcato, ‘To-san accenna con il capo al soggiorno.
    «Gli ho detto di andare a sedersi un po’», risponde, guardando poi Cedric che continua a sbraitare contro la mia mano senza che si capisca quello che dica. Premo ancora il palmo sulla sua bocca, indietreggiando verso quella direzione. 
    «Cominciava a sbandare?» chiedo di nuovo. 
    ‘To-san scrolla un po’ le spalle. «Diciamo che dopo un paio d’ore a fare avanti e indietro ha cominciato a far fatica a tener conto della profondità», lo dice con tono leggero, ma sento che ci sta male.
    Decido di non aggiungere nulla o di chiedere altro, annuendo soltanto. Mi trascino dietro quell’idiota patentato del mio amico, lasciandolo andare solo quando siamo a distanza di sicurezza dalle orecchie di ‘To-san. Guardandomi con aria di stizza, incrocia le braccia al petto.
    «Io non capisco», borbotta. «Sembra quasi un argomento tabù». E lo è, infatti. Ma meglio non dirglielo.
    Mi limito solo a fare spallucce. «Ced, te lo dirò io quando me la sentirò di farlo», gli dico, cercando di rendere il tono affranto così da fargli pena. «Non chiedere nulla ai miei». 
    «Sei mio amico, Jaz, lo sai che mi preoccupo», fa ancora, imbronciandosi. «Non ho avuto tue notizie per un po’, e quando poi sono venuto qui il mese scorso stavate uno peggio dell’altro. Non posso sapere quello che è successo?»
    Lascio che mi sfugga un lamento. Mannaggia ai migliori amici, certe volte. Tentano sempre di aiutarti anche se non vuoi che si complichino la vita. Questa, però, è una cosa difficile da spiegare. E non so come reagirebbe. Forse è per quello che non ho il coraggio di dirglielo. «Lo saprai a tempo debito», provo di nuovo.
    Mi sfida con lo sguardo, forse per tentare di farmi cedere. Dopo poco, però, lascia perdere sospirando pesantemente. Ha capito che non ce la faccio, almeno. «Va bene, va bene», borbotta, un po’ ferito. «Aspetterò ancora un po’, ma poi dovrai dirmelo».
    Sorrido, accordandoglielo. Glielo devo, in fondo. E’ l’unico vero amico che ho. Perderlo mi dispiacerebbe. Chiusa quella conversazione ci incamminiamo nuovamente, e passando accanto al salotto mi affaccio un po’ per sbirciare all’interno. Vedo ‘Ka-san seduto sul divano, con un libro aperto. Non cambierà mai.  Anche se sa che non deve sforzare l’occhio legge comunque. «Ciao, ‘Ka-san», lo saluto, e lui alza la testa dalle pagine per voltarsi.
    Mi regala un sorriso, che rende più a mandorla quel suo unico occhio color pece. La benda che indossa è leggermente coperta dalla frangetta scura, anche se mi sembra che se la sia tolta o che l’abbia spostata. Non si è ancora abituato. E’ stato un vero shock, per lui. Quando i medici gli hanno detto che l’occhio non sarebbe guarito e che non sarebbe più riuscito a vedere credevo cadesse in uno stato di depressione cronica. Ricordo che in ospedale si toccava in continuazione la fasciatura, come se non se ne capacitasse. La copriva con una mano cominciando poi a guardarsi intorno, osservando qualsiasi cosa. Come se cercasse di abituarsi. E in quei momenti l’espressione addolorata di ‘To-san non mi sfuggiva mai. Il mese scorso l’ho addirittura visto davanti allo specchio del bagno di casa senza benda. Aveva il volto contratto in una smorfia. Come se il suo stesso lato del viso gli facesse ribrezzo. Una lunga cicatrice sfregiata glielo solcava dal sopracciglio, arrivando poi sullo zigomo quasi fino alla guancia. Forse era per questo che era disgustato ogni volta che lo vedeva. Accettava cicatrici ovunque, ma non sul volto. Il suo stesso corpo era pieno di cicatrici di guerra.
    L’ho persino visto dare un pugno allo specchio, quel giorno. Poi si è seduto sul pavimento osservandone i frammenti, quasi con un velo di tristezza e pianto in quell’occhio che gli è rimasto. È strano come certe cose cambino le persone.
 
   
Prima che questo avvenisse, non avevo mai visto ‘Ka-san comportarsi così.
 
   
    Domani compirò diciott’anni. E’ il terzo compleanno che festeggio con ‘To-san. Ma non credo poi che ci sia molto da festeggiare. Ho persino detto ai miei tutori che una festa non era necessaria. Non hanno però voluto sentir ragioni. Secondo loro, avrei bisogno di “svago”. Di momenti tranquilli da passare come un qualsiasi ragazzo della mia età. Però non sono un “ragazzo qualsiasi” da tanto, ormai. O forse in realtà non lo sono mai stato, chissà. Non ne sono poi così sicuro.
    Mi rigiro nel letto, guardando svogliato il soffitto. Non riesco a dormire. Tutto a causa di questi pensieri. E’ da bambini dormire con ‘To-san e ‘Ka-san? Può darsi, ma mi alzo lo stesso. Attraverso il corridoio con passo felpato, fino a raggiungere la loro camera. Mi affaccio con fare esitante, scrutando nella lieve penombra. Vedo le loro figure indistinte, i loro profili tremano alla luce argentea della luna. Li distinguo appena, ma mi sembra che sia il mio papà quello tirato su a mezzo busto.
    «Oto-san?» lo chiamo, per accertarmene. Si volta appena verso di me e, subito dopo, una piccola luce soffusa proveniente dal comodino inonda la stanza. Aye, è lui ad essere ancora sveglio.
    «Che ci fai in piedi?» mi domanda, sussurrando per non svegliare ‘Ka-san. «E’ notte fonda».
    Mi limito a mordicchiarmi un po’ il labbro inferiore, come quando sono nervoso. Lo faccio sempre. Di sfuggita, noto che ‘To-san ha la punta delle dita della sinistra adagiate leggermente sul volto sopito di ‘Ka-san, ad accarezzare appena la lunga cicatrice. Non indossa quell’esagerata benda. La notte forse la toglie. Anche durante il giorno una volta se la tolse. Proprio il primo periodo di convalescenza forzata. Cominciò a borbottare di quanto fosse inutile quel pezzo di stoffa, perché secondo lui serviva solo a nascondere la conseguenza d’un gesto che lui avrebbe ripetuto se fosse stato nuovamente necessario. Diceva d’esser fiero delle cicatrici che portava. Questo prima che la vedesse. Era stato tutto il giorno senza benda, forse per far finta che quell’occhio ci vedesse ancora. E l’illusione aveva funzionato finchè non si era ritrovato così, distrattamente, a fissare la sua immagine riflessa nel vetro della finestra della cucina. A quel punto, la maschera fittizia che si era creato era andata in frantumi. Si era portato una mano tremante a sfiorare le cicatrici ancora fresche, rosee e in via di cauterizzazione. Non le aveva mai toccate. Era ‘To-san, prima, che si occupava della fasciatura e tutto. Adesso ‘Ka-san non glielo permette. Da quel giorno non ha più avuto il coraggio di togliersi la benda in presenza di qualcuno. Lo fa soltanto quand’è sicuro d’essere solo. O a letto con ‘To-san, a quanto pare. Non tutte le cicatrici si possono mostrare, infondo.
    «Senti, ‘To-san...» comincio finalmente, sentendomi un bambino. «Solo per questa volta, posso... posso dormire insieme a voi?»
    Che mi chiamino pure moccioso. Non me ne frega un accidente di niente. Però un sorriso si disegna sulle labbra di ‘To-san, che si sporge un po’ oltre ‘Ka-san per picchiettare il lato vuoto del letto. Non dice nulla, ma quello è un chiaro invito. Stringe un po’ più a sé ‘Ka-san, permettendomi così di prendere posto. «Non riesci a dormire?» mi chiede poi, una volta che mi sono infilato sotto il lenzuolo.
    Lo guardo stringendomi nelle spalle. Più o meno ha ragione. «Diciamo di sì», mormoro, spostando la mia attenzione su ‘Ka-san. Il volto è disteso e rilassato nel sonno. Le dita di ‘To-san ancora accarezzano piano le cicatrici. «Gli fa ancora male?» stavolta sono io a fare domande, ed è invece ‘To-san quello che si stringe nelle spalle.
    Sospira pesantemente, massaggiandosi poi con la mano d’acciaio una delle sue nuove cicatrici, ben in mostra visto che è a petto nudo per il caldo. Anche per lui è stato un duro colpo. Oltre alle cicatrici al ginocchio e al braccio che risalgono a quand’era bambino, a quelle disseminate poi per tutto il corpo a causa dei colpi d’arma da fuoco, vi si sono aggiunte delle altre. Quel giorno è stato tremendo per tutti e tre. Ne siamo usciti distrutti e lacerati. 
    «Fisicamente no», mi risponde, amaro. «Ma non smetterà mai di fargli male».
    Abbasso il capo, sconfortato. Certe volte mi domando se sono io, la causa di tutti i guai. Forse porto sfortuna. Mi sono ritrovato solo quand’ero piccolo e ho rischiato di farlo di nuovo troppe volte. Esprimere questa mia teoria a voce però sarebbe peggio. Ci rimedierei solo una sgridata con i fiocchi da entrambi. Già mi sembra di sentirli. Però quest’idea la coltivo da quando sono accadute tutte quelle cose. Mi sento stupido, adesso. Gli angoli degli occhi mi bruciano.
    Alzo la mano fasciata, azzardandomi a sfiorare appena il volto di ‘Ka-san. Forse è vero, è colpa mia. «‘To-san», lo chiamo ancora, guardandolo di sfuggita. Lo vedo voltarsi verso di me con un cipiglio incuriosito. Quel solito cipiglio che la dice lunga. «Credi che... credi che vi sarebbe successo lo stesso tutto questo, se non mi avreste adottato?» Ho il coraggio di chiederglielo, ma già mi sembra che si sia irrigidito. Quello che temo? Una risposta negativa, forse. Una cosa del tipo “Nay, avremmo avuto una vita tranquilla.”  Ma non lo biasimerei se mi rispondesse con una frase del genere. Però, quello che mi sorprende, è che mi colpisce alla testa con l’auto-mail. Non molto forte, ma abbastanza da farmi sfuggire un prolungato lamento e portare entrambe le mani al punto leso.
    «Non te ne uscire più con certe stronzate, Jason», mi ammonisce in tono severo, diventando persino quasi sboccato nonostante lo odi. Questo è un chiaro segno che si sta arrabbiando. Sento ‘Ka-san mugolare infastidito, e ‘To-san gli accarezza i capelli per conciliargli il sonno prima di riprendere a parlare.  «Nessuno può prevedere gli avvenimenti, nessuno», dice ancora, con tono di stizza. «Forse sarebbe successo lo stesso, forse no. Così come forse non sarebbe accaduto nulla anche se sei nostro figlio. Il mondo è bello perché vario, non si può sapere cosa può succedere da un giorno all’altro».
    Mortificato, abbasso lo sguardo. A diciott’anni a sentirmi la paternale... non sono cresciuto affatto.  «Però...» provo lo stesso, venendo subito ammonito. 
    «Stammi bene a sentire, Jaz», comincia, scostandosi qualche ciuffo di capelli dalla fronte. «Quando siamo venuti all’orfanotrofio, e ti sei aggrappato con le manine al mio pantalone, sia io che Oka-san non ce la siamo sentita di lasciarti lì...» si concede una pausa, prima di continuare. «E il tuo visino sorridente mentre uscivi mano nella mano con Roy mi ha riempito il cuore di gioia, quel giorno». Trae un lungo sospiro, alzando il viso verso di me. Solleva appena un angolo della bocca. «Non dire più cose del genere», dice di nuovo. Poi tace, lo sguardo perso nei ricordi di quegli anni.
    È triste e sorridente al tempo stesso. Un’espressione simile non l’ho mai vista. A nessuno dei due.
 
 
Quella notte, invece, fu ‘To-san a versare qualche lacrima.
 
   
    Primo giorno all’Accademia Militare. Così come avevo deciso, alla fine mi sono iscritto. Divido la stanza con Cedric, tanto per cambiare, l’ultima camera del dormitorio maschile sul lato destro dell’edificio. Si può dire che trovare l’esatta collocazione è stata una tragedia, visto che il capo camerata era sparito chissà dove e ci abbiamo messo mezza giornata per cercarlo. Per svuotare le sacche con i vestiti poi, anche peggio. Ore di litigate per chi doveva prendersi un lato o l’altro della stanza. Fiero di dire, però, che tanto poi ho vinto io e ho letteralmente rivoltato il mio migliore amico come una tartaruga, lasciandolo a pancia all'aria. Ho preso il letto vicino alla finestra, alla scrivania e al comodino, così non devo fare troppa fatica per prendere la divisa da indossare il giorno dopo. Stanco dopo quella prima giornata, adesso, sono avvolto nelle lenzuola.
    Sono in uno stato di dormiveglia, sento appena quello che mi succede attorno. Un lieve russare dall’altro letto, il ticchettio della pioggia contro la finestra. Non so se definirlo uno stato piacevole o meno. Mi piacerebbe che ci fosse più silenzio, ma devo accontentarmi di quello che ho. Affondo di più la testa nel cuscino, strofinando il viso contro la federa. E’ un po’ ruvida e odora di chiuso. Forse avrei dovuto provare a rubare di nuovo il cuscino di ‘To-san o quello di ‘Ka-san e portarlo con me. Quelli sì che sono morbidi. Ci si dorme che è un piacere. Peccato, però, che non ci sono riuscito. Mi hanno beccato subito, non appena ho aperto l’armadio. Sembra quasi che ‘Ka-san abbia affinato in qualche misterioso modo l’udito. Che si affidi a quello quando l’occhio si stanca? Molto probabile.
    Mugolo qualcosa che non capisco nemmeno io mentre mi muovo un po’. Forse finalmente mi sto addormentando. Le palpebre sono pesanti, i suoni si affievoliscono. Anche la pioggia è ora uno sciabordio sommesso in lontananza. Aye, sto per cadere fra le braccia di Morfeo. Perdo la cognizione del tempo, conscio e non dei dintorni. Sogno, forse. Non so di preciso cosa. Ma sogno. Un sogno strano, un susseguirsi d’immagini. Parole e voci si mescolano, forse sono urla e spari quelli che si fondono subito dopo. Qualcuno mi chiama piano, in un mormorio. Però scuoto la testa e comincio ad agitarmi. La voce insiste, diventando più imperiosa. Un tocco sulla spalla, pesante. A quel punto apro di scatto le palpebre drizzandomi a sedere, urlando qualcosa e colpendo qualcos’altro con il dorso della mano. Sento il battito a mille del mio cuore e sento persino di avere gli occhi dilatati, mentre mi specchio in quelli di Cedric. Ha acceso la luce sulla scrivania e mi osserva. Credo spaventato. Non ne sono sicuro.
    Deglutendo, si allontana un po’, sedendosi poi sulla sponda del suo letto. «Mi sembrava che...» comincia, agitato quasi quanto lo sono io. «...che stessi male, ti agitavi e...» Si interrompe continuando a guardarmi.  Negli occhi gli vedo un velo di panico, o forse timore. Però adesso non ci faccio caso. Sono più occupato a stabilizzare i battiti del cuore.
  Respiro a grandi boccate, portandomi una mano al petto. Batte all’impazzata. Colpa del mio subconscio. Ancora non ho superato quel trauma. Basta un tocco durante il sonno per farmi ridurre in quel modo. ‘To-san e ‘Ka-san infatti non lo fanno quasi mai, adesso. Quando devono svegliarmi mi sfiorano appena. E se invece possono evitarlo, nemmeno mi toccano. Respiro di nuovo, scostandomi dalla fronte i capelli madidi di sudore. Guardo Cedric di sottecchi, vedendolo poi umettarsi un po’ le labbra. Le sente secche, probabilmente. Proprio come me.
    «Jaz...» mi chiama, anche se incerto. «Sicuro di sentirti bene?» Che dovrei dirgli, adesso? “Nay, sto uno schifo?” Così poi devo trovarmi pure una scusa per quella risposta. «E’ per quella storia accaduta un po’ di tempo fa, vero?» dice ancora. Beccato in pieno. Maledizione, ancora mi stupisco di quanto sia percettivo ‘sto ragazzo. Capisce subito i miei sentimenti o come mi sento. Eh... il fratello che non ho mai potuto avere. Proprio vero.
    Sospiro pesantemente, ritrovandomi a ravvivare i capelli all’indietro. Scappa qualche ciuffo che finisce sulla fronte, ma gli altri stanno al loro posto. Lo guardo di sottecchi, tenendomi una mano a sorreggere il viso. I traumi vanno affrontati. E’ quello che mi ripetono sempre i miei tutori. Un conto, però, è affrontarli da solo. Un altro, invece, raccontarlo ad altri. E in questo particolare caso, al mio miglior amico. «Per... Per me è difficile parlarne...» comincio sottovoce, quasi sentendo lo stomaco attorcigliarsi. Vorrei che le cose restassero così come sono, tra noi. Con un segreto troppo grande da essere espresso a parole. Ma so anche che lui è l’unico ad essermi stato vicino in questo periodo oltre i miei e gli zii.
    «A me puoi dire tutto, lo sai», lo sento dire, in tono leggero. Un po’ nervoso forse, ma non insistente.
    Mi concedo tutto il tempo necessario. Devo provare a raccontarglielo, e a non bloccarmi ad un certo punto. E’ tutto troppo... triste, crudele. Mi guardo quasi inconsciamente il palmo della mano, facendo scorrere lo sguardo su ogni anfratto di pelle cicatrizzata. Ecco quello che è rimasto della bruciatura. Una bruciatura che si è allargata dopo quel determinato avvenimento. E sono stato fortunato a cavarmela solo con quelle ustioni. Di secondo grado, certo. Ma se avessi continuato sarebbero state peggiori. Scuoto forte la testa per scacciare quei pensieri, tornando a guardare Cedric. Sembra stia solo aspettando una mia parola. E non tardo ancora a parlare. «Se dopo quanto ti avrò detto mi disgusterai, non ti biasimerò... okay?» gli dico, anche se mi sento già terribilmente arrabbiato e solo. La voce mi trema un po’. La sento insicura.
    Vedo Cedric sollevare un po’ un sopracciglio, prima che sbatta le palpebre. «Ma che stai dicendo?» mi domanda, stupito. «Perché mai dovrei farlo?» Dice così, adesso. Non sono sicuro però che sarà ancora così, dopo. 
    «Perché... Perché io...» comincio a parlare con un basso tremolio, lasciando che le parole mi scorrano via dalle labbra come un fiume in piena. Gli racconto praticamente tutto. Dal primo momento fino all’ultimo. Anche di quello che ho fatto. E ad ogni mia parola, noto i suoi sussulti sempre più crescenti. Il primo spaventato per quello che poteva accadermi quelle notti terribili, sia nel parco che in quel lurido magazzino. Poi un altro, quando parlo delle mie origini. Gli ultimi sono quelli che mi colpiscono di più e che sento più terrorizzati. Gli occhi di Cedric, adesso che ho finito di parlare, mi osservano quasi sconvolti. Come sembro ai suoi occhi, ora? Un  mostro sotto le sembianze d’un ragazzo? Non ho più il coraggio di dire nulla. Abbasso lo sguardo. Non riesco a sostenere il suo. Serro i pungi sulle ginocchia, le mani mi tremano. Perché non parla, maledizione? Perché non dice nulla? Un peso sul mio letto però non mi permette di formulare un altro pensiero.
    «Razza di stupido!» mi esclama subito all’orecchio la voce di Cedric, quasi rabbiosa, e quando mi volto un po’ per guardarlo vedo i suoi occhi un po’ lucidi di lacrime. Credevo scappasse, che so. Che uscisse urlando dalla camera. Che mi desse dell’assassino. Tutto mi aspettavo tranne quello.  Mi afferra per il colletto del pigiama, scuotendomi. «Ti sei tenuto dentro un peso del genere tutto questo tempo?!» sbraita ancora, infischiandosene dell’ora. «Diavolo, Mustang, sono o non sono il tuo miglior amico?!» 
    Resto basito a fissarlo, sentendomi come una bambola di pezza mentre continua a scuotermi. Senza preavviso, poi, mi molla un pugno. Ed è a quel punto, che sono davvero sconcertato. «Avresti dovuto dirmelo prima, avresti dovuto confidarti con me!» riprende abbassando il capo, cominciando a colpirmi il petto con pugni leggeri, come un bambino. «Davvero pensavi che sarei stato tanto meschino da trattarti diversamente!? Razza di... idiota che non sei altro...» Affievolisce il tono della voce, nonostante si senta ancora una nota arrabbiata. I colpi diventano più deboli, finché non si arrestano del tutto. Anch’io guardo altrove sentendomi fuori posto, con un groppo sempre più crescente in gola.
    Mi mordo il labbro inferiore per reprimere quello che forse è un singhiozzo. Non lo so, non ne sono così sicuro.«Scusami...» riesco solo a mormorare, con voce spenta. In risposta, però, ottengo solo un grugnito. Un borbottio che sembra volermi ammonire di qualcosa. Non aggiungo quindi altro, restando in quello strano quanto imbarazzante silenzio. O almeno finché non sento le grandi braccia di Cedric stringermi forte, come a volermi dare, in quel suo modo bizzarro, un po’ di protezione.  
    «Non metterti più i guai simili, demente», mi dice, quasi costringendomi a poggiare il mento sulla sua spalla. «Ma se proprio non riesci a farne a meno, non lasciarmi indietro». Forse lo aggiunge per alleggerire la situazione, non lo so. Ma sono felice di averlo come amico.
    Chiudo gli occhi umidi, annuendo soltanto. E la sua presa diventa più salda, più protettiva. 
 
 
Stretto e piangente ad un uomo che non fosse ‘To-san o ‘Ka-san,
capii che i miglior amici erano quelli che ti erano vicini al cuore anche senza saperlo.

 
 
    Questa che è sorta oggi è una giornata come tante. Sono passate appena un paio di settimane da quando abbiamo iniziato l’Accademia e da quando ho raccontato tutto a Cedric. Da quel momento mi tiene ancor più sottocontrollo. Non mancano, però, i momenti in cui combiniamo casini. Forse sarà per questo che il nostro comandante in seconda ha scomodato ‘Ka-san. Ci troviamo con lui fuori, adesso, quasi vicino al poligono. L’occhio truce di ‘Ka-san che ci squadra non mi piace affatto. Mi ricorda quello d’un rapace che tiene sotto mira la sua preda. E sono io, la preda. Non capisco però che abbiamo fatto di così sbagliato. E’ stato il nostro comandante, infondo, a dirci di dover usare i fucili d’addestramento. Assestamento tattico sul campo di battaglia. Ha detto proprio così. Non capisco di cosa si lamenti.
    «Due settimane, solo due misere settimane», sento borbottare ‘Ka-san, mentre cammina a grandi falcate in direzione dell’ala ovest dell’edificio. «Due settimane e già mi vengono a dire che attentate alla vita dei vostri comandanti, perfetto». Che esagerazione. Io mica l’ho fatto apposta. E’ stato lui a dire di sparargli contro in stile bersaglio. O forse stava scherzando? Forse stava usando solo un eufemismo? Dirlo a ‘Ka-san però complicherebbe solo le cose. E poi non sono stato l’unico. Tre o quattro ragazzi l’hanno preso alla lettera come me e Ced.
    «Due teste vuote, ecco che siete», riprende a parlottare fra sé. «Se mai riuscirete a diplomarvi e vi presenterete alla sede Centrale e sarò io il Comandante Supremo vi sbatto fuori a calci». Aye, dice sempre così. Comandante di qua, Comandante di là. Ma intanto resta sempre Generale. Di corpo d’armata, adesso. Ma sempre Generale è.
    «Signor Mustang, andiamo... non ne faccia una tragedia», si azzarda a ribattere Cedric.
    Mossa sbagliata e stupida. L’occhio di ‘Ka-san lo fulmina all’istante. Avvicina il pollice e l’indice al suo viso, con un’espressione indemoniata.  E Ced si allontana un po’, timoroso. «Non ne devo fare una tragedia, eh?» fa ‘Ka-san, e il suo tono mi mette un po’ i brividi. «Chi credete che dovrà starsene ore in più in ufficio per rimediare alla vostra bravata?» Ecco spiegato il motivo della sua aria arrabbiata. Gli toccheranno degli straordinari.
    Vado in aiuto del mio amico, allontanando la mano di ‘Ka-san. Non vorrei che in un momento di stizza decidesse davvero di schioccarle, quelle dita. A volte con lo Zio lo fa. «Dai, ‘Ka-san, puoi sempre utilizzare la scusa della stanchezza», provo a farlo ragionare, sentendo quella perla nera puntata su di me, stavolta.
    In quest’ultimi tempi, quando si annoia di lavorare, va sempre a lamentarsi da chi di dovere dicendo che sforza troppo la vista.  “Sono ancora in convalescenza” , “L’occhio deve ancora abituarsi” , “Ho mal di testa per essermi sforzato troppo” o cose del genere. Quando però vede che le scuse non bastano con la sua diligente Riza, allora fa di peggio. Assume un’aria sconsolata e mesta, accarezzandosi la benda. Proprio come un cane bastonato. Borbotta qualcosa fra sé e sé e poi fa per togliersela. E, anche se tutti sanno che non se la toglierà davvero, alla fine si impietosiscono. Nessuno dei suoi sottoposti se la sente ancora di non accontentarlo in ogni piccolo capriccio. Se chiedesse la luna sono sicuro che troverebbero il modo per portargliela. Chi non ci casca affatto, è lo Zio Maes. Non lo calcola minimamente, quando fa così. Anzi, gli ha persino affibbiato un soprannome. O meglio, un nomignolo. Guercino, lo chiama scherzosamente. E anche se a ‘Ka-san a volte da fastidio, poi ci ride su. Quel che mi fa piacere, almeno, è che si sia ripreso un po’. Prima non voleva nemmeno che si facesse presente che aveva un occhio cieco. Adesso invece la prende alla leggera. Anche se certe volte si lascia andare a quel vago retrogusto di tristezza. Il dolore resterà proprio come ha detto ‘To-san, ma sembra affievolito. E quella è una chiara testimonianza di quanto sia forte di spirito.
    «Non oso immaginare cosa combinerete in questi due anni», mi riporta alla realtà la sua voce, e lo vedo mentre si scompiglia i capelli, ravvivandoseli poi all’indietro in modo di tener scoperta sia la fronte che la benda. «Vi spediranno a pulire le latrine ogni giorno, me lo sento».
    Lo seguo ancora verso il dormitorio e lo lascio borbottare, facendo finta di nulla. Di tanto in tanto lancio qualche occhiata a Cedric, che sospira pesantemente. Non gliel’ha fatta il padre la paternale, gliela fa la mia mamma. Che ironia della sorte. «E come se non bastasse devo riattraversare la città per tornare al Quartier Generale e finire il mio turno, con tutto che ancora non dovrei guidare», continua a lagnarsi, bofonchiando. «Sappiate che se mi fermano vi prendete la colpa anche di questo». 
    Come al solito, ci rifila sempre le solite cose. Dice che per colpa nostra è costretto a fare avanti e indietro in macchina. E, visto che non può scomodare Oto-san per farsi accompagnare dove vuole, è lui a mettersi al posto di guida nonostante non possa. Come minimo dovrebbe far passare un bel po’ di tempo, per farlo. Sospiro pesantemente seguendolo fin sopra le scale, visto che ci sta praticamente  accompagnando dentro al dormitorio. Incasso la testa nelle spalle quando vedo gli altri pochi ragazzi presenti nel corridoio, che ci osservano come a capire il perché della presenza della mia mamma. Ci mancava solo questa. Non basta il mio cognome. Adesso anche la bella presenza di “papà”. Dopo questo sono sicuro che verrò preso di mira da quelli dell’ultimo anno. Preferirei solo sotterrarmi, in questo momento. Il sistema accademico, dai tempi di ‘Ka-san, è cambiato un po’. Ora ci si entra superando concorsi e test d’ingresso. Scritti e psicologici. Non tutti vengono accettati. E la maggior parte dei ragazzi lì presenti si è fatto un culo così per riuscirci. Io invece sono passato subito. Semplicemente perché queste cose per me sono facili, come l’alchimia. Loro, però, quando hanno saputo il mio cognome, hanno tirato le somme. Certe volte odio il lato “eroico” di ‘Ka-san. Come adesso.
    Mi volto appena verso Cedric, vedendolo pensoso. Ha la fronte leggermente corrugata. Forse si starà preparando a ricevere una strigliata anche da suo padre. Come ‘Ka-san infatti, è a sua volta un militare. Non a caso Ced ha deciso di iscriversi anche lui all’Accademia. Me lo disse un giorno a scuola, quando avevamo entrambi quindici anni. Di preciso non ricordo quando, ma proprio i primi tempi credo. Di sfuggita  vedo ‘Ka-san aprire la porta della nostra camera, facendoci poi cenno d’entrare. “Veloci e senza protestare”, sembra che dica quell’occhio che ci scruta. Fulmina con lo sguardo anche i ragazzi restanti, che fanno finta di nulla prima di riprendere a camminare non curanti o entrare a loro volta nelle proprie stanze. Quando è incazzato, ‘Ka-san fa paura. E di brutto anche. Nessuno vuole ritrovarsi col culo bruciato quando ha la luna storta.
    «Papi, potevi anche evitare di accompagnarci», gli faccio notare, enfatizzando sull’appellativo in tono mieloso. Come se quello basti. Peccato che stavolta non funzioni. Difatti indica ancora la stanza, maggiormente stizzito.
    «Smettila di tergiversare e muoviti», sbotta, spostando la sua attenzione verso Cedric. «Anche tu forza, non ho tempo da perdere con tutti e due. Ho del lavoro in arretrato e ora mi tocca anche quello che mi è stato affibbiato per colpa vostra. Senza contare il fatto che dovrò avvertire tuo padre», tiene presente, indicando il mio amico. «Il ché significa che mi toccherà scendere di due piani fino agli uffici interni del Tribunale Militare per cercarlo e raccontargli l’accaduto».  Aggiunge questo quasi tutto d’un fiato, mentre gli vedo una leggera vena sulla fronte. Stavolta mi sa che l’abbiamo combinata davvero grossa.
    Cedric, però, fa per ribattere, con cipiglio preoccupato. «Non è mica così necessario avvisarlo», prova, con tono leggermente nervoso.
    Un’altra occhiataccia lo fulmina. «Volete che vi porti con me al Quartier Generale per far firmare a voi le scartoffie?» ribatte ‘Ka-san esageratamente tranquillo, nonostante la vena pulsi di più. Meglio lui che ‘To-san, almeno, in questo momento. Mi ritrovo a pensare quello, mentre li sento battibeccare come bambini. Se ci fosse stato ‘To-san non ce la saremmo cavata con così poco.  Difatti ‘Ka-san se ne va solo dopo averci fatto una bella tirata d’orecchi. E bella davvero, visto che mi fanno male. Ma se invece di lui avessero convocato ‘To-san, sarebbe stato anche peggio. Quindi siamo stati fin troppo fortunati.
    Mi lascio cadere sul letto mentre mi massaggio ancora l’orecchio, imbronciato. Vedo Cedric fare lo stesso, prima di stendersi a braccia spalancate sul materasso.«E per fortuna che per mezza volta abbiamo eseguito gli ordini», borbotta, voltandosi appena verso di me per guardarmi. «Figurati se non l’avessimo fatto».
    Sospiro e mi stendo anche io, osservando il soffitto. «Credo proprio che ‘Ka-san abbia ragione», ironizzo, per sdrammatizzare. «Finiremo davvero a pulire le latrine ogni giorno».
    «Non mi sono mica iscritto qui per pulire i cessi», ribatte lui.
    Lo guardo con un sopracciglio inarcato. «Perché secondo te farlo è sempre stato il mio sogno, eh?» replico, ancor più sarcastico di prima.
    Quella giornata almeno, è stata una delle poche in cui mi sono davvero sentito, dopo tutte le brutte cose che mi sono accadute, un ragazzo normale. Un ragazzo di diciott’anni e mezzo che passa la giornata insieme al suo miglior amico.
 
 
Fu quello, forse, l’inizio d’una vita con un fardello più sostenibile.
 
 
    Ho avuto la mia prima, vera, licenza. Non come la prima volta, che sono quasi scappato. A casa, però, non ho avvertito nessuno. Non l’ho ritenuto necessario. E sarebbe anche stupido farlo, arrivati a questo punto. Sono già davanti al portone, indeciso se salire subito o meno. Vorrei andare a farmi un giro, ma sono anche stanco per il viaggio. Il viaggio sì, visto che da un paio di mesi siamo stati trasferiti in un’Accademia fuori città. Il perché non lo so, forse per ristrutturazione o simili. Sto per indietreggiare quando mi tradisce uno sbadiglio. Sono troppo stanco per uscire.
    Controllo distratto l’orologio da taschino che mi ha regalato ‘To-san, notando che sono appena le quattro del pomeriggio. A quest’ora sono a lavoro. Fortuna che ho sempre con me le chiavi di casa. Sbadiglio ancora mentre apro il portone, salendo le scale a due a due. Non vedo l’ora di sdraiarmi su un letto comodo. Il mio, quello dei miei o persino il divano mi vanno bene. Se non fosse duro dormirei anche sul pavimento.
    Apro piano la porta quando raggiungo finalmente l’appartamento, venendo subito avvolto da un silenzio così netto che quasi mi rimbomba nelle orecchie. So che è il mio battito quello che sento, ma la quiete di quel tipo mi fa sempre uno strano effetto. Altrettanto silenziosamente mi richiudo la porta alle spalle, lasciando la sacca che mi sono portato dietro accanto al mobiletto presente nell’ingresso. Mi libero anche del berretto, lanciandolo quasi su un braccio dell’attaccapanni. E sorrido come un idiota quando lo colpisco. Le piastrine che indosso le lascio in bella mostra sulla canotta, togliendomi solo la giacca. Fa un po’ caldo in casa, ma è un caldo piacevole. Un caldo familiare. Quel caldo che si sente quando si sta tutti insieme.
    Camminando piano, stando attento che i miei scarponi non facciano rumore, attraverso il corridoio, inspirando a fondo il profumo di casa. Si sente ancora il caffè che hanno preparato quella mattina. Vado in cucina per vedere se ne è rimasto un po’, trovando la macchinetta mezza vuota. C’è solo un goccio, ma non mi va di prepararlo. Borbotto un po’ tra me e me, uscendo nuovamente in corridoio mentre mi stiracchio sempre più e sbadiglio sonoramente. Quel che mi ci vuole, prima d’una bella dormita, è un bel bagno rilassante. Entro quindi in camera mia, prendendo vestiti puliti e leggeri. Mentre mi dirigo alla biblioteca però, mi ricordo una cosa importante. Il bagno secondario non ha la vasca. Solo quello in camera dei miei ce l’ha. Che tirchi. Potevano farlo anche lì.
    Sbuffando, ritorno sui miei passi, andando verso la loro stanza. Non credo che gli dispiacerà se lo uso per un po’. E nemmeno se consumo mezzo contenitore di bagnoschiuma, no? Mi scappa un altro sbadiglio mentre apro la porta senza dar più peso al silenzio visto che sono solo in casa, e socchiudo di poco gli occhi lacrimanti. Sto per fare un passo all’interno quando, una volta focalizzata l’immagine, mi blocco lì, sulla soglia della camera con i vestiti sotto braccio. Due occhi dorati mi fissano sconcertati, mentre l’altro, nero come la pece, è dilatato come non mai. Dire a chi appartengono sarebbe superfluo e anche scontato...
    «E... E tu cosa diavolo ci fai qui!» esclama ‘Ka-san rosso in volto, in una posizione un po’... beh... più che contro facente al suo ego e al suo orgoglio maschile.
    Vorrei distogliere lo sguardo, ma non ci riesco. E forse vorrei anche ridere, ma non riesco a fare nemmeno quello. Così guardo ‘To-san, la cui schiena è leggermente nascosta dal lenzuolo che per miracolo non è scivolato via, mentre si trova sopra ‘Ka-san. Aye, sopra. Non voglio andare oltre con i dettagli. Sembra boccheggiare un po’, anche lui rosso in viso. Non so se sia per la mia presenza o per quello che ho interrotto. Però non voglio indagare oltre. Meglio restare nel dubbio.
    «Tu dovresti...» comincia anche ‘To-san, e lo vedo distintamente deglutire. Ma ormai io non ci faccio più nemmeno caso. Li ho beccati tante di quelle volte a farlo che nemmeno dovrebbero arrossire. Forse è per il cambio di ruoli? Credo proprio di sì, visto che ho notato che ‘Ka-san ha chiuso l’occhio come per far finta che sia tutto un bruttissimo sogno. Peccato per lui che non sia così. Adesso ho visto anche il suo essere completamente donna.
    «Scusate il disturbo», mi limito a dire scrollando le spalle, ritornando tranquillo sui miei passi.
    Non appena mi richiudo la porta alle spalle sento il letto che cigola appena, segno che si stanno muovendo per rialzarsi e rendersi presentabili. O forse per ricominciare come se nulla fosse, chissà. Dubito però di questa mia seconda ipotesi, rifugiandomi in cucina. Quel caffè quasi quasi mi tenta, stavolta...
    Mi riempio una tazza, accomodandomi al tavolo per sorseggiarlo mentre aspetto. Non ci mettono più di cinque minuti a raggiungermi, anche se ‘To-san ha ancora la camicia aperta e si sta affrettando a sistemarsela insieme ai capelli come meglio può. Quello che mi fa ridere in questo momento sono le loro espressioni. Specialmente quella di ‘Ka-san. E come dargli torto. Almeno a letto, ero sempre stato sicuro che avesse il controllo della situazione, visto che quando li beccavo era sempre lui quello che comandava. Adesso, invece, quella mia certezza è sfumata. ‘Ka-san è sottomesso in tutti i sensi. Mentre continuo a bere li vedo lanciarsi occhiate, quasi nervosi. Poi noto di sfuggita ‘Ka-san sistemarsi meglio la benda, e sono pronto a scommettere che il colorito arrossato del suo volto supera di gran lunga quello di ‘To-san. Fa poi per aprire la bocca, ma gli viene subito tappata.
    «Che hai combinato, stavolta?» si rivolge a me Oto-san in sua vece, con tono calmo ma oserei dire un po’ isterico. Si vede lontano un miglio che gli dispiace che gli ho interrotto il gioco.  E non darei torto nemmeno a lui. Agito appena una mano finendo il caffè, voltandomi poi per sorridere ad entrambi.
    «Stavolta ho una vera licenza, ecco cos’è successo», dico, un po’ anche per sbeffeggiarli. «E ho pensato di sfruttarla passando un po’ di tempo con voi. Non siete contenti?»
    Dall’espressione di uno dei due non si direbbe. Proprio quest’ultimo riesce a liberare la bocca, inveendo contro di me. «Ti ci strozzo con quelle piastrine che hai al collo!» sbraita, tenuto subito dopo a freno da ‘To-san. Di nuovo domato. Altro che cavallo selvaggio.  L’orgoglio del mustang si è perso da tanto, mi sa.
    «Quello che Oka-san voleva intendere è che non ti aspettavamo», ribatte ‘To-san quasi afflitto, mentre vedo ‘Ka-san continuare a sbraitare contro la mano d’acciaio che gli tappa la bocca.
    Sorrido spavaldo, alzandomi. «Non dovresti agitarti così tanto, ‘Ka-san», gli dico, schernendolo. «Ti fa male alla salute, soprattutto dopo quel sano movimento». 
    Detto questo scappo svelto verso la soglia della cucina, venendo subito seguito dagli strepiti di ‘Ka-san, ormai libero dalla presa di ‘To-san. Che si sia liberato da solo o che sia stato Oto-san a decidere di gettare la spugna è difficile da dire. Ma non è mamma quello che mi raggiunge in biblioteca. E’ lo stesso ‘To-san, con in volto dipinto un ghignetto divertito.
    «Lascialo perdere», mi dice subito, avvicinandosi al divano sul quale mi sono accomodato per darmi una leggera pacca sulla spalla. «Anche se fa così, è felice che sei tornato». A quell’affermazione, sorrido anche io. Sbraita e si lamenta in continuazione, ma poi mi accontenta in ogni minima cosa.«E’ solo imbarazzato per quanto hai visto», continua, lasciandosi sfuggire un piccolo sbuffo d’ilarità, vagamente orgoglioso.
    Ridacchio anche io. Ci credo che è imbarazzato, ‘Ka-san. E ci credo che ‘To-san invece se la ride. Becco sempre lui sotto! «Cos’era, oggi, la rivincita dei passivi?» lo prendo un po’ in giro, perché so bene com’è la situazione. ‘To-san, da quando ne ho memoria, ha sempre e solo avuto ‘Ka-san. Anche un po’ prima che mi adottassero, da quanto mi ha detto. Le sue uniche conoscenze in quel campo, quindi, sono con ‘Ka-san. Non ha mai avuto nessuna donna a differenza sua.
    Lo vedo arrossire un po’, segno che ho fatto centro. Si gratta distratto una guancia, guardando altrove. «Se vogliamo metterla così...» borbotta, anche se gli scappa un sorrisino. Qualche soddisfazione doveva pur averla anche a letto, infondo. Meglio abbondare quando si può. E poi, quello sarà un buon modo per prendere in giro ‘Ka-san. Mi viene quasi da ridere, non so perché.   Non che non vedessi ‘To-san così... intraprendente. Solo, non mi sarei mai aspettato che ‘Ka-san facesse il passivo. Non voglio nemmeno sapere perché hanno deciso di cambiare. Questi sono strettamente affari loro. E io non mi immischio.
    «Hai già mangiato?» mi chiede ‘To-san, riscuotendomi. E’ uno dei suoi modi per mettere da parte i discorsi. Chiedere se hai pranzato e se hai fame. Un classico.
    Gli sorrido ancora, annuendo. «Aye, ma ad una cena in famiglia non si dice mai di no», sghignazzo serenamente, vedendolo sorridere a sua volta. E’ da tanto che non passiamo del tempo tutti e tre insieme. Se possiamo, tanto vale sfruttare l’occasione. Chissà quando ce ne capiterà un’altra.
    Lo seguo in cucina, dove ‘Ka-san sta ancora borbottando fra sé e sé. Ormai anche quello è diventato d’abituale routine. Vedo però che è un piccolo sorriso, quello che gli increspa le labbra. In fondo, è pur sempre la mia mamma.
 
 
Il susseguirsi di eventi tranquilli, dopo, fu molto più presente di quanto io stesso potessi sperare.
 
 
    «Guercino!» 
    E’ incredibile quanto risuoni alta la voce dello Zio nella piazza dinnanzi al Quartier Generale. Eppure, con tutti i ragazzi di fine Accademia che sono lì radunati, dovrebbe confondersi nel trambusto e nel vociare dei presenti. Ci troviamo lì anche noi, tutti in ghingheri. ‘Ka-san nella sua uniforme graduata, con tanto di meriti e medaglie in bella mostra. A sua volta anche ‘To-san, anche se è andato -Sotto mia “umile” richiesta- alla ricerca di Cedric e di suo padre per scattare una foto tutti insieme. Io, invece, indosso per la prima volta la divisa. Sono diventato un militare, proprio come i miei genitori. Mi sento entusiasta come non mai. Anche perché sto già pensando all’esame per Alchimista di Stato. Non dovrei correre così tanto, ma oggi non riesco a stare dietro ai miei pensieri. E’ come se scappassero via da soli.
    «Guercinooooo! Ehi!»  Lo Zio, intanto, continua a chiamare ‘Ka-san. Ma come sempre, lui fa finta di nulla. Si volta sì nella sua direzione, però non lo calcola minimamente. Guarda un punto oltre a lui, concentrando l’attenzione del suo unico occhio un po’ più avanti. Oggi, in via eccezionale, ha deciso di fare a meno della benda. E’ un po’ a disagio e si vede, ma cerca anche di non pensarci. Quando gli ho chiesto perché ha semplicemente detto che gli andava. Ha però nascosto un po’ la cicatrice con la frangetta, che porta un po’ più lunga sul lato sinistro. Forse proprio per coprirla in casi come quello, chissà. Non ho voluto domandargli anche questo. Se basta a farglielo affrontare del tutto, tanto meglio così.
    «Guercino!» Ancora un richiamo. Più alto dei precedenti. E a questo punto, spazientito, ‘Ka-san lo guarda dopo tanto.
    «Che cazzo vuoi, coglione!» esclama a sua volta, richiamando l’attenzione di parecchie persone. Roy Mustang. La mia mamma. La finezza fatta persona... 
    Un tantino perplesso, lo Zio si ferma a poco distanza da noi, sbattendo le palpebre. Ma poi sorride più che mai, gettandosi letteralmente addosso a ‘Ka-san. «Andiamo, come sei scorbutico!» si lagna, cominciando, con le nocche della mano destra, a scompigliargli i capelli, quasi fosse un ragazzino. Vedo ‘Ka-san tentare di scrollarselo di dosso, stizzito più che mai. Poi dicevano di me e Ced. Loro, a cinquant’anni e passa, sono peggio di noi. «Tuo figlio si diploma e tu sei così nervoso?» continua lo Zio prendendolo in giro, guardando poi me con quel solito sorriso. Però non mi piace poi tanto, quel sorriso...
    Difatti, eccolo lasciare ‘Ka-san per avventarsi su di me, cingendomi il collo con un braccio. «Congratulazioni!» esclama divertito, scompigliando anche a me i capelli. «E’ proprio vero, allora! Tale padre tale figlio!» 
    Tento di dire qualcosa, ma ‘Ka-san mi precede. «In realtà sarei la madre, ti ricordo...» ribatte, vagamente risentito. Lo Zio lo guarda, allentando un po’ la presa e permettendomi così di respirare.
    «Mica parlavo di te, infatti!» sghignazza, ricevendo un’occhiata letteralmente infuocata. E per fortuna che stamattina ‘To-san gli ha impedito di indossare i guanti proprio per evitare che desse fuoco a Zio Maes!  Ormai libero mi permetto di ridere anche io, guadagnandoci la medesima occhiata. Ma non ci faccio poi tanto caso. Sono di routine quelle occhiatacce, tanto.
    Mentre loro due cominciano a litigare come al solito, tra borbottii sconnessi e false minacce di morte, ne approfitto per allontanarmi il più possibile prima della cerimonia d'apertura, guardando distrattamente verso il cielo azzurro sopra di me una volta solo. Ne ho passate tante, in questi ultimi anni, e quasi credevo che non sarei riuscito a cavarmela in sveriate occasioni. Eppure eccomi lì, ancora vivo, insieme ai miei genitori.



Questa è la storia della mia vita. Un po’ triste, certo. Ma è la mia bellissima vita.






_Note inconcludenti dell'autrice
E dopo questa one-shot praticamente chilometrica, con la quale avevo una voglia matta di concludere la raccolta, eccoci finalmente giunti alla fine. Avevo scritto questa storia tantissimo tempo fa, e in essa volevo racchiudere alcuni dei momenti più significativi di Jason, personaggio nato quasi per caso al quale io e la mia nipotola abbiamo voluto più bene di quanto noi stesse ci aspettassimo.
L'abbiamo praticamente visto crescere, da bambino di tre anni a ragazzo, ed è fin troppo normale che ci affezionassimo in questo modo a questo nostro Original Character e a tutto il background dietro ad esso. Non sono mancati i sorrisi, le lacrime, le nuove amicizie e gli amori, e a lui alla fine abbiamo affiancato Cedric, suo migliore amico e altrettanto combinaguai; si è aggiunto in seguito anche Dick, suo commilitone nell'esercito, facendo sì che nascesse il Monster Trio, se proprio vogliamo chiamarlo in questo modo.
C'è stata tutta una vita da vivere, in pratica, e posso candidamente affermare di essere orgogliosa come non mai della storia che io e la mia nipotola Red Robin abbiamo messo su.
Chiedo scusa per queste inutili precisazioni, ma ci tenevo davvero a scriverle.
Spero alla prossima. ♥


Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=987048