C'era una stella che danzava, e sotto quella sono nata

di Frytty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo-Goodbye ***
Capitolo 2: *** Too Much ***
Capitolo 3: *** Why ***
Capitolo 4: *** Stupid ***
Capitolo 5: *** Tender ***
Capitolo 6: *** Friends ***
Capitolo 7: *** What were it happening to us? ***
Capitolo 8: *** Rebuild ***
Capitolo 9: *** Where Would We Be Now? ***
Capitolo 10: *** I Love You ***
Capitolo 11: *** Afraid ***
Capitolo 12: *** Strenght ***
Capitolo 13: *** Intense ***
Capitolo 14: *** Kill ***
Capitolo 15: *** Overseas ***
Capitolo 16: *** Words Fly ***
Capitolo 17: *** Children ***
Capitolo 18: *** Happy ***
Capitolo 19: *** Must ***
Capitolo 20: *** Surprises ***
Capitolo 21: *** Destiny ***
Capitolo 22: *** Protect Me ***
Capitolo 23: *** Keep Bleeding ***
Capitolo 24: *** Tears ***
Capitolo 25: *** Lucky ***
Capitolo 26: *** Dance with Somebody-Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo-Goodbye ***


Salve!

Eccomi tornata in questo fandom! Beh, vi avevo promesso che avrei postato una nuova Ff entro fine marzo, no? Almeno per una volta, sono stata in grado di mantenere la promessa *.*

Che dirvi di questa Ff prima di lasciarvi al prologo? Forse che ho faticato tantissimo per farla "venire fuori", neanche un parto gemellare; che ho cancellato e riscritto mille volte il prologo; che i personaggi, tutt'ora, mi fanno disperare; che non ho idea di come procederà, nonostante una trama quasi-delineata; che ci saranno accenni Robsten, perciò non linciatemi, è difficile scriverne anche per me; che spero possa piacervi e che... boh, vogliate commentare :)

No, a parte gli scherzi, è davvero questo quello che mi sento di dirvi circa questa... cosa. Non ho idea di cosa verrà fuori, non ho idea di con quanta costanza aggiornerò, non ho idea di niente, so solo che sentivo il bisogno di scriverla, perché ce l'ho in testa da troppo tempo.

Spero possa piacervi, emozionarvi, farvi arrabbiare e tutto quello che volete, per me l'importante è che vi susciti qualcosa, anche schifo xD.

Prima di lasciarvi al prologo, ci tenevo a ringraziare Demoiselle per il bellissimo banner e per la velocità con cui l'ha realizzato *.* e ci tenevo a ricordarvi anche il mio profilo Facebook per aggiornamenti, sproloqui ecc: Frytty Efp.

 

Ringrazio anche tutte coloro che si avventureranno in questa Ff, che commenteranno e che vorranno seguirmi fino alla fine <3

 

 

Buona continuazione di settimana e, al solito, Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

< Dovresti restare. > La sua voce è un sussurro, ma nel suo cuore è come un grido.

< Restare per fare cosa? > E' la sua domanda, quella più logica che riesce a porre.

Non vorrebbe che tutto finisse così, non vorrebbe andar via e lasciarsi tutto alle spalle, ma deve.

< Quello che sai fare meglio: ballare. New York non è la tua unica possibilità, lo sai. L'Inghilterra è piena di scuole di danza. > Le si avvicina e vorrebbe strapparle la valigia dalle mani, vorrebbe abbracciarla e riportarla a casa, farci l'amore fino a stare male, fino ad averne abbastanza del suo profumo, del suo sapore, della sua pelle.

< E' il mio sogno, Robert e vorrei non facesse così male. > Si morde le labbra per non piangere, anche se gli occhi le diventano ugualmente lucidi.

< Cosa ne sarà di noi? > Aggrotta le sopracciglia, la confusione dell'aeroporto che lo sfiora.

Candice sorride appena, perché sa che quello che dirà farà male.

< Forse non eravamo destinati a stare insieme; forse doveva finire così. > E questa volta una lacrima sfugge davvero al suo controllo, scivolandole silenziosa lungo la guancia.

< Non lo pensi davvero. > Robert scuote la testa, rifiutandosi di crederle.

< Tornerò, sai che lo farò. > Cerca di rimangiarsi le parole precedenti, ma è come ingoiare una medicina.

< Non potrò aspettarti per sempre. > Vuole ferirla e sa che ci riuscirà.

< Non ti sto chiedendo di farlo. > Tira su col naso e abbassa lo sguardo, incapace di reggere il suo.

E' ora di andare.

Deve.

< Ti dimenticherai di me. > Gli mormora mentre lo abbraccia, mentre cerca di imprimere nella mente il suo profumo, i suoi occhi azzurri, i suoi capelli setosi e morbidi, le sue labbra dolci.

Robert finge di non averla sentita e quando la guarda negli occhi si rende conto che niente sarà più lo stesso senza di lei.

Sa che i baci complicano solo le cose, sa che non dovrebbe farlo, dovrebbe solo allentare la presa e permetterle di allontanarsi, ma non riesce a farne a meno e avvicina le labbra alle sue, avvertendole dolci e arrendevoli come sempre.

Sarà l'ultimo ricordo che avrà di lei e, anche se farà male, vuole che sia il migliore.

< Va'. > Le dice solo, rifiutandosi di dirle addio e, mentre la osserva allontanarsi con la sua camminata appena incerta, già sente la mancanza della sua pelle e della sua voce.

Non aspetta di vederla scomparire; si volta e torna indietro, le mani nelle tasche dei jeans e lo sguardo basso e lucido di chi ha perso la tessera più importante della sua vita.

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Capitolo 2
*** Too Much ***


Salve, salvino!

Vi ho fatto penare per questo primo capitolo, vero? Forgive me! ç.ç *bacchetta la Telecom che, vanamente, si lamenta*

Non voglio farvi attendere oltre, per cui sarò breve e concisa (spero); innanzitutto, mi sono ricordata di aver omesso alcune spiegazioni circa la Ff, precisamente due, ovvero:

1) Il titolo della Ff "C'era una stella che danzava, e sotto quella sono nata", deriva da una citazione di Shakespeare; me tapina, ignoranta come sono, non saprei dirvi se si tratti di un sonetto o simile, perché l'ho rintracciata su un sito Internet di citazioni sulla danza e non mi sono presa la briga di indagare;

2) Ogni capitolo della Ff (escluso il Prologo e l'Epilogo) avranno un tema musicale, ovvero inserirò, all'inizio di ogni capitolo, una canzone che credo possa rappresentare l'atmosfera del capitolo stesso e che voi potrete scegliere di ascoltare mentre, prima o dopo la lettura :)

Detto questo, una piccola precisazione sul primo capitolo: so che vi sembrerà che Candice voglia atteggiarsi a vittima, essere compatita o cose del genere, ma, credetemi, non è assolutamente così, anzi. Pensare troppo fa male, lo sappiamo tutti ;) Il carattere di ogni personaggio andrà delineandosi nel corso della Ff, ma mi auguro che quelli che appariranno in questo primo capitolo, vi facciano una buona prima impressione *.*

Ho detto tutto *fiù!* Concludo ringraziando tutte le persone che hanno letto, commentato, inserito la Ff tra le seguite/preferite/da ricordare *.* GRAZIE! <3 Avere così tanta fiducia sin dall'inizio, mi commuove ç.ç e mi fa venir voglia di abbracciarvi tutte *.*

Buona continuazione di settimana e...

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Too much

 

Fairytale Gone Bad-Sunrise Avenue

 

 

 

 

< E' così difficile capire che non voglio accompagnarvi? > Ero stanca, sudata e avevo bisogno di una doccia e la mia migliore amica Sophia non faceva altro che illustrarmi il programma del giorno dopo: colazione al bar tra la quinta e la sesta strada, passeggiata rilassante a Central Park, premier di Remember Me.

La sua nuova fiamma lavorava al Paris Theatre e, chissà come, era riuscita ad accaparrarsi quattro biglietti per assistere all'evento.

Quando Sophia me l'aveva comunicato con la sua aria baldanzosa e il suo sorriso spontaneo e divertito, non ero stata in grado di fare altro se non arrossire vistosamente.

Sapeva bene cosa avrebbe comportato.

Sapeva bene quanto, in tre anni, avessi cercato di buttarmi tutto alle spalle, concentrandomi sulla danza, l'unica cosa che mi evitava di pensare.

< Ci accompagnerai eccome, invece! Vorresti lasciarci da sole, noi, povere fanciulle, in una metropoli come New York? > Mi osservò con la sua aria da cucciolo bastonato, cercando di convincermi.

< Perché non chiedete ad Arthur di accompagnarvi, se siete così indifese? > Sbottai, lanciando l'asciugamano sulla panca e liberandomi del tutù.

< Ha già un impegno; Miss Parker gli ha chiesto di farle compagnia durante la lezione di benvenuto alle nuove reclute della Julliard. > Rovesciò gli occhi all'indietro, come se stesse per svenire e poi sbuffò, liberando i capelli dallo chignon.

< Che tempismo... > Sbuffai, infilando la tuta e preparandomi ad affrontare il gelo primaverile della Grande Mela per raggiungere il residence.

< E dai! Sarai in nostra compagnia, non ti lasceremo sola neanche per un secondo e prometto solennemente che ti divertirai! > Si appese al mio braccio, gli occhi azzurri sfavillanti.

Avrei ceduto e lei ne era perfettamente consapevole.

Non sarebbe stato un problema se si fosse trattato di un altro film: avremmo riso e scherzato come al solito e avremmo lanciato i pop-corn a ragazzi ignari della fila davanti alla nostra, scivolando lungo le poltrone non appena uno di loro si fosse girato, ma quella volta era diverso.

Si trattava di un suo film, del suo viso su uno schermo gigante, della sua voce, dei suoi gesti, dei suoi occhi, delle sue labbra, delle sue mani; si trattava di Robert e, mi conoscevo, non avrei fatto altro che piangere per tutto il tempo, perché lui era il mio rimpianto più grande, l'occasione che mi ero lasciata scivolare via dalle mani, la vita che avevo deciso di non prendere in considerazione e poco importava se erano trascorsi tre anni, poco importava se lui era cambiato, se non era più il ragazzino che avevo conosciuto a Londra e di cui mi ero innamorata, poco importava se neanche io ero più la stessa, se non ero riuscita ad affrontare una singola giornata senza pensare a lui appena sveglia, durante le pause dalle lezioni, prima di andare a letto; poco importava se i miei sogni erano popolati delle immagini che conservavo di lui all'aeroporto, quando gli avevo detto addio, quando avevo cercato di convincerlo che mi avrebbe dimenticata; poco importava se lui, forse, l'aveva fatto davvero.

Era andato avanti, come me, del resto; aveva inseguito il suo sogno di diventare un attore, aveva fama, successo, fortuna, belle donne; forse, non ero diventata altro che una fotografia sbiadita nella sua mente.

< Ci devo pensare, d'accordo? Non sono in grado di deciderlo adesso. > Risposi, liberandomi della sua presa e avviandomi verso il portone d'ingresso che mi avrebbe condotto nel corridoio semi-deserto.

Le lezioni erano riprese, ma noi avevamo ancora un'ora libera prima della cena ed io volevo solo rintanarmi in camera a riflettere.

< Candice! Candice! > Mi voltai alla voce di Arthur. Aveva i capelli scompigliati dopo la fine della lezione, i suoi soliti shorts, la sua solita canotta azzurra che utilizzava per allenarsi, il suo solito sorriso gentile.

< Vai via? > Mi domandò, riprendendo fiato.

< Pensavo di andare a rilassarmi un po' prima di cena, perché? > Risposi, aggrottando le sopracciglia.

< Miss Stevens ti sta cercando, credo si tratti di qualcosa di importante, perché sembrava avere una certa fretta. > Mi spiegò, aggrottando le sopracciglia spesse e bionde.

< Oh, ok, ci vado subito, grazie. > Gli sorrisi, come sempre, riprendendo la direzione opposta.

< Ti accompagno; ha convocato anche me. > Fece spallucce, anche se riuscivo a capire dalla sua espressione concentrata e aggrottata, che temeva quell'incontro, che ne era spaventato, come se si trattasse di una sospensione; ma non avevamo infranto il regolamento dell'Accademia, né avevamo dato adito a sospetti, perciò, probabilmente, doveva trattarsi di qualcosa legato esclusivamente alle nostre lezioni.

< Ho sentito che avete intenzione di partecipare alla premier di Remember Me, domani... > Iniziò, portandosi una mano a carezzarsi i capelli corti della nuca, un gesto per lui spontaneo quando era in imbarazzo.

Conoscevo Arthur da tre anni, da quando ero entrata a far parte della Julliard, ma, nonostante questo, sembrava non sentirsi mai particolarmente a suo agio in mia compagnia. Sam sosteneva che fosse per il semplice fatto che aveva una cotta segreta per me, ma io, più semplicemente, credevo che la colpa fosse da attribuire, in parte, anche a me: dopo Robert non avevo fatto altro che mantenere a distanza qualsiasi soggetto di sesso maschile, ripetendomi che non avevo bisogno di distrazioni, che dovevo concentrarmi sulla danza e che ci sarebbe stato tempo per l'amore. Non che facessi molto per non essere infastidita: solitamente bastava un'occhiata, oppure un gesto per farli desistere. Non era qualcosa che programmavo, non era un atteggiamento che mi imponevo, semplicemente era più forte di me: assumevo un cipiglio severo e squadravo tutti dall'alto in basso come una perfetta snob.

< Sophia ha avuto la brillante idea... > Commentai con sarcasmo, alzando gli occhi al cielo.

< Jason le ha procurato i biglietti e sarebbe stato un peccato rifiutarli. > Sorrise ed io lo osservai scettica.

Era invischiato anche lui nell'operazione facciamo incontrare a Candice il suo ex ragazzo?

< Verrai con noi? > Gli domandai, piuttosto perplessa.

Sophia, al solito, aveva mentito! Insomma, perché dire che Arthur sarebbe stato impegnato con Miss Parker quando, evidentemente, non era vero?

Annuì con vigore e continuò a sorridere.

< Oh, splendido! Quindi, se io dovessi accidentalmente rifiutare, potresti fare da guardiano per tutte. > Soppesai ad alta voce, ritrovando il mio buon umore.

< Ehm... Sophia mi aveva assicurato... insomma, diceva che sarebbe stata una buona idea per te rivedere... insomma, sai-chi... > Ufficialmente anche lui conosceva della mia relazione pre-notorietà con Robert. Non mi aveva mai infastidito che gran parte della scuola fosse a conoscenza delle mie precedenti frequentazioni; insomma, erano passate e al passato non si sarebbe dovuto dare importanza; peccato, però, che Robert rientrasse esattamente nella categoria di personaggi che, volenti o nolenti, una volta consacrati divi delle ragazzine, vengono spogliati di ogni segreto, perciò, un conto era quando le tue compagne di corso ti facevano domande sulle tue esperienze amorose, un altro era quando le vedevi passeggiare nei corridoi e bisbigliare alle tue spalle sul fatto che ti fossi lasciata sfuggire un'occasione del genere: neanche un ragazzo fosse un flacone di detersivo al supermercato.

In un'intervista Robert aveva fatto il mio nome e, non solo sulla rivista in questione il mio nome era stato cerchiato e collegato ad una freccia con tanto di occhiello con foto recente di una mia esibizione a New York, compresa qualche informazione personale, ma mi ero ritrovata, per ben due settimane, paparazzi e giornalisti pronti a farmi confessare il segreto di Robert Pattinson, nonché vita, morte e atti sessuali della nostra relazione. Non potevo negare di essermi sentita vagamente angosciata al pensiero di poter essere ancora la sua fidanzata. Insomma, la notorietà non era un problema, ci avrei fatto l'abitudine, così come mi sarei abituata agli assalti delle fan, a quello dei paparazzi e dei giornalisti, ma come mi sarei abituata ad una vita totalmente differente rispetto a quella che avevo diviso con lui a Londra?

Camminare in tutta tranquillità per le strade, baciarsi senza bisogno di controllare ad ogni angolo che ci fosse qualcuno pronto a scattare una foto, andare a casa di un'amica senza che i giornali insinuassero che avessi un altro... che fine avrebbero fatto tutte le nostre abitudini?

Mi mancava, mi mancava immensamente, ma forse, tutto sommato, era stato meglio così; non eravamo destinati a stare insieme e, forse, non lo saremmo mai stati, forse le nostre strade avrebbero anche potuto incrociarsi, ma poi ognuno avrebbe proseguito nella sua direzione, senza intoppi e poi si mormorava fosse felicemente fidanzato con la sua co-star di Twilight, quindi perché intromettermi?

< Non credo mi farebbe bene un incontro simile e Sophia si sbaglia. > Risposi, abbassando lo sguardo, colpita dalle considerazioni che la mia mente aveva partorito in quei pochi istanti.

< Vieni comunque; non devi parlargli, non devi neanche guardarlo, se non vuoi. E' tantissimo tempo che non trascorri una giornata fuori da questa scuola, vedilo come un modo per staccare la spina dalla danza e pensare a qualcos'altro. > Tentò di convincermi, fermandosi dinanzi all'ufficio di Miss Stevens.

< Peccato che finirei per pensare esattamente a quello che ho cercato di dimenticare con la danza. > Osservai con un sospiro.

< Non è mai stato un capitolo chiuso per te ed è difficile, specie quando, se fosse andata diversamente, ci sarebbero stati tutti i presupposti per una relazione stabile, ma cosa puoi fare? Rimuginare sul passato e buttare all'aria ogni possibilità? Non vai lì per lui, non stai andando a vedere un suo film perché vuoi illuderti che sia ancora con te; ci stai venendo perché noi te l'abbiamo chiesto, perché la cosa migliore per dimenticarlo, forse, è soltanto incontrare i suoi occhi. > Continuò a sorridere, mentre io non riuscii a fare altro che osservarlo con un misto di ammirazione e sorpresa. Da quando Arthur elargiva consigli su come superare una delusione d'amore?

< Ho sofferto anch'io. > Fu la sua unica risposta alla mia espressione stupita, corredata da un'alzata di spalle.

Non ebbi il tempo di pensare ad altro, perché la voce di Miss Stevens risuonò nel corridoio, invitandoci ad entrare, dopo il bussare discreto di Arthur alla sua porta di legno chiaro.

< Voleva vederci? > Chiesi, entrando nell'ufficio e lasciando ad Arthur il compito di richiudere la porta.

< Prego, accomodatevi. > Ci invitò, indicando con un gesto della mano le due sedie di fronte alla sua scrivania.

Ci sedemmo e ci scambiammo un'occhiata piuttosto preoccupata.

Miss Stevens era stata una brillante ballerina di danza classica e un'ottima insegnante, fin quando un infortunio non le aveva più permesso di esercitare la sua passione e lei, delusa, non aveva potuto far altro che rinchiudersi in uno degli uffici vuoti a svolgere noiosi compiti burocratici.

< Sapete certo dell'iniziativa di quest'anno indetta dalla Julliard, immagino. > Cominciò, poggiando gli avambracci sulla scrivania e congiungendo le mani, osservandoci attenta.

Arthur mi lanciò un'occhiata.

< Quella del balletto di fine anno organizzato con la collaborazione di Amnesty International. > Risposi, aggrottando le sopracciglia. Era impossibile che qualcuno della scuola non ne fosse al corrente; gli insegnanti non facevano che ripeterlo ad ogni lezione, erano stati affissi centinaia di manifesti nella scuola e altrettante migliaia per la città; sembrava non si parlasse d'altro, nonostante mancassero ancora sei mesi.

Era la prima volta che la Julliard univa le sue forze con un'associazione come Amnesty International e, nonostante il saggio fosse aperto a tutti, le selezioni erano piuttosto severe: non potevi permetterti di fallire.

Ero stata entusiasta dell'idea all'inizio, ma non avevo nessuna voglia di competere, non ero nello spirito giusto e non avrei fatto altro che ridurre la mia autostima.

< Esatto. E' una grande responsabilità prendere parte ad un evento di così vasta portata e ci rendiamo anche conto che le selezioni difficili ed impegnative possano essere un ostacolo, specialmente per gli allievi migliori, già sotto stress per via delle lezioni quotidiane, perciò abbiamo deciso di radunare i migliori allievi della scuola e di permettere loro di accedere al saggio senza dover superare l'esame di sbarramento. > Continuò con un sorriso.

< Lei vuole dire che... che siamo ammessi all'evento? > Arthur era piuttosto incredulo e anch'io; non perché credevo di non possedere i requisiti, o di non esserne all'altezza, semplicemente perché, forse, era troppo.

La premier di Remember Me, rivedere Robert, cercare di reprimere i miei sentimenti contrastanti, impegnarmi costantemente per raggiungere il mio obiettivo ed ora questo. Ne ero lusingata, certo, come lo sarebbe stato chiunque al mio posto, ma, dovevo ammetterlo, avevo paura di fallire miseramente, di sentirmi inadeguata, di far finta di essere qualcuno che in realtà non ero e non sarei mai stata.

Conoscevo i miei limiti ed era troppo, tutto quello che mi stava succedendo.

< Precisamente, signor James. Siete stati i primi a cui abbiamo pensato e avete sempre dimostrato dedizione, disciplina, impegno e un ottimo livello di preparazione, direi eccellente e non vedo il motivo per tenervi in disparte. > Miss Stevens si alzò, dirigendosi all'enorme finestra che le consentiva la completa visuale della strada mediamente trafficata e dei grattacieli illuminati in lontananza.

L'espressione di Arthur si tramutò in gioia e allungò una mano verso la mia per stringermela. Non gli negai il contatto, ma quello che riuscii a produrre fu una insignificante smorfia con la bocca che non avrebbe mai avuto le sembianze di un sorriso.

< Le siamo riconoscenti dell'opportunità concessaci, Miss Stevens, davvero. > Aveva diamanti al posto degli occhi e già me lo figuravo discuterne con i suoi genitori a telefono, le parole che non avevano freno, come un fiume in piena.

< Sono convinta che non mi deluderete. Potete andare adesso. > Ci congedò con un altro sorriso sincero e noi abbandonammo il suo ufficio, augurandole una buona serata.

< Non ci posso credere! Ci pensi? Noi all'evento più importante dell'anno! E' un sogno che si avvera! > Esplose Arthur a distanza di sicurezza dall'ufficio.

< Sì, fantastico. > Borbottai, lo sguardo basso e la mente già impegnata in altri pensieri.

< Non vedo l'ora di dirlo a John! Ci vediamo domani, allora, d'accordo? > Non mi diede neanche il tempo di rispondere, che si era già allontanato di corsa fuori dall'edificio verso i dormitori.

Io, invece, non avevo fretta.

Respirai l'aria fredda della metropoli e infilai le mani in tasca in cerca di calore.

Avevo fantasticato così tante volte circa i miei sogni di diventare una ballerina di danza classica, circa la Julliard, circa New York, che non mi sembrava quasi vero di esserci arrivata, di aver già trascorso tre anni lontano da casa, di aver già quasi rimosso tutti i ricordi che avevo della mia casa a Londra.

Sorrisi, pensando a quanto la vita di Robert fosse simile alla mia: non avevo successo e fama, ma eravamo entrambi lontani dall'Inghilterra, avevamo entrambi realizzato i nostri sogni, eravamo entrambi cambiati e probabilmente non ci saremmo riconosciuti; non nell'anima, perlomeno.

L'unica cosa che non avevamo in comune, era che mi mancava, più dell'aria, mentre per lui, probabilmente, ero solo la pagina strappata di un libro di favole.

 

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Capitolo 3
*** Why ***


Salve a tutte!

Ho l'ennesimo ritardo da farmi perdonare ç.ç ma cosa ci posso fare se la vita universitaria è un disastro? Orari impossibili, studio, corsi da seguire obbligatoriamente e l'ispirazione che se ne va in vacanza anche se siamo ancora a metà maggio -.-, quindi, abbiate la bontà di perdonarmi *.* *faccia contrita da cucciolo abbandonato*

Questo capitolo mi ha fatta sudare sette camicie, specialmente per la seconda parte e nonostante tutto, non è uscita come volevo -.- i personaggi hanno preso vita nella mia testa e hanno scritto un monologo da soli, perciò, se vi risulterà tutto confuso, non fateci caso, è solo la storia che, in qualche modo, va avanti e so che, magari, la scena del loro ri-incontro ve la sarete immaginata diversa, ma tant'è, non me la sono sentita di cambiarla.

Volevo dedicare il capitolo a Cris che ieri ha compiuto gli anni: ancora AUGURONI! e poi a tutte le persone che hanno letto lo scorso capitolo e questa Ff in generale e chi si è fermato a lasciarmi un piccolo commentino *.* <3

 

Vi lascio al capitolo, buon inizio settimana a tutti! <3

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Why-Avril Lavigne

 

 

 

 

Ero depressa; depressa e triste e ne ero cosciente.

I miei amici si divertivano ed io era la nota stonata dello spartito.

< Sai che non ci piacciono i tuoi musi lunghi, Candice! > Arthur, che, fino a quel momento, non aveva fatto altro che dar da mangiare alle anatre nel laghetto di Central Park, si era diretto verso di me con aria fintamente minacciosa, facendomi sorridere.

< Io non ho il muso lungo! > Sbuffai, giocherellando con la cannuccia del mio cappuccino doppio, unico reduce dalla colazione da Sturbucks.

< Sì, invece! Questo cos'è? Non è forse un broncio? > Mi si posizionò esattamente di fronte, nonostante io fossi quella in posizione di vantaggio, visto che mi ero appollaiata come un'indiana sul muretto accanto alle panchine dove le altre stavano chiacchierando del più e del meno, e mi afferrò le labbra con l'indice e il pollice per sottolineare il suo concetto, facendomi assomigliare ad una papera dal becco schiacciato.

Tentai di protestare, ma tutto quello che produssi fu un imbarazzante verso di sdegno.

Arthur rise, così forte, da far voltare diversi passanti nella nostra direzione.

< Smettila di ridere! Sei ridicolo! > Cercai di assestargli un calcio, ma lui si scansò appena in tempo, rischiando di farmi perdere l'equilibrio.

< E sei anche violenta! > Continuò divertito, riavvicinandomisi e sollevando le mani davanti a sé in segno di resa.

Gli risposi con una linguaccia, incrociando le braccia al petto e rifiutandomi di guardarlo.

Era carino da parte sua cercare di distrarmi, così come era carino il suo modo di fare, il suo personale metodo per farmi ritornare il buonumore.

< Sai cosa dovresti fare? > Mi domandò, scompigliandosi i capelli.

< Cosa? > Slegai le braccia e poggiai le palme delle mani sul brecciato del muretto, facendo dondolare le gambe.

< Dovresti parlargli. Dico davvero. E' liberatorio. > Spiegò, infilando le mani nelle tasche dei jeans, come se non sapesse dove metterle.

Osservai le mie Converse nere consumate con rinnovato interesse; come se non ci avessi pensato.

Ero stata tentata di telefonargli così tante volte, che il suo nome compariva tra la lista dei numeri maggiormente composti all'interno della Rubrica del mio cellulare; inutile aggiungere che riuscivo a far squillare l'apparecchio solo per una manciata di secondi prima che la mia coscienza mi comunicasse l'assoluta insensatezza dell'azione.

Cosa avrei mai potuto dirgli?

Ciao, Robert, sono Candice, sai, quella ragazza che tre anni fa ti ha abbandonato in un aeroporto con ancora il sapore del tuo bacio sulle labbra. Non so se ti ricordi di me, ma volevo solo dirti che mi manchi e che non c'è giorno in cui non rimpianga quella scelta?

Decisamente non avrebbe mai funzionato. Non per me, almeno, perché sapevo di non essere una ragazza da lieto fine. Se mi avesse sbattuto il telefono in faccia e mi avesse urlato un vaffanculo, probabilmente l'avrei compreso e avrei sospirato triste, come sempre.

Quel vaffanculo, dopotutto, me lo meritavo.

< Non dici sul serio. > Risposi, rialzando lo sguardo su di lui e incrociando le sue iridi verde chiaro.

< Sì, invece, lo penso davvero. Insomma, non vi siete più sentiti per... quanto? Tre anni? Beh, magari la vostra storia è conclusa, magari avete scritto la parola fine tre anni fa, ma non è detto che non vi sia rimasto ancora qualcosa da dirvi. > Fece spallucce, facendomi sciogliere come un gelato al cioccolato, di quelli che, se non stai attento, ti sporcano la maglietta e cominciano a gocciolarti tra le dita. Come poteva sapere che era esattamente così che mi sentivo? Che era come se non avessi ancora dato fondo a tutto quello che provavo per lui?

< Come fai a saperlo? > Aggrottai le sopracciglia e lui dovette prenderlo come un segno negativo, perché si affrettò a tranquillizzarmi.

< E' così che vanno le cose; è quello che è successo con Amy, la ragazza che avrei dovuto sposare, almeno, fin quando non ho capito che la mia strada poteva continuare qui, alla Julliard. Le ho promesso che sarei tornato, che anche se andavo a vivere in uno Stato diverso, la nostra relazione sarebbe rimasta immutata, ma la verità è che niente è per sempre e quando mi ha telefonato in lacrime, dicendomi che non poteva continuare ad aspettarmi, che non sopportava la distanza che ci divideva, mi sono sentito a metà, come una mela, una mela morsicata e poi lasciata ad annerire. Avevo creduto di averle dato tutto, tutti i miei sentimenti, tutto il mio amore, invece mi sbagliavo, c'erano ancora tante cose che avrei voluto donarle e lei probabilmente l'aveva capito, solo che io non mi decidevo a dirgliele, quelle cose, e lei si era stancata, aveva deciso di prendere una decisione che io non avrei mai avuto il coraggio di prendere, con o senza di lei. > Terminò con un sospiro ed io lo osservai assorta.

Non conoscevo questo lato del carattere di Arthur e, in un certo senso, dovevo ammettere che Sophia aveva ragione quando affermava che un po', io e lui, ci assomigliavamo.

Fin dalle audizioni, le prime, quelle per cui hai lo stomaco attorcigliato dalla paura, le lacrime sull'orlo del baratro, l'ossessione per i passi che temi di dimenticare, la mania di guardarti allo specchio ogni trenta secondi affinché il fermaglio non lasci sfuggire neanche un capello, avevo associato ad Arthur il soprannome di Buddha, e non perché fosse il più calmo di tutti, ma semplicemente perché era quello che, probabilmente, aveva più paura di tutti noi messi insieme, eppure riusciva lo stesso a tranquillizzarti, vuoi con uno sguardo, vuoi con una parola.

Con me ci era riuscito con un semplice ciao, io sono Arthur. 

L'avevo osservato come si farebbe solo con un matto, ma lui mi aveva sorriso e, quando io volevo solo essere lasciata in pace per concentrarmi sul riscaldamento, lui non si era dato per vinto e aveva continuato a rivolgermi domande su domande, raccontandomi aneddoti della sua vita che, in un'altra situazione, mi sarebbero anche sembrati comici, ma che in quella, non facevano altro che annoiarmi, eppure, quando arrivò il mio turno e l'addetta alla segreteria pronunciò il mio nome, io stavo ancora sorridendo per una sua battuta e non avvertivo più l'agitazione di poco prima addosso.

Mi aveva mormorato un solo in bocca al lupo e mi aveva fatto l'occhiolino, arrossendo come un ragazzino ed io avevo solo sorriso rilassata, andando incontro al mio destino.

Probabilmente avrei dovuto ringraziarlo, probabilmente avrei dovuto quanto meno abbracciarlo, perché, forse, è anche un po' merito suo se a quell'audizione sono riuscita a dare il meglio di me, cosa che da ragazza impaurita e tesa, non sarei mai riuscita a fare.

< E l'hai chiamata? > Gli domandai. Il suo sguardo era fermo, quasi glaciale, eppure sapevo che stava covando tanta sofferenza.

Scosse la testa, sorridendo appena.

< Non ho neanche provato a farlo, è per questo che lo consiglio a te. Tu sei molto più coraggiosa di me e lo sai. > Era solo una questione di coraggio, quindi. Non sentivo di averne molto più di lui, in ogni caso.

< Non saprei cosa dire. > Mi difesi, abbassando nuovamente lo sguardo.

< Tutto, tutto quello che senti. Non c'è altro modo. > Un altro modo c'era, in verità, ed era quello di nascondersi come avevo fatto io per tre anni.

< E se dovesse ridere di me, ridere del fatto che, nonostante tutto, ho avuto il coraggio di confessarmi? > Era quello che più mi terrorizzava: non erano le offese, non era la rabbia che avrebbe potuto ancora covare per me, non era neanche la tristezza che, forse, avrei letto nel suo sguardo a fermarmi; era l'idea che avrebbe potuto sorridere, ma non di gioia, sorridere di scherno, come se potessi essere una pazza a credere che a lui importava ancora dei miei sentimenti.

< Non ha importanza, Candice, ma non capisci? Devi solo lasciarlo andare, devi solo convincerti che non ci sarà più per te, che potrai pregarlo, ma non verrà ad aiutarti quando ne avrai bisogno; devi lasciarlo andare. > Avevo l'impressione che volesse afferrarmi per le spalle e scuotermi.

Il suo ragionamento non faceva una piega, era quello che mi ero ripetuta più e più volte, fino ad averne la nausea, era quello di cui avevo tentato di convincermi in quei tre anni, ma senza successo.

Dovevo lasciarlo andare, liberarlo e finché non fossi stata disposta a farlo, sarei rimasta imprigionata anch'io.

Annuii pensierosa, fin quando la sua ombra non mi oscurò ed io fui costretta a sollevare lo sguardo sul suo viso.

< Sophia ci sta inviando dei segnali di fumo, faremmo meglio ad andare. > Sorrise, indicando la mia amica che, ad una decina di metri di lontananza, si stava sbracciando per attirare la nostra attenzione; non mi ero neanche accorta che il chiacchiericcio accanto a noi si era spento.

Arthur mi aiutò a scendere dal muretto, afferrandomi per la vita e depositandomi a terra come si farebbe solo con una bambina ed io lo ringraziai con un sorriso sincero.

Mi spinse di lato con la spalla, scherzoso ed io ricambiai altrettanto divertita.

< Spero abbiano intenzione di chiamare un taxi. > Aggiunse, trascinandomi accanto a sé con un braccio sulla spalla.

Mi raggomitolai accanto a lui, godendo del calore che emanava, sentendomi protetta e in pace.

Probabilmente Sophia aveva ragione, probabilmente Arthur era innamorato di me, o forse, più semplicemente, gli piacevo, forse rivedeva in me la sua Amy, fatto stava, che, anche senza che io lo sapessi, era riuscito ad essere il mio bastone in quei tre anni, il mio salvagente ed io non lo avevo ringraziato mai abbastanza.

< Grazie. > Mormorai contro il suo cappotto.

Lui mi scompigliò solo i capelli, stringendomi un po' di più.

Era il suo non c'è di che.

 

< Non avevo idea che esistessero così tante ragazze, sapete? > Sorrisi dell'espressione confusa di Arthur quando il taxi ci depositò sul marciapiede antistante il Paris Theatre e noi osservammo le centinaia di ragazzine assiepate intorno al red carpet già srotolato, come se non mancassero altro che dieci minuti alla premier.

Molte reggevano degli enormi cartelloni colorati, altre avevano semplicemente in mano una macchina fotografica o un iPhone ed erano in attesa del loro idolo.

Sorrisi involontariamente a quella vista, perché era come se mi rendessi conto solo in quel momento della svolta che aveva preso la vita di Robert, di quanto fosse amato da centinaia di persone, disposte ad attendere ore pur di incrociare il suo sguardo e ottenere una foto.

Jason, il ragazzo di Sophia, ci venne incontro, l'aria indaffarata e un pass arancione legato al collo.

< Salve ragazzi! Sono felice siate qui, venite, vi faccio accomodare all'interno. > Sorrise e camminò velocemente in direzione dell'entrata secondaria dell'edificio.

A breve si sarebbe tenuta una conferenza stampa e noi eravamo tra i pochi eletti in possesso del biglietto che avrebbero potuto assistervi, oltre ai giornalisti.

L'interno del teatro non brillava certo per originalità: era tutto molto austero, dall'odore tipico delle poltrone in tessuto consunte, un palco di legno che non veniva utilizzato da secoli e uno schermo per la proiezione dei film.

Sul palco era stato sistemato un tavolo immenso e delle sedie, ognuna indirizzata al corrispettivo nominativo che campeggiava in bella mostra accanto ad un bicchiere, una brocca d'acqua e un microfono da conferenza.

Rabbrividii quando presi posto e mi nascosi nel giubbino caldo, illudendomi di poter essere invisibile. Lui sarebbe arrivato a momenti, o forse era già lì, dietro le quinte, magari stava sorridendo, magari era a telefono con la sua fidanzata, sicuramente non si aspettava di vedermi.

< Tutto bene? > Mi domandò Sophia mentre Jason si allontanava, facendo ritorno al suo lavoro.

Annuii soltanto e forzai un sorriso.

Dovette accorgersene, perché mi strinse una mano, infondendomi coraggio.

Sì, forse ero melodrammatica, forse stavo creandomi situazioni che non si sarebbero mai presentate nella realtà, ma non potevo decidere di agire diversamente; razionalmente ero cosciente dell'assurdità e dell'immensità dei miei sentimenti, sentimentalmente parlando, non volevo farmene una ragione, non volevo cancellare tutto quello che c'era stato tra di noi.

Probabilmente dovevo seguire il consiglio di Arthur, parlarci, togliermi questo enorme peso dalla schiena e ricominciare, finalmente, a vivere una vita totalmente mia, ma come potevo? Se solo ripensavo a quello che avevo fatto, se solo permettevo alla mia mente di riportarmi a quell'addio in aeroporto, ai suoi occhi tristi e lucidi, alle sue sopracciglia aggrottate, alle sue dita aggrappate alla mia felpa per non lasciarmi andare, alle sue labbra dolci e profumate sulle mie per l'ultima volta, mi rendevo conto che non avevo il diritto di avvicinarlo, non avevo il diritto di invadere la sua nuova realtà.

Le luci si abbassarono e venne proiettato il trailer del film che avremmo avuto la possibilità di visionare in anteprima subito dopo la conferenza stampa. Cercai di non chiudere gli occhi, cercai di impormi di osservare il suo viso, i capelli più corti di come li ricordavo, ma decisamente più sbarazzini, gli occhi azzurri velati della consueta malinconia che li contraddistingueva, la sua camminata incerta, il suo sorriso luminoso e mi resi conto, quando le luci invasero nuovamente il teatro e un uomo elegante apparve sul palco con in mano un microfono per annunciare i protagonisti della conferenza, di aver trattenuto il respiro per circa un minuto, di essere entrata provvisoriamente in apnea. Se trattenevi il fiato, tutto sembrava fare meno male.

Tremai quando udii pronunciare il suo nome e istintivamente sprofondai ancora di più nella poltrona, nella speranza di poter passare inosservata. Fortuna che i fotografi in prima fila erano balzati in piedi per avere maggior campo d'azione, coprendo il resto della platea allo sguardo di attori e registi.

< Cadrai dalla poltrona, Candice. > Osservò Sam con praticità, indicando le mie gambe che erano ad un passo dal toccare la moquette scura.

Avrei potuto sedermi a terra, che male ci sarebbe stato? Nessuno si sarebbe accorto di me, così.

< Non pensarci neanche! Non fare la bambina, ti sei nascosta per troppo tempo! > Sophia mi lanciò uno sguardo che non ammetteva repliche e mi strinse un braccio nel tentativo di aiutarmi a rimettermi seduta.

Sbuffai e mantenni lo sguardo basso, torturandomi le mani. Di cosa mi stavo preoccupando? Forse non mi aveva vista.

Alzai appena gli occhi sul palco, beandomi, per un solo istante, della bellezza del suo viso, migliore nella realtà di quello che potesse sembrare in pellicola. Non riuscivo a leggere i suoi occhi a quella distanza, ma sembrava nervoso e piuttosto teso. Le occasioni ufficiali l'avevano sempre messo in imbarazzo, me ne ricordavo ancora.

La prima domanda fu per il regista, a cui Robert rivolse lo sguardo, sorseggiando acqua dal bicchiere appena riempito. Dopo qualche istante spostò lo sguardo sul pubblico, sui giornalisti dapprima, e poi su quelli che, come noi, erano riusciti ad ottenere un pass, ragazze in primis e qualche bambina accompagnata dai rispettivi genitori; i suoi occhi azzurri si fermarono su Sophia al mio fianco ed io trattenni il fiato, certa che sarei stata la prossima.

Nonostante avessi cercato di fingere indifferenza, di non essermi accorta del suo sguardo indagatore, dovevo aver calcolato male i tempi, perché nel momento esatto in cui i suoi occhi si spostarono sulla mia figura rannicchiata, io alzai lo sguardo, incrociando le sue iridi.

Sentii distintamente il mio cuore sprofondare, risuonare di un debole crack, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime e le guance accaldate diventavano color rubino.

Non fui capace di allontanare lo sguardo e, dapprima, lui mi osservò come se non fossi nient'altro che una semplice fan, di come ne aveva viste già centinaia, poi, la consapevolezza sembrò farsi strada in lui, perché sgranò gli occhi e aggrottò le sopracciglia l'istante successivo, lasciandomi comprendere che mi aveva riconosciuta, che gli ci era voluto qualche istante, ma alla fine aveva ricomposto tutti i pezzi del puzzle abbandonato e mai più ripreso.

Singhiozzai senza rendermene conto, senza che nessuno vi badasse ed ebbi come la tentazione di farmi largo tra quella folla di giornalisti e fotografi e abbracciarlo, sentire ancora i suoi capelli tra le dita, il calore del suo corpo, avvertire ancora la pelle d'oca quando mi sussurrava qualcosa nell'orecchio, anche se non era un segreto.

Il contatto si interruppe quando un giornalista richiamò la sua attenzione.

Non volevo piangere, non volevo dare un'impressione sbagliata di me, non volevo muovere a compassione nessuno, perciò, semplicemente, abbassai lo sguardo e continuai a torturarmi le mani per tutta la durata della conferenza, lasciandomi poi trasportare all'esterno dalla folla in delirio.

Non avevo più orecchie per godere dei rumori del traffico, delle urla delle ragazzine festanti, del canto dei rari uccelli, o del soffio del vento, né occhi per rendermi davvero conto di ciò che osservavo, che fossero alberi, panchine, volti, colori; era tutto maledettamente simile in quell'apatia dei sensi che era il mio amore per Robert.

< Io voglio andare via, non voglio restare. > Pronunciai come un automa a Sophia, nascondendo le mani infreddolite nelle tasche del cappotto.

< E il film? > L'anticipò Samantha.

Scossi semplicemente la testa e Arthur mi abbracciò comprensivo, offrendosi di accompagnarmi quantomeno alla fermata della metro.

Accettai, ma macinammo quei pochi metri in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri.

< Stai andando via. Di nuovo. > Sussultai spaventata a quella voce, che, strano a dirlo, non era quella della mia coscienza, ma semplicemente quella del mio peggior nemico.

< Anche tu. > Risposi con un filo di voce, tornando con lo sguardo ai cartelloni pubblicitari dall'altra parte della galleria, in attesa della metro. Il display luminoso ne segnalava l'arrivo in due minuti e trenta secondi, troppi.

Eravamo soli; l'ora di punta era passata e quella non era una zona particolarmente frequentata.

< Io il mio film lo conosco. > Obiettò pratico.

Ma come, nessun insulto, nessuna obiezione alla mia condotta durante quei tre anni di lontananza, nessun tono acido e canzonatorio, nessuna rabbia?

< E io conosco abbastanza me stessa da sapere che non sarei potuta rimanere. > Era la risposta più sensata che potessi dargli.

Mi rifiutavo ostinatamente di guardarlo negli occhi, mentre il suo sguardo stava perforando il mio cappotto, le mie braccia, i miei capelli, perfino.

< Credevo di averti dimenticata, sai? > Con la coda dell'occhio lo vidi scompigliarsi i capelli con una mano e, contemporaneamente, il mio stomaco si attorcigliò dall'emozione.

< Io non l'ho fatto, invece. Non ci riuscirei. > Era la verità. Come ci si poteva dimenticare dell'amore?

< Non ci sono riuscito neanche io, a quanto pare. > Convenne.

Una folata di vento gelido ci avvertì dell'arrivo della metropolitana. Mancavano trenta secondi.

Alla fine avevo fatto quello che mi aveva suggerito Arthur, ci stavo parlando, anche se non era stato compito mio prendere l'iniziativa.

< Scappi dalla premier di un tuo film? > Domanda stupida, era ovvio.

Fece spallucce e sospirò.

< Se la caveranno anche senza di me. E tu, da cosa scappi, da me? > Mi si avvicinò di un passo e io di un passo mi allontanai.

< Probabilmente sì. > Ammisi, osservandolo colmare la distanza che ci separava in pochissimi passi, senza darmi la possibilità di muovermi. O forse non volevo muovermi.

< Candice... > Mormorò e il mio cuore accelerò inevitabilmente. < Mi è sempre piaciuto il tuo nome, sai? > Continuò e mi sentii sprofondare.

Perché quell'incontro era tutto, fuorché quello che mi sarei aspettata? Perché non mi urlava contro? Perché non mi insultava? Perché non provava a rinfacciarmi quanto aveva sofferto a causa mia? Perché doveva essere sempre così disarmante e dannatamente perfetto? 

La metropolitana fece il suo ingresso in stazione, stridendo forte. Le porte automatiche si aprirono e salimmo in contemporanea, io, fiondandomi sul primo sedile disponibile, lui, in piedi accanto alla sbarra verticale che serviva da appoggio.

Era vicinissimo, potevo sentire il suo respiro tra i capelli.

Perché non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi? Perché ne ero così terrorizzata?

Alla fermata giusta scesi, e lui con me.

Camminammo affiancati per un po', le strade semi-deserte, nonostante fossero solo le sei del pomeriggio.

Nei pressi della Julliard mi fermai, voltandomi verso di lui e incrociando per la seconda volta i suoi occhi chiari, bellissimi.

< Perché sei qui? Perché mi stai seguendo? > Sbottai. Non erano davvero le domande che avrei voluto porgli, ma erano le prime che mi erano venute in mente e, per il momento, dovevo accontentarmi.

Fece spallucce e distolse lo sguardo dal mio. Ebbi l'improvviso desiderio di baciarlo e di stringerlo a me, di avvertire ancora il suo sapore dolce sulla lingua.

< Non pensavo di rivederti. Sono confuso e mi sei mancata così tanto che... non lo so, ho pensato fosse una buona idea... seguirti, intendo... > Rispose, arrossendo.

Sospirai.

Era più alto di me di almeno una quindicina di centimetri ed era ancora più bello di come lo ricordassi. Le riviste e la televisione non gli rendevano abbastanza giustizia.

< Sono trascorsi tre anni, Robert, dovresti odiarmi. > Pronunciare il suo nome ebbe uno strano effetto su di me: mi venne la pelle d'oca e rabbrividii, come se qualcuno mi avesse rovesciato in testa un secchio di acqua ghiacciata.

< Sono ancora arrabbiato, infatti e pretendo un risarcimento. > Chiarì come se fosse ovvio.

< Risarcimento?!? Che tipo di risarcimento? > Domandai incredula e allibita, sgranando gli occhi.

< Sarò impegnato per qualche mese a New York e voglio che tu mi faccia da guida. >

 

 

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 4
*** Stupid ***


Salve!

Scusate per il ritardo, la mia ispirazione si era presa le ferie per un po' e poi, all'improvviso, ho scritto il capitolo in poco più di due ore O.o bah...

Comunque, bando alle ciance, questo è uno dei tanti capitoli di svolta della Ff, quindi, abituatevi ad una Candice furiosa *risata maligna* e ad un Robert fin troppo... Robert, ecco :)

Ok, la verità è che non so che dire, quindi, forse è meglio se mi limito a ringraziare le persone che hanno commentato lo scorso capitolo, che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare, che hanno soltanto letto e che hanno inserito me tra gli autori preferiti *siete sicure di aver cliccato sul nome giusto, vero?*

Il capitolo è stato interamente ispirato dalla canzone che ho scelto per questo capitolo e, in particolar modo, da questa frase:

I can follow you to the beginning, just to relive the start;

And maybe then we remember to slow down, 

at all of our favourite parts;

Probabilmente è una delle mie canzoni preferite dei Paramore (che sono anche uno dei miei gruppi preferiti) e mi ricorda molto Candice e molto me stessa in certe occasioni.

Vi linko la versione con il testo, così, se vi va, potete dirmi se pensate sia aderente al carattere della nostra ballerina :)

 

Non mi resta che augurarvi una buona continuazione di settimana e una...

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All I Wanted-Paramore

 

 

La mattina successiva, fui svegliata da una serie di colpi alla porta. Sbuffai e mi stropicciai gli occhi, sicura potesse trattarsi soltanto di Sam o di Sophia.

< Chi è? > Urlai senza nessuna voglia di alzarmi. Erano ancora le sei e mezza ed io avevo ancora i miei quarantacinque minuti di sonno che non avevo assolutamente intenzione di lasciarmi strappare così.

< Apri, Candice! > Era la voce di Sophia e sembrava piuttosto arrabbiata.

Sbuffai ancora, scostando le coperte e infilando i piedi nelle pantofole di spugna calde. Mi trascinai alla porta e girai la chiave verso destra due volte per aprirla, ritrovandomi davanti il volto furioso di Sophia, già pronta per la lezione di danza classica delle otto.

< Che succede? Perché quella faccia? > Chiesi, scostandomi per lasciarla entrare.

< Hai il coraggio di chiedermelo! Un uccellino ci ha riferito del tuo incontro con Robert ieri sera. > Puntò le mani ai fianchi, posizionandosi esattamente al centro della stanza, lo sguardo accigliato.

Rimasi a fissarla, incapace di rispondere. Avevo raccontato qualcosa a Lucas circa l'accaduto, solo per sfogarmi e non affondare con quel macigno sulle spalle, ma che Sophia ne fosse venuta a conoscenza, poteva voler dire soltanto che aveva incontrato Lucas ieri sera, tornando dalla premier, o quella mattina, forse in mensa.

< Allora? Niente da dire a tua discolpa? > Continuò, assomigliando terribilmente a mia madre.

Feci spallucce.

< Ero confusa, Soph! E voi eravate ancora alla premier, non potevo raccontarvi tutto per telefono! > Borbottai, sedendomi sul letto e incrociando le gambe.

< Avresti dovuto! Non era stato previsto che potessi incontrarlo da sola. > Continuò, distendendo il volto, rinunciando alla sua espressione severa e sedendosi accanto a me con aria comprensiva.

< Previsto?!? Avevate organizzato un incontro tra me e lui? > Sbottai incredula, osservandola.

< No! Certo che no! Semplicemente, sapevamo che, specialmente durante l'after-party, le possibilità di incontrarlo sarebbero aumentate e così avevamo pensato di starti il più vicino possibile, in modo da sostenerti. > Spiegò, fingendo innocenza e, anche se la cosa continuava a non quadrare, lasciai perdere. Conoscevo Sophia e non era una novità la sua costante voglia di intromettersi in tutto quello che riguardava amore, fidanzati, shopping e tutù.

Forse era come aveva detto lei, forse volevano solo sostenermi perché mi avevano vista terrorizzata all'idea di rivolgergli la parola. In fondo, però, non era stato così traumatico.

< Avete litigato? > Continuò dopo qualche minuto di silenzio. Aveva uno sguardo dispiaciuto e comprensivo e per un attimo valutai l'idea di sfogarmi, ma di sfogarmi per davvero, non solo con qualche frase per niente esplicativa. Volevo raccontarle tutto: di come l'avevo conosciuto, di come si preoccupava di riaccompagnarmi a casa dopo la scuola, di come dividevamo la merenda nel parchetto vicino casa, di come mi avesse insegnato ad andare in bicicletta, di come arrossiva se mia madre gli scompigliava i capelli.

Avevo voglia di lasciar scorrere le immagini del nostro passato insieme come una pellicola, come un film, fermarmi sui fotogrammi più belli e rimanere a riflettere.

Mi mancavano quei ricordi; mi mancava il modo con cui riusciva a sporcarsi di gelato nonostante l'attenzione che ci metteva perché non succedesse, mi mancava la sua maniera buffa di arricciare le labbra quando qualcosa non gli piaceva, il suo respiro tranquillo accanto a me durante la notte, il poter indossare le sue camicie per assorbire il suo profumo, mentendo con lui e adducendo la scusa che erano molto più comode di un pigiama, le sue dita che giocherellavano con i miei capelli mentre eravamo distesi sul divano a guardare un film e l'espressione disarmante che sapeva assumere quando voleva convincerti ad accompagnarlo a vedere l'ennesimo film horror, ben sapendo che mi sarei spaventata a morte e avrei avuto gli incubi, solo per poi prendermi in giro, imitando le mie urla e la mia espressione sconvolta, e mi mancava il suono della sua chitarra mentre io studiavo.

Mi mancavano tutti i piccoli dettagli della nostra relazione.

Non lo dissi a Sophia, però e non riuscii mai a capire il perché. Quello che vide di me furono due occhi lucidi e quello che ascoltò fu un mio sospiro e l'ammissione che ci saremmo visti quella mattina a Central Park perché voleva gli facessi da guida a New York.

< Dici davvero? > Spalancò gli occhi e sorrise, come se le avessi appena detto che aveva vinto una vacanza alle Hawaii per due persone.

Annuii mestamente, torturando le lenzuola.

< Non ne sei entusiasta... > Constatò, ritirando il sorriso e l'espressione meravigliata.

< Dovrei? Tre anni che cerco di dimenticarlo e lui si ripresenta qui, a New York, per una dannatissima premier e pretende io gli faccia da guida in giro per la città. Non è esattamente quello che mi aspettavo accadesse. > Risposi sarcastica.

< Vedila dal lato positivo: avrai modo di sentire meno la sua mancanza. > Fece spallucce, sistemandosi un fermaglio tra i capelli.

< Già... > Borbottai. Peccato non fosse esattamente quello il progetto che avevo in mente per una mia possibile redenzione. Avrei preferito tornare a Londra, bussare a casa sua e raccontargli la mia versione dei fatti, il perché avevo agito così, il perché avevo dovuto improvvisamente prendere le mie cose e lasciarmelo alle spalle.

< Dovresti prepararti, è tardi. Vuoi che ti aspetti? > Mi chiese, dando un'occhiata alla sveglia sul comodino.

< No, ti raggiungo in mensa. > Avevo bisogno di schiarirmi le idee prima della lezione di danza e prima dell'incontro con Robert e con Sophia intorno non avrei potuto farlo.

< D'accordo, come vuoi. > Mi sorrise, arruffandomi i capelli e sparì dietro la porta.

 

Quando la lezione di danza classica terminò, erano già le dieci e trenta e, se volevo essere puntuale, dovevo sbrigarmi.

Mi lanciai verso il residence dopo aver salutato le altre e nella foga di lasciarmi investire dal getto rinfrescante della doccia, inciampai nel piede di legno del tavolo, rischiando di finire a terra.

< Accidenti! > Imprecai, tastandomi la caviglia. Non era qualcosa che succedeva di rado, ma fui costretta a zoppicare leggermente in direzione del bagno.

L'anno scorso avevo subito un brutto infortunio alla caviglia durante il saggio di fine anno e mi ci erano voluti mesi per ritornare in forma; gli incidenti sono all'ordine del giorno per noi ballerini, ma avere una gamba ingessata, un braccio rotto o due costole incrinate, spesso mettono a repentaglio i traguardi che hai faticosamente raggiunto. Inoltre, non partecipare al Saggio di fine anno era un po' come non presentarsi al penultimo esame prima del Diploma. In ogni caso, non era stata colpa mia, ma non avevo smesso un istante di darmi della stupida e dell'incosciente per aver permesso ad Elena di usarmi come un giocattolo nelle mani di un bambino.

Non potevo permettermi altri imprevisti, non quell'anno, non se c'era di mezzo il Saggio benefico organizzato dalla Amnesty International.

Non badai troppo a quello che indossai e mi concessi soltanto qualche minuto per asciugare i capelli che lasciai sciolti e umidi sulle spalle.

Central Park non era distante dalla Julliard, ma mi ci sarebbe voluta una buona mezz'ora per individuarlo tra la folla.

Anche se il cielo minacciava un temporale e un vento forte sembrava volerti condurre con sé, erano molti quelli che avevano optato per un po' di sano jogging, per non parlare delle baby-sitter con annessi bambini e passeggini, studenti che avevano deciso di concedersi una giornata di libertà dalla scuola e semplici turisti che non perdevano occasione di mettere in pratica le loro abilità come fotografi.

Per un secondo mi estraniai; non pensai a Robert e non pensai al nostro appuntamento. Cercai di incamerare quanta più aria possibile nei polmoni, chiudendo gli occhi, riconoscendo il profumo di erba bagnata e isolandomi dal chiacchiericcio che mi circondava.

Era uno dei luoghi che preferivo di New York, con i suoi laghi, i bellissimi prati verdi e i ponti mozzafiato, per non parlare degli Strawberry Fields, nella zona ovest del parco, una delle così dette Quiet Zone, dove ci si poteva rilassare in tutta tranquillità o, come succedeva a me, fermarsi a pensare.

< Stai dormendo in piedi, non è un buon segno. > Riaprii gli occhi spaventata e osservai il suo viso vicinissimo al mio.

Nonostante il vento freddo, mi sentii avvampare e mi affrettai ad allontanarmi di qualche passo.

< Non stavo dormendo, comunque... > Riuscii a rispondere con difficoltà, mantenendo lo sguardo basso.

< No? > Mi chiese, corrugando le sopracciglia e guardandosi distrattamente in giro.

< No. > Confermai. < Stavo soltanto assorbendo le energie di questo posto. > Continuai, pentendomi delle mie parole l'istante successivo.

Perché davanti a lui non riuscivo a frenare le mie emozioni? Perché dirgli quello che provavo era così semplice, anche se non ci vedevamo da tre anni e non potevamo essere più diversi?

Annuì pensieroso e fece spallucce.

Restammo in silenzio e immobili per minuti, completamente indifferenti alle persone che ci passavano accanto, sfiorandoci appena.

< Scusami, sono un maleducato, non ti ho neanche salutata. > Mi si avvicinò ancora e prima che potessi allontanarmi per evitare qualsiasi tipo di contatto, mi attirò a sé con un braccio intorno alla vita e mi baciò una guancia, leggero, come se avesse voluto appena sfiorarmi.

< Ciao... > Mormorò appena in modo che solo io potessi sentirlo.

Perché si comportava così?

Perché si divertiva a confondermi, come se non fosse stato già abbastanza difficile accettare la sua proposta?

Voleva punirmi con tutte quelle attenzioni, fingere che io gli interessassi ancora solo per provare la mia resistenza, solo perché alla fine io potessi dirgli che sì, ero stata una stupida ad andarmene così, senza neanche provare a rimanere in contatto ed avere così la sua completa rivincita su di me?

Non ce n'era bisogno, ero già piena di sensi di colpa, me li portavo sulle spalle da tre anni e, anche se diventavano giorno per giorno più pesanti, io continuavo a fingere di star bene, continuavo a convincermi che non potevo tornare indietro, che non sarebbe servito piangere ancora e che dovevo rassegnarmi all'evidenza che non avremmo mai avuto un futuro.

Mi scostai bruscamente, lanciandogli un'occhiata sprezzante, cominciando a camminare.

Mi affiancò dopo qualche istante e il mio atteggiamento freddo non sembrò sorprenderlo o coglierlo alla sprovvista; aveva infilato le mani nelle tasche dei jeans scuri che indossava e si era limitato a lanciarmi un'occhiata curiosa e divertita.

< Dove vuoi portarmi? > Mi domandò.

< Proprio da nessuna parte. > Risposi con un borbottio indistinto. Avrei voluto tornarmene al residence; forse facevo ancora in tempo a raggiungere Sophia e Sam per l'allenamento individuale.

< Ma sei tu la guida! > Esclamò ovvio.

< No, in verità non lo sono, sei tu che hai deciso al mio posto. > Sbottai, fermandomi e voltandomi verso di lui per guardarlo negli occhi.

< Sbaglio, o hai accettato? > Sorrise con malizia, ma ero troppo furiosa per lasciarmi incantare.

Non ero neanche in grado di individuare il vero motivo della mia furia: forse ero io, o lui, o quel maledetto sms della notte prima, o New York intera, oppure i miei sensi di colpa che stavano cominciando a fuoriuscire dal sacco alle mie spalle, non ne avevo la più pallida idea, ma non riuscivo a smettere di accusarlo.

< Ho accettato perché non avevo idea fosse solo la scusa per... > Mi bloccai. Non potevo dirgli che credevo che stesse flirtando con me e piuttosto spudoratamente, anche.

< Per... cosa? > Insistette, scompigliandosi i capelli con una mano.

< Lascia perdere... > Bofonchiai, ritornando a camminare con lo sguardo basso.

< Andiamo, puoi dirlo, no? > Mi colpì la spalla con un gomito, aspettandosi una confessione con i fiocchi, neanche fossimo amici per la pelle. 

Da quando era diventato così disinvolto con le ragazze e da quando io mi permettevo di pensare a lui non come ad un rimpianto, ma come, semplicemente, a quello che era diventato?

Dopotutto, era un attore di fama mondiale, poteva avere tutto ciò che desiderava solo schioccando le dita, perché aveva scelto di farsi accompagnare in giro per New York da me, la sua ex-ragazza-stronza che l'aveva abbandonato?

< Non volevo dire niente, assolutamente niente. > Risposi, svoltando, senza pensarci, verso il sentiero che ci avrebbe condotti proprio nei pressi degli Strawberry Fields. 

< Central Park ti piace? > Mi domandò, lasciando cadere l'argomento, i suoi occhi ancora sulla mia figura.

Annuii soltanto.

< La mia zona preferita è quella della statua di Alice nel Paese delle Meraviglie; c'è tanto caos e tanti bambini e sembrano tutti sempre allegri; è un bel posto per nascondersi. > Confessò, facendo spallucce.

Non risposi. Non ero adatta come guida turistica, o forse non ero adatta come guida personale per lui.

Nonostante quello che mi aveva detto la sera precedente, mi sembrava che ci fosse ancora qualcosa in sospeso tra noi, una sorta di barriera che lui tentava in tutti i modi di oltrepassare, ma che io contribuivo a rendere solo più resistente.

La sua vicinanza mi intimoriva e non per una questione di inferiorità professionale, no, quello era l'ultimo dei miei pensieri; piuttosto, era come se avvertissi che se ci fosse stato qualcuno a farsi del male in quella vicenda, sarei stata sicuramente io. Lui aveva pagato già troppo.

Nei pressi del lago individuai uno spazio piuttosto isolato e mi sedetti sull'erba con un sospiro.

< Non sembra essere stata una buona idea, la mia, vero? > Mi si sedette accanto e sorrise amaro, torturando un ciuffo d'erba.

Osservai il suo profilo e i battiti del mio cuore accelerarono, lasciandomi disorientata per un lungo istante.

Già, non era stata una grande idea.

< E' colpa mia; non sono molto di compagnia, oggi. > Mormorai a mo' di scusa.

< Forse è stato uno sbaglio seguirti. > Continuò, come se non mi avesse sentita.

< Non volevi davvero rivedermi quindi... > Constatai. Era plausibile, in fondo. Gli avevo fatto del male e lo stavo per accusare di voler approfittare di me, dei miei sensi di colpa, per avere la sua rivincita, come dargli torto?

Sospirò e si avvicinò di più a me, scostandomi i capelli con una carezza.

< Non è quello il punto. Forse non ci fa bene, non dopo tutto questo tempo. > Cercò di spiegarsi, ma niente riusciva a cancellare dalla mia mente il fatto che avessi tentato più e più volte di chiamarlo per sentire la sua voce, per provare a spiegargli tutto e, sì, forse non ci faceva bene, ma che male avrebbe potuto farci? Prima o poi lui sarebbe andato via ed io sarei tornata alla mia vita di sempre, divisa tra le lezioni di danza e le prove individuali.

< Perché hai insistito perché ti facessi da guida, allora? > Gli chiesi, perdendomi nei suoi occhi chiari.

< Perché è strano, ma voglio passare del tempo con te... mi sei mancata e... insomma, sai bene che eravamo più che due semplici fidanzati... > Arrossì appena e abbassò gli occhi.

Eravamo migliori amici prima che coppia, ecco perché tutti non facevano che ripeterci che era proprio questo il segreto di una relazione duratura e stabile. I migliori amici hanno sempre qualcosa di cui discutere, c'è complicità, lealtà, fedeltà e rispetto, tutte cose alla base anche di un rapporto di coppia.

Purtroppo, però, si sbagliavano; eravamo scoppiati all'improvviso, come un palloncino durante una festa di compleanno: nessuno sapeva come fosse successo, ma tutti avevano avvertito il rumore e ne erano stati spaventati.

< Ti manco come... amica? > Ero titubante. Era inutile ripetere a me stessa che non sarei mai stata capace di esserlo di nuovo; lo amavo e non sarei mai stata imparziale nei consigli, sarebbe stato più forte di me.

Annuì.

< Mi mancano le nostre chiacchierate, le nostre passeggiate in bicicletta e il vedere film horror il venerdì sera. > Ammise in imbarazzo.

Le cose che, in parte, mancavano anche a me.

< A-anche a me... insomma, anche tu mi manchi, mi sei mancato, ma non sono sicura che ritornare amici risolverebbe i nostri problemi. > Risposi, cercando di essere il più sincera possibile.

< E io non credo di riuscire a limitarmi ad esserti solo amico... > Quasi rise e anch'io, perché, in fondo, era quello che avrei voluto aggiungere anch'io, senza, però, averne il coraggio.

Dovetti, tuttavia, assimilare le sue parole con qualche secondo di ritardo, perché mi ritrovai a pensare come fosse possibile che io gli piacessi ancora. Voglio dire, da parte mia la cosa aveva un senso, ma dalla sua? Nonostante tutto, lui sarebbe ancora stato capace di amarmi? 

Arrossii e lui sorrise, mordendosi un labbro.

Abbassò gli occhi sulle mie mani e lo feci anch'io, aspettandomi di vedere chissà cosa, invece, improvvisamente quanto repentinamente, afferrò con delicatezza il polso della mia mano sinistra, mentre l'altro braccio mi circondava la vita e mi avvicinava a lui.

Mi irrigidii, neanche stesse per violentarmi e lui dovette accorgersene, perché si avvicinò al mio viso e mi baciò di nuovo una guancia.

< Voglio solo abbracciarti, Candice. > Mormorò ed io mi sgonfiai come un palloncino, il cuore che non smetteva di rumoreggiarmi nelle orecchie da quando aveva pronunciato il mio nome per intero, nessun diminutivo, nessuna Candy.

Mi lasciai abbracciare, approfittandone, ancora una volta, per imprimere bene nella mia mente il suo profumo familiare, dolce.

Mi trascinò tra le sue gambe per avere maggiore libertà d'azione e mi carezzò i capelli ritmicamente e dolcemente, rilassandomi.

< Hai incontrato qualcuno dopo... dopo di me? > Sussurrò con aspettativa, come se potessi rispondergli positivamente.

Scossi la testa e mi raggomitolai contro di lui, che mi circondò con entrambe le braccia come con una coperta, riscaldandomi.

Non volevo chiedergli se lui, invece, avesse baciato qualcun'altra, se avesse, anche solo per una notte, cercato di sopperire alla mia mancanza con qualche sconosciuta appena incontrata e non ero certa di volere che lui si confessasse di sua spontanea volontà.

Ero cosciente che stavamo parlando pur sempre di un ragazzo famoso, giovane, innegabilmente attraente, senza contare che, ovviamente, per un uomo la situazione era ben diversa da quella di una donna, ma non volevo ascoltare e non volevo conoscere alcun dettaglio, neanche se si fosse trattato di tempo prima.

Ero curiosa di sapere, tuttavia, se fossero vere le voci che circolavano su una possibile relazione tra lui e la sua co-protagonista nella Saga di Twilight, Kristen Stewart.

< Tu e Kristen... state insieme come dicono i giornali? > Chiesi timorosa, come se potesse infuriarsi.

Sospirò e mi accarezzò una guancia con un dito, leggero come una goccia di pioggia.

< Sembra che alla gente importi solo della nostra vita privata. > Rispose, allontanandosi con lo sguardo.

< Io, però, non sono una giornalista... > Non potevo capire quello che provava, così come non sapevo cosa significava per un attore dover rispondere a domande che non erano attinenti ai suoi progetti lavorativi.

< Non è niente di serio... insomma, non sono sicuro di volermi impegnare davvero, non adesso, almeno. > Si arrese.

< E lei sa che pensi questo della vostra storia? > Non sarebbe stato corretto nei suoi confronti che io fossi abbracciata così al suo ragazzo. Io non l'avrei sopportato e non volevo che venisse a sapere qualcosa, accusandomi.

< Sì e no... > Soffiò senza molta convinzione.

Come scottata, mi sciolsi dal suo abbraccio e scattai in piedi, mentre il primo tuono squarciava le nubi scure sopra di noi.

< Devo andare. > Raccolsi la borsa senza più degnarlo di uno sguardo, lasciandolo basito, percorrendo il sentiero al contrario.

< Candice, aspetta! Non è così grave, non stavamo facendo niente di male... > Mi inseguì, testardo, mentre la pioggia cominciava a cadere, inzuppandoci in pochi istanti, facendomi rabbrividire.

< Non avrei dovuto accettare. > Urlai per sovrastare il rumore del tuono, senza voltarmi indietro, raggiungendo i cancelli di ingresso del parco e scappando in direzione della Julliard.

Ero una stupida, ecco cos'ero.

Una povera stupida illusa.

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Capitolo 5
*** Tender ***


Buon Salve a tutti!

Lunedì, giornata faticosa per tutti, in più se ci si mette anche il mal di testa e un esame per domani... :$ meglio non parlarne, va'!

Dunque, cosa dire di questo capitolo? Sostanzialmente, Candice riprende a raccontare dalla fine del secondo e quindi leggerete anche della fine del primo incontro bizzarro tra Candice e Rob; è un capitolo di passaggio (l'ultimo, credo, prima di entrare nel vivo della storia); entra in scena un nuovo personaggio che spero amerete e... niente, ci sono un po' di congetture che potreste fare, specialmente sulle ultime frasi del capitolo stesso, ma questo dipende, ovviamente, anche da cosa avete in mente voi e che, molto probabilmente, non coincide con quello che ho in testa io per Candice e Rob, ma comunque... :D, bazzecole, no?

A parte gli scherzi, ringrazio, come al solito, tutte le persone che si sono fermate a leggere, che hanno recensito, che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare *.* vi voglio bene, non so più in che lingua scrivervelo *.* <3

Prima di abbandonarvi al capitolo, aggiungo soltanto che proprio l'altro ieri ho creato un gruppo su Facebook dal nome You thought you know me, dove parlerò delle mie storie, inserirò spoiler, foto e dove potrete sbizzarrirvi a dirmi tutto quello che vi va; preciso che manterrò il mio profilo autore di EFP per accettare amicizie e per pubblicare i link degli aggiornamenti, ma, se volete, potete richiedere l'accesso anche al gruppo che per me è un modo per essere più in contatto con voi, visto che lo gestisco dal mio account personale :) Vi lascio il link, che è questo: You thought you know me Group

Ultima cosa e sparisco, giuro! Volevo dedicare il capitolo alla splendida Lilla <3 che oggi ha dato alla luce una splendida bambina <3 Ancora Augurissimi! <3

 

Buona continuazione di settimana e...

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tra il male e Dio-Pierdavide Carone

 

 

 

< Stai scherzando, vero? > Inarcai le sopracciglia e lo guardai con un misto di incredulità e terrore; sì, terrore, terrore puro, come se avessi davanti un fantasma, o uno zombie.

< No, affatto. > Sorrise, disarmandomi, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni eleganti, che si modellavano perfettamente alla sua figura.

< Ho dei corsi da seguire, delle lezioni di danza e devo prepararmi per l'evento organizzato dalla Amnesty International, senza contare gli esami che devo affrontare... come potrei farti da guida? > Obiettai, elencando le cose da fare sulla punta delle dita.

< Preferisci una scenata, Candice? > Aveva lo sguardo minaccioso e, anche se sapevo che non mi avrebbe mai fatto del male, mi ritrassi spaventata, mentre lui, cocciuto, continuava ad avvicinarmisi lentamente, quasi soppesando ogni singolo passo.

< Vuoi che ti urli contro? Vuoi che ti umili? Vuoi sentirmi accusarti di avermi lasciato quando avevo più bisogno di te? Vuoi che ti dica che ho trascorso mesi d'inferno al pensiero che non saresti più tornata e che dovevo rassegnarmi all'idea che non avrei più potuto stringerti, baciarti, fare l'amore con te, perdermi nei tuoi occhi, sentirti accanto a me quando mi svegliavo? Vuoi che ti ferisca, come tu hai fatto con me? Vuoi sentirti dire che dovrei odiarti, ma non ci riesco? E' questo che vuoi? > Continuò. La sua voce era moderata e tranquilla, non era arrabbiata, eppure, quelle parole risuonarono nella mia testa come se le avesse urlate con tutta la forza di cui disponeva.

Erano quelle le parole che mi sarei aspettata se mai un giorno ci fossimo incontrati. Ed erano i suoi occhi lucidi che mi facevano paura, quelli di chi non sta trattenendo le lacrime, ma la frustrazione, la delusione e la rabbia.

Non sapevo cosa rispondere. Me ne stavo lì, impietrita, davanti alla sua figura ansante, neanche avesse corso per chilometri, e non sapevo cosa dire, perché era inutile, era stata tutta colpa mia, quel dolore lo meritavo, il cuore spezzato che mi ritrovavo l'avevo rotto io stessa, con le mie mani, con i miei patetici tentativi di salvarlo. Da cosa non ne avevo idea. Dalla mia voglia di girare il mondo, forse, o da quella di entrare a far parte di una vera compagnia di danza, che mi permettesse di esprimermi al meglio, che mi permettesse di diventare la ballerina che avevo sempre voluto essere.

Londra mi aveva cullata, accudita e aveva saputo custodire i miei desideri gelosamente, ma New York era la città alla quale ero sempre, inconsapevolmente, appartenuta.

Appartenevo anche a lui, però. Dipendevo dalla sua felicità. Era stato tutto così grigio perché anche i suoi occhi osservavano in bianco e nero?

Chiuse gli occhi per un istante e li strinse, come a volersi imprimere qualcosa nella testa, poi scosse il capo e si allontanò da me di qualche passo.

Ripresi a respirare, ma non trovai le parole adatte da pronunciare, perciò rimasi in silenzio, indecisa se restare o andarmene.

Poi, il suo cellulare squillò, facendolo sussultare.

Osservò lo schermo del suo i-Phone per qualche istante, poi rispose, voltandomi le spalle.

Spostai lo sguardo dalla sua figura alle luci del quartiere poco distante, lasciandomi distrarre dalla confusione del traffico e dal rumore dei clacson.

Lì, sul marciapiede dove torreggiavano imponenti i due edifici della Julliard, il via vai non era così assiduo, sembrava quasi un altro universo, distaccato dalla vita frenetica del centro.

Mi morsi le labbra per non piangere e strinsi i pugni.

Ero una stupida; lo ero sempre stata. Mi era successo quello che era già accaduto ad Arthur e alla sua ex-fidanzata, con la differenza che io non avevo lasciato che fosse la lontananza a ledere il nostro rapporto; ci avevo pensato io tempo prima, assicurandoci una caduta morbida, anche se questo significava sacrifici e dolore.

< Devo andare. > Disse solo, riscuotendomi dai miei pensieri ed io tornai a fissare il mio sguardo al suo viso.

Annuii, ancora incapace di parlare.

Doveva essere per via della sua assenza così prolungata; in fondo, era la sua occasione di gloria, la presentazione di un nuovo progetto, aveva il dovere di prendere parte agli eventi.

< Non vuoi dirmi niente? > Mi domandò, osservandomi con aspettativa.

Cosa voleva, una risposta alla sua proposta? Una replica alle sue recriminazioni nei miei confronti?

Alzai gli occhi al cielo nuvoloso e con un sospiro scossi la testa e abbassai lo sguardo, calciando un sassolino immaginario con un piede.

Lo sentii venire verso di me, percepii il suo profumo deciso e osservai la sua ombra invadere la mia.

Mi sfiorò leggero i capelli, poi una guancia e dovette avvertire il mio fremito ed i miei brividi, perché lo sentii sorridere appena, quasi meravigliato dall'effetto che ancora produceva su di me.

< Vedrai mai il mio film? > La sua voce ora era dolce e gentile, quasi una richiesta.

Feci spallucce e alzai gli occhi fino ad incontrare i suoi, ritagli di cielo senza nuvole.

Sorrise e il mio cuore mancò un battito, continuando a pompare sangue ad una velocità superiore nel momento in cui sentii le sue mani agganciarsi ai miei fianchi e attirarmi verso di lui, stringendomi in un abbraccio dolce e disperato.

Chiusi gli occhi e ricambiai la stretta, rilassando i muscoli e sospirando di sollievo: forse era per quell'unico abbraccio che mi ero lasciata convincere dagli altri ad andare a quella premier, forse era perché speravo di poterci parlare.

< Mi sei mancata. Tantissimo. > Sussurrò tra i miei capelli, accarezzandomi la schiena.

< Anche tu. > Risposi, lasciando che una lacrima scavasse il suo percorso sulla mia guancia.

Quando mi lasciò andare e mi asciugò le lacrime con il dorso di un dito, sorrisi, perché non mi venne in mente niente di più irreale di quell'incontro.

< Devo andare, Kris mi aspetta e... > Aggrottò le sopracciglia e poi si morse un labbro, come se avesse detto qualcosa di inopportuno.

Kris.

Kristen Stewart.

La sua co-protagonista.

La sua nuova fidanzata.

La mia mente collegò velocemente quel diminutivo al volto che avevo tante volte visto associato al nome di Robert su riviste, servizi televisivi e locandine di film.

< Certo, devi andare, ovvio. > Annuii per rafforzare le mie parole e tirai su col naso, allontanandomi di qualche altro passo da lui.

< Il risarcimento che ti ho proposto, comunque, non era uno scherzo. > Precisò, scompigliandosi i capelli con una mano.

< Lo so. > Risposi. Saremmo stati di nuovo insieme, avevamo mesi per esplorare New York e le mie reticenze sui corsi da seguire erano solo delle banali scuse per evitare di riprendere fuoco.

Eravamo ancora cenere, ma per quanto?

E se si fosse tutto trasformato in un enorme falò?

 

Giocherellai con le chiavi del residence per tutto il tragitto che mi avrebbe condotto alla mia stanza al terzo piano, preferendo il chiasso del metallo al rumore dei miei pensieri assordanti.

Non ebbi neanche modo di inserire la chiave nella serratura, però, che venni raggiunta da un Lucas con il fiatone e le scarpette da ballo ancora ai piedi.

< Candice... ti ho... cercata... dappertutto... > Stentava a respirare, tanto che ebbi paura potesse collassare da un momento all'altro.

< Prendi fiato. > Gli sorrisi, aprendo la porta della mia stanza, invitandolo a entrare e chiudendo la porta dietro di lui.

Si accomodò sul mio letto senza troppe cerimonie e chiuse gli occhi, cercando di calmare il respiro. Io mi accontentai dello sgabello accanto alla piccola scrivania di legno su cui avevo impilato i miei ultimi acquisti letterari.

< Che succede? > Gli chiesi dopo quasi cinque minuti di assoluto silenzio.

< Elena. > Bastò quel nome ad innervosirmi e a farmi dimenticare di Robert.

< Cosa? > Sbottai sarcastica. Non era esattamente la persona che avrei definito amica. C'era una sorta di rivalità infantile tra di noi, dovevo ammetterlo, ma era stato qualcosa più forte di entrambe: ci eravamo osservate e non c'eravamo piaciute, un po' come succede con gli animali, che si annusano e poi si allontanano.

< Hai presente il saggio per la Amnesty International, no? > Sistemò la testa sul mio cuscino e si guardò intorno distrattamente.

Annuii e lui continuò.

< Beh, pare che abbia deciso di collaborare come coreografa. > Terminò.

< Coreografa?!? Lei?!? > Per poco non urlai.

< Non dirmelo. > Commentò, alzando gli occhi al cielo.

< Tu non fai testo, Lucas. Ci sei stato insieme per sei mesi. > Gli ricordai. Era incredibile anche per me, ma non potevo fargliene una colpa: Elena era di una bellezza quasi eterea, di quelle che incantano.

< Lo so, lo so, ma devo ricordarti come è andata a finire? > Si sollevò sui gomiti, osservandomi con aspettativa.

< Hai finto di tradirla con Stacey McKinnon, come dimenticarlo? > Sorrisi al ricordo della scenata di Elena in corridoio alla vista di Lucas e Stacey che si baciavano appassionatamente esattamente di fronte all'aula dove stava provando.

< Già, e come dimenticare la favolosa caduta dalle scale che hai subito durante lo spettacolo più importante della Scuola per colpa sua? > Aveva agguantato una delle mie palline di gomma anti-stress.

Sospirai e alzai gli occhi al cielo.

< Quest'odio nei suoi confronti è contro-producente, non credi? > Obiettai. < Insomma, non siamo dei bambini, siamo adulti e dovremmo comportarci come tali. > Continuai, facendo spallucce.

< Non puoi rispondere con il bene quando ti fanno del male. > Osservò, lanciandomi la pallina che afferrai al volo e che cominciai a stritolare.

Aveva ragione: bisognava essere tremendamente stupidi o estremamente coraggiosi per dimenticarsi dei torti subiti e per non rispondere rilanciando la stessa carta.

Valeva anche per me e Robert.

Lui coraggioso lo era stato: non mi aveva urlato contro e non mi aveva ignorata, anzi, mi aveva seguita fino alla Julliard per parlarmi; sì, per propormi la sua forma di riscatto, ma pur sempre per parlarmi e poi, cogliendomi totalmente di sorpresa, mi aveva abbracciata e mi aveva confessato che gli ero mancata.

Io un coraggio così non l'avrei mai avuto.

< A cosa stai pensando? > Mi domandò Lucas, riscuotendomi dai miei pensieri.

< A Robert. > Mormorai.

< Come al solito. > Sorrise, rialzandosi e avvicinandomisi. Chi meglio di un migliore amico poteva conoscere i tuoi pensieri?

< A proposito, come è andata la premier? > Aggrottò le sopracciglia, sottraendomi la pallina dalle mani.

Feci spallucce ed evitai il suo sguardo inquisitore.

< Bene. Niente di che. > Non sapevo perché avevo preferito mentire piuttosto che raccontargli tutto. Forse non ero ancora pronta, forse avevo bisogno di tempo.

Lui sembrò capirlo, perché non indagò oltre, ma si limitò ad arruffarmi i capelli e a baciarmi una guancia a mo' di saluto.

< Ci vediamo a cena? > Mi chiese, la mano già sulla maniglia della porta.

< Non ho molta fame... > Brontolai. La verità era che non volevo rimanere da sola, ma non avevo neanche il coraggio di recarmi a mensa.

< Indiano o cinese? > Sorrise e mi fece l'occhiolino.

< Cinese. > Decisi, ricambiando il sorriso.

< D'accordo. Non ci metterò molto. > E uscì, dimenticandosi di restituirmi il mio anti-stress; non ne avevo bisogno, ma stritolare qualcosa, a volte, mi aiutava a pensare e, nonostante non avessi fatto altro tutto il giorno, sembravo non averne mai abbastanza. Non facevo altro che rivivere la nostra conversazione, l'immagine dei suoi occhi, il completo scuro che metteva in risalto il suo fisico asciutto e slanciato, i suoi capelli ribelli, il suo sorriso, le sue mani tra i miei capelli, il suo profumo e il suo calore, il suo abbraccio disperato.

Come avrei mai potuto cancellare i miei sensi di colpa? Come avrei mai potuto farmi perdonare?

Fargli da guida a New York non sarebbe stato sufficiente e non mi sembrava neanche un buon metodo per espiare i miei peccati, se non per il fatto che gli sarei stata vicina, ricordandomi in continuazione del fatto che, ormai, era troppo tardi, lui non apparteneva più a me e conducevamo due vite completamente diverse, incompatibili.

Forse era il modo per ritornare amici? No, impossibile. Non ci sarebbe potuto più essere tra di noi neanche un rapporto come quello. Non avrei mai potuto contare su di lui così come facevo affidamento su Lucas o su Samantha o su Arthur. Sarebbe stato come gettare benzina sul fuoco e ci saremmo scottati entrambi.

Allora perché quella proposta? Perché proprio io? Se non mi avesse notata durante la conferenza stampa avrebbe pensato comunque di cercarmi?

Mi liberai del cappotto, abbandonandolo sulla sedia e mi alzai solo per lasciarmi cadere sul letto a peso morto, sbuffando.

Perché l'amore doveva far soffrire così?

L'avviso dell'arrivo di un messaggio sul mio cellulare mi distrasse. Lo recuperai dalla tasca dei jeans.

 

Tutto bene? Sam.

 

Digitai in fretta la risposta, avvertendole che Lucas mi avrebbe fatto compagnia per cena e che non dovevano preoccuparsi di me, dopodiché, quasi inconsapevolmente, lasciai scorrere lo sguardo sui messaggi ricevuti: alcuni di Arthur, altri delle ragazze, qualcuno da parte dei miei genitori e molti altri di Lucas; eravamo abituati a conversare via sms e non perché non fossimo altrettanto bravi a farlo a parole, ma semplicemente perché oltre le dieci non ci era concesso ospitare nessuno nelle nostre stanze, estranei e non, perciò, finché non prendevamo sonno, continuavamo a scriverci. Erano perlopiù frasi senza senso corredati da smiles, ma ogni volta che le rileggevo mi scappava un sorriso per la loro assurdità e il più delle volte ciò era sufficiente a farmi ritornare il buon umore.

Tra i messaggi più datati ce n'erano alcuni risalenti a quattro anni prima, tutti, inevitabilmente, da parte di Robert.

Passo a prenderti?

Il sapore della vaniglia mi ricorda quello della tua pelle.

Ti amo.

A che ora finiscono le prove?

Ti amo.

Li avevo conservati anche se rileggerli faceva male, specialmente quelle due fastidiosamente dolci due parole che non smetteva mai di mormorarmi: ti amo.

Me lo ripeteva in continuazione, quasi avesse paura che potessi dimenticarmene ed io arrossivo come una ragazzina e sorridevo. Il più delle volte non riuscivo a rispondergli, non riuscivo a ricambiare con un ti amo anch'io; mi stringevo soltanto di più a lui e gli baciavo una guancia, neanche avessimo cinque anni.

Sospirai, mettendo da parte il telefono e coprendomi il volto con le mani, prima di ritornare a fissare il soffitto bianco, fiocamente illuminato dall'abat-jour sul tavolo poco distante.

Mangiare cinese con Lucas, criticare i soliti programmi televisivi come due idioti, farci il solletico fino a stare male, non contribuì a migliorare il mio umore e quando mi vestii del pigiama, pronta per andare a letto, avvertii una fitta di nostalgia all'altezza del cuore che mi fece tremare le ginocchia.

Scostai le coperte e mi ci intrufolai sotto alla svelta, chiudendo gli occhi, illudendomi che potesse essere soltanto il freddo.

Dovevo smetterla! Smetterla di pensare a lui, smetterla di sentirmi in colpa per quello che era stato e che non poteva più tornare!

Il mio cellulare vibrò ed io lo afferrai con mano tremante, pensando fosse soltanto Lucas con il suo solito messaggio della buonanotte, invece no, non era Lucas, non era Sam, non era neanche Arthur.

 

Domani alle undici a Central Park; mi sembra un bel posto per cominciare, no? Robert.

 

Il mio cuore mancò un battito, eppure mi ritrovai a sorridere come una stupida, senza avere il coraggio di rispondere.

Aveva conservato il mio numero, quindi sapeva che avevo tentato più volte di chiamarlo?

Misi da parte la paura e risposi.

 

Per cominciare, o per finire. Non mancherò. Candice.

 

 

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 6
*** Friends ***


Salve, salvino, salvemini!

Ok, battuta pessima, lo so, ma oggi sono così, quindi lasciatemi sfogare xD Ancora una volta devo cominciare questo aggiornamento con delle scuse per il ritardo ç.ç

Non sono praticamente riuscita a scrivere niente nelle settimane scorse (dannato caldo e dannata ispirazione, oh!) e gli esami hanno fatto il resto. Adesso respiro un po' d'aria fresca, finalmente, visto che mi mancano due esami per concludere la sessione estiva, poi per gli altri se ne parla a settembre, così potrò dedicarmi ben benino alle mie Ff :)

Un bentornato ai messaggi identici per ogni Ff e l'ennesimo bentornato alle scuse anche per questa viltà, ma, come ho già spiegato in un'altra Ff, non ho abbastanza fantasia da coniarne due differenti ç.ç

Parlando del capitolo, anche in questo caso, non succede niente di sufficientemente "succulento", se non, forse, nella fine, se la considererete tale (succulenta, intendo), ma ho cercato di porre l'accento maggiormente su Arthur e sul suo rapporto con Candice. Non fraintendete, ancora non so bene dove arriveranno questi due e se ci arriveranno mai, ma ultimamente sono in fissa con loro due insieme, quindi mi sembrava giusto farvi conoscere Art un po' meglio, ecco :)

Altra cosa: questo capitolo prevede sue set di vestiti (di cui uno che, in realtà, avrei dovuto inserire nello scorso capitolo -.-") e uno che riguarda invece il capitolo presente e che vi posterò alla fine, per non confondervi con link e cose varie, visto che c'è già la "colonna sonora" ad inizio capitolo.

Volevo anche aggiungere che lo Sturbucks sulla Fifth Avenue esiste davvero a New York, mi sono documentata :)

Come sempre, ringrazio chi ha letto lo scorso capitolo, chi ha commentato, chi ha inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e chi ha aggiunto me tra gli autori preferiti: GRAZIE! <3

Vi auguro un buonissimo fine settimana e una...

 

 

... Buona Lettura! <3

 

P.S Non ho riletto, perciò perdonate eventuali errori e/o orrori ç.ç

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Friends Will Be Friends-Queen

 

 

 

Entrai nella Julliard con il fiatone e non mi fermai un istante neanche per ammirare l'atrio, come facevo di solito, nonostante lo vedessi tutti i giorni; percorsi i pochi metri che mi separavano dalle scale che mi avrebbero condotta alle aule, i capelli bagnati che gocciolavano sul parquet liscio e lucido, il cuore che batteva all'impazzata all'interno della mia cassa toracica, le gambe molli e la sensazione di stare per svenire da un momento all'altro.

Mi fermai solo quando mi accorsi, lanciando un'occhiata all'orologio alla parete, che di lì a quindici minuti sarebbe cominciata la lezione di coreografia.

Lanciai uno sguardo alla mia destra, tentando di riprendere fiato: l'aula era quella giusta e i vetri trasparenti mi permisero di osservare la figura di un Arthur già impegnato nel riscaldamento. Era solo e aveva messo su il cd di una delle sue band preferite, i Queen; riuscivo a percepirne vagamente il suono e le parole, anche se l'aula era insonorizzata, o forse era solo la mia immaginazione.

Presi un respiro profondo ed entrai. Sulle prime, Arthur non si accorse di me, concentrato nei suoi esercizi ed io, d'altro canto, non feci niente per manifestare la mia presenza, se non camminare lungo il perimetro della stanza fino a raggiungere gli spogliatoi, abbandonando a terra la tracolla e poggiando le spalle al muro.

Avrei dovuto cambiarmi e asciugare il parquet prima che Miss Stevens arrivasse, ma sembrava non fossi in grado di fare altro che non fosse singhiozzare, sebbene non stessi piangendo.

Arthur si accorse di me quando il suono proveniente dallo stereo si interruppe in attesa della prossima canzone.

< Candice! Cielo, mi hai fatto perdere dieci anni di vita! > Si voltò verso di me e si posò automaticamente una mano sul cuore, segno che l'avevo davvero colto alla sprovvista.

Cerco il telecomando dello stereo con lo sguardo e quando lo trovò, lo raggiunse e premette pause, interrompendo la voce di Freddy Mercury.

< Sei completamente bagnata, dovresti cambiarti. > Continuò, avvicinandomisi per scrutarmi in viso.

Annuii distrattamente, tirando su col naso, cominciando a liberarmi della felpa fradicia.

< Stai bene? Sembra tu abbia visto un fantasma... > Provò.

< Forse è proprio quello che ho visto. > Replicai con un sorriso amaro. < Scusa, vado a cambiarmi. > Mi allontanai per entrare nello spogliatoio femminile, portandomi dietro la tracolla.

Mi liberai dei vestiti bagnati, appallottolandoli nella borsa senza cura e cercai di liberarmi dell'umidità asciugandomi con della carta usa e getta, frizionando i capelli con un asciugamano, legandoli l'istante successivo.

Infilai la solita canotta bianca, i soliti panta-collant neri, il solito tutù color ghiaccio e le solite scarpette rosa con le punte; ero io che non ero più la stessa, forse, ero io che, guardandomi allo specchio, non riuscivo a riconoscermi.

Trascinai la borsa in un angolo e uscii dallo spogliatoio; Arthur era seduto sul parquet, lo sguardo basso, come se fosse interessato alle venature del legno; le impronte delle mie Converse bagnate erano scomparse.

Mi sedetti accanto a lui, che mi rivolse un sorriso di comprensione e uno sguardo sfavillante.

< E' per quello che è successo ieri sera, vero? > Mi domandò.

Feci spallucce. Si riferiva al mio incontro con Robert? Al fatto che ero scappata dalla premier come una ladra, o alla sua proposta di fargli da guida? Sophia doveva avergli raccontato tutto, ma non ne ero dispiaciuta: perlomeno, avrei evitato di ripetere tutto, di rivedere la scena nella mia mente, indelebile.

< Elena è una doppio-giochista, lo sai, dovresti esserci abituata, ma capisco che possa fare male. > Asserì con semplicità. Elena?!? Di cosa stava parlando?

Aggrottai le sopracciglia e lo osservai con scetticismo, incredula.

Dovette notare la mia espressione confusa, perché senza darmi modo di aprire bocca, i suoi occhi si allargarono dallo stupore e mi indicò come se avessi un enorme serpente arrotolato intorno al collo e, per qualche scherzo della natura, non me ne fossi accorta.

< Sophia non te l'ha detto, vero? > Mi chiese.

< Dirmi cosa? > C'era qualcosa che non quadrava in tutta quella storia.

< Elena ti ha vista in compagnia di Robert, ieri sera e ha sparso la voce per tutta la scuola, dicendo che, in realtà, è stato tutto organizzato da lei per promuovere il saggio di fine anno per la raccolta fondi destinata ad Amnesty International. Insomma, vuole far credere a tutti che sia una sua trovata pubblicitaria, screditando te, come se lo stessi usando per uno scopo preciso. > Spiegò con aria colpevole.

Se davvero era andata così, Lucas non aveva raccontato nulla a Sophia, era stata Elena. Non che mi importasse della mia immagine, visto che per anni ero stata associata al nome di Robert, ma avevo un saggio a cui prendere parte ed un'etica da rispettare. La Direttrice non avrebbe certo approvato un simile comportamento da parte di una sua allieva; non era permesso irretire personaggi importanti per il successo di un evento, erano questione delle quali si sarebbero dovuti occupare il settore marketing e il settore sponsor.

< Cosa crede, di buttarmi fuori? Siamo stati selezionati dalla Direttrice in persona, non possiamo essere squalificati. > Mimai il segno delle virgolette con le dita.

< Sì, beh, hai ragione, certo, ma ne risentirebbe la tua immagine pubblica. > Commentò, arrossendo.

< Non voglio cominciare una guerra con lei, non in questo momento. Abbiamo troppe cose di cui occuparci e lei è uno dei miei ultimi problemi. > Borbottai, torturandomi le mani.

< Allora, se non è la questione di Elena a turbarti, cos'è successo? > Domanda lecita.

Scossi la testa.

< Robert mi ha chiesto di fargli da guida turistica in giro per New York. Deve fermarsi qualche mese ed io sono l'unico contatto che ha qui, per il momento. > Spiegai brevemente.

< E...? > Mi scrutò con fare indagatore.

< E niente. Insomma, ha cominciato a blaterare cose su quanto gli fossi mancata, sul fatto che non riuscirebbe ad essermi solo amico, che l'idea di rivedermi lo aveva uscire fuori di testa e poi mi ha detto che è impegnato. Niente di serio, secondo lui, ma lei non conosce tutta la storia ed io non voglio passare per la sfascia-coppie di turno. > Brontolai, reprimendo le lacrime.

Mi ero sentita usata? Sì.

Avrei dovuto chiedergli spiegazioni circa il suo comportamento poco corretto? Sì di nuovo.

Non sarei dovuta scappare? Forse.

< L'hai piantato in asso e sei scappata. > Concluse per me con un sorriso incoraggiante.

< Già... > Confermai, sentendomi una terribile vigliacca.

< E' normale essere spaventati da queste situazioni, non c'è niente di terribile, lo sai, vero? > Mi arruffò i capelli, facendomi sorridere.

< Lo so, è che non è tanto la situazione in sé a spaventarmi, quanto le mie emozioni. Mi sono abituata alla sua assenza e poi, tutto d'un tratto, mi ricompare davanti, pretendendo che gli faccia da guida, flirta con me come se fosse single e io mi sento... impotente, ecco. > Sospiro. Mi resi conto di essermi liberata di un peso enorme non appena ebbi terminato la frase. Sì, probabilmente era anche la situazione che ci circondava a spaventarmi, a farmi avere paura, ma quello che temevo di più erano le mie reazioni, il fatto che, se solo mi avesse chiesto di far ritornare tutto come prima, io non avrei saputo dirgli di no, che, nell'obnubilamento di sensi che mi provocava, avrei potuto seguirlo fino in capo al mondo senza battere ciglio.

Era malsano e, forse aveva ragione Robert, non ci faceva bene, forse avrebbe semplicemente dovuto continuare a portare avanti la sua vita e la sua carriera, senza incrociare la mia. Avrei continuato a soffrire, magari mi sarei morsa le mani per non essere rimasta a quella premier, ma, almeno, avrei saputo cosa provare, avrei saputo ancora cosa mi faceva bene e cosa no.

< Avete bisogno di tempo e di chiarirvi. Vedrai che si sistemerà tutto. > Sorrise e, per un solo istante, ci credetti davvero, pensai alla possibilità che tutto sarebbe ritornato come prima, come un tempo, quando eravamo ancora due ragazzini e non dovevamo preoccuparci del nostro futuro.

< Cosa farei senza di te? > Scherzai, abbracciandolo e arruffandogli i capelli, mentre l'aula cominciava a riempirsi.

< Immagino ti servirebbe un navigatore. > Sorrise ed io gli baciai una guancia, osservandolo arrossire.

< Grazie. > Gli mormorai prima di rimettermi in piedi per raggiungere Sophia e Sam.

< Non c'è di che. > Rispose piano, evitando i miei occhi.

 

Quando le lezione terminò ero riuscita a lasciarmi alle spalle ciò che era successo con Robert nel parco, almeno in parte. La danza aveva questo effetto su di me, era più potente di un tranquillante e di una camomilla e riusciva ad evitarmi le paranoie.

Quando avevo cominciato a ballare, non l'avevo esattamente deciso di mia spontanea iniziativa; era stata mia madre a costringermi. Aveva cominciato a blaterare un mucchio di idiozie su quanto fosse utile fare ginnastica, conoscere persone nuove, avere un passatempo, ma io ero solo una bambina di sei anni e mi andava benissimo trascorrere i miei pomeriggi dopo lo studio con Robert, seduti nel giardino di casa sua, tra l'erba fresca, a condividere la merenda e a costruire torri di fango.

Quando era iniziato il secondo semestre scolastico, mia madre era tornata a casa con un depliant informativo su una scuola di ballo che avrebbe aperto di lì a poco a qualche isolato di distanza da casa nostra e non aveva fatto altro che parlarne per giorni, cercando di convincermi a dire sì, ok, mi hai convinta, ci vado. Alla fine, forse per l'esasperazione, forse perché anche mio padre non sopportava più le sue frasi monotematiche durante la cena, accettai di iscrivermi.

Non credevo sarebbe diventata la mia vita, non credevo mi sarebbe piaciuto indossare i tutù e le scarpette con le punte, così come preparare la borsa alle sei del pomeriggio dopo la scuola, o fare il più in fretta possibile per raggiungere le mie nuove amiche. Era assurdo, ma anche quando ero stanca, avvilita, quando avevo preso un brutto voto a scuola e non sapevo come dirlo ai miei genitori, quando litigavo con Robert perché non potevo andare a casa sua per colpa delle lezioni di danza, bastava che mi infilassi il tutù e le scarpette e tutto il resto del mondo scompariva, travolto dai miei passi, dal mio impegno e dalla mia voglia di riuscire.

Quando avevo deciso di continuare con questa carriera, i miei genitori, se possibile, erano stati più felici di me e, anche se le occasioni di sentirli erano scarse, colpa anche del fuso orario, anche se non potevo permettermi di andarli a trovare tanto quanto avrei voluto, non mancavano mai di supportarmi e sapevo che, qualsiasi cosa sarebbe successa, loro sarebbero stati lì, al mio fianco.

Finii di cambiarmi e uscii dallo spogliatoio, promettendo alle altre che le avrei aspettate per andare a pranzo insieme.

Il via vai nei corridoi era aumentato, complice l'orario, quello in cui tutte le lezioni terminavano e gli studenti si recavano alla mensa per il pranzo.

Arthur stava finendo di sistemare le ultime cose nella borsa ed io non resistetti e mi avvicinai.

< Hai impegni adesso? > Gli chiesi, sorridendo.

Mi osservò stupito. Sì, solitamente pranzavo con le altre, senza ragazzi intorno, compresi i nostri amici, ma volevo sdebitarmi con lui per avermi dedicato un po' di tempo prima della lezione, rinunciando al suo stretching.

Scosse la testa.

< Potresti pranzare con noi, allora. Se ti va, certo. > Continuai fiduciosa.

< Sicura che Sophia e Sam siano d'accordo? Non è il vostro momento quello del pranzo? > Corrugò le sopracciglia, scettico.

< Sì, ma, beh, si può sempre fare un'eccezione, no? > Replicai, sicura che per le altre non ci sarebbero stati problemi.

< D'accordo. > Sorrise e sembrò sul punto di aggiungere qualcos'altro, se non fosse intervenuto Lucas, spuntando alle mie spalle come un ninja, poggiando un braccio sulle nostre spalle e sorridendo felice.

< Amici! Quale onore! > Quasi urlò, rischiando di stritolarci.

< Cos'è tutto questo affetto? > Domandò Arthur, cercando di liberarsi dalla sua presa senza riuscirci.

< Notizia dell'ultima ora: il saggio di beneficenza sarà trasmesso in diretta su tutte le reti nazionali! > Esultò.

Io ed Arthur saremmo stati esentati dalle prove di accesso per il saggio, in quanto gli studenti più promettenti della Scuola, ma molti dovevano ancora superare l'esame di sbarramento, tra cui Lucas, Sam e Sophia, solo per citarne alcuni.

< Andremo in tv?!? > Ripeté Arthur, spalancando gli occhi, tanto che temetti sarebbero caduti sul pavimento, come in un cartone animato.

< Sì! Non è una cosa meravigliosa? > Replicò lui sognante, fissando lo sguardo al lampadario di cristallo che torreggiava sull'ingresso.

< Mia madre monopolizzerà il televisore per tutta la giornata, immagino. > Risi a quel pensiero, mio padre che avrebbe borbottato che non era concepibile guardare sempre e solo balletti o film che li riguardassero.

< Dovresti invitarli qui, Candice, è un'occasione importante e non ti hanno mai vista ballare in un saggio. > Lucas mi osservò attento, riemergendo dal suo stato catatonico e felice.

Forse avrei dovuto farlo, aveva ragione. Non erano mai venuti a trovarmi da quando ero emigrata a New York e, se non consideravo i saggi a cui avevo partecipato a Londra, non mi avevano mai vista ballare a teatro con una compagnia professionista.

< Già, dovrei... > Riflettei.

< Wow! Nuove aggiunte maschili al nostro tavolo? > Sophia ci raggiunse con Sam e Lorine, una delle migliori ballerine brasiliane che avessi mai visto. A discapito delle tradizioni del suo Paese, che l'avrebbero voluta ballerina di salsa o, al più, di danze caraibiche, lei aveva scelto di diventare una ballerina classica ed aveva raggiunto New York con l'appoggio delle sue sorelle e dei suoi fratelli, medici e architetti di successo nella Grande Mela. Ammiravo la sua forza e la sua determinazione.

< Spero non vi dispiaccia, ho invitato Arthur a sedersi con noi... > Confermai il suo presupposto, mordendomi una guancia in attesa della sua risposta.

< Ehi! Ed io? Non mi invita nessuno? > Lucas assunse un'aria da cane bastonato che fece scoppiare tutti a ridere, me compresa.

< Se proprio ci tieni, ti invito io. > Replicò Samantha, aggrappandosi al suo braccio, sorridente.

< Sam, non sono mai stato in grado di dimostrare l'amore che provo nei tuoi confronti e come ammiri la tua bontà, il tuo gran cuore e la tua gentilezza... vuoi sposarmi? > Ridemmo di nuovo, Lucas che interpretava il Romeo di turno, con tanto di mano al cuore e occhi innamorati.

< Quando pioveranno maiali e stelle filanti. > Rispose Sam, fingendosi annoiata.

< Oh, Giulietta, avevi detto di amarmi. > Continuò a recitare con aria pomposa.

Ci eravamo guadagnati l'attenzione di tutti con quel siparietto.

< La Giulietta che è in me deve essere morta. > Rispose pensierosa. < E comunque ho fame, andiamo? > Continuò, avviandosi verso la mensa, seguita a ruota da noi.

Arthur mi attirò a sé con un braccio intorno alla mia vita ed io gli sorrisi, ricambiando la stretta.

Avevo bisogno del suo affetto, della sua amicizia, così come dell'amicizia di tutti gli altri, del loro calore e della loro comprensione. Non volevo passare per la vittima di turno, anzi, cercavo di comportarmi normalmente, come se il litigio con Robert non fosse mai avvenuto, ma avevo bisogno di non pensare, di scollegare la mente e di occuparmi di coloro dai quali non sarei scappata, ai quali non avrei detto addio all'aeroporto.

Non andò tutto secondo i miei piani.

Provare a non pensare a lui? Inutile, se non impossibile.

Per la prima parte del pranzo, sembrai riuscirci: avevamo scelto uno dei tavoli in fondo alla mensa e avevamo cominciato a chiacchierare del più e del meno mentre la fila al bancone diminuiva; poi, i vassoi e i piatti pieni, avevamo cominciato a discutere circa le lezioni del pomeriggio, i passi che dovevamo ricordare, le coreografie e i costumi che non ci avevano ancora consegnato e su cui non avevamo avuto indicazioni.

Avevamo appena finito di mandare giù l'ultimo boccone, che il suono dell'arrivo di un messaggio sul mio iPhone mi distrasse, causandomi una fitta al cuore e una morsa allo stomaco che ignorai con difficoltà.

Sapevo che era lui.

Sì, poteva essere mia madre che mi augurava il buongiorno, o mio padre che voleva avere notizie di me, o qualche mia amica di Londra, ma io sentivo che era lui.

< Non vuoi vedere chi è? > Mi chiese Arthur, continuando a sorseggiare il suo the freddo.

Sorrisi impacciata e tirai fuori dalla tasca laterale della borsa il cellulare, illuminandolo.

Il mio cuore perse un battito quando lessi il suo nome.

 

Mi dispiace per quello che è successo al parco; è tutto così confuso che... potrai mai perdonarmi?

 

Sospirai e abbandonai il telefono sul tavolo, cercando di trattenere le lacrime.

< Buone notizie? > Mi domandò Arthur, imperterrito.

Gli feci segno di prendere il cellulare e constatare da sé e lui, appena titubante, eseguì, leggendo il messaggio e osservandomi attento.

< Ti ha mandato un messaggio, è un buon segno. > Commentò alla fine, mentre io distoglievo lo sguardo per fissarlo al di fuori di una delle vetrate che costituivano la mensa.

Il via vai delle persone riusciva a distrarmi, a farmi smettere di pensare, di piangere.

< Ehi. > Sentii la presa calda di Arthur sulla mano che avevo poggiato distrattamente sul tavolo, ma non mi voltai. < Puoi guardarmi, per favore? > Continuò, strattonandomi appena.

Osservai i suoi occhi grandi e rassicuranti e il suo viso familiare e dolce.

< Ricordi quello che ti ho detto ieri mattina? Non puoi lasciarlo andare così, senza aver chiarito i vostri sentimenti, farebbe solo più male. Forse sta sbagliando, forse sta affrontando le cose non nel modo con cui le affronteresti tu, ma, Candice, è solo un ragazzo e i ragazzi sbagliano e si comportano da imbecilli. > Sorrise ed io con lui. < Potresti sbagliare anche tu, tutti potrebbero sbagliare in una situazione come la vostra. Questo non significa che devi mettere da parte quello che per te è importante, significa solo dargli un'altra possibilità, come amico, come fidanzato, come conoscente, come quello che vuoi; l'importante è che non vi allontaniate ancora senza esservi detti tutto. > Concluse.

Aveva ragione? Probabilmente sì.

Sarei stata capace di mettere in pratica i suoi consigli? Probabilmente no.

Io e Robert non eravamo poi così distanti, almeno fisicamente; emotivamente, invece, lo eravamo anni luce, eravamo diversi come Saturno e Giove, come il Sole e la Terra. Continuavamo a girarci attorno, ma non riuscivamo ad avvicinarci abbastanza, perché avrebbe voluto dire cedere e cedere avrebbe significato farsi del male, di nuovo.

Ero stata una vigliacca anch'io, ero scappata senza chiedergli altre spiegazioni, ma cosa avrei dovuto fare? Quando avevo sentito la sua indecisione, quando mi aveva confessato che Kristen non era a conoscenza delle nostre uscite, mi ero sentita tradita e sporca: non volevo soffiare il fidanzato a nessuna, non volevo essere nemica di nessuna.

Volevo solo sistemare le cose, cercare di dar loro la giusta angolazione, la giusta messa a fuoco.

< Dovrei dirgli che non approvo il suo comportamento con Kristen? > E se si fosse offeso? Se mi avesse risposto che non erano affari miei?

Arthur annuì.

< Devi. Per te è importante e lui deve capirlo. > Commentò ovvio.

Non potevo continuare a scappare, dovevo affrontare il problema.

< Ok, posso farlo. > Dissi risoluta, riprendendo in mano l'iPhone e aprendo una nuova finestra di messaggio.

 

Dispiace anche a me; possiamo parlarne più tardi, dal vivo?

 

Non potevo spiegargli la faccenda per telefono e poi, odiavo non poterlo guardare in volto, osservare le sue reazioni.

La risposta non tardò ad arrivare.

 

Dimmi solo dove e ti raggiungerò.

 

Allo Sturbucks sulla Fifth Avenue, alle 9.

 

Mi sembrava il luogo adatto dove parlare, non troppo affollato, ma neanche deserto.

Non attesi la risposta e riposi subito l'aggeggio nel borsone, sorridendo ad Arthur e afferrando il mio vassoio per andare a svuotarlo.

Avevo sei ore per prepararmi psicologicamente e mentalmente all'incontro.

 

 

 

 

 

Ecco i set di cui vi parlavo:

Uno

Due

 

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 7
*** What were it happening to us? ***


Salve a tutte!

Ieri pomeriggio sono riuscita a terminare il capitolo, ma andava riletto e io dovevo uscire, quindi non ho fatto in tempo e, visto che avevo preventivato che avrei potuto aggiornare di venerdì, ho tenuto fede alla mia "promessa" ed eccomi qui :)

Questo capitolo mi ha fatta un po' disperare, specialmente la prima parte, perché anche se avevo chiaro in testa il percorso che avrebbe dovuto compiere, dall'inizio alla fine, le parole per descrivere la situazione non c'erano, anche perché mi sta succedendo sempre più spesso che, quando scrivo una Ff, anche se ho completato il capitolo, non mi riesco a "staccare" totalmente dai personaggi per poter passare ad un'altra. Mi sono sempre ripromessa di scriverne una alla volta, infatti, ma purtroppo, da quando ho scoperto EFP non riesco a tenere le nuove idee solo mie, perché ho bisogno del parere dei lettori <3 quindi il mio motto, ormai, è diventato: non più di due Ff per volta xD 

Comunque, tornando a cose serie: la fine doveva essere un tantino diversa, perché Rob sarebbe dovuto andare a vedere la stanza di Candice nel residence, ma mi sono ricordata che le regole della Julliard circa gli ospiti sono piuttosto severe, infatti concedono permessi di visita solo in rarissime occasioni, anche se si tratta della famiglia, quindi ho cambiato rotta, perché non volevo stravolgere troppo le cose; poi, che altro? Non so se lo Sturbucks sulla Fifth Avenue sia davvero accanto ad un negozio di abbigliamento, ma mi è venuto spontaneo inserire un negozio del genere e la mia pigrizia, ben conosciuta, non mi ha fatto andare a controllare, ma comunque, si tratta pur sempre di un'inezia, no? Uh, e non so nemmeno se sul viale dove sorge la Julliard ci siano delle panchine ù.ù l'ambiente è piuttosto "creato", nel senso che non so quanto ci sia di vero, almeno per questo capitolo. Quando andrò a vivere a New York scriverò una Ff ad immagine e somiglianza della città, ma prima, temo che dobbiate accontentarvi xD

Prima che me ne dimentichi, così come ho fatto per Dreams are Wishes, volevo annunciarvi che staccherò dalle Ff per circa due settimane, il tempo, spero, di chiarire come dovrà evolversi la trama e quanti capitoli dovranno avere, quindi, in definitiva, dovrei scrivere i nuovi capitoli la settimana precedente a quella di Ferragosto, sperando di riuscire a farveli avere prima del 15, ispirazione permettendo. Ovviamente, sarò sempre presente nel mio gruppo su Facebook, che vi ricordo è questo: You thought you know me. Potete richiedere l'iscrizione senza problemi, specificando il vostro nick su EFP e, se volete, anche il nome della Ff che seguite :)

Detto ciò, ringrazio tutte le persone che hanno recensito lo scorso capitolo, che l'hanno soltanto letto, che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e che hanno inserito me tra i loro autori preferiti <3 GRAZIE MILLE! *.* *.*

Dopo le note introduttive più lunghe della storia, volevo solo aggiungere che questo capitolo ha un set d'abiti; inserirò il link alla fine del capitolo, perché non venga confuso con quello della canzone :)

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Emergency-Paramore

 

 

 

La Fifth Avenue, ovviamente, era affollatissima e i negozi che costeggiavano il marciapiede erano stracolmi in occasione dell'apertura anticipata dei saldi. Non che mi aspettassi di trovarvi qualcosa di diverso, ma stavo cominciando a ricredermi sul luogo del nostro appuntamento: avevo fatto bene ad invitarlo in uno Sturbucks che affacciava su una delle strade più trafficate di New York? E se fosse stato preso d'assalto dai paparazzi, o dai fotografi, o dalle fan?

< Candice! Candice, mi stai ascoltando? > Riemersi dai miei pensieri al suono della voce di Sam. Lei e Sophia si erano offerte di accompagnarmi con la scusa che avevano intenzione di provare un nuovo locale nei dintorni, ma io ero certa che avessero cambiato appositamente i loro programmi per controllarmi, quasi temessero che, ad un passo dalla meta, avrei girato i tacchi e sarei corsa via come durante la premier.

Obiettivamente parlando, non avevano tutti i torti; insomma, Arthur aveva ragione, dovevo parlargli, ma non era semplice dopo tre anni di lontananza, tre anni nei quali io mi ero dimenticata qual era il suo profumo preferito, o il suo numero preferito, o il suo libro preferito, e nei quali lui doveva aver fatto lo stesso. Era illogico, me ne rendevo conto: ero riuscita a rimuovere tutto quello che lo riguardava dalla mia testa, tranne il suo volto triste e scuro durante l'addio all'aeroporto e il fatto che, al solo sentire pronunciare il suo nome, il mio cuore cominciava a rimbombarmi fin nelle orecchie, come un tamburo impazzito.

< Scusa, ero soprappensiero, dicevi? > Finsi indifferenza e mi voltai verso la mia migliore amica, in attesa.

< Stavo dicendo che, una volta terminato il tuo appuntamento, potresti raggiungerci al locale. E' da tanto che non passiamo una serata tutte insieme e domani abbiamo la giornata libera, perciò, perché non approfittarne? > Ripeté, sorridendo.

< Beh, non lo so... insomma, è già tardi e non so quanto potrebbe volerci... > Ammisi. Sì, magari sarei rimasta lì seduta a fissarlo per ore, senza che nessuno dei due riuscisse a spiccicare parola.

< Sicura che non vuoi che ti facciamo compagnia, vero? > Mi chiese Sophia, osservandomi preoccupata.

< Sì, potremmo sederci ad un tavolo distante dal vostro e accorrere in tuo aiuto in caso di bisogno. > Completò per lei Sam, facendomi sorridere.

Apprezzavo i loro sforzi, davvero, ma era una cosa che dovevo fare da sola e, anche se sapere che avevo qualcuno con me mi avrebbe fatta sentire più al sicuro, inevitabilmente, mi avrebbe messa in imbarazzo. Robert non le conosceva, non poteva sapere che fossero mie amiche, ma ne ero al corrente io e tanto bastava per farmi sentire impacciata e fuori luogo.

< E' una cosa che devo fare da sola, ragazze, davvero. > Ci fermammo accanto alla vetrina di un negozio d'abbigliamento, esattamente prima del luogo X, come l'aveva designato Lucas.

< Andrà bene, vedrai, e poi non devi mica dirgli che sei incinta, no? > Cercò di tirarmi su di morale Sam ed io ricambiai il suo sorriso e il suo abbraccio.

< Chiamaci, almeno! > Urlò Sophia, mentre Sam la trascinava lungo le strisce pedonali per un braccio per convincerla a lasciarmi finalmente da sola.

< D'accordo! > Risposi, salutandole con la mano.

Sam aveva ragione: non dovevo comunicargli qualcosa di tragico, né dovevo confessargli che ero incinta o che aveva un figlio segreto nascosto da qualche parte, quindi, teoricamente, non ci sarebbe stato alcun motivo per sentirmi le gambe molli, sul punto di cedere, la frequenza cardiaca accelerata, le mani fredde e tremanti e l'affanno, come se avessi corso per chilometri.

Scostai la manica del cappotto per osservare il quadrante del mio orologio da polso: ero in anticipo di cinque minuti. Chissà se era già arrivato.

Mi avvicinai alla vetrina come una ladra, osservando i volti di coloro che si stavano gustando una cioccolata calda, chiacchierando del più e del meno, ma non lo vidi; a meno che non avesse deciso di sedersi ad uno dei tavoli più nascosti, non c'era traccia di lui.

Entrai, prendendo un respiro profondo e, ad una seconda occhiata al locale, mi accorsi che non era poi così affollato come avevo creduto, pensando a tutti coloro che stavano facendo shopping in quel momento e che, magari, avrebbero avuto bisogno, prima o poi, di un luogo e di una bevanda caldi, e che Robert davvero non era arrivato.

Scelsi uno dei tavoli più appartati del locale e mi sedetti, liberandomi del cappotto e cercando di ricordarmi di respirare.

Osservai la maglia che avevo scelto, una delle prime che mi aveva regalato: Dance to your own beat, recitava. Era una delle frasi che mi ripeteva in continuazione prima di un'esibizione o di un saggio, stringendomi a sé con forza e baciandomi i capelli.

Anche i jeans erano un suo regalo: quello del primo Natale insieme. Li avevo visti in vetrina mentre passeggiavamo per Oxford Street e, secondo lui, mi si erano illuminati gli occhi, così, il giorno dopo era corso a comprarli, li aveva avvolti da solo in una carta rossa lucida e aveva posato il pacchetto sotto l'albero di Natale di casa Pattinson insieme a tutti gli altri.

Non ero sicura del perché mi fossi vestita così, con le cose che di cui lui mi aveva fatto dono. Quando li avevo infilati in valigia, prima di partire definitivamente per New York, avevo pianto, riflettendo sul fatto che, forse, avrei dovuto lasciarli a Londra, che indossarli non avrebbe fatto altro che accentuare la sua assenza, ma poi ci avevo ripensato e li avevo gettati alla rinfusa nel trolley, cercando di non pensarci. Non erano state molte le volte che li avevo indossati; avevano un loro posto speciale all'interno dell'armadio, distanti da tutti gli altri jeans e da tutte le altre maglie, come se non mi fosse concesso indossarli, come se li avessi portati con me solo per osservarli da lontano, come reliquie.

Quando ero uscita dalla doccia, prima di incontrarmi con le ragazze, non ci avevo pensato su due volte prima di afferrare i jeans e indossarli e lo stesso per la maglietta, poco importava che fosse a maniche corte e che a New York facesse ancora freddo.

Sorrisi appena, guardandomi intorno, cercando di non piangere.

L'orologio sulla parete opposta segnava le nove e dieci e lui era in ritardo.

< Posso portarle qualcosa? > Una cameriera dall'aria gentile mi si era avvicinata sorridente.

Ricambiai il sorriso e pensai che tenermi impegnata sarebbe servito a non farmi pensare, così ordinai un frappuccino alla cannella, il mio preferito e attesi.

Aveva cominciato a piovere e molti avevano già aperto i loro ombrelli tascabili, riuscendo a ripararsi.

< Aspetta qualcuno? Vuole che prepari un'altra ordinazione? > La stessa ragazza di prima ritornò con un bicchiere in mano, chiaramente bollente, posandolo di fronte a me e non smettendo di sorridere.

< Sì... ehm... in verità non so cosa... > Arrossii e mi diedi della stupida. Avrei potuto semplicemente rispondere che sì, stavo aspettando qualcuno, ma a quanto pare era in ritardo e non potevo ordinare anche per lui perché non volevo che la sua bevanda si raffreddasse. Era piuttosto semplice.

< E' un ragazzo, vero? > Mi chiese comprensiva.

Annuii, incapace di fare altro.

< Un cappuccino con panna e cannella andrà bene, allora. > Sorrise di nuovo e si allontanò.

Come faceva a sapere che un cappuccino con panna e cannella gli sarebbe piaciuto? Come poteva, se io non riuscivo a ricordarmi neanche con quanto zucchero era solito prendere il caffè?

Dopo qualche minuto ritornò con un secondo bicchiere e un piattino di muffin che avevano l'aria di essere davvero deliziosi.

< Grazie. > Riuscii a balbettare.

< Dovere. > Rispose, facendo spallucce e allontanandosi.

Quando l'orologio segnò le nove e quindici, ed io, ormai, cominciavo a pensare che non sarebbe venuto, che, forse, era stata una pessima idea quella di incontrarci, che fuori pioveva e il traffico doveva essere impazzito, lo vidi al di là della vetrina, accompagnato da qualcuno di cui non riuscivo a vedere il volto e che reggeva un ombrello nero.

Il cuore prese a battermi più forte, tanto che lo sentii rimbombarmi nelle orecchie e mi affrettai a posare il bicchiere caldo sul tavolo, prima che si rovesciasse, visto che le mie mani non volevano saperne di smettere di tremare.

Entrò, facendo tintinnare i campanellini sulla porta e si guardò in giro, fino ad inquadrarmi. L'uomo al suo fianco, che non avevo mai visto, gli sussurrò qualcosa in un orecchio e lui annuì, prima di dirigersi da solo verso di me, le mani infilate nelle tasche dei jeans scuri.

Aveva i capelli leggermente umidi, così come la giacca di pelle nera e, come me, anche lui indossava un mio regalo: la camicia a quadri che gli avevo regalato per il suo compleanno, qualche mese prima che partissi. Mi si fermò il cuore quando la notai e arrossii come una sciocca.

< Ciao. > Mi disse, accomodandosi di fronte a me e notando il bicchiere colmo di panna.

< Ciao. > Risposi con un filo di voce. < Avrei voluto aspettare per lasciarti ordinare, ma la cameriera ha insistito, quindi... > Continuai, mentre lui sorseggiava il suo cappuccino con calma.

< E' buono. Mi piace il cappuccino. > Sorrise ed io sospirai di sollievo: per un attimo avevo pensato che me l'avrebbe sputato in faccia.

Cercai di concentrarmi su qualcosa che non fosse il suo modo di leccarsi via la panna dalle labbra con la lingua. Perché aveva quest'effetto su di me? Erano passati tre anni, sarebbe dovuta essere acqua passata, dannazione!

< E così... piove... > Dissi, schiarendomi la voce e muovendomi a disagio sulla sedia, rifiutandomi di incontrare i suoi occhi. Non avrei potuto dire qualcosa di più stupido.

< Già. Il traffico è completamente impazzito, perciò... insomma, mi spiace averti fatta aspettare. > Si passò una mano tra i capelli con fare imbarazzato, un gesto che conoscevo bene.

< Sì, l'ho immaginato, non preoccuparti. > Annuii.

Restammo qualche istante in silenzio, ognuno perso a guardare in una direzione diversa del locale.

Cosa ci stava succedendo? Passavamo dagli abbracci, all'imbarazzo più totale, come se fosse stata la prima volta che ci vedevamo.

< Allora... volevi... parlarmi di qualcosa, giusto? > Si schiarì la voce e incrociò i miei occhi, prima di spostarli sulla maglietta che indossavo. Per un attimo pensai volesse chiedermi come mai l'avessi conservata, invece, si limitò ad inarcare le sopracciglia e poi a scompigliarsi nuovamente i capelli con le dita.

< Sì... cioè, in realtà volevo scusarmi per essere scappata, stamattina. Ero confusa e avevo bisogno di riflettere. > Annuì, lasciando che continuassi. < Ecco, vedi, ho pensato a quello che mi hai detto circa Kristen e, so che il nostro incontro non era previsto, così come so che hai pieno diritto ad andare avanti con la tua vita, senza che ti dica io cosa farne, solo che... insomma, non voglio recitare la parte della terza incomoda, non voglio mettermi in mezzo tra voi due, perché so come mi sentirei se succedesse a me e... sono passati tre anni da quel giorno all'aeroporto e abbiamo sofferto entrambi; forse è solo questo che ci manca dell'altro, il fatto che adesso non soffriamo più come prima, che il dolore è diverso e si è trasformato in nostalgia. Non voglio metterti in difficoltà con Kristen, quindi, forse, è meglio se... beh, magari è meglio se ti cerchi un'altra guida, qualcuna che non sia stata anche la tua ex fidanzata, magari. > Continuai tutto d'un fiato.

< Insomma, mi stai di nuovo dicendo addio. > Constatò, abbassando gli occhi sul tavolino e giocherellando con il suo bicchiere.

Era davvero quello che stavo facendo? Lo stavo davvero abbandonando di nuovo?

Non volevo fargli da guida, perché avrebbe compromesso il suo rapporto con Kristen, serio o meno che fosse, ma non potevo continuare a vederlo neanche come semplice amica, per lo stesso, identico motivo.

Sì, forse sì, forse gli stavo di nuovo dicendo addio, solo che questa volta non lo facevo per me, ma per lui, per la vita che si era costruito dopo la mia partenza.

< Mi stai lasciando di nuovo, Candice. > Continuò, un tono di accusa nella voce.

< No! Non ti sto lasciando, Robert, ma non vuoi capire? In questi tre anni, non ti ho mai, mai, lasciato; ho tentato di estirparti dalla mia mente, ma non ci sono riuscita e mi sono sentita in colpa per così tanto tempo, che... > Sospirai e distolsi gli occhi. Era difficile, dannatamente difficile dirgli quello che sentivo, che provavo.

< Mi sento ancora in colpa per come me ne sono andata e non hai idea di quante volte avrei voluto volare a Londra, bussare alla tua porta e chiederti scusa, dirti che ci stavo male anch'io, che mi mancavi, che avevo provato a telefonarti, ma non avevo avuto il coraggio di parlarti. > Continuai.

< Pensavi che avessi cancellato il tuo numero? > Sorrise appena, amaro.

< Ti avevo chiesto di dimenticarmi; come avrei potuto biasimarti se l'avessi fatto davvero? > Feci spallucce, torturandomi le mani.

< Perché non sei venuta, perché non hai bussato alla mia porta? > Mi domandò e vederlo così tormentato, in attesa di risposte che non ero sicura di poter dargli, mi venne da piangere. Mi morsi un labbro, cercando di resistere, di ricacciare indietro il dolore e la vergogna, ma non ci riuscii, perché sentii distintamente una lacrima scivolarmi lungo la guancia.

La spazzai via con una mano, ma quella venne subito sostituita da un'altra, senza che io potessi farci niente.

< Avevo paura, paura che mi respingessi, che mi accusassi che non potevo tornare così, dopo essermene andata dall'altra parte del mondo, pensando che avrei risolto tutto. > Singhiozzai appena.

Nessuno sembrava fare caso a noi; continuavano a chiacchierare amabilmente, compreso l'uomo che aveva accompagnato Robert che, a quanto sembrava, doveva aver iniziato una conversazione interessante con la ragazza che mi aveva servita.

< Non avrei avuto il coraggio di mandarti via, lo sai. > Rispose più dolcemente, cercando di afferrarmi una mano, ma io la ritrassi, nascondendola in grembo.

< Ma sarei dovuta ritornare qui, non avrei potuto abbandonare la Scuola, non dopo esserci entrata... > Commentai.

< Avremmo potuto trovare una soluzione, Candice. Hai deciso tutto da sola e l'hai fatto anche per me. Se pensavi che una relazione a distanza non sarebbe durata, perché non me ne hai parlato, perché non mi hai detto cos'era che ti preoccupava? Quando mi hai detto che, prima o poi, ti avrei dimenticata, è stato come ricevere uno schiaffo, per me. Ero davvero così poco importante per te? > Le sue parole non fecero altro che farmi tremare ancora di più, lasciandomi senza fiato. I singhiozzi, misti alle lacrime, mi rendevano difficile respirare e, per un attimo, ebbi voglia di scappare, di alzarmi e di correre sotto la pioggia, di lasciare quel posto caldo e accogliente, di tornare al residence, proprio come quella mattina a Central Park.

Mi obbligai a rimanere seduta e a non crollare. Era il confronto che avevo sempre voluto, no? Era quello che avevo sempre chiesto, potergli dire tutto quello che sentivo, tutto quello che avevo provato lasciando Londra, lasciando lui, la mia famiglia, i miei amici.

Scossi la testa.

Dannazione se era stato importante per me! Come poteva pensare il contrario? Non avrei fantasticato su come sarebbe stato avere una famiglia con lui, avere dei bambini, anche. Eravamo ancora troppo giovani, ma si trattava pur sempre di futuro ed io, nel mio futuro, mi ero sempre vista al suo fianco, nel bene e nel male.

< Allora perché non l'hai fatto? > Insistette.

< Io... non lo so, Robert, non lo so. > Ed era la verità. Non sapevo perché non gli avevo semplicemente parlato, perché non avevamo provato a risolvere la questione insieme. Non ne avevo idea.

Tentai di asciugarmi le lacrime e di respirare normalmente. Mi sentivo svuotata, priva di forze.

Lo sentii sospirare e poi avvicinare la sedia alla mia, sollevandomi il viso con due dita sotto il mento, facendo in modo che potessi guardarlo negli occhi.

Dovevo avere un aspetto orribile, con gli occhi rossi di pianto, la pelle tirata e pallida e il trucco sbavato, ma lui sembrò non farci caso, limitandosi a sistemarmi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

< Adesso basta piangere, d'accordo? > Mormorò, asciugandomi le lacrime e sorridendo appena.

< Mi dispiace... > Pigolai, singhiozzando ancora.

Mi strinse a sé senza preavviso, abbracciandomi ed io gli circondai il collo con le braccia, ricambiando la stretta e mettendoci tutta la forza di cui disponevo.

< Vuoi che ti accompagni alla Julliard? > Mi domandò, rifiutandosi di lasciarmi.

< Non ce n'è bisogno, posso prendere un taxi. > Mormorai.

< Allora ti accompagnerò in taxi. > Rispose pratico.

< Davvero, io... posso tornare da sola, Robert, sul serio. > Mi separai da lui e cercai di mandar via i residui di pianto.

< Ma io voglio accompagnarti. > Si imbronciò.

< Ok, d'accordo. > Acconsentii, tanto sarebbe stato inutile continuare a dirgli che potevo arrivarci da sola, che conoscevo la strada e avrei potuto percorrerla anche bendata.

Si alzò prima di me per avviarsi alla cassa e poi lo vidi mormorare qualcosa all'uomo ancora seduto al bancone, su uno degli sgabelli.

Attese che fossi pronta ed uscimmo, sostando qualche minuto all'entrata, il tempo di aprire un ombrello.

Trovare un taxi sarebbe stata un'impresa con quel tempaccio.

Miracolosamente, se ne fermò uno davanti a noi, dal quale scese una coppia di fidanzati e noi lo bloccammo prima che ripartisse, sistemandoci al suo interno.

< Dove vi porto, signori? > Ci chiese l'autista, sistemando lo specchietto retrovisore.

< Alla Julliard, per favore. > Risposi e lui, per tutta risposta, accese la radio e borbottò un ok, agli ordini. 

Mi rilassai contro il sedile e sospirai, Robert che sembrava interessato alla pioggia che scorreva sul vetro del finestrino.

< Ti piace vivere qui? > Mi domandò dopo qualche istante, cogliendomi di sorpresa.

Voleva capire se preferivo New York a Londra?

Feci spallucce.

< E' sempre stato il mio sogno quello di abitare a New York, quindi sì, mi piace vivere qui. > Optai per la verità.

Lui annuì pensieroso.

< Senti, per quello che ti ho detto... mi dispiace, non avrei dovuto attaccarti così. Insomma... hai deciso di aprirti con me e avrei dovuto apprezzarlo, invece di continuare a porti domande. > Mi osservò.

< Ci sono tante cose che devo ancora capire, ma... sì, insomma, sono contenta di averti detto come mi sono sentita. > Sorrisi appena e lui ricambiò.

Avevo fatto un passo avanti verso di lui; era già qualcosa, no?

Quando il taxi ci depositò di fronte alla Julliard, scendemmo entrambi ed io pagai l'autista, lasciandogli il resto, nonostante le insistenze di Robert.

< Ok, quindi, adesso mi hai accompagnata... > Soppesai, camminando fino alla panchina più vicina. Non volevo che si ripetesse l'episodio di due sere prima, non volevo dare modo a Elena di spettegolare ancora su di noi, senza contare che, se la Direttrice avesse creduto ai suoi vaneggiamenti circa un mio tentativo di reclutare Robert per il saggio di beneficenza, sarei stata esclusa dall'esibizione.

< Vuoi che vada via? > Mi chiese, seguendomi senza obiettare.

Feci spallucce e mi fermai, salendo sulla panchina e sedendomi sul bordo della spalliera, poggiando i piedi sulla seduta. Robert mi imitò, sedendomisi accanto.

< Mi piacerebbe vedere la tua stanza. > Continuò ed io, sorpresa, gli lanciai un'occhiata di rimprovero. Cos'era quello, un altro dei suoi tentativi di approccio? Mi sembrava di essere stata chiara su quel frangente.

< Non potresti, in ogni caso. > Risposi pratica. Le regole della Julliard erano severe, specialmente in materia di ospiti. 

< Perché no? > Mi chiese curioso.

< Perché avresti bisogno di un permesso, ma non li concedono così facilmente, quindi... > Mi guardai le scarpe, pensierosa.

< Quindi gli ex fidanzati non sono ammessi... > Scherzò ed io risi con lui.

Scossi la testa.

< E se mi intrufolassi dalla finestra? > Considerò dopo qualche istante.

< Ti sei immedesimato un po' troppo in Edward Cullen, signorino. > Scossi la testa e lui parve offeso.

< Hai visto i miei film. > Constatò sorridente l'attimo dopo, gli occhi scintillanti.

< Mi ci hanno costretta, e poi vedere è una parola grossa; li ho più che altro sbirciati. > Mi giustificai ed era la verità. Il suo viso, anche se coperto dal cerone bianco, mi faceva male e vederlo nei panni di un ragazzo/vampiro innamorato, ancora di più.

< Ti hanno costretta a partecipare anche alla premier, quindi. > Non era una domanda la sua e mi limitai ad annuire. Non aveva senso raccontargli bugie.

< Perché sei scappata? > Continuò, invece.

< Perché mi mancava l'aria e perché mi avevi riconosciuta e non volevo che mi venissi vicino. > Borbottai, lo sguardo basso.

Rimase in silenzio per un po', forse soppesando le mie parole.

< Senti, so che non vuoi essere mia amica, so che non vuoi farmi da guida perché temi di crearmi problemi con Kristen e adesso so come la pensi sulla nostra relazione, ma devo comunque chiedertelo. > Si interruppe ed io mi voltai a guardarlo, in attesa. Ero sicura che avrebbe sganciato una bomba, gettato alcol su una ferita ancora aperta ed ero altrettanto sicura che non sarei riuscita ad evitare l'esplosione, a tenere il controllo.

< Sei ancora innamorata di me? > Mormorò, così impercettibilmente, che pensai di essermelo sognato, pensai che fosse stata la mia mente a riportarmi una delle domande che più temevo; invece, me l'aveva davvero chiesto e sembrava ansioso di conoscere la mia risposta.

Arrossii e per poco non cominciai a piangere di nuovo. Mi schiarii la voce e tentai di apparire neutrale, indifferente, anche se dentro di me stava impazzando la tempesta.

< Io... ecco... è difficile rispondere così, su due piedi e mi hai colta alla sprovvista... > Temporeggiai, sperando di lasciar cadere l'argomento, ma era ovvio che lui non ne avesse la minima intenzione.

< Non è difficile, Candice; è solo un sì o un no, non c'è niente di così difficile. > Voleva la verità, lo capivo dal suo tono perentorio e sicuro.

< Cambierebbe qualcosa? > Chiesi invece.

< Forse. > Non era abbastanza. Anche io volevo la verità.

< Forse. > Ripetei come risposta alla sua domanda. Una mezza verità, come la sua.

< Forse?!? > Allargò gli occhi, scettico, perplesso e incredulo.

< Forse. > Ribadii, scrollando le spalle.

< Non è una risposta. > Mi fece presente, avvicinandosi appena.

< Cosa vuoi dirmi, Robert? Cos'è che vuoi chiedermi, in realtà? Vuoi sapere se sono ancora innamorata del ragazzo che ho conosciuto a sedici anni, quello con cui ho diviso la merenda, con cui ho camminato fino a scuola, grazie al quale ho imparato a nuotare e ad andare in bicicletta, a cui ho dato il mio primo bacio? Sì, sì che sono ancora innamorata di lui. Ma se vuoi sapere se sono innamorata del ragazzo che non vedo da tre anni, di cui ricordavo a malapena la voce, che ha una nuova vita davanti a sé e non può rimanere indietro ad aspettarmi, beh, non lo so, non so se sono innamorata di lui. > Ammisi francamente. Avevo deciso di aprirmi a lui e allora che avesse pure accesso a tutti i miei pensieri, erano suoi.

< Io non sono cambiato, Candice, sono sempre lo stesso. > Aveva gli occhi lucidi e tristi, lo stesso sguardo dell'aeroporto.

< Cosa vuoi che ti dica, Robert? Se ti dicessi che ti amo ancora, che non è cambiato nulla in questi tre anni, tu cosa faresti? Lasceresti Kristen? Saresti disposto a trasferirti a New York per starmi vicino? Non è così che funziona. > Bastava guardarci: non eravamo più gli stessi, nel bene e nel male, eravamo cambiati, cresciuti e nessuno dei due sarebbe stato disposto a rinunciare a quello che aveva guadagnato in quei tre anni. Saremmo stati felici per quanto? Due settimane, un mese, un anno? E poi, cosa sarebbe successo? Non eravamo più dei ragazzini, non potevamo più giocare. 

< Allora come funziona, Candice? Dimmelo. > Sorrisi alla sua richiesta. Se solo l'avessi saputo...

< Devo andare. > Dissi soltanto, scendendo dalla panchina.

< Allora è davvero un altro addio? > La sua voce mi raggiunse forte e chiara, nonostante il via vai delle macchine e il suono dei clacson, nonostante io gli stessi dando le spalle e mi fossi già avviata verso l'ingresso dei residence.

Mi fermai, ma non mi voltai.

Sì, lo era, aveva ragione.

Lasciai che mi raggiungesse, parandomisi di fronte e cercando i miei occhi.

< Non voglio perderti di nuovo. > Sussurrò.

Non risposi. Non potevo dire: anch'io non voglio. Dovevo lasciarlo andare, come aveva detto Arthur. Ci eravamo chiariti, o quasi, adesso non potevo più tentennare. 

< Lascia perdere Kristen, lascia perdere la mia carriera, o la tua, lascia perdere New York... non ci abbiamo neanche provato, come puoi dire che...? > Ma lo interruppi.

< Non posso, Robert. Non posso. Non ci riesco. > Scossi la testa.

< Perché? > Voleva urlarla quella domanda e lo capivo, perché avrei voluto urlare anch'io. La sua presenza, il suo profumo, i suoi occhi, mi stavano uccidendo, mi stavano facendo affogare lentamente e se non mettevo la parola fine a quella situazione, non sarei più riuscita a risalire.

< Perché so cosa succederebbe! > Sbottai.

< E' solo una possibilità, Candice! Come puoi essere sicura che accadrà quello che pensi? > Alzò la voce, esasperato e confuso.

< E se ti sbagliassi? Non lo sapresti mai. > Aveva l'affanno, come me.

< Correrò il rischio. > Risposi, cercando di scansarlo, ma lui non me lo permise; mi afferrò un braccio e mi riportò di fronte a lui, avvicinando il viso al mio e baciandomi, senza che io avessi la possibilità di protestare, di sottrarmi.

Il suo sapore dolce e fresco mi confuse e il cuore accelerò in automatico. Ricambiai il bacio, nonostante mi stessi dando della stupida, nonostante il campanello d'allarme che risuonava nella mia testa.

Quando ci separammo, entrambi con il fiatone, ignorai il mio cuore e lo spinsi via, correndo verso la scuola e richiudendomi la porta alle spalle con un tonfo sordo, ansimando.

Cosa ci stava succedendo, dannazione?

 

 

 

 

 

 

 

 

Set Abiti

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Capitolo 8
*** Rebuild ***


Salve!

Sono riuscita ad aggiornare prima di Ferragosto, visto? Ad una settimana esatta, volendo essere precise O.o

Ok, la smetto di gongolare per le coincidenze e vengo al dunque: credevo sarebbe stato più difficile scrivere questo capitolo, un po' perché sembrava non avessi l'ispirazione giusta per farlo, un po' perché è un capitolo particolare, nel senso che accade l'inaspettato e spesso scrivere di capitoli in cui accade l'inaspettato, è piuttosto complicato, perché non sei mai sicura se stai facendo la cosa giusta o no.

Probabilmente, nessuno cambierebbe idea nel giro di una settimana, o forse sì, non lo so, ma so che a molte di voi dovrà sembrare strana la reazione di Candice, perciò dico solo che Candice é strana, quindi, tranquillizzatevi, no panic, è tutto nella norma xD

Questo capitolo e quello successivo, saranno gli ultimi capitoli "tranquilli", perciò, godeteveli ;)

Come al solito, ricordo che, se volete, potete ascoltare il brano di cui vi fornisco il link come sottofondo al capitolo stesso, perché molto spesso sono canzoni che hanno ispirato le scene del capitolo, quindi è consigliabile ascoltarle durante la lettura :)

C'è nuovamente un set-vestiti per questo capitolo e, come al solito, inserirò il link alla fine perché non vi confondiate con il link sonoro ;)

Ringrazio, naturalmente, tutti coloro che hanno letto lo scorso capitolo, che hanno commentato, che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e che hanno inserito me tra gli autori preferiti *-* Un immenso GRAZIE mi sembra più che doveroso da parte mia *-*

Vi auguro un Buon Ferragosto, delle Buone Vacanze, se non ci siete già stati, e Buono studio per chi, come me, ha già iniziato a studiare per gli esami di settembre :)

 

Buona continuazione di settimana e...

 

 

 

 

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Things I'll Never Say-Avril Lavigne

 

 

Non avevo neanche avuto il tempo di frizionarmi i capelli bagnati con cura, che il mio cellulare squillò.

Temevo fosse Robert. 

Da quando l'avevo respinto, da quando ero scappata, rifugiandomi nell'unico luogo nel quale mi sentivo completamente al sicuro, la mia stanza nel residence della Julliard, era trascorsa una settimana; una settimana senza nessuna notizia da parte sua, senza un messaggio, senza una telefonata. Come in un tacito accordo, sembravamo aver deciso di non avere più niente a che fare  con l'altro: io mi ero chiusa nella danza, e lui, chissà, forse nel suo lavoro.

Sam e Sofia non avevano fatto domande, nonostante le ripetute insistenze di quest'ultima affinché raccontassi loro della serata, né tanto meno avevo più affrontato l'argomento con Arthur o con Lucas, sebbene fosse più difficile del previsto tacere con loro. Ero combattuta tra il rivelare tutto e il mantenere il silenzio, e, fino a quel momento, avevo decisamente preferito tenere tutto per me, anche se sapevo che, così facendo, avrei sofferto.

Osservai con occhio critico lo schermo che continuava ad illuminarsi e, alla fine, vinta dalla curiosità, mi avvicinai al letto, dove l'avevo poggiato distrattamente dopo aver disattivato la sveglia.

Deglutii saliva inesistente quando lessi il suo nome, corredato da una sua foto risalente a diversi anni prima.

Dire che non me l'aspettavo sarebbe stata una bugia.

In fondo, temevo e speravo che chiamasse.

Presi un respiro profondo, afferrando il cellulare, indecisa se premere o no il pulsante che avrebbe dato il via alla chiamata.

Se avessi atteso oltre, probabilmente avrebbe agganciato, così mi feci forza e risposi.

< Pronto? > Neanche lo chiamai per nome, convinta così di poterlo illudere che non avessi guardato lo schermo prima di accettare la chiamata.

< Candice, ti disturbo? > Rispose. Aveva la voce stanca e triste e, per un attimo, ebbi la tentazione di saltare i convenevoli inutili e chiedergli cosa c'era che non andava, perché era così triste.

Mi morsi la lingua, temendo di poter parlare senza riflettere.

< No, affatto. > Passeggiai per la stanza, raggiungendo la finestra e osservando i passanti.

< Non ci sentiamo da quella sera, perciò, ho pensato di... telefonarti, per sapere come stai... > Continuò, esitando. Quasi lo immaginai arruffarsi i capelli con una mano dall'imbarazzo. Doveva essere sempre così tra di noi? Dovevamo necessariamente passare dall'imbarazzo alla più totale confidenza e viceversa? Forse, era quello che succedeva quando una relazione aveva fine, quando decidevi di riprendere un rapporto interrotto da troppo tempo, con solo fine l'amicizia. Ecco perché le coppie non riuscivano ad essere amiche una volta terminato l'amore.

< Bene. Ho lezione tra un'ora... > Come se potesse importargli. Avevo mentito, non stavo affatto bene. Non dormivo da una settimana e a stento riuscivo a terminare il pranzo della mensa. Mi veniva da vomitare e, sì, suonava ridicolo, perché in fondo, avrei dovuto essere abituata alla sua assenza, avrei dovuto farmene una ragione, senza contare che avevo deciso io di dirgli addio quella sera e, anche se la serata non era andata esattamente come l'avevo pianificata, l'effetto era stato quello sperato: era sparito dalla mia vita per sette giorni, eppure, c'era comunque qualcosa che non andava. Mi sentivo vuota e sola e anche se la danza riusciva a colmarmi, non poteva nulla sui miei pensieri o sui miei incubi.

Avevo ricambiato il suo bacio, ero ancora palesemente innamorata di lui e forse anche lui lo era di me, allora perché non mettevo da parte le mie fragilità e le mie paure e cominciavo a vivere il rapporto che avevo sempre rimpianto? Magari aveva ragione lui, avrei potuto sbagliarmi su di noi; forse sarebbe andato tutto bene, anche a distanza e saremmo stati comunque in grado di costruirci un futuro. Perché non coglievo la palla al balzo e la facevo finita?

< Tu... tu stai bene? > Continuai dopo qualche istante, rendendomi conto che, forse, si aspettava la stessa domanda.

< Ho letto del saggio per Amnesty International, congratulazioni. Miss Fennec sarebbe fiera di te. > Eluse la domanda, ma in cambio, capii che stava sorridendo e che era sincero. L'immagine di Miss Fennec che sprizzava gioia da tutti i pori per un mio piccolo successo, fece ridere anche me. Era stata la mia prima insegnante di danza classica e, nonostante l'età, era sempre stata una donna attiva ed energica. Avevo sognato per anni di poter essere come lei, un giorno, quando avessi raggiunto la sua età.

< Grazie. Forse dovrei invitarla qui, lei e i miei genitori. Non l'ho mai fatto da quando studio alla Julliard. > Commentai, arrossendo l'istante successivo. Perché diavolo gli stavo parlando dei miei genitori?

Lui non rispose. Certo, cosa poteva importargli se invitavo i miei genitori a New York, se non l'avevo mai fatto prima, neanche per i saggi più importanti?

< Hai chiamato per qualcosa? > Gli domandai dopo qualche minuto di assoluto silenzio, solo il rumore del suo respiro attraverso la cornetta. Forse ero stata scortese, forse avrebbe pensato che volevo liquidarlo in fretta.

Perché, non è così? Hai detto che non vuoi avere più niente a che fare con lui!

Rispose per me la mia coscienza, ricordandomi di quello che mi ero ripromessa di fare: dirgli addio, lasciarlo andare.

< No, volevo solo... sai... non ci siamo più sentiti dopo quella sera e così... insomma, so che non vuoi avere più niente a che fare con me, però... non lo so, dovevo farlo. Non mi pento di averti baciata, Candice e non m'importa se per te la nostra relazione è senza futuro, non voglio perderti... non lo sopporterei, non dopo averti rivista... > Buttò fuori tutto d'un fiato, sorprendendomi.

Sì, certo, lui non era pentito ed io? Lo ero?

No.

La mia coscienza aveva ragione, non lo ero; in fondo, avevo ricambiato il bacio, anche se l'avevo spinto via non appena ci eravamo separati.

Sospirai, ricadendo sul letto.

< Ma ti sto sottraendo tempo prezioso... devi andare a lezione, quindi, forse è meglio che ti saluti... > Continuò, chiaramente in imbarazzo.

Non sapevo cosa dire, e una settimana non era sufficiente per cambiare idea su di noi, per impegnarmi in qualcosa in cui non credevo con tutta me stessa. Se fossi rimasta a Londra, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente; avremmo continuato a frequentarci, sarei ancora stata la sua ragazza, e anche se la sua carriera di attore fosse decollata, l'avrei aspettato, magari anche seguito. Le cose, però, erano diverse: io abitavo a New York, ormai, e non potevo chiedergli di lasciare il suo mondo per trasferirsi qui, né io potevo permettermi di abbandonare tutto: avevamo entrambi sacrificato molto per raggiungere i nostri obiettivi ed io non volevo dovergli recriminare nulla, in futuro.

Non risposi, paralizzata. Cosa avrei dovuto dire?

< Vuoi che smetta di telefonarti? > Non si arrese, determinato a cercare di farmi prendere una posizione decisa.

La sua voce mi era mancata in quella settimana, non potevo negarlo, ma anche lui mi era mancato: il suo modo di arruffarsi i capelli, i suoi occhi azzurri, il calore del suo corpo, i suoi abbracci e il modo gentile con cui mi sfiorava, facendolo sembrare un caso.

Chiusi gli occhi e cercai di concentrarmi su una risposta sensata da offrirgli: avevo sofferto tre anni per la sua assenza, poi l'avevo rivisto, rendendomi palesemente conto che lo amavo ancora, o perlomeno, che avrei potuto ancora farlo, lui aveva cercato di convincermi a darci una possibilità ed io l'avevo allontanato. I miei gesti non avevano senso, me ne rendevo conto. Sembravo perennemente in crisi pre-mestruale con lui: un secondo prima avrei potuto offrirgli la luna, il secondo dopo me ne ero già pentita e volevo riprendermi tutto.

Non potevo lasciare in sospeso quella situazione ancora per molto, specialmente perché la sera in cui mi ero ripromessa di risolvere tutto, non avevamo fatto altro che complicare ancora di più le cose. I baci complicano sempre tutto.

< Senti... ehm... so che mi sto comportando come una pazza sclerotica con te, e so che meriteresti che io ti dessi una risposta definitiva e che tutto finisse lì, ma la verità è che non ci riesco. Sono confusa, perché mi sei mancato, perché non riesco a pentirmi neanch'io di quel bacio e perché vorrei davvero che le cose funzionassero tra di noi, solo che non vedo alternative, non vedo soluzioni stabili e sicure. Cosa succederebbe se tu dovessi improvvisamente cambiare idea e renderti conto che hai sbagliato tutto, che non avresti dovuto seguirmi, tentare di riconquistarmi? Hai una vita adesso, lontano da me; ci sono altre persone nel tuo presente a cui io non posso affiancarmi... capisci cosa intendo? Con quale coraggio riuscirei a sottrarre loro tutto quello che hanno costruito fino ad ora con te? Io, che non mi faccio sentire da tre anni e che ti ho abbandonato quando ne avevi più bisogno? > Era sempre quello il punto; non riuscivo ad essere egoista, anche se lo desideravo con tutte le mie forze. Mi ero ripetuta in mente quelle cose da quando l'avevo rivisto, da quando mi aveva seguito fino alla Julliard e non riuscivo a smettere di pensarci; d'altronde, come avrei potuto?

< Devi smetterla di incolparti per quello che è stato, Candice. Ma non capisci? Per me è stato difficile, ho sofferto, ma cos'altro avrei potuto fare, in quale altro modo avrei potuto reagire? Non importa se abbiamo fatto degli errori, se ci siamo fatti del male, se non siamo stati in grado di essere perfetti. Tutti sbagliano, l'importante è riuscire a rimediare. > Rispose con sicurezza.

< Come? Come potrei rimediare? > Mi trattenni dal piangere.

< Dandoci un'altra possibilità, Candice, ecco come. Non importa se sarà difficile, non importa se litigheremo, se non andrà come vorremmo e non importa neanche se il lavoro ci costringerà a separarci. > Per lui era tutto così semplice, eppure, aveva ragione, forse l'unico modo di riuscire a rimediare a quello che gli avevo fatto, era proprio fidarmi di lui e darci la possibilità di ricominciare.

< E Kristen? Voi due siete una coppia, no? > Tirai su col naso, lanciando un'occhiata alla sveglia. Mancavano trenta minuti alla prima lezione della giornata, e io non avevo ancora fatto colazione, né mi ero vestita.

< Le ho detto di noi... insomma, non c'è mai stato niente di "serio", stavamo soltanto provando a diventare qualcosa di più, ma non ne sono mai stato così sicuro, perciò... non so, ho preferito lasciar perdere... > Rispose, e quasi lo immaginai fare spallucce e poi arruffarsi ancora i capelli.

< Credi che noi saremo qualcosa di serio? > La mia domanda era lecita. Forse voleva provare anche con me a costruire qualcosa di più importante, forse no, ma io avevo bisogno di saperlo per non rischiare di farmi del male.

< Lo sei sempre stata, Candice, lo sei sempre stata. > E lo sentii sorridere. Sorrisi anch'io, inconsapevole. Dovevo essere anche arrossita, perché sentivo caldo.

< O-ok, forse posso farlo. Cercherò di non essere la solita pessimista. > Potevamo riuscirci. Insieme.

< D'accordo, ok... cioè... fantastico! Ehm... vuoi che passi a prenderti, stasera? Potremmo fare una passeggiata in centro... o quello che vuoi... > Il suo tono di voce era concitato, esultante, sembrava un'altra persona rispetto a quando la nostra conversazione era cominciata.

Risi della sua euforia e mi lasciai contagiare.

< Sì, d'accordo, perché no. > Risposi.

< A stasera, allora. Buona giornata. > Agganciò senza neanche lasciarmi il tempo di rispondere e anch'io finii di prepararmi con la testa sulle nuvole, concentrata com'ero sull'appuntamento di quella sera.

Avremmo tentato di ricominciare, di riprendere le redini di ciò che ci eravamo entrambi lasciati alle spalle e sapevo che sarebbe stato difficile, sapevo che avremmo dovuto affrontare degli ostacoli, ma, stranamente, ero fiduciosa e avevo intenzione di impegnarmi affinché le cose si sistemassero.

 

Per il resto della giornata, avevo cercato di focalizzarmi solo sulla danza. Avevamo delle coreografie da studiare e le maestre si aspettavano da noi impegno e dedizione, specie perché avremmo rappresentato una delle Accademie di danza più famose al mondo durante il saggio per Amnesty International.

Avevo cercato di comunicare la notizia agli altri, ma anche se ebbi la possibilità di parlare con Arthur per gran parte della mattinata, complici le lezioni che condividevamo, lui sembrava preso solo ed esclusivamente dai nuovi passi e dalle nuove prese, così, non avevo avuto modo di introdurre l'argomento.

Durante il pranzo, prima che si unissero a noi anche i ragazzi, ero riuscita ad accennare qualcosa a Sofia e a Sam e avevo loro promesso che avrebbero potuto aiutarmi a scegliere cosa indossare per quella sera, prima che fuggissero a lezione, lasciandomi sola con Lucas e Kevin, uno dei ballerini più anziani del nostro gruppo: per lui era ormai l'ultimo anno alla Julliard e stava cercando di godersi gli ultimi momenti con tutte le persone che aveva conosciuto e che gli erano state accanto. Aveva già firmato un contratto per l'American School Ballet e, anche se avrebbe continuato ad abitare in America, si sarebbe dovuto trasferire in un altro stato e le occasioni per incontrarlo sarebbero state minime.

Le ragazze mi stavano già aspettando quando raggiunsi la mia stanza, appena terminate le lezioni.

< E' un appuntamento vero questo? > Mi domandò Sam, continuando a frugare nel mio armadio. Avevano così insistito per aiutarmi, che non avevo saputo dire di no, anche se, fosse stato per me, avrei indossato le prime cose che sarei riuscita a tirare fuori.

< Non lo so, ma non credo voglia portarmi fuori a cena o cose del genere... > Risposi allarmata, vedendola estrarre uno degli odiosi vestiti da sera che mia madre mi aveva costretta ad inserire in valigia, come se dovessi partecipare a un galà e non fare la ballerina.

< Sai cosa dovresti fare? Mettere in risalto i tuoi punti forti e farlo capitolare. > Ribadì Sofia, rovistando sulla mensola delle maglie.

< E quali sarebbero i miei punti forti? > Avevo dei punti forti? Sarebbe dovuta essere questa la vera domanda. Ero piuttosto alta, e probabilmente avevo delle belle gambe e se avessi dovuto rispondere alla domanda cosa ti piace di più di te, probabilmente avrei detto i capelli, ma non vedevo come potesse essere messo in risalto tutto ciò.

< Beh, hai delle belle gambe e un bel viso. > Due su quattro. Evidentemente non ero così dotata. 

< Dovresti indossare un vestito. > Le fece eco Samantha, sorridendo.

< State scherzando, vero? Sembrerò un manichino! > Protestai, mettendo il broncio.

< Sciocchezze! Perché non provi questo? > Sofia mi lanciò un vestito estivo che non mettevo da... beh, forse dal matrimonio di mio cugino, cinque anni prima, e che mi faceva assomigliare ad una bambina dell'asilo. Era senza spalline e, più che mettere in risalto i miei punti forti, metteva in evidenza il fatto che fossi piatta come una tavola da surf, esattamente come una bambina dell'asilo. Non sarei mai uscita conciata in quel modo ridicolo.

< Sembro una scolaretta, Sof! Non posso andare in giro così! > Borbottai, osservandomi allo specchio.

Le mie amiche, però, non sembravano del mio stesso avviso, perché mi sorridevano attraverso la superficie riflettente e Sam stava già tentando di sistemarmi i capelli in uno chignon poco impegnativo.

< Stai benissimo, invece! Mette in risalto il tuo punto vita e le tue gambe. > Ribadì lei.

< E le mie tette inesistenti... > Sbuffai. Era inutile provare a discutere con loro. Perché avevo deciso di farmi aiutare? Ero capace anch'io di vestirmi!

< Non sono così importanti! > Terminato lo chignon, Sam mi osservò entusiasta.

< Ah, no? > Ero scettica, infatti, inarcai le sopracciglia, voltandomi verso di lei e dando le spalle allo specchio.

< No! E poi è ridicolo, Robert non si è mai lamentato, o sbaglio? > Mi chiese con aria maliziosa, facendomi arrossire vergognosamente.

< Eravamo dei ragazzini! > Abbassai lo sguardo, torturandomi le mani.

< Vuoi dire che non avete mai... > Fece un gesto piuttosto eloquente con le mani ed io divenni di fuoco. Non avevo mai parlato con loro di ragazzi in quel senso, e dovevo ammettere che era piuttosto imbarazzante.

< Sì, certo che sì, ma... insomma, non vuol dire niente, no? > Non avevo certo la loro esperienza, considerato che Robert era stato il mio unico ragazzo, ma non ero più vergine ormai da diversi anni, però, non mi si era mai presentata l'occasione di discutere con Robert del mio seno. Insomma, era imbarazzante parlarne con delle ragazze, figuriamoci con un ragazzo!

< Se non si è lamentato, vuol dire che le trova comunque attraenti. > Fece spallucce, semplice.

< Certo, attraenti... > Borbottai.

< Beh, comunque stai benissimo. Un filo di trucco e sarai perfetta. > Samantha afferrò la sua trousse, contenta di potersi dare da fare.

Quando mi osservai allo specchio ad opera completa, quasi non mi riconobbi: nonostante Sam non avesse fatto altro che definire lo sguardo con la matita nera e applicare un po' di fard sulle guance, mi sentivo comunque diversa.

Nonostante le insistenze delle mie amiche affinché indossassi un paio di scarpe col tacco, io fui irremovibile: indossai le mie solite Converse e il cappotto.

< Ti aspettiamo in piedi? > Mi prese in giro Sofia, quando Robert mi chiamò, annunciando che mi stava aspettando.

Io risposi con una linguaccia e mi lasciai precedere fuori dalla stanza, dove le salutai e augurai loro la buonanotte, anche se erano solo le nove di sera.

Quando uscii e lo vidi, esattamente di fronte a me, non potei reprimere al mio cuore un balzo. Era come vederlo per la prima volta, ogni singola volta.

Arrossii e lui sorrise.

< Ciao... > Mormorai, richiudendo la porta dietro di me.

< Ciao. Sei bellissima. > Rispose, osservandomi.

Alzai gli occhi al cielo e sventolai in aria una mano, come a minimizzare la cosa.

< Le mie amiche mi hanno convinta ad indossare un vestito, ma non ho voluto saperne dei tacchi. > Ammisi, facendolo ridere.

< Lo vedo. Dovrò ringraziarle non appena avrò l'onore di conoscerle. > Replicò.

< Smettila di adularmi! Non sto così bene... > Lo pensavo davvero, non era una tattica per ricevere più complimenti.

< Stai scherzando, spero. I miei complimenti sono sinceri, Candice. > Adoravo il modo con cui pronunciava il mio nome.

< Ok... beh... grazie... > Farfugliai appena.

Lui si avvicinò per baciarmi una guancia con delicatezza e per abbracciarmi, costringendomi ad alzarmi sulle punte: forse, dopotutto, mettere i tacchi non sarebbe stata una cattiva idea.

< Allora, dove ti va di andare? > Mi domandò, allontanandosi verso le panchine dove ci eravamo seduti una settimana prima.

< Dove vuoi. > Risposi, facendo spallucce.

< Se vuoi possiamo cenare in albergo e noleggiare un film. > Propose. Avevo l'impressione che fosse la prima volta che uscivo con lui, come un primo appuntamento. Era una sensazione strana, ma anche piacevole, perché sapeva di riscoperta e di nuovo.

< Come ai vecchi tempi. > Sorrisi.

< Come ai vecchi tempi. > Ripeté, prendendomi per mano e facendo intrecciare le nostre dita.

Non potevo ancora cantare vittoria, o forse non volevo illudermi, forse non ero ancora pronta per convincermi totalmente che niente sarebbe andato storto e che avremmo vissuto quella relazione esattamente come volevamo viverla, ma mi sentivo bene, al sicuro e per il momento bastava.

 

 

 

 

Set Abiti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 9
*** Where Would We Be Now? ***


Salve!

Il venerdì é il mio "giorno delle consegne", per cui eccomi qui a "consegnarvi" questo nuovo capitolo. L'ho terminato oggi pomeriggio, per cui è fresco di scrittura ed è anche più lungo del previsto O.o

Tornando a parlare del capitolo, è il momento del "grande appuntamento", anche se devo confessarvi che non era esattamente così che avevo previsto venisse fuori il capitolo. A mia discolpa, posso solo dire che scoprirete un altro lato dei nostri personaggi, un lato un po' più libero e intraprendente, anche.

I "guai", però, non sono finiti e se ne avrà un accenno già nel prossimo capitolo. Pensavate che fosse tutto così semplice? :)

Ci tengo a ringraziare tutte le persone che hanno letto lo scorso capitolo, che hanno commentato, che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e che hanno inserito me tra gli autori preferiti: GRAZIE! *.* Come farei senza di voi?

Purtroppo, non posso promettervi aggiornamenti puntuali, perché ho tre esami da sostenere a settembre e inoltre ho all'attivo un'altra Ff nel fandom Twilight (per chi non la conoscesse e fosse interessata, questo è il link: Dreams are Wishes) che sta volgendo al termine e vorrei concentrarmi maggiormente su quella per non far attendere troppo coloro che la seguono, visto che siamo alle battute finali, ma farò del mio meglio per aggiornare anche questa al più presto.

Ultime note al capitolo e poi sparisco, giuro: l'hotel in cui alloggia Robert si trova davvero a New York, non molto lontano da Central Park, ed è un hotel di lusso, of course ;) se volete un assaggio del suo aspetto e delle camere, vi basta andare sul loro sito: Hotel Sofitel-New York City.

Ho riletto e ho cercato di sistemare gli strafalcioni, ma non posso assicurarvi la perfezione assoluta, specialmente nell'ultima parte, perciò, scusate gli errori :)

 

 

Buon fine settimana e...

 

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Where Woul We Be Now-Good Charlotte

 

 

 

 

Camminammo verso Central Park, godendoci l'aria frizzante della sera e le luci dei lampioni e dei palazzi che ci circondavano, senza avvertire il bisogno di parlare.

Non potevo non ammetterlo: ero imbarazzata, come sempre in sua presenza. Non riuscivo neanche a spiegarmene il motivo; forse era per le nostre mani unite, per la telefonata di quella mattina, forse, per la consapevolezza che avremmo trascorso un'intera serata da soli, a sgranocchiare pop-corn davanti ad un film che, ne ero convinta, avrebbe insistito per scegliere lui, perché io, di film, non capivo niente, come ripeteva sempre, non riuscendo, tuttavia, ad offendermi, anche se fingevo di essere profondamente arrabbiata; o forse era perché, dopo tre lunghi anni, avevo avuto il coraggio di confessargli il perché del mio abbandono, il mio voler troncare qualsiasi tipo di rapporto con lui, lui che era stato tutto il mio mondo sino ad allora.

Alzai gli occhi, sino a quel momento impegnati ad osservare le mie Converse consunte, osservando il suo profilo perfetto, sorridendo.

Non avevo mentito, mi sentivo al sicuro con lui, come se neanche il più terribile cataclisma terrestre avesse potuto ferirmi, ed era vero, non c'era bisogno di parole per esprimere quello che sentivamo in quel momento, perché ero sicura che Robert provasse le mie stesse sensazioni, eppure, mi sembrava ancora tutto un sogno, era ancora tutto troppo assurdo per essere vero.

Notò i miei occhi su di lui e aggrottò le sopracciglia, perplesso, ricambiando il sorriso.

< Cosa c'è? > Mi domandò in evidente imbarazzo.

Feci spallucce, distogliendo lo sguardo dal suo viso e puntandolo verso la strada che stavamo percorrendo.

< Per te non è strano? Voglio dire, non ti sembra irreale questa situazione? > Gli chiesi dopo qualche istante.

< Irreale tanto quanto lo è stato non averti accanto. > Rispose, stringendo la presa sulla mia mano.

Arrossii e lui se ne accorse, sorridendo appena e scuotendo la testa.

< Ci hai ripensato? Vuoi tornare indietro? > Mi chiese, rallentando il passo, scrutandomi.

< No! No, assolutamente no! > Risposi con foga. < E' solo che... insomma... mi chiedevo se tutto tornerà come prima... come tre anni fa. > Spiegai, stringendomi a lui, come se qualcuno potesse portarmelo via in quell'istante, come se ogni persona che ci passava accanto, potesse essere un potenziale ladro, pronto a separarmi da lui.

< Abbiamo tutto il tempo che vogliamo, Candice. Il nostro rapporto può solo migliorare. > Mi tranquillizzò, slegando la presa dalla mia mano, circondandomi la vita con un braccio per sentirmi più vicina.

Mi strinsi a lui, affondando il viso nel bavero della sua giacca leggera, inspirando il suo profumo dolce e fresco, quello che avevo cercato di riportare alla memoria innumerevoli volte durante quei tre anni di lontananza.

Svoltammo sulla 44esima strada, nuovamente circondati soltanto dal rumore dei taxi e delle auto che ci sfrecciavano accanto e dal chiacchiericcio di qualche gruppo di amici che ci sorpassava lungo il marciapiede, facendomi sorridere, perché avvertivo la stretta di Robert farsi più decisa e le sue labbra sfiorarmi i capelli.

< Siamo arrivati. > Mi sussurrò dopo qualche istante, mentre un portiere dall'aria distinta si preoccupava già di aprirci le porte d'ingresso dell'albergo.

Sorpassammo il consierge, che Robert salutò con un cenno del capo, e ci dirigemmo direttamente agli ascensori.

< Non hai bisogno delle chiavi? > Chiesi perplessa, indicando il banco poco distante.

L'ambiente trasudava lusso da tutti i pori e, anche se sapevo che la maggior parte delle star, durante le visite in capitali importanti, alloggiasse in alberghi di lusso, di quelli che un normale turista non avrebbe mai potuto permettersi, feci fatica ad immaginare Robert in una suite lussuosa, perfettamente ordinata, con lo champagne nel frigo-bar, la tavola già apparecchiata, la cena già servita e magari anche un piccolo terrazzo con vista sull'intera città.

Era una star a tutti gli affetti, certo, ma non era il suo ambiente e sapevo che non si sentiva a suo agio lì, servito e riverito come se fosse un Capo di Stato.

Ricordavo ancora la sua camera a Barnes, perennemente in disordine, con i vestiti che si accumulavano in un angolo e in mezzo ai quali non avresti saputo distinguere quelli sporchi da quelli puliti, cd sparsi un po' ovunque, il letto ancora da rifare e la chitarra poggiata sul cuscino, sempre pronta all'uso.

Non rispose, spingendomi gentilmente verso il vano dell'ascensore che ci aveva appena raggiunti, spingendo il pulsante corrispondente al piano e sorridendomi.

< Non esistono chiavi qui; ad ogni stanza è associato un codice, basta digitarlo per avervi accesso. > Spiegò, afferrandomi gentilmente un polso e avvicinandomi a sé.

Avevo voglia di baciarlo, anche se avrebbe significato affrettare troppo le cose, anche se, probabilmente, non sarei riuscita a fermarmi, dopo.

Mi scrutò a lungo, accarezzandomi la schiena, non distogliendo mai gli occhi dai miei.

Allacciai le braccia intorno al suo collo, spingendomi ancora verso di lui, gli occhi socchiusi. Lui sembrò annusarmi, solleticandomi una guancia con la punta del naso, delineando il profilo della mascella con le labbra, fino al mento.

< Abbiamo tutto il tempo che ci serve... > Sussurrò contro la mia bocca, facendomi rabbrividire di piacere.

Sorrise, baciandomi un angolo delle labbra, costringendomi a gemere insoddisfatta, prima che il plin dell'ascensore ci avvisasse che eravamo giunti a destinazione.

Quasi rise, trascinandomi lungo il corridoio deserto, verso la sua stanza, l'ultima.

La serratura scattò non appena Robert digitò il codice giusto. Mi precedette all'interno, rifiutandosi di abbandonare la mia mano e, per un attimo, quando osservai la stanza, ebbi voglia di ridere e quasi lo feci, facendomi sfuggire uno sbuffo così bizzarro, che Robert si voltò per osservarmi, arrossendo l'istante successivo. La sua stanza era un disastro: fogli sparsi sul lungo tavolo del salottino, pass di qualche convention abbandonati in ogni dove, copioni da leggere stipati in un angolo, proprio accanto al letto, jeans e magliette sparse un po' ovunque, una valigia aperta davanti all'armadio, anch'esso dalle ante spalancate, ma dalle grucce vuote, segno che, probabilmente, aveva cercato di sistemare tutto il guardaroba, rinunciandoci l'istante successivo, libri accatastati su entrambi i comodini, scarpe alla rinfusa sulla moquette e l'immancabile chitarra sulla poltrona, come una regina che domini l'intera stanza; sembrava essere l'unica cosa ad avere un senso in tutto quel disordine.

Ed io che pensavo che una suite non gli si confacesse.

< Scusa il disordine, è che non ho mai tempo di riordinare e... > Raccolse qualche maglietta da terra, infilandola alla rinfusa nell'armadio, richiudendo la valigia.

Non riuscii a rispondere, sicura che, se avessi aperto bocca, sarei scoppiata a ridergli in faccia e non mi sembrava il massimo dell'educazione per un primo appuntamento.

Mi liberai del cappotto, sistemandolo sull'unico pouf libero della stanza, e mi aggirai per la suite come se dovessi valutare un appartamento, come se dovessi comprarla: le tende avorio alle finestre, i divani rossi, i tavolini di legno e le sedie intagliate, il terrazzino con qualche sedia e un tavolo di legno verde e fiori dappertutto, che donavano una nota di colore all'ambiente.

< Non c'è nessuno che riordina per te? > Gli domando, riuscendo a reprimere il divertimento.

Sbuffò e si scompigliò i capelli, sistemando qualche foglio.

< Dovrebbero, ma in realtà, poiché alloggerò qui per qualche mese, ho deciso di essere indipendente. Sai, niente body-guard, niente manager, niente autista e niente inservienti. > Rispose dopo qualche istante, attraversando un corridoio stretto che conduceva ad una piccola cucina attrezzata con l'indispensabile.

Lo seguii scettica. Era qualcosa che non mi aspettavo, ma che, in fondo, reputavo abbastanza da lui per essere accettata. Quando i ballerini della Julliard venivano chiamati ad esibirsi a qualche evento, anche privato, erano circondati da decine di persone: truccatori, parrucchieri, stilisti, manager, insegnanti, coreografi e, avendo vissuto anch'io un'esperienza del genere, potevo capirlo; sapevo quanto potesse essere frustrante, ma, soprattutto, limitante. Avevi degli orari da rispettare, un vestito che qualcun altro aveva scelto per te, un'acconciatura che il parrucchiere aveva già deciso essere perfetta per l'abito e un trucco che, il più delle volte, non ti soddisfaceva abbastanza. Se per me era stato stressante, non osavo immaginare per lui, costantemente impegnato in attività di promozione, interviste, press conference, servizi fotografici, incontri con i fan e premier.

< Questo significa che stasera cucinerai tu? > Gli domandai non senza un leggero tremore nella voce.

Le doti culinarie di Robert non erano esattamente quelle che avrei definito... ecco... perfette. Era riuscito a bruciare una torta, un pomeriggio, a casa mia, nonostante mi fossi proposta per aiutarlo. Era scattato l'allarme anti-incendio e il cane dei vicini aveva cominciato ad abbaiare come se, di lì a poco, avesse dovuto scatenarsi una catastrofe. Risultato? La torta era completamente carbonizzata e a mio padre era toccato imbiancare nuovamente le pareti della cucina.

< E anche se fosse? > Mi lanciò un'occhiata di sfida, armeggiando in uno scaffale.

< Ehm... no, certo, non ci sarebbe nessun problema... > Arrossii. Ero una pessima bugiarda, me ne rendevo conto da sola.

< Ho ordinato cinese, se anche per te va bene. > Alzò gli occhi al cielo, aprendo il frigorifero ed estraendo due confezioni di cartone.

Sospirai di sollievo.

< Non sei divertente, sai? > Mi accusò, recuperando anche le bacchette e due lattine di Coca.

< Stiamo salvaguardando l'albergo, lo sai? Vuoi far evacuare tutti gli ospiti? > Risposi pratica.

< Ah-ah. Non sei più brava di me ai fornelli. > Lo aiutai a portare il tutto nel salottino, dove era sistemata anche la tv.

< Io non brucio i toast. > Asserii, facendogli una linguaccia.

< Oh, andiamo! E' successo una volta sola! > Brontolò, accomodandosi sul divano, dopo aver poggiato il tutto sul tavolino da caffè lì di fronte.

< Un migliaio di volte, vorrai dire! > Lo corressi, sedendomi accanto a lui.

Sbuffò e per vendicarsi mi pizzicò un fianco, facendomi saltare come una rana sul posto.

< Non vale! Sto dicendo la verità! > Mi difesi, sorridendo.

Si schiarì la voce e afferrò il telecomando, accendendo la tv.

< Allora, quale film vorresti vedere? > Mi domandò, osservandomi.

< Non mi lascerai scegliere... > Risposi indifferente, giocherellando con un cuscino.

Eravamo distanti solo qualche centimetro, eppure era come se fosse lontano due metri da me; la distanza sembrava incolmabile.

< Perché no? > Allungò una mano nella mia direzione, sfiorandomi i capelli acconciati, lo sguardo pensieroso.

Lo osservai anch'io e il mio cuore, al solito, mancò un battito. Non era davvero cambiato nulla. O meglio, qualcosa era cambiato, ma aveva ragione lui, era rimasto lo stesso Robert di sempre, riuscivo a leggerglielo negli occhi. Avrebbe potuto decidere di cenare in un ristorante alla moda, di mostrarsi ai fotografi con me, di far parlare di sé, come tutte le star dello show business, invece, aveva deciso di non mettermi in imbarazzo, di cenare in albergo e di vedere un film, una cosa che, tutto sommato, non mi sarei aspettata.

< Ti costringo a vedere un film horror se non decidi in fretta. > Mi minacciò bonariamente, solleticandomi un braccio con un dito.

< Non ho più paura dei film horror da quando avevo quindici anni, Robert. > Alzai gli occhi al cielo, avvicinandomi di più a lui, sistemandomi il vestito perché non si sgualcisse.

< Ma davvero? > Aggrottò le sopracciglia, incredulo.

Annuii.

In realtà, tremavo sempre come una foglia nelle scene di tensione e in quelle più cruente mi coprivo gli occhi o, al massimo, mi facevo schermo con un cuscino o con la prima cosa che riuscivo ad afferrare.

< Vuoi che ti metta alla prova? > Sorrise beffardo, cambiando canale.

< Come vuoi. > Incrociai le braccia al petto, decisa a non dargliela vinta.

La sua scelta ricadde su Scream 2; era uno dei film che avevo più detestato da adolescente, perché la maschera ispirata al famoso quadro di Munch, mi faceva fare incubi orrendi per settimane intere. Non avevo avuto più la forza di guardarlo.

Mi schiarii la voce, osservando interessata la stoffa del mio vestito, conscia che Robert stesse continuando a lanciarmi occhiate di sospetto.

Alla prima apparizione della fantomatica maschera, ebbi un sussulto così violento, che per poco non mi sfuggì di mano il contenitore di cartone del cinese, dal quale avevamo cominciato a mangiare di comune accordo.

Robert rise divertito, mentre io mi limitai semplicemente a lanciargli un'occhiata truce e a mettere da parte le bacchette: non avevo più fame. Incrociai nuovamente le braccia al petto, indispettita dal suo atteggiamento, e continuai a guardare il film con indifferenza, anche se in realtà ero sulle spine, come se fossi seduta su un cactus.

Poi, senza preavviso, dopo quasi un'ora di film, durante la quale avevo cercato di ricordarmi di respirare e di non saltare in aria dalla paura, avvertii la sua presa dolce intorno al mio polso e, automaticamente, mi voltai a guardarlo, scontrandomi con un sorriso disarmante e dolcissimo.

< Sei troppo lontana; vieni qui. > Mormorò ed io ubbidii, dimentica di essere arrabbiata con lui.

< Queste possiamo anche toglierle. > Si piegò per liberarmi delle Converse, sollevandomi le gambe per farmele poggiare sulle sue.

Eravamo ancora più vicini così, considerato che non potevo non appoggiarmi alla sua spalla per stare più comoda. Arrossii, maledicendo Sam, che mi aveva convinta ad indossare un vestito. Ero costretta a mantenere le gambe rigide come un pezzo di legno, nella paura che la gonna potesse scivolare per colpa di un mio movimento, e mostrare l'intimo.

Robert strinse la mano sulla mia, scrutandomi. Non era molto interessato al film e neanche io.

< Sei arrossita. > Notò, sorridendomi.

Abbassai lo sguardo, cercando di darmi un contegno.

< Se non ti senti a tuo agio, puoi dirmelo; forse sto correndo troppo. > Sembrava confuso.

Nonostante mi sentissi il viso in fiamme, sollevai lo sguardo e incrociai i suoi occhi, prima di avvicinarmi per baciargli un angolo della bocca, leggera.

< Va tutto bene, sto solo maledicendo le mie amiche per avermi convinta ad indossare un vestito. > Risposi sincera, sistemandomi la gonna.

< Ti sta' d'incanto, hanno fatto bene. > Sorrise, baciandomi una tempia con premura.

Ricambiai il sorriso ed ebbi nuovamente voglia di baciarlo, di sentire il suo profumo invadermi le narici, di immergere le mani tra i suoi capelli scompigliati e morbidi.

Lo osservai mordersi le labbra e soffermare lo sguardo sulle mie: forse, dopotutto, voleva baciarmi anche lui.

< Ho detto che avevamo tutto il tempo del mondo... > Sussurrò, avvicinandosi di più al mio viso. < ... ma non credo di riuscire ad aspettare. > Continuò, baciandomi l'istante successivo, lasciando che mi aggrappassi al suo collo, mentre lui si premurava di sciogliermi i capelli.

Il suo profumo mi invase, drogandomi.

Mi spinse dolcemente sul divano, lasciandomi sprofondare tra i cuscini morbidi, continuando a baciarmi, insinuandosi tra le mie gambe, i palmi delle mani aperti accanto al mio viso per non pesarmi addosso.

Gli scompigliai i capelli e, nonostante continuassi a rispondere ai suoi baci, non potevo smettere di pensare alle sue parole, al fatto che avevamo tutto il tempo del mondo. Era davvero così? Sarebbe stato davvero così? Quando il suo soggiorno a New York sarebbe giunto a termine, cosa sarebbe successo?

Si separò dalle mie labbra a fatica, con dispiacere quasi, lasciandomi affannata.

Gli sorrisi, continuando a giocherellare con i capelli più corti della nuca.

< Mi sono lasciato un po' andare... scusami... > Arrossì appena, nervoso e imbarazzato.

< Non devi scusarti. A me non è dispiaciuto affatto. > Registrai con un secondo di ritardo le parole che avevo appena pronunciato. Certo, non mi era dispiaciuto il suo assalto, ma davvero l'avevo detto ad alta voce?

Rise, nascondendo il viso nella curvatura della mia spalla, costringendomi a rabbrividire.

< Mi dispiace per la storia del film horror. Davvero. > Mormorò, tornando a guardarmi negli occhi.

< Non importa. > Raggiunsi le sue labbra per un bacio leggero.

< Perché non rimani? > Mi domandò con candore qualche istante più tardi, baciandomi la gola e poi il mento.

Non avevo mai dormito fuori dal residence. Il regolamento non ce lo vietava, l'importante era rispettare l'orario delle lezioni della mattina seguente, ma potevo farlo?

Avevamo dormito insieme innumerevoli volte, da amici prima, e da fidanzati, poi, però adesso la situazione era diversa: cos'eravamo, una coppia, una specie di amici di letto, anche se, tecnicamente, non eravamo andati oltre i baci?

< Oh... ehm... insomma... tu credi che sia... il caso? > Chiesi, titubante.

Fece spallucce.

< E' una proposta, puoi sempre rifiutare. > Mi fece presente.

< Sì, lo so, solo che... ecco... voglio dire... tu, noi non... > Cosa stavo cercando di dire? Non ne avevo idea, sapevo solo che mi stavo comportando come una ragazzina alla sua prima cotta.

Beh, forse lo ero davvero, cotta, e a puntino, anche.

< Stai cercando di chiedermi se faremo l'amore? > Sorrise furbo, abbagliandomi con i suoi occhi color del cielo.

< Ti sembro quel tipo di ragazzo, Candice? > Continuò, baciandomi il collo, continuando verso la clavicola.

Si aspettava davvero che rispondessi?

< Credi che potrei davvero approfittare di te, senza il tuo consenso? > Trattenni il respiro quando raggiunse la scollatura con le labbra.

Non riuscivo a muovermi, ero paralizzata dalle sue attenzioni.

< Credi che farei l'amore con te al nostro primo appuntamento? > Spostò con le labbra la bretella del vestito, facendomi temere che sarei rimasta nuda davanti a lui, invece, mi baciò soltanto le braccia, per poi tornare a guardarmi negli occhi.

Erano azzurro scuro, adesso, lucidi di desiderio e di dolcezza.

< Credi che potrei farlo? > Sussurrò. Voleva davvero che rispondessi.

< No...? > Titubai, indecisa. In ogni caso, non ero neanche sicura che gliel'avrei permesso; non sapevo ancora cosa significavo per lui, cos'eravamo insieme e, se solo una settimana prima, scambiarci un bacio, aveva solo aumentato la confusione che mi regnava in testa, non osavo pensare a cosa sarebbe successo se ci avessi fatto l'amore.

Mi baciò, trascinandomi verso l'oblio, rendendomi dipendente dal suo sapore.

< Voglio solo dormire con te. > Chiarì con un sorriso.

Annuii.

Si rialzò, spegnendo la tv e, prima che potessi anche solo tentare di mettermi in piedi, lui mi sollevò senza sforzo, cogliendomi alla sprovvista.

< Posso camminare anche da sola, sai? > Borbottai, ma in realtà era bello sentire ancora il calore del suo corpo contro il mio.

< Sei un'ospite e gli ospiti vanno trattati con riguardo. > Spiegò, lasciandomi poggiare i piedi a terra solo una volta raggiunto la camera da letto.

< Dovrò prestarti qualcosa di mio per dormire: camicia o T-shirt? > Mi domandò, rovistando nella sua valigia.

< Una T-shirt andrà benissimo, grazie. > Mi guardai intorno, leggermente a disagio.

Mi porse una delle maglie più semplici che aveva, di quelle che puoi utilizzare per andare a fare palestra, leggermente accollata. Era leggermente sgualcita all'altezza dell'addome ed era semplicemente enorme; avrebbe potuto contenere due persone.

< Su di me sembrerà una vestaglia. > Commentai, rendendomi conto che lui aveva già provveduto a liberarsi della maglia e stava armeggiando con la cintura per disfarsi anche dei jeans.

Arrossii e prima di trovarmi del tutto somigliante ad un pomodoro troppo maturo, sgattaiolai in bagno per cambiarmi, sfilandomi il vestito e rendendomi conto che la T-shirt di Robert era quanto di più comodo avessi mai indossato, anche se era tre taglie più grande, ma riusciva a coprirmi soltanto fino a metà coscia, facendomi sentire irrimediabilmente nuda. 

Non potevo dormire così accanto a lui, cosa avrebbe pensato? D'altronde, non avevo nient'altro con me, cosa avrei mai potuto indossare?

Prima di impazzire davanti allo specchio, presi coraggio e ritornai in camera da letto, Robert che, con la schiena contro la testiera del letto, stava armeggiando con il suo iPhone.

Si voltò a guardarmi, mentre io scostavo le coperte dalla mia parte di letto e mi ci intrufolavo al di sotto il più in fretta possibile.

Imitai la sua posizione e sbirciai lo schermo del suo cellulare con fare indifferente, curiosa.

Mi lanciò un'occhiata di traverso, sorridendomi.

< Stai cercando di spiare? > Mi domandò, per nulla offeso o risentito.

< Oh, no, assolutamente. Sono affari tuoi. > Risposi, mostrando i palmi, innocente.

< Anche se sto scambiandomi messaggi con una ragazza? > Ammiccò nella mia direzione.

Sbuffai, alzando gli occhi al cielo.

< Vuoi che sia gelosa di te? > Risposi con un'altra domanda.

< Lo sei? > Mi chiese.

Ci pensai su. Robert non era un oggetto, non era di mia proprietà, non potevo rivendicare nessun diritto su di lui. Non che con questo intendessi dire che avrebbe potuto tradirmi, ma era libero di parlare con chi voleva, non potevo certo impedirgli di avere degli amici.

< Fino ad un certo punto. > Ammisi, osservandolo.

< E' mia sorella Lizzy. > Spiegò, mettendo via il cellulare, poggiandolo sulla pila di libri sul comodino.

< Oh. > Risposi.

< Eri gelosa di me quando eravamo fidanzati, sai? Lo eri anche delle mie sorelle. > Sorrise, pizzicandomi un fianco.

< Ero una ragazzina, ovvio che fossi gelosa di te! > Protestai con fermezza. Non capivo la differenza tra sorella e amica e per me erano tutte ugualmente una forma di minaccia, perché ci sottraevano tempo prezioso per stare insieme.

< E a me piaceva che tu lo fossi. > Mi sollevò appena per i fianchi, portandomi su di lui, abbracciandomi e accarezzandomi i capelli. Aveva addosso soltanto una canotta, e la stoffa era così sottile e leggera, che potevo avvertire distintamente sotto le dita ogni singolo muscolo.

< Io ballo con un sacco di ragazzi... > Soppesai, le sue mani ancora sui miei fianchi, le gambe aggrovigliate alle sue.

< Dovrò chiarire un paio di cose con loro, allora. > Aggrottò le sopracciglia, avvicinando il viso al mio per baciarmi le labbra con dolcezza, facendomi mancare un battito.

< Sono solo amici... > Mormorai, gli occhi ancora chiusi.

< Uhm... meglio non rischiare. > Sussurrò in risposta, baciandomi ancora.

Sorrisi sulla sua bocca, circondandogli il collo con le braccia, stropicciandogli i capelli.

< Sono contenta che tu sia qui. > Continuò quando poggiai la testa sul suo petto, ancora abbracciata a lui, l'imbarazzo e la vergogna completamente estinti.

Alzai gli occhi sul suo viso e sorrisi.

< Sono contenta anch'io. Non pensavo mi avresti mai perdonata. > Ammisi.

< Come poteva essere altrimenti? Mi sei mancata così tanto. > Mi strinse a sé ed io chiusi gli occhi, lasciandomi cullare dal battito regolare del suo cuore e dalle sue carezze leggere.

Era mancato anche a me.

Come poteva essere altrimenti?

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Capitolo 10
*** I Love You ***


Salve!

Avevo detto che, probabilmente, non avrei aggiornato questa Ff per un po', invece poi, la voglia di scrivere di Rob è stata più forte di tutto il resto ed eccomi ad aggiornare, contro ogni previsione.

Dunque, visto che questa Ff mi porta ad inoltrarmi nel mondo della danza classica, che, ad essere sincera, mi ha sempre appassionata ed è una delle forme d'arte che più apprezzo, volevo specificare che, più che documentarmi sui balletti della Julliard, prendo a riferimento in particolar modo il San Francisco Ballet, perché trovo che abbia dei ballerini davvero dotati e pieni di talento e, inoltre, ho trovato lì molti dei volti per i miei protagonisti.

Ovviamente, se qualcuno sa di danza classica molto più di quanto sappia io, può benissimo correggere tutte le mie imperfezioni, anche se non nomino passi di danza o quant'altro, proprio perché ignorante in materia, ma siete comunque liberi di correggere là dove sbagliassi ;)

Questa volta, la canzone che ho scelto per il capitolo, non ha molta relazione con il capitolo in sé, ma è stato il ritmo a prendermi sin da subito e l'ho trovato ideale per il decorso del capitolo stesso; ho condiviso il link di questo balletto nel mio gruppo su Facebook (You thought you know me, per chiunque volesse cercarlo nella barra "Cerca" di Facebook) e ci ho subito visto Candice e Arthur che ballavano, per cui, anche se il capitolo non è centrato su di loro, almeno, non nella prima parte, ho preso due piccioni con una fava, associando la canzone al balletto *.* Oltretutto la ballerina della coreografia è quella da me scelta per impersonare Candice, quindi, più perfetto di così si può?

Ok, vi ho fatto attendere sin troppo, per cui vi auguro soltanto una splendida continuazione di settimana (domani ho un esame, pregate per me xD) e una...

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Rebellion (Lies)-Arcade Fire

 

 

 

 

Fui svegliata, il mattino successivo, dalla voce polemica e arrabbiata di Robert.

Sbattei gli occhi un paio di volte per abituarmi alla presenza di luce nella stanza e lanciai un'occhiata alla sveglia sul comodino, rendendomi conto con disappunto che erano soltanto le sei.

Robert non era nella stanza, ma la sua voce era così tonante, da avermi lasciato credere che fosse accanto a me. Con chi poteva discutere alle sei di mattina?

Nonostante volessi continuare a dormire, vinta dalla curiosità, gattonai fino all'estremità del letto, mettendomi in piedi e cercando con lo sguardo le mie Converse. Le infilai svelta, senza preoccuparmi di allacciarle e camminai lentamente e silenziosamente verso la cucina; era da lì che proveniva la sua voce, adesso, segno che si era spostato.

Non volevo fare la parte dell'impicciona, così manifestai la mia presenza con disinvoltura, fingendo di non essermi resa conto della discussione che stava conducendo a telefono, regalandogli uno sguardo accigliato quando lui provò a sorridermi senza riuscirci appieno.

< Non è possibile, d'accordo? Lei mi aveva assicurato che... > Alzò gli occhi al cielo e si passò una mano tra i capelli, cominciando a camminare nervosamente lungo la stanza.

Studiai i suoi gesti e le espressioni del suo viso, decidendo di sedermi su uno degli sgabelli accanto alla penisola centrale che costituiva, presumibilmente, il tavolo della colazione.

Avevo lezione alle dieci, quindi, teoricamente, avrei potuto dormire un altro paio d'ore e poi, magari, prendere un taxi per non rischiare di arrivare in ritardo.

Mi mangiucchiai un'unghia, un vizio che non avevo più perso da quando, da bambina, mi ero ammalata di morbillo e il prurito che le bolle mi provocavano, mi avevano costretta a tagliarmi le unghie con i denti pur di non cedere a quel piacere passeggero. Dovevo avere ancora qualche cicatrice come ricordo dell'esperienza.

Mi sentivo una spettatrice indesiderata, di quelle che non sa cosa pensare della situazione che sta vivendo.

Insomma, cosa stava succedendo? Perché Robert era così arrabbiato? Perché io non riuscivo a fare altro che starmene seduta lì, a dondolare le gambe e mangiarmi le unghia come una bambina che osserva i suoi genitori litigare e si chiede se non sia proprio lei il motivo di tante urla?

C'erano solo domande nella mia testa e una miriade di pensieri confusi e riflessioni che non c'entravano niente con il momento che stavo vivendo; mi stavo difendendo da quelle urla, pensando agli orari delle lezioni, alle coreografie, all'evento di beneficenza, ai miei genitori e a quello che mi aveva suggerito Lucas: avrei dovuto invitarli? Volevo davvero che mi raggiungessero a New York?

< D'accordo, d'accordo, senti, le parlerò, va bene? > La voce di Robert si era affievolita e il suo viso sembrava più stanco e più pallido, come se quella discussione avesse prosciugato tutta la sua vitalità.

Alzai gli occhi su di lui, mentre agganciava e poggiava il cellulare accanto a me, stropicciandosi il viso e i capelli con le mani.

< Che succede? > Chiesi, cercando il suo sguardo. Lui non mi guardò, si limitò soltanto a circumnavigare la penisola, posizionandosi di fronte a me, trovando estremamente interessante le venature del legno della superficie liscia e lucida.

< Non avevo idea che... > Cominciò, ma si interruppe, scuotendo la testa.

Attesi che continuasse. Era così grave?

< Cosa? > Lo spronai dopo qualche minuto.

Prese un respiro profondo e chiuse gli occhi, come a cercare il coraggio o forse la forza per parlare. Quando riaprì li riaprì, li puntò dritti nei miei ed io vacillai, non so se per la loro bellezza, o per la paura della sua rivelazione. Non poteva essere qualcosa di positivo, non poteva, perché il cuore aveva accelerato i suoi battiti e il vuoto che avevo avvertito all'altezza del petto tre anni prima, quando avevo deciso che il mio futuro non avrebbe potuto comprendere anche lui, ritornò a farsi sentire, prepotente e destabilizzante.

< Kristen è incinta. > Sospirò alla fine.

Cos'era, uno scherzo?

< Non... non dici sul serio... > Affermai, confusa e titubante, indecisa sulle parole da usare.

< Me l'ha confermato il mio manager. Voleva essere sicuro della cosa prima di comunicarmela e... insomma, stento a crederci persino io... > Commentò, frustrato.

Non so per quanto tempo rimasi immobile, incapace di distogliere lo sguardo dalla sua figura, dal suo viso, incapace di vedere altro che una nuova separazione, un nuovo allontanamento.

< Non cambierà le cose tra di noi, Candice. > Mi si avvicinò, osservandomi serio.

< Come puoi pensare che non lo farà? Certo che cambierà le cose tra di noi. > Risposi come un automa, la vista già offuscata dalle lacrime.

Perché quando tutto sembrava andare per il meglio, quando finalmente mi ero resa conto che in tutto quel tempo non avevo fatto altro che desiderare di poter tornare indietro, di poter ricominciare da capo, di poter continuare a vivere una relazione normale, stabile, come qualsiasi altra ragazza con colui che non avevo mai smesso di amare, quando la felicità sembrava ad un passo da me, io sprofondavo nel buio più nero?

< Io non la amo, Candice, non posso rinunciare a te solo perché lei aspetta un bambino. > Si inginocchiò per essere alla mia altezza, afferrandomi una mano e cercando di incontrare il mio sguardo.

< E cosa farai quando nascerà e lei vorrà che tu sia presente? Vuoi che cresca senza un padre? > Forse ero un'egoista, non facevo altro che preoccuparmi per me, di cosa avrei fatto senza di lui. Era stupido e sciocco, me ne rendevo conto. Non l'avevo avuto accanto per tre anni, ero stata io a lasciarlo per inseguire i miei sogni di gloria, cosa potevo mai pretendere adesso? Non potevo certo dirgli che volevo che rinunciasse a suo figlio, al sangue del suo sangue, per me.

Come poteva illudersi che tutto sarebbe rimasto lo stesso?

Scosse la testa, asciugandomi una lacrima con il dorso di un dito.

< Ascolta, sono scioccato quanto te, io non... insomma, non sono pronto per fare il padre e non so cosa succederà quando nascerà, ma voglio che tu faccia parte della mia vita, Candice. E' l'unica cosa di cui sono sicuro. > Sorrise lieve e sincero.

Avrei avuto il coraggio di lasciarlo andare? No.

Sarei riuscita ad affrontare una situazione più grande di me? No, di nuovo.

Avevamo due carriere differenti, due stili di vita diversi, non potevo ragionare come una persona normale, come una ragazza qualsiasi. Implicitamente, avrei dovuto far parte anch'io di quella famiglia e se Robert avesse scelto di riconoscere il bambino, ma di separarsi comunque dalla madre, avrebbe dovuto vederlo, trascorrere del tempo con lui, essere un padre ed io, cosa avrei fatto? Sarei dovuta diventare una pseudo-mamma? Non ero pronta per una responsabilità del genere.

< Viviamo due vite completamente differenti, Robert! Come pensi di riuscire a far conciliare tutto? Voi fate lo stesso mestiere, sarebbe più semplice gestire la cosa... > Mi interruppe, prima che potessi anche solo aggiungere un'altra parola.

< Non posso fingere, Candice. Non amo Kristen e non posso amarla solo perché aspetta un bambino, lo capisci questo? > Insistette.

Sì, sì, certo che lo capivo, e allora?

< Tu abiti dall'altra parte dello Stato, Robert! Non possiamo essere la coppia felice che abbiamo sempre sognato di essere! Come puoi essere così cieco? Io dovrò completare l'Accademia e tu hai la tua carriera davanti, non faremmo altro che intralciarci a vicenda! > Sbottai.

< Potrei trasferirmi qui, potrei convincere Kristen a fare lo stesso; lo farà se vuole che riconosca il bambino. > Soppesò.

Sbuffai, frustrata e impotente.

< Non è così semplice. > Risposi, abbassando lo sguardo per nascondergli le lacrime.

< Perché no? Ti stai opponendo, sei tu che vuoi che non lo sia. Vuoi abbandonarmi ancora? Quanto ancora dobbiamo farci del male per capire che funzioniamo solo insieme? > Scattò in piedi, ricominciando a camminare nervosamente lungo il perimetro della stanza.

Già, quante ferite saremmo stati ancora in grado di sopportare?

Eppure, non riuscivo a fingere che andasse tutto bene, non riuscivo a convincermene, non riuscivo ad immaginarmi in una situazione così complessa. Forse, avevo solo bisogno di riflettere, di valutare i pro e i contro della vicenda.

Mi asciugai gli occhi con il dorso della mano, tirando su col naso e mi imposi un contegno, rialzandomi per andare a rivestirmi.

Robert mi seguì e, le spalle al muro e le braccia incrociate al petto, mi osservò spogliarmi della sua T-shirt e indossare il vestito della sera prima.

Prima che potessi raggiungere il bagno, mi colse alla sprovvista, abbracciandomi da dietro e sprofondando il viso tra i miei capelli in disordine, stringendomi a sé in maniera spasmodica.

< Non ti permetterò di andare via. > Sussurrò.

< Ho lezione alle dieci. > Tirai su col naso, cercando di non ricominciare a piangere e lui rise, baciandomi una spalla e costringendomi a voltarmi verso di lui.

< Quando si è insieme, si è capaci di tutto, Candice. Sarebbe tutto perfetto, se solo tu avessi un po' più di fiducia in me. > Sorrise, baciandomi le labbra.

< Io mi fido di te; sono di me che non sono sicura. > Risposi, accarezzandogli i capelli, provando a ricambiare il suo sorriso.

< Andrà tutto bene. > Congiunse la fronte alla mia ed io chiusi gli occhi, decisa a fare scorta del suo profumo, decisa a fare finta che la giornata fosse cominciata nel migliore dei modi, decisa a credere che sì, sarebbe andato tutto bene, anche a costo di perderlo.

 

Quando raggiunsi la mia stanza, mi buttai a peso morto sul letto con l'intenzione di dormire per almeno una settimana e svegliarmi solo per rendermi conto che era stato un brutto sogno, un incubo.

Perché doveva essere sempre tutto così complicato per me? Ci sarebbe stato qualcosa per cui non avrei dovuto lottare fino allo sfinimento?

Mi voltai a pancia in su per osservare il soffitto, soffiandomi via i capelli davanti agli occhi.

Non potevo credere al fatto che Kristen fosse davvero incinta. Insomma, certo, quando lui mi aveva confessato che la loro relazione non era niente di serio, non mi ero certo immaginata le loro serate a giocare a scacchi fino a notte fonda, ma erano entrambi giovani e un bambino comportava responsabilità. Se non riuscivo ad immaginare me stessa nelle vesti di mamma-per-finta, figuriamoci una star di Hollywood come Kristen Stewart. Come potevano essere stati così irresponsabili da non adottare delle precauzioni?

Ero decisamente scossa, se continuavo ad arrovellarmi sui possibili metodi contraccettivi.

Scossi la testa come per liberarmi di quei pensieri e valutai la possibilità di riuscire a farmi una doccia prima della lezione delle dieci.

Nel momento stesso in cui mi ero sfilata il vestito, lanciandolo sul letto alle mie spalle, il mio cellulare mi aveva avvisata dell'arrivo di un messaggio. Lo recuperai dalla borsa, rendendomi conto che altri non era che Arthur.

 

Tutto bene? Robert non ti ha rapita, vero?

 

Sorrisi delle sue supposizioni assurde e mi affrettai a digitare una risposta veloce.

 

Tutto ok. Eri davvero preoccupato che mi avesse rapito? Non è un serial-killer psicopatico.

 

Attesi la risposta, mentre mi procuravo il necessario per la doccia.

 

Beh, sei mia amica, ovvio che sia preoccupato per te e poi ti voglio viva e attiva per il passo a due di oggi ;)

 

Il tempo di una doccia e sono tutta vostra.

 

Sarebbe stato più semplice continuare con la mia vita di sempre, quella dedicata solo alla danza, alle lezioni, a quelle poche amicizie che ero riuscita a costruirmi in Accademia. Avrei continuato a sentire la mancanza di Robert, certo, così come avrei continuato a convivere con i miei sensi di colpa, ma almeno avrei avuto la linearità delle mie azioni a tranquillizzarmi, la consapevolezza che, una volta terminata l'Accademia, avrei potuto dare inizio alla carriera che avevo sempre desiderato, fin da bambina.

Adesso cosa avevo in mano? 

Se davvero Robert fosse riuscito a convincere Kristen a rimanere a New York con il bambino, io sarei dovuta rimanere qui con lui, non avrei potuto allontanarmi e sarei stata costretta a rinunciare a contratti all'estero per occuparmi della mia relazione, del mio essere una quasi-mamma. Non era quello che volevo per me e non volevo neanche che Robert si sentisse costretto a vivere nella mia stessa città; era un attore, quanto tempo avrebbe potuto dedicare a me, al bambino, a Kristen? Avrebbe rinunciato anche lui ad accettare nuovi ruoli? Era davvero così che voleva andassero le cose per il futuro?

Lasciai scivolare via la paura e l'angoscia nello scarico della doccia, cercando di ritrovare la giusta concentrazione per non dover dare troppe spiegazioni e per dare il massimo durante il passo a due.

Peccato che ero come un libro aperto per i miei amici, specialmente per Lucas e Arthur, miei compagni durante la lezione.

< Che succede? Sei pallida. > Esordì Lucas non appena mi vide entrare, borsone in spalla e scarpette in mano.

< La temperatura esterna rasenta lo zero, non so se te ne sei accorto... > Nonostante fosse quasi primavera, le temperature non accennavano ad aumentare. Ero stata costretta ad imbacuccarmi come un hinuit per affrontare il tragitto dal residence alla scuola.

< Qui non fa così freddo... > Fece spallucce.

< Fortunatamente. > Rabbrividii, entrando nello spogliatoio e liberandomi del cappotto e della sciarpa. Non avevo bisogno di cambiarmi, avevo già indossato i soliti pantaloni della tuta che utilizzavo sempre quando provavamo le coreografie.

Li raggiunsi, in attesa di Miss Stevens e, mentre loro facevano stretching ed io mi allacciavo le scarpette, la conversazione, casualmente, ricadde sulle nostre frequentazioni amorose.

< Come va con Amanda? > Domandò Arthur a Lucas ed io lo osservai sospettosa. Amanda Ruhiko era la sua fidanzata storica, così come ci divertivamo a definirla io ed Arthur. Nessuna relazione di Lucas era mai durata così tanto: otto mesi. Che fosse un bel ragazzo era innegabile, senza contare che era pienamente consapevole di esserlo, e sfruttava questa sua arroganza per conquistare le allieve dell'Accademia. Il punto era che, a dispetto di quello che credevano in molte, ovvero che conquistasse ragazze su ragazze solo per essere venerato come dio della seduzione, Lucas credeva davvero in quelle relazioni, anche se di breve durata. Era un romantico, ma di quelli che, nell'attesa di trovare la principessa che possa conquistare il loro cuore, non disdegna affatto qualche sostituta.

< Non so se voglio continuare a vederla... > Rispose, costringendomi ad alzare gli occhi al cielo.

Arthur mi lanciò un'occhiata divertita a cui io risposi, sillabando in silenzio come non detto.

< Cos'ha che non va? E' troppo appiccicosa, gelosa, possessiva...? > Elencai con sarcasmo. Conoscevo Amanda e, oltre ad essere una bravissima ballerina, era una ragazza gentile, alla mano, disponibile e, senza ombra di dubbio, bellissima; trovavo che lei e Lucas formassero davvero una coppia meravigliosa.

< Lei non c'entra, sono io il problema. Lei mi piace, è dolce, sensibile, intelligente e bellissima, davvero, non potrei chiedere di meglio, solo che a volte sento di non essere alla sua altezza, sento che meriterebbe di più. > Il suo sguardo diventò triste, mentre prendeva posto accanto ad Arthur, imitando la sua posizione all'indiana. 

< Non avrebbe deciso di cominciare una relazione con te se non fosse stata sicura dei suoi sentimenti, la conosci. > Replicai. Non aveva mai parlato così di una ragazza, non con me, almeno.

< Lo so. Ne ho anche parlato con lei e mi ha dato dello stupido paranoico, ma cosa posso farci? Ho paura. > Abbassò lo sguardo, torturandosi le mani con fare nervoso.

< Hai paura che sia lei quella giusta e che possa stancarsi di te? > Gli chiese Arthur, studiando le sue reazioni.

Lucas annuì cupo.

< E' normale avere paura. Anch'io ho paura che Robert si stanchi di me, o del fatto che ballare sia più importante di tutto il resto, ma non potrei vivere per sempre con il rimorso di non averci perlomeno provato a far funzionare le cose. > Feci spallucce. Era la verità: nonostante sentissi di non essere abbastanza per lui, nonostante credevo di non meritare una possibilità dopo averlo abbandonato tre anni prima, nonostante lo immaginassi più felice con Kristen che con me, non potevo continuare a trascinarmi dietro anche il sacco del dubbio, non potevo, voltandomi indietro, domandarmi continuamente: e se io gli avessi dato una possibilità? E se non fosse successo questo? E se avessi deciso quest'altro?

I se erano tutte occasioni mancate, che non sarebbero tornare mai più.

< Sì, forse hai ragione, è normale, ma non posso fare a meno di pensarci. > Rispose, osservandomi.

< Hai bisogno di essere rincuorato e hai bisogno di certezze, come tutti. Se dovesse finire, un giorno, tra di voi, almeno non avrai rimpianti. Nessuno può dirti cosa succederà domani; magari avrete una discussione epica, di quelle che ti fanno sferrare un pugno all'armadio dalla rabbia, o magari no, magari andrà tutto bene, chi può dirlo? L'importante è sfruttare tutte le possibilità. > Gli sorrisi, avvicinandomi per abbracciarlo.

< Dovresti essere così saggia anche con te stessa, sai? > Scherzò Arthur, arruffandomi i capelli, mentre io godevo ancora del calore dell'abbraccio di Lucas.

< Dispensare consigli agli altri è più semplice. > Protestai, sapendo che era la verità: un conto era ragionare per una situazione che, in fondo, non ti apparteneva per davvero, un altro era tentare di essere lucida e permissiva in una situazione personale, in cui eri tu a rimetterci.

< Grazie. > Mi mormorò Lucas, baciandomi una guancia con affetto. < Secondo me è Arthur che non ci racconta la verità, qui. Possibile tu non sia innamorato di nessuna? Ci sono tante ragazze qui... > Riprese, tornando il Lucas di sempre, sorridente e positivo.

Arthur arrossì e il suo sguardo si soffermò su di me, che lo studiavo divertita e curiosa.

Tre anni che frequentava l'Accademia, e non aveva avuto nessuna relazione, neanche un semplice appuntamento galante con qualcuna.

Scosse la testa, imbarazzato.

< Non ho tempo per le ragazze. > Mormorò appena, continuando a guardarmi.

< Sciocchezze! Ce l'hai eccome! > Replicò Lucas, sventolando una mano, come a scacciare una mosca fastidiosa.

< Beh... in verità... insomma, ci sarebbe una ragazza, ma è già impegnata, quindi... > Fece spallucce, fissando il parquet.

< Qualcuno che conosciamo? > Ammiccai, interessata.

< Fin troppo bene, direi. > Rispose, ritornando con lo sguardo su di me, il viso ancora rosso di imbarazzo.

< Sam? > Tentò Lucas.

Arthur scosse la testa.

< Allora Sophia? > Provò ancora.

Altra risposta negativa.

< Elena? > Tentai io.

Scosse di nuovo la testa, lasciandomi perplessa.

< Allora scommetto che sei innamorato di Candice! > Esultò Lucas.

Fu il mio turno di arrossire.

< Smettila! Non dire assurdità! > Balbettai, colpendogli un braccio.

Arthur non rispose e, comunque, non ne ebbe modo, visto che Miss Stevens fece il suo ingresso proprio in quell'istante, portandosi dietro un registratore e alcuni raccoglitori pieni di fogli.

< Scusate il ritardo, ragazzi, imprevisti di famiglia. Avete già fatto riscaldamento? > Ci domandò sorridente. Una delle qualità che amavo di lei era l'allegria.

Annuimmo.

< Bene, allora cominciamo. > Posò le sue cose in un angolo e si avviò verso lo stereo per inserire il cd con il brano del passo a due, o meglio, a tre.

Ripensai all'affermazione di Lucas e alla non risposta di Arthur. Che fosse come aveva sempre sostenuto anche Sam, che Arthur fosse davvero interessato a me?

Eravamo amici da così tanto tempo... era impossibile, giusto?

Gli amici non si innamorano gli uni degli altri.

O sì?

 

Solitamente, lavorare ad una coreografia con due ragazzi, non era mai stato un problema. Non sentivo tensione, non mi imbarazzavano le prese audaci o l'intimità che si veniva a creare quando la musica confondeva i movimenti e tu non eri più la stessa persona, ma diventavi semplicemente una ballerina e la tua anima si mescolava alle note e ai passi; non mi ero mai imbarazzata come allora ad eseguire una coreografia con Arthur.

Lucas era Lucas, era il mio migliore amico, era impegnato con Amanda e non c'era motivo per cui io dovessi arrossire e, fondamentalmente, non ce ne sarebbe stato neanche con Arthur, anche se lui non era fidanzato ed era comunque uno dei miei migliori amici, eppure, quando avvertivo le sue mani su di me, impegnate per una presa, quando ero costretta ad aggrapparmi a lui per essere trascinata sul pavimento, come prevedeva la coreografia, non potevo fare a meno di arrossire come una sciocca. 

Era per le insinuazioni di Lucas?

Era perché, in fondo, Sam e Sophia avevano da sempre cercato di farmi rendere conto che Arthur era interessato a me, non solo come amico?

Non ne avevo idea, ma mai come quella volta, avrei preferito che Miss Stevens avesse ritardato ancora qualche secondo, per permettergli di rispondere all'affermazione audace di Lucas.

< Non sei concentrata come al solito. > Arthur mi scrutò con attenzione durante una pausa, mentre io ero intenta a riprendere fiato.

Alzai gli occhi su di lui e feci spallucce, fingendo indifferenza.

< Lo so, ho troppi pensieri e questa volta neanche la danza riesce a zittirli. > Risposi, allontanandomi per recuperare la mia bottiglia d'acqua e l'asciugamano.

< Non è soltanto quello; sei tesa, non a tuo agio. C'è qualcosa che non va? > Mi raggiunse, liberandomi la fronte dai capelli umidi di sudore.

Arrossii, avvertendo il calore delle sue dita e il suo profumo dolce, diverso da quello di Robert, un profumo che mi ricordava casa.

Scossi la testa, continuando a bere, sperando che l'acqua potesse essere mia alleata nel contrastare il rossore.

< E' per quello che ha detto Lucas? Il fatto che io sono innamorato di una ragazza che conoscete bene? > Mi domandò, abbassando lo sguardo.

Non risposi, e lui dovette interpretare il mio silenzio come un sì, perché sospirò, scuotendo la testa, rialzando gli occhi verdi su di me.

< Ti sentiresti più tranquilla se rispondessi a quell'insinuazione? > Continuò.

Mi morsi un labbro, indecisa sulla risposta, ma alla fine annuii; non potevo mentire, era l'unica cosa sulla quale mi stavo arrovellando da un'ora e mezza.

Sospirò ancora e poi sorrise appena, un sorriso triste, spento, senza speranza, che mi fece stringere il cuore e lo stomaco.

< Non avrei mai pensato di dovertelo confessare così, nel bel mezzo di una lezione di danza, ma sì, sono innamorato di te, Candice. So che sei impegnata, so che hai Robert e che mi consideri soltanto un amico, credimi, ne sono consapevole e se non ti ho detto niente durante tutto questo tempo, è perché non volevo rovinare la nostra amicizia, perché non è più lo stesso quando si confessano sentimenti del genere. > Fece spallucce, stropicciandosi il viso con entrambe le mani, lasciandomi basita.

Era davvero innamorato di me.

Ed io non me ne ero mai accorta, impegnata a gestire la mancanza di Robert e i miei continui sensi di colpa.

< Io... insomma... mi sento una stupida, non me ne sono mai accorta e mi dispiace averti messo in questa situazione, mi dispiace averti costretto a confessarmelo, davvero... posso solo immaginare cosa voglia dire per te... > Continuavo a blaterare senza sosta, rendendomi conto di star dicendo un mucchio di sciocchezze, preda del nervosismo e dell'imbarazzo.

< Non è colpa tua, Candice. Avrei dovuto essere più sincero con te, ma non volevo perderti, tutto qui. > Sorrise, questa volta davvero, lasciando che anche i suoi occhi si illuminassero.

< Non dobbiamo per forza separarci... voglio dire, non voglio perderti neanch'io... > Ammisi, perché, in fondo, era la verità.

Annuì serio.

< D'accordo, ma se non vorrai più parlarmi dei tuoi problemi di cuore, capirò, davvero. > Arrossì ed io sorrisi, sollevata di non dovergli dire addio.

Era una delle persone che riusciva a capirmi con uno sguardo, a cui avrei potuto chiedere aiuto anche nel bel mezzo della notte, su cui avrei potuto contare sempre e, volente o nolente, aveva occupato un posto nel mio cuore da cui non sarei mai riuscito a sfrattarlo.

Lo abbracciai, rendendomi conto solo in quell'istante di quanto fosse alto rispetto a me.

< Ti voglio bene. > Mi mormorò, accarezzandomi i capelli ed io mi sentii al sicuro, come tra le braccia di mio padre, come tra le braccia di Robert.

Lo strinsi più forte, beandomi del suo profumo.

< Te ne voglio anch'io, lo sai. > Risposi di rimando, allontanandomi dalla sua stretta, riprendendo a respirare.

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Capitolo 11
*** Afraid ***


Salve!

Eccomi qui con l'aggiornamento (quasi) consueto del venerdì.

Beh, cosa dire di questo capitolo? Essenzialmente, che si è scritto da solo; sì, so che è impossibile, eppure è andata proprio così, in special modo per la seconda e terza parte. Sarò io molto ispirata, sarà che finalmente è tornato il fresco (anche se io aspetto ancora l'inverno vero), sarà che mi sto rilassando dopo la sessione d'esami di settembre, completare questo capitolo è stata una vera bazzecola.

Prima di lasciarvi alla lettura, volevo specificare una cosa di capitale importanza: mi rendo conto di aver usato parole piuttosto forti da rivolgere a Candice e capisco che molte di voi potranno anche non approvare, specialmente se queste parole provengono da Kristen Stewart, ma credetemi quando vi dico che sono necessarie per una serie di motivi e che, inizialmente, non doveva neanche essere Kristen l'antagonista della storia, ma una tizia anonima come Candice. Comunque, non voglio giustificarmi, si sa che non amo particolarmente la Stewart, ma certo è che la mia è solo una storia e, ovviamente, non conosco i caratteri veri delle persone di cui scrivo, perciò, fan di Kristen, non ve la prendete :)

Detto questo, ho avuto qualche problema con la scelta della canzone di questo capitolo, anche se ero orientata verso un'artista ben definita, Kelly Clarkson, nella speranza che la canzone che ho scelto, possa rispecchiare le emozioni che ha suscitato a me quando l'ho ascoltata pensando al capitolo.

Ringrazio tutte le persone che hanno commentato lo scorso capitolo, che hanno letto, che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e che hanno solo sbirciato per curiosità *.* GRAZIE A TUTTE! <3

Monologo concluso, vi auguro un Buon Week-End e una...

 

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All I Ever Wanted-Kelly Clarkson

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo pranzo, approfittando del fatto che ci sarebbero stati i provini per le reclute e che, perciò, eravamo esentati dalle lezioni, io, Sofia, Sam, Amanda e Juliana, una delle prime ragazze che avevo conosciuto in Accademia, ci riunimmo nella mia stanza per trascorrere un po' di tempo insieme. In verità, avremmo preferito di gran lunga una passeggiata a Central Park, o qualche sana ora di shopping, ma il meteo aveva deciso di punirci: pioveva a dirotto da più di tre ore e i tuoni che squarciavano il cielo sembravano avere tutta l'intenzione di avvertirci che, se solo fossimo uscite, ci avrebbero fulminate all'istante.

Mi distesi beata sul mio letto, felice del fatto che, finalmente, dopo mesi, potevamo dedicarci un po' a noi stesse, mentre Amanda aiutava Sam con lo smalto e Sophia si divertiva ad acconciare i capelli di Juliana in treccine.

< Allora, cosa pensi di fare per quella storia? > Mi domandò Sofia con fare inquisitorio. Le altre erano già al corrente di tutto: mi fidavo di loro e sapevo che non sarebbero mai andate a spifferarlo a qualcuno; senza contare che si stava parlando di celebrità mondiali e molti avrebbero pagato per essere a conoscenza di ciò che, fino a quel momento, solo noi sapevamo.

< Non ne ho idea. Suppongo che dovrò attendere sviluppi... > Feci spallucce, osservandola.

< Ma insomma, lei è davvero incinta? > Juliana si voltò verso di me, abbassando la voce con fare cospiratorio.

< E' quello che ho capito. > Risposi.

< E se fosse una farsa? > Puntammo tutte gli occhi su Sam in attesa di ulteriori spiegazioni. < Sì, insomma, Robert l'ha lasciata per correre da te e lei, ovviamente, non sarà stata felicissima della cosa, quindi ha escogitato un piano per farvi allontanare ancora. > Continuò, gesticolando con il pettine.

< Dite che ne sarebbe davvero capace? > Domandai stupita. Non conoscevo Kristen, se non dai giornali e da quelle poche notizie su di lei che trasmettevano in tv, ma sarebbe davvero stata così egoista e capricciosa da fingere di rovinare la sua reputazione, quella di Robert e, perché no, anche la mia, pur di riaverlo accanto? Insomma, se fosse venuto fuori che la notizia era falsa, lei sarebbe passata come la bugiarda di turno, Robert come il solito farfallone che, non appena scaricata la sua ex ragazza, correva già tra le braccia di un'altra ed io... beh, io sarei stata etichettata come la solita sfascia-coppie, visto che riemergevo da chissà dove per riconquistare il mio ex ragazzo inglese.

< Non so, non mi convince. > Rimuginò Amanda pensierosa, aggrottando le sopracciglia. < I giornali farebbero follie per uno scoop del genere. > Continuò, facendo spallucce e osservandosi lo smalto.

< Non convince neanche me. Ne ricaverebbero entrambi cattiva pubblicità. > Proferii sicura, anche se non del tutto. Le persone, a volte, per raggiungere i propri obiettivi, erano davvero disposte a tutto.

< Sì, ma lei avrebbe Robert a disposizione tutto il tempo con la scusa della gravidanza e poi cominceranno le nausee e i piedi gonfi e i giramenti di testa... non gli darà tregua. > Commentò Sam.

Non potevo darle torto su questo. Se avevo imparato a conoscere Robert in tutti quegli anni, potevo affermare con tranquillità che, per qualcuno a cui voleva bene, a cui teneva, sarebbe stato capace di muovere il mondo, non si sarebbe mai tirato indietro e sapevo che, nonostante si fossero allontanati, voleva ancora bene a Kristen e lo capivo; avevano affrontato il successo insieme, si erano sostenuti a vicenda e si erano amati; era normale nutrire ancora dell'affetto per lei.

Sospirai.

Avrei preferito non trovarmi affatto in una situazione del genere, eppure adesso ci ero immersa fino al collo e cosa potevo fare, affogare? Dovevo continuare a rimanere a galla, anche se le braccia mi facevano male e sentivo di poter cedere da un momento all'altro.

< E Arthur? Cosa pensi di fare con lui? > Mi chiese Sofia.

< Per ora siamo ancora amici. > Replicai.

< E credi che possa durare? Quando c'è interesse da parte di uno dei due, come amici non si è più gli stessi. > Intervenne Amanda. Chi meglio di lei, che prima di fidanzarsi con Lucas, era stata la sua migliore amica?

< Non ne ho idea, so solo che sembra che mi stia succedendo tutto in una volta, come una valanga. Non avrei mai immaginato di incontrare di nuovo Robert, non avrei neanche voluto assistere alla premier del suo film, eppure ci sono andata, lui si è accorto di me e mi ha persino seguita; non avrei mai immaginato che Arthur fosse innamorato di me, eppure eccolo che mi porge la sua dichiarazione nel bel mezzo di una lezione. Chi vuole fare cambio con me? Sono disposta a cedere tutto. > Ironizzai esasperata.

Juliana alzò la mano e, due secondi dopo, anche Sam.

< Potremmo dividere a metà: tu chi preferisci, Robert o Arthur? > Juliana contribuì a dare manforte alla mia idea, facendo scoppiare a ridere tutte, me compresa.

Continuammo a chiacchierare del più e del meno, fin quando il mio cellulare non squillò, costringendomi a recuperarlo dal comodino.

Le mie amiche si zittirono, in attesa di sapere chi fosse.

< Beh, come mai avete smesso di parlare? > Nascosi lo schermo del cellulare con una mano.

< Vogliamo sapere chi è. > Rispose Amanda, allungando il collo per sbirciare inutilmente.

< E' Robert. > Ammisi con un sospiro rassegnato.

Sospirarono tutte insieme come in uno di quei film romantici di serie B, facendomi alzare gli occhi al cielo. Loro, per tutta risposta, ridacchiarono divertite, incitandomi a rispondere prima che agganciasse.

< Rob? > Risposi, mentre Juliana mi faceva il verso e io le lanciavo un'occhiata inceneritrice che ebbe solo il potere di farla scoppiare a ridere così forte, che per un attimo non riuscii a sentire più nulla.

< Che sta succedendo? > Mi chiese allarmato.

< Niente. Le mie amiche stanno per dare di matto. > Borbottai.

< Ah, sì? Come mai? > Domandò curioso.

< Beh, gli ho detto che eri tu al telefono e sono andate in escandescenza. > Ammisi contrariata.

< Io credevo che vi chiamaste pasticcina, patatino, orsacchiotta, tra di voi. > Sofia alzò la voce in modo che Robert la sentisse, facendolo scoppiare a ridere. Mio malgrado, sorrisi anch'io.

< Dille che quei nomignoli sono orrendi e che non chiamerei mai la mia fidanzata così. > Mi istruì ed io riportai le sue parole, facendole di nuovo sospirare all'unisono.

Sofia mimò la parola fidanzata ed io le feci una linguaccia, arrossendo di vergogna. Erano le mie amiche, sì, ma ciò non toglieva che mi stessero mettendo in imbarazzo.

Mi alzai, decisa a rinchiudermi in bagno per parlare in santa pace, anche se loro alzarono le mani in segno di resa, tentativo inutile di farmi cambiare idea per poter ascoltare l'intera conversazione.

Mi chiusi la porta alle spalle e accesi la luce, osservandomi allo specchio.

< Ok, puoi parlare, adesso. > Lo rassicurai, sistemandomi i capelli.

< Davvero credevano che ti avrei chiamata pasticcina? > Mi domandò, e quasi lo immaginai inarcare le sopracciglia confuso.

Feci spallucce, anche se lui non poteva vedermi.

< Hanno un concetto piuttosto strano dell'amore... > Tentai di giustificarle.

Lo sentii schiarirsi la voce e tirare su col naso, il classico atteggiamento che assumeva quando doveva comunicare qualcosa di importante.

< Stavo pensando... insomma, il mio manager mi ha consigliato di andare a trovare Kristen e, non so, mi piacerebbe che venissi con me, se ti va. > Trattenni il respiro, come se mi avesse detto che si sarebbe sposato l'indomani ed io dovevo essere la damigella d'onore della sposa.

< Tu credi che sia una buona idea? > Chiesi cauta, cosciente del fatto che, se l'avessi accompagnato, non solo i giornali si sarebbero scatenati, ma avrei probabilmente fatto infuriare Kristen, ammesso e non concesso che ancora non sapesse nulla di me e Robert.

< Perché no? Kristen è una mia responsabilità, e anche tu; cosa c'è di sbagliato? > Cercò di convincermi.

< Non pensi che possa arrabbiarsi, vedendoci insieme? > Tentennai. Se mi fossi trovata io nei panni di Kristen, e Robert si fosse presentato di me con la sua nuova ragazza, incinta o meno che fossi, sarei diventata una belva e probabilmente avrei dato di matto, ma io non ero Kristen e, ovviamente, ero felice di non trovarmi al suo posto.

< Quando le ho detto che non avevo più intenzione di frequentarla come una possibile fidanzata, le ho parlato di te. Insomma, mi è sembrata la cosa più giusta da fare e, francamente, avrebbe più motivo di avercela con me, che non con te. > Mi rassicurò e capii che stava sorridendo.

Sospirai, indecisa.

< Non so se voglio vederla... > Ammisi. Che effetto mi avrebbe fatto conoscerla, sapere che lei aveva vissuto al suo fianco nei tre anni precedenti, che aveva conosciuto il suo dolore e lo aveva consolato? Forse, non avevo paura che fosse lei ad arrabbiarsi; forse, avevo solo paura di me, della mia possibile reazione.

< Non devi se non vuoi, Candice. La mia era solo un'idea. > Chiarì, cercando di non allarmarmi.

D'altronde, l'avrei lasciato andare da solo? Mi sarei sentita esclusa, anche se avessi deciso io di non andarci, avrei trascorso una serata in pena, aspettando che mi chiamasse per conoscere tutti i dettagli del loro incontro; sarei probabilmente morta di gelosia e non avrei fatto altro che domandarmi se, magari, non fosse successo qualcosa tra loro, qualcosa che Robert avrebbe preferito non dirmi, considerandola solo un sbaglio, ma che per me, sarebbe stata la fine. Avevo fiducia in lui, da sempre, ma sapevo quant'era stato difficile per lui starmi lontana in quei tre anni, perché avevo provato le stesse cose anch'io, e non potevo certo biasimarlo se aveva cercato di rimettere in piedi il suo cuore. Avevo paura di ferirlo ancora, avevo paura di non poter essere abbastanza e quel terrore, non faceva altro che schiacciarmi, desiderando di essere al suo fianco sempre, anche se sapevo che non era possibile.

< No, d'accordo, ti accompagno. > Risposi infine, evitando il mio sguardo nel riflesso dello specchio.

< Sicura? > Mi domandò incerto.

< Sì, sono sicura. > Cercai di sorridere, dandomi mentalmente della stupida mentre lui mi comunicava che sarebbe passato a prendermi alle sette.

 

Cosa stavo cercando di dimostrare? Che ero forte, che ero capace di affrontare qualsiasi tipo di situazione, che non mi sarei lasciata scoraggiare dal fatto che Kristen aspettasse un bambino, un bambino che, a tutti gli effetti, era anche di Robert? Cosa?

Me l'ero chiesta sin da quando avevo terminato la telefonata con lui ed ero riemersa dal bagno per comunicare la notizia alle altre e, in quel momento, mentre lo aspettavo di fronte all'ingresso della Julliard, vestita dei miei soliti jeans grigi, delle mie solite Converse nere consunte e del mio solito cappotto caldo, Lucas a farmi compagnia, non facevo altro che ripetermi che sarei dovuta tornare indietro, nella mia stanza, anche a costo di fare la parte della codarda.

< Vuoi fermarti, per l'amor del cielo? Stai consumando il marciapiede. > Mi rimproverò Lucas, seguendo con gli occhi il percorso che stavo compiendo da quindici minuti, da quando, cioè, non ero più riuscita a rimanere chiusa nella mia stanza, e avevo deciso di aspettarlo fuori, davanti all'ingresso, domandandogli se fosse un problema farmi compagnia fino al suo arrivo.

< Non credo di aver fatto la cosa giusta. > Mi giustificai, sospirando.

< Puoi sempre ripensarci. > Fece spallucce, scrutando la strada mediamente trafficata.

< E come mi giustifico? Scusa, Robert, sono una codarda, ho cambiato idea e preferisco che tu vada da solo da lei? > Borbottai contrariata.

< Perché no? E' normale sentirsi insicuri, è pur sempre una persona importante per lui, senza contare che, presumibilmente, gli è stata accanto per tutto questo tempo. > Mi lanciò un'occhiata comprensiva, facendomi segno di avvicinarmi ed io obbedii afflitta, lasciando che mi abbracciasse, trasmettendomi il suo calore confortante.

< E' proprio questo il punto, Lucas; io non c'ero per lui in tutto questo tempo, non ho neanche cercato di contattarlo, se non contiamo le chiamate che non avevo mai la forza di portare fino in fondo, mentre lei sì. E' con lei che dovrebbe essere, adesso, felice del fatto che stia aspettando un bambino, non con me. > Mi asciugai una lacrima, separandomi da lui e riprendendo a camminare avanti e indietro come un'anima in pena.

< Ma è te che vuole, non lei! Pensi che sarebbe ancora qui a chiederti se vuoi accompagnarlo, se non fosse davvero interessato, se tu non contassi ancora qualcosa? > Mi domandò esasperato.

< Lo so! Il punto non è lui, Lucas, sono io! > Risposi, indicandomi. < Sono io che non riesco ad accettare l'idea che voglia davvero ricominciare. > Continuai.

< Hai paura di quello che potrebbe succedere? > Mi chiese, lo sguardo più dolce.

< Ho paura di farlo di nuovo, di accettare l'idea di ricominciare una relazione con lui e poi, quando le cose diventano più complicate, trovare un pretesto per scappare. Ho paura di ferirlo di nuovo e so che lui non sarà lì a rincorrermi per sempre. > In quel momento, il suono di un clacson ci spaventò e quando mi voltai, notai un taxi fermo a qualche metro da noi e il volto di Robert che sporgeva dal finestrino posteriore del passeggero, prima di scendere dalla macchina e avvicinarmisi.

Mi asciugai svelta le lacrime, decisa a non farmi vedere triste, e gli sorrisi, accettando il suo abbraccio, ancora più caldo e confortevole di quello di Lucas.

Inspirai il suo odore, cercando di non piangere, stringendomi a lui.

< Ciao. > Mormorò prima di baciarmi una guancia.

< Ciao. > Risposi, arrossendo come una bambina, Lucas che aveva distolto lo sguardo, imbarazzato e che sembrava affascinato da alcune vetrine illuminate dall'altro lato della strada.

Mi schiarii la voce per darmi un contegno, separandomi dall'abbraccio di Robert, richiamando la sua attenzione prendendolo per mano e trascinandolo di fronte a Lucas.

< Lucas, lui è Robert; Robert, lui è Lucas, uno dei miei migliori amici. > Li presentai impacciata.

Si strinsero la mano con vigore.

< E' un piacere conoscerti, Robert. Candice non fa altro che parlare di te... sinceramente, temevo potesse venirmi una carie da un momento all'altro. > Scherzò, stemperando la tensione.

Robert rise, lanciandomi un'occhiata maliziosa alla quale arrossii, distogliendo lo sguardo.

< Ok... beh, voi avete da fare e io non voglio trattenervi ancora. Ci vediamo domani a lezione, Candice. > Salutò entrambi, sorridente, scompigliandomi i capelli come suo solito, attraversando l'entrata e scomparendo dalla nostra vista.

Sospirai, voltandomi verso Robert, notando che il taxi se n'era andato.

< Non andiamo in taxi? > Chiesi, aggrottando le sopracciglia, perplessa.

< Pensavo che ti avrebbe fatto piacere camminare un po'. Non è molto distante da qui. > Mi sorrise, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio con attenzione.

< O-ok, d'accordo. > Balbettai. Solo una giornata che non ci vedevamo e sembrava di essere tornati agli inizi, quando non facevo altro che arrossire e sentirmi una ragazzina alle prese con la sua prima cotta.

Mi strinse la mano, invitandomi ad avanzare ed io intrecciai le dita con le sue, incontrando i suoi occhi chiari che, per quanto si sforzassero di apparire sereni e tranquilli, erano chiaramente preoccupati e tesi.

< A cosa pensi? > Gli domandai, anche se immaginavo la risposta.

Sospirò e si scompigliò i capelli con la mano libera.

< Vorrei che fosse tutto più semplice. > Fece spallucce, evitando i miei occhi.

< Lo sarebbe se tu non avessi deciso di lasciarla. > Mormorai a bassa voce.

Si fermò all'improvviso, fronteggiandomi, costringendomi a ricambiare il suo sguardo, ora allarmato e pieno di rabbia.

< Dimmi cosa devo fare per dimostrarti che è te che voglio, non lei. > Posò entrambe le mani sulle mie spalle e, per un attimo, ebbi l'impressione che volesse scrollarmi fino a farmi rendere conto dell'idiozia che avevo appena pronunciato.

Scossi la testa. Non era quello il problema: non mentiva quando mi diceva che non poteva iniziare una relazione con lei solo perché adesso aspettava un bambino, e non mentiva neanche quando diceva che gli ero mancata, che non aveva mai smesso di pensarmi, che non mi aveva cercata per paura che io non volessi avere più niente a che fare con lui, che era disposto a dimenticare tutto il male che gli avevo fatto pur di starmi accanto.

< Non è la gelosia, il problema, Robert; so che non la ami e so che non puoi costringerti a farlo. L'unico problema sono io. > Risposi.

< Ne abbiamo già parlato, Candice. Devi avere fiducia in me. > Ripeté, scrutandomi con attenzione.

< Ma non capisci? E' di me che ho bisogno di fidarmi, dannazione! > Gli occhi mi si riempirono di lacrime ed io distolsi velocemente lo sguardo, cercando di trattenerle.

Abbandonò le braccia lungo i fianchi, inerme, assolutamente stupito dalla mia rivelazione.

< Cosa vuoi che faccia, allora? > Mi domandò, scompigliandosi i capelli con fare nervoso.

Cosa poteva mai fare?

< Non lo so... io... non ne ho idea... > Balbettai.

< Cosa pensi che possa succedere? Hai paura di quello che ci succederà quando Kristen avrà il bambino? > Provò, facendo spallucce e infilando le mani nelle tasche dei jeans.

Risi, lasciando che le lacrime mi bagnassero le guance.

< Sì, beh... uno dei tanti interrogativi... > Risposi, tirando su col naso. < Ho paura di ferirti ancora, Robert. Ho paura che quando le cose cominceranno a diventare più complicate, io possa scappare di nuovo, lasciarti da solo. Non voglio che accada. > Continuai dopo qualche istante, la voce rotta dai singhiozzi.

< E perché dovresti scappare? > Mi si avvicinò, asciugandomi le lacrime e sorridendomi dolce.

< Perché siamo diversi e conduciamo vite diverse. Non so per quanto possa resistere. > Avevo paura dei miei stessi sogni, dei miei stessi desideri, perché sapevo che non avrebbero coinciso con i suoi.

< Credi che ti lascerei andare via? Credi che ti guarderei allontanarti da me senza fare niente, come tre anni fa? > Mi strinse in un abbraccio, accarezzandomi i capelli per tranquillizzarmi.

< Riusciresti a impedirmelo? > Domandai, la voce ovattata dalla stoffa del suo piumino nero.

< Mi assicurerò personalmente che tu non possa scappare. > Rispose sicuro, continuando a sorridere.

< E come? > Perché non mi aveva fermata anche tre anni prima?

 

Perché voleva che seguissi il tuo sogno, sciocca.

 

Mi rimproverò la mia coscienza. Certo, ovvio, aveva messo me al primo posto, sacrificando i suoi sentimenti.

< Posso legarti al letto, ad esempio. > Cominciò, facendo sorridere anche me.

< E se non dormissi con te? > Lo provocai.

< Beh, allora mi apposterò tutte le notti sotto il residence e rimarrò sveglio per assicurarmi che tu non vada via. > Scherzò.

< Lo faresti davvero? > Lo presi in giro, separandomi dal suo abbraccio.

< Se hai così tanta paura, certo, perché no. > Fece spallucce e la sua espressione dolce mi fece mancare un battito.

Perché diavolo dovevo combattere contro tutti quei demoni? Perché non potevo semplicemente rilassarmi e godermi il suo amore? Perché dovevo sempre rovinare tutto?

< Mi dispiace... io... rovino sempre tutto... > Sbuffai, mordendomi le labbra per non rimettermi a piangere.

< Smettila di colpevolizzarti, Candice. Non stai rovinando assolutamente niente. Io sono ancora qui, sarò ancora qui domani e dopodomani e fra un mese e per sempre, se tu vorrai, se mi permetterai di esserci. > Chiarì, accarezzandomi le guance con entrambe le mani prima di baciarmi la bocca.

< Sono dannatamente fortunata ad averti incontrato, sai? > Replicai, poggiando la fronte sulla sua spalla, cercando di calmare i battiti impazziti del mio cuore.

< Lo so. Cosa faresti senza di me? > Mi accarezzò i capelli, sorridendo, stringendomi a sé.

 

Raggiungemmo la 59esima strada, quella su cui si apriva uno dei complessi residenziali per famiglie più alla moda e, nonostante fossi passata di lì tantissime volte, in compagnia e non, mi faceva uno strano effetto sapere che, in fondo, né io, né Robert, né Kristen, abitavamo distanti l'uno dall'altra. Erano tutti luoghi che avrei potuto raggiungere tranquillamente a piedi.

< Kristen non alloggia in albergo? > Chiesi, guardandomi intorno. Non eravamo molto distanti da Central Park e riuscivo a percepire le grida dei bambini e il rumore dell'acqua delle fontane vicine.

< I suoi genitori sono proprietari di una dozzina di appartamenti qui, perciò non è stato difficile liberarne uno in occasione della sua visita. > Spiegò.

< Certo, avevo dimenticato che stiamo parlando di una star. > Mi diedi della stupida ed ebbi quasi voglia di schiaffeggiarmi da sola, anche se Robert aveva continuato a tenermi per mano lungo tutto il tragitto.

Ci fermammo di fronte ad una palazzina alta tre piani, in stile moderno.

Non ero più sicura di voler entrare, avevo un brutto presentimento.

< Che succede? > Mi chiese Robert, rendendosi conto che non contribuivo con i piedi al suo avanzare, rischiando così di costringerlo a trascinarmi.

Feci una smorfia.

< Ho paura. > Borbottai.

Tornò indietro, parandomisi di fronte.

< Hai paura di Kristen? > Pronunciò il suo nome come se fosse stata una barzelletta, facendomi sentire una codarda.

< E se mi saltasse addosso e cominciasse a picchiarmi? > Ok, era una situazione potenzialmente assurda quella che avevo delineato, ma in fondo non mi ero mai trovata a dover fronteggiare la ex di un ragazzo che stavo frequentando e che fosse, per di più, incinta.

< Stai pensando troppo, Candice. Ti si fonderà il cervello! > Scherzò, scompigliandomi i capelli.

< Non prendermi in giro! Parlo sul serio! > Sbottai, incrociando le braccia al petto e guardandolo truce.

< Andiamo! Come puoi pensare che voglia picchiarti? Neanche ti conosce! > Allargò le braccia in un gesto esasperato.

< Sì, ok, continua pure a ridere di me. Ti avverto che, in caso avessi ragione, ti userò come scudo umano. > Gli feci una linguaccia e salii in fretta i gradini che ci separavano dal portone.

Robert citofonò, annunciandosi, e il portone si aprì con uno scatto.

< Non c'è bisogno dell'ascensore, è al primo piano. > Mi avvertì. Avevo le gambe molli dall'agitazione e mi tremavano le mani.

Lasciai che Robert suonasse il campanello, anche se la porta era socchiusa.

L'interno era ben arredato, le pareti color champagne, i quadri dalle cornici di legno raffinate e i tappeti colorati; era tutto perfetto e in ordine.

Si sentivano delle voci, probabilmente quelle della tv accesa e sarebbe sembrata disabitata, se non fossi stata certa del fatto che qualcuno aveva risposto al citofono.

Mi aggrappai al braccio di Robert, rimanendo dietro di lui, osservando tutto quello che mi circondava come se, da un momento all'altro, potesse esplodere, svelandoci la trappola e lui, per tutta risposta, mi accarezzò i capelli e sorrise per rassicurarmi.

< Kris? Dove sei? > Domandò lui ad alta voce.

< Sono in salotto, vieni pure. > La voce proveniva da una delle stanze in fondo al corridoio e, ovviamente, la proprietaria di quella voce, non sapeva che ci fossi anch'io.

< Non le hai detto che sarei venuta con te? > Mormorai in difficoltà.

< Pensavo che non ce ne sarebbe stato bisogno. > Si scusò in imbarazzo, costringendomi ad avanzare.

Mi lasciai trascinare di malavoglia; ero ancora in tempo per scappare, considerato che non si era accorta di me; potevo aspettarlo giù in strada o a Central Park.

Robert sbirciò in una delle stanze più grandi, quella da cui provenivano i rumori della tv, per assicurarsi che fosse quella giusta e poi entrò, afferrandomi la mano.

Si schiarì la voce per attirare l'attenzione ed io, fattami piccola piccola, scorsi due occhi verdi scrutarlo con attenzione, una massa di capelli castani spettinati e un enorme divano color avorio.

< Pensavo non saresti venuto. > Disse, raggomitolandosi sotto un plaid patchwork, come se avesse freddo o fosse raffreddata.

< Sì, sono in ritardo, hai ragione. > Mi strattonò per convincermi ad affiancarlo, anche se mi risultava difficile credere che non mi avesse vista: non ero alta quanto Robert, ma non ero certo una bambina che avrebbe potuto nascondersi dietro il suo papà senza essere vista.

Mi costrinsi ad uscire allo scoperto, in imbarazzo, lo sguardo che puntò, naturalmente, come per caso, a terra, non volendo soffermarsi su di lei.

< Kristen, lei è Candice; Candice, lei è Kristen. > Ci presentò ed io alzai solo una mano in segno di saluto, saluto che lei non calcolò neanche. Non sembrava molto interessata a noi.

< Siediti dove vuoi. > Disse rivolta a Robert, ma con lo sguardo fisso su di me.

E io cosa avrei dovuto fare? Starmene in piedi e contribuire all'arredamento?

< Allora... come stai? > Le domandò, sedendosi sul cuscino accanto al suo, mentre io, impacciata, decisi di occupare quello accanto a Robert, tentando di sfruttare meno spazio possibile, prendendo a giocherellare con i bottoni del mio cappotto.

< Come vuoi che stia? Sola e incinta. > Sbuffò. < Mi hai rimpiazzata subito, vedo. > Continuò e, anche se non potevo vedere la sua espressione, sapevo che stava sorridendo beffarda.

< Ti ho detto come stavano le cose, Kris. > Rispose Robert, all'improvviso stanco e triste, come se l'umore di lei l'avesse contagiato.

< Ho sentito dalla stampa che è una ballerina, una delle più promettenti della Julliard... > Riprese imperterrita. Perché continuava a far finta che non ci fossi? Perché parlava di me come se io non fossi lì, nella stessa stanza nella quale si trovava anche lei?

< Non sono qui per ascoltare... > Ma lei l'interruppe, prima ancora che potesse terminare la frase.

< Cos'è che ha più di me? E' più brava a letto? Cosa? > Quasi urlò. < Le ballerine condividono il sesso con tutti i loro partner, lo sapevi questo? > Continuò.

 

Vuole solo provocarti, Candice, solo provocarti. Respira. Calmati.

 

Nonostante la mia coscienza mi imponesse di restare calma e di non dare di matto, avevo, senza rendermene conto, stretto le mani a pugno, come se mi stessi trattenendo dal fare qualcosa di cui mi sarei sicuramente pentita successivamente.

< Ascolta, Kris, smettila, va bene? Non hai nessun diritto di dire queste cose, tu non la conosci. > Mi difese Robert, balzando in piedi e cominciando a misurare la stanza a grandi passi.

Mi lanciò un'occhiata colpevole a cui io non risposi, cercando di smettere di tremare.

< Forse scopa come una puttana, forse è questo che ti piace di lei... > Soppesò, fingendosi pensierosa, lanciandomi un'occhiata divertita.

< D'accordo, ce ne andiamo. > Robert, furioso, mi strattonò per un braccio, convincendomi ad alzarmi e a seguirlo nel percorso a ritroso per uscire di lì, gli occhi che mi pizzicavano per le lacrime trattenute.

Non sarei dovuta andare con lui.

Sapevo che era sbagliato.

E allora perché l'avevo fatto lo stesso? Perché non mi ero stata a sentire? Avrei potuto trovare una scusa, una qualsiasi e rinchiudermi nella mia stanza, poco importava se mi sarei consumata di gelosia.

Cercavo di convincermi che erano solo le parole di una ragazza arrabbiata, che aveva perso quello che, fino a poco tempo prima, considerava il suo ragazzo e che sarebbe stata costretta a crescere un bambino da sola, ma non riuscivo ad essere lucida e l'unica cosa che riuscii a fare, una volta fuori dal portone, fu crollare sui gradini dell'ingresso e piangere, poco importavano le parole consolatorie di Robert.

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Capitolo 12
*** Strenght ***


Salve!

Come preannunciato nel mio gruppo Facebook, visto che EFP è tornato nuovamente online, almeno per quello che mi riguarda, mi accingo ad aggiornare :)

Dunque, dunque, dunque... capitolo un po' particolare, nel senso che non so bene come sia uscito fuori (e quando mai lo so?!?), ma, sarà stato il mio umore altalenante di questa settimana, sarà stato il fatto che mi sentivo un po' come Candice e che avevo parecchi pensieri per la testa, il capitolo si è scritto praticamente da solo ed io ho assecondato solo le dita che si muovevano sui tasti del pc. La mia mente è così in fermento, che ho già cominciato il 12° capitolo, cosa più unica che rara, visto che sono sempre la solita ritardataria in tutto :D

Ci-emme-cu, un piccolo avviso sulla canzone che accompagnerà il capitolo: l'ho scelta soprattutto per il video (spero che coglierete l'analogia con il capitolo), non tanto per il testo della canzone in sé, anche se anche quello è significativo per Candice, quindi vi consiglio di guardare il video (prima o dopo il capitolo, decidete voi), perché possiate apprezzare quello che ho voluto dire in queste pagine.

Al solito, ringrazio chi ha letto, chi ha commentato e chi ha cliccato "like" allo scorso capitolo *.* e tutte le persone che hanno aggiunto la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare *.* Mille e ancora mille GRAZIE! <3

Non mi resta che augurarvi un buonissimo fine settimana e, al solito, una...

 

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Smile-Avril Lavigne

 

 

 

 

 

 

< Mi dispiace... non avrei dovuto chiederti di accompagnarmi... > Robert mi porse una tazza di tè caldo che io afferrai con mani tremanti.

Non avevo ancora smesso di piangere, solo i singhiozzi sembravano avermi abbandonata.

< Non importa... ha ragione lei, in fondo. Anch'io mi sarei comportata così al suo posto... > Rannicchiai le gambe al petto e bevvi un sorso di tè.

< Era solo arrabbiata, vedrai che le passerà. > Mi consolò, sedendosi vicino a me e sforzandosi di sorridermi.

Perché sarebbe dovuta passarle? 

Non erano stati gli ormoni impazziti a farla parlare così. Era arrabbiata, certo, ma al suo posto chi non lo sarebbe stata? Chi non avrebbe, anche solo per un secondo, pensato di aggredire quella che, a tutti gli effetti, era la ex del tuo ex ragazzo?

Non sapevo se Robert le avesse raccontato tutta la storia, ma poco importava, perché, nonostante tutto, riuscivo a capirla.

Non risposi, continuando a fissare lo schermo spento della televisione di fronte a me, impassibile.

< Va un po' meglio? > Mi domandò, sistemandomi i capelli dietro l'orecchio.

Feci spallucce.

< Vuoi che ti riaccompagni al residence? > Continuò.

Scossi la testa. Non potevo rimanere da sola, non volevo. Non avrei fatto altro che pensare a quello che era successo, alle parole di Kristen, al fatto che forse aveva ragione, Robert non aveva motivo di stare con me, non dopo che gli avevo fatto del male.

< Vuoi andare a letto? > Annuii solo perché non avevo voglia di ascoltare altre domande. Ne avevo fin troppe in testa.

Mi sollevò in braccio e mi depositò con delicatezza sul materasso, liberandomi anche delle scarpe.

< Dovresti cambiarti, dormirai male vestita così. > Mi fece notare, indicando i jeans, ma io non avevo voglia di dormire, non avevo voglia di niente. 

< Non ce n'è bisogno, sto bene, davvero. > Risposi, rannicchiandomi sotto le coperte.

< D'accordo, come vuoi. Ti raggiungo subito. > Mi baciò i capelli e sparì in bagno per qualche minuto.

Avvertivo le lacrime ricominciare a bagnarmi le guance, ma non potevo nulla per fermarle, non ne avevo la forza, anche se, che bisogno c'era di disperarmi, di sentirmi così triste? Non era la mia situazione a preoccuparmi; era quella di Robert a impensierirmi e, perché no, anche quella di Kristen. Non me ne stupivo: d'altronde, avevo sempre avuto la brutta abitudine di farmi carico delle pene degli altri, senza pensare alle mie, trascurandomi, perché sentivo di non essere mai abbastanza, di non poter essere abbastanza, in nessuna situazione.

Anche piangermi addosso non avrebbe aiutato nessuno, eppure era l'unica cosa che mi dava sollievo, era l'unica cosa che riuscivo a fare.

Quando sentii i passi di Robert nuovamente nella stanza, mi voltai, cercando di asciugarmi le lacrime senza essere vista. Si stese accanto a me e subito avvertii la sua presa calda intorno alla mia mano, mentre le gambe, coperte dal tessuto sottile del pigiama, si avvicinavano alle mie. Mi attirò a sé, abbracciandomi la vita, la mia schiena contro il suo petto, il suo respiro tra i capelli.

< Si risolverà tutto, vedrai. > Mormorò, baciandomi una tempia.

Mi morsi le labbra per trattenere le lacrime.

< E come? > Gracchiai, cercando di mantenere il controllo.

< Io voglio te, Candice e non permetterò a nessuno di dividerci. > Rispose, nascondendo il viso nell'incavo tra il collo e la spalla, come se volesse annusarmi.

< Kristen avrà bisogno anche di te per portare avanti la gravidanza, lo sai questo, no? > Gli feci presente con un sospiro.

< Sei gelosa? > Sorrise, accarezzandomi una ciocca di capelli.

< Non è per quello, lo sai. Non sei di mia proprietà. Dico soltanto che potresti renderti conto di aver fatto un errore quando hai deciso di lasciarla. Lei può darti molto di più di quello che potrei io. > Ribadii, il cuore che perse un battito, perché, anche se ero convinta di ogni singola parola, faceva male, bruciava come acido.

Sospirò contro la pelle scoperta del collo, facendomi rabbrividire.

< L'avresti pensato lo stesso se lei non fosse stata incinta? > Mi domandò.

Annuii.

Sospirò ancora.

< Senti, so che sono stato io a cercarti, che, se fosse stato per te, probabilmente avremmo continuato ad ignorarci, tu magari avresti continuato a far squillare il mio cellulare, pensando che avessi cancellato il tuo numero ed io, chissà, forse a quest'ora sarei stato a casa di Kristen, felice del fatto che lei fosse incinta, senza pensieri. Forse non avrei dovuto seguirti, quella sera, forse avrei dovuto lasciare le cose com'erano, ma non ce l'ho fatta. Ho incrociato i tuoi occhi, in quella sala, e ho pensato che non potevo lasciarti andar via così, senza che ci fossimo neanche parlati. Forse non era quello che volevi, quello che speravi, forse, la verità è che non sei più innamorata di me, Candice, è per questo che questa situazione ti spaventa, che credi di non esserne all'altezza. > Trattenni il respiro e una lacrima rotolò giù lungo la guancia, fino al mento.

< Non posso costringere nessuno a provare amore per me, Candice, lo sai. Se non sei a tuo agio qui, se non ti senti pronta, se non mi ami più, puoi andare via. > Continuò, nessuna traccia di rabbia nella sua voce, né di risentimento.

Allora era davvero quello il problema?

Davvero non lo amavo, come avevo sempre creduto fino ad allora?

Perché avevo cercato di contattarlo per tre anni, perché, nonostante tutto, avevo assistito all'intervista prima della premier e gli avevo permesso di corteggiarmi, di convincermi che, in fondo, potevamo ricominciare? Era stata solo un'illusione la mia, magari la voglia di non rimanere da sola mi aveva portata a conclusioni sbagliate sull'affetto che nutrivo per lui?

Possibile che non fossi più sicura di nulla?

Possibile che dovessi dubitare persino dei miei sentimenti, di quello in cui avevo creduto fermamente?

Possibile che fossi così debole, che non riuscissi ad impormi in nessun modo, neanche per le cose alle quali tenevo di più?

< Tu... tu credi che... insomma, che non ti ami più? > Borbottai a mezza voce, le lacrime che mi oscuravano la vista, il suo respiro che si infrangeva ancora sulla mia pelle, le mani che mi solleticavano dolcemente i fianchi.

Mi voltai verso di lui, incrociando i suoi occhi color ghiaccio tristi e pensierosi. Mi strinsi a lui, alla sua maglia, che arpionai con tutte le mie forze, come se potesse sfuggirmi, alle sue spalle forti.

Lo vidi chiudere gli occhi e scuotere le spalle: non sapeva cosa rispondermi. Se non ero in grado neanch'io di trovare una risposta a tutte le domande che mi si affollavano nella testa, come avrebbe potuto farlo lui, o chiunque altro?

< Se sei così convinta che io debba tornare da Kristen, forse è perché non mi vuoi al tuo fianco, forse perché è tutto troppo difficile, forse perché, dopotutto, sono trascorsi tre anni dalla fine della nostra relazione e... non lo so, ti sei semplicemente abituata a non avermi intorno, a dover pensare soltanto alle lezioni, alla danza, al prossimo spettacolo in teatro... non lo so, non so a cosa pensare... > Rispose, accarezzandomi i capelli.

Lui era stato gentile con me, fin da subito; non mi aveva rimproverata come mi sarei aspettata, non mi aveva urlato contro, aveva cercato di riportare le cose a quelle di un tempo, mi aveva convinta a tentare ancora, a darci ancora una possibilità, ed era così che lo ricambiavo, facendogli credere che non tenessi più a lui, che avessi solo voluto accontentare un mio capriccio? Non era così che volevo che andassero le cose tra di noi.

Mi era mancato, avevo sentito la sua mancanza ogni singolo giorno durante quei tre anni di lontananza, avevo rivissuto il nostro ultimo bacio all'aeroporto così tante volte, che spesso mi capitava di confonderlo con la realtà, avevo cercato di ricordare il tocco gentile delle sue mani, il modo in cui mi accarezzava i capelli, il rossore che gli colorava le guance quando gli facevo un complimento, il senso di sicurezza e di appartenenza che provavo quando facevamo l'amore, l'illusione che potesse durare per sempre, che saremmo sempre rimasti uniti; lo avevo fatto, davvero, con tutta me stessa e avevo sognato per mesi un nostro possibile incontro a New York, ma adesso? Adesso cosa mi era rimasto di quei sogni, di quei ricordi? 

< Forse ho solo complicato le cose, non avrei dovuto proporti di ricominciare daccapo, di fare finta che questi tre anni di lontananza non fossero mai esistiti... > Sospirò, osservandomi attento.

Avevo ancora gli occhi e le guance bagnati di lacrime e lo sguardo perso sulla parete di fronte, quella su cui campeggiava uno specchio da cui, in posizione supina, riuscivo appena ad intravedere la testiera del letto.

< Voglio solo che tu sia felice, Candice. Se non è con me che puoi esserlo, d'accordo, me ne farò una ragione, ma non posso sopportare i tuoi continui dubbi, il tuo continuo sottovalutarti. > Sentii le sue parole, ma non riuscii a reagire. Avevo come l'impressione che si fosse tutto spento, che il mio cuore avesse smesso di battere, che sarei potuta rimanere distesa lì, su quel letto, per sempre, mentre il mondo continuava il suo vorticoso girare ed io rimanevo immobile, inosservata, ignorata.

< Dormi, domattina avrai le idee più chiare. > Mi sorrise e mi baciò la fronte, stringendomi in un abbraccio caldo che, nonostante la mia disperata voglia di sentire qualcosa, non mi trasmise nulla, se non freddo e tristezza.

Chiuse gli occhi, la mano ancora intrecciata alla mia, le dita che stringevano ancora la sua maglietta all'altezza dei fianchi.

Chiusi gli occhi e li riaprii, ma non era un sogno, era la realtà ed io la stavo subendo nel più crudele dei modi, non stavo reagendo, stavo soltanto accettando passivamente gli eventi.

Dormire non mi avrebbe aiutata ad avere le idee più chiare; in realtà, non ero confusa e non avevo neanche bisogno di riflettere. Ero stata svuotata da qualsiasi forma di emozione, da qualsivoglia pensiero; la mia mente era un buco nero profondo e sconfinato nel quale venivo risucchiata senza che potessi aggrapparmi a qualcosa per non scivolare via.

Come avrei potuto lasciarmi andare al sonno dopo tutto quello che mi aveva detto e che, in qualche modo, rispecchiava la verità?

Non mi sarei svegliata credendo che fosse stato solo un incubo, un brutto sogno da dimenticare, anzi; la realtà mi si sarebbe scagliata contro con la potenza di un tornado e sarebbe stato peggio.

Osservai il volto di Robert a pochi centimetri dal mio, gli occhi chiusi, il respiro regolare e le labbra appena socchiuse.

Non potevo non amarlo; era assurdo, incomprensibile, assolutamente folle, eppure, era quello che lui aveva percepito, quello che io, volontariamente o involontariamente, gli avevo trasmesso.

Sospirai, chiudendo nuovamente gli occhi.

Mi mancava l'aria, non riuscivo a respirare in maniera regolare e il cuore non voleva saperne di regolarizzare i suoi battiti. Volevo piangere, piangere e correre fuori da quell'albergo, correre non importava dove, correre fino a non avere più ossigeno nei polmoni, fino a rendermi conto che mi ero persa e che, in fondo, la sensazione di ignoranza non era così male come la dipingevano. Volevo dimenticarmi di quella sera, di quei giorni, volevo riavvolgere il tempo fino a rendermi conto che potevo ancora cambiare le cose, che potevo sempre prendere una decisione differente.

Non potevo e questo mi logorava.

Non riuscivo a stare distesa, non riuscivo a prendere sonno o a fissare il soffitto, perciò scostai le coperte con attenzione, cercando di fare meno rumore possibile e camminai in punta di piedi fino in cucina, dove mi sistemai su uno degli sgabelli della penisola di legno centrale. Afferrai un foglio lì vicino e una penna e cominciai a scarabocchiare senza senso, cercando di distrarmi, di non pensare.

Quando la penna mi sfuggì di mano, rotolando fino a cadere a terra, mi resi conto che stavo piangendo e che tremavo come una foglia.

Accartocciai il foglio e lo lanciai lontano, lasciandomi andare alle lacrime e ai singhiozzi, impotente e fragile come vetro.

Cosa poteva esserci di peggio?

Avevo faticosamente incollato i pezzi del mio cuore, li avevo avvolti nello scotch con cura, affinché non si staccassero e adesso, erano di nuovo a terra, sparsi ovunque ed io non avevo più la pazienza di rimetterli insieme, di far combaciare ogni pezzo con il suo gemello; ero rotta e il peggio era che non mi si poteva riparare come una sveglia, semplicemente sostituendo una pila.

La vista offuscata dalle lacrime, raggiunsi la terrazza, il vento freddo che mi faceva rabbrividire, costringendomi a riscaldarmi strofinandomi entrambe le braccia con le mani, le mille luci di New York che si stagliavano di fronte a me, il traffico che non si arrestava mai e, poco più lontane, le cime degli alberi di Central Park.

Respirai a pieni polmoni, cercando di calmarmi, cercando di ritrovare la lucidità necessaria per non impazzire completamente.

Forse, dovevo prendermi un periodo di pausa, tornare dai miei genitori a Londra e trascorrere qualche settimana in loro compagnia, lontana da tutto e tutti; forse, dovevo staccare la spina e tornare ad essere me stessa, quella che avevo abbandonato tre anni prima, quando avevo detto addio a Robert, alla mia città natale, a tutto quello che mi aveva permesso di diventare la ragazza che ero.

Avrei potuto allenarmi nella mia vecchia scuola di danza e sarei tornata in tempo per il saggio della Amnesty International. Poteva essere un piano perfetto, se solo non avesse significato scappare ancora.

Cielo, forse dovevo prendere sul serio il consiglio scherzoso di Lucas sull'andare da uno psicologo.

Mi asciugai le lacrime e tirai su col naso, guardandomi attorno, avvicinandomi al tavolo rotondo e alle sedie, prendendo posto su una di esse, giocherellando con le decorazioni floreali in plastica.

Era tardi, ma non ero stanca e non avevo sonno e poco importava se l'indomani avevo lezione, non era la prima volta che rimanevo sveglia l'intera notte, e poco importava se mi sarei congelata lì, al freddo, scalza e con una misera maglia a manica lunga di cotone.

< Diventerai un ghiacciolo, così. > Sussultai spaventata, prima di rendermi conto che era la voce di Robert, che mi raggiunse e mi posò un plaid sulle spalle, sorridendo appena.

< Non fa così freddo. > Mormorai, mentendo spudoratamente.

< Non è la serata migliore per dormire fuori, sai? Vieni dentro. > Mi tese la mano ed io la osservai per qualche istante prima di decidere di afferrarla per alzarmi in piedi.

Lo seguii nel salotto e poi di nuovo in cucina, dove lo vidi soffermarsi con lo sguardo sul foglio appallottolato a terra.

Lo recuperò e lo spianò con entrambe le mani sulla penisola, non riuscendo a distendere tutte le pieghe.

Era stampato e aveva tutta l'aria di essere qualcosa di importante, ed io, come se niente fosse, l'avevo completamente scarabocchiato, incurante.

Era buio, se non per la piccola luce che penzolava dalla mensola delle pentole, perciò non ci avevo fatto caso.

< Ehm... è stata colpa mia... mi dispiace... era qualcosa di importante? > Chiesi, sentendomi in colpa, arrossendo dalla vergogna.

< Un contratto che avrei dovuto valutare... > Rispose con indifferenza, voltandosi per andare ad aprire il frigorifero ed estrarre il cartone del latte, recuperando poi due bicchieri dallo sportello più alto.

< Oh... mi dispiace... non ci ho neanche fatto caso, credevo che fosse un foglio bianco... > Mi interruppe prima che potessi continuare.

< Non ha importanza. Non avevo comunque intenzione di accettare. > Sorrise e mi porse uno dei bicchieri di latte.

Abbassai lo sguardo, prendendo posto sul solito sgabello, lui accanto a me che sembrava studiarmi con attenzione.

< Non riuscivi a dormire? > Mi chiese gentile, cercando i miei occhi.

Scossi la testa.

< Ascolta, se è per quello che ti ho detto, sappi che ho solo cercato di renderti le cose più semplici, in un certo senso. La mia non era un'accusa, voglio solo capire cosa succede, perché ti sento così distante... > Cominciò, scostandomi i capelli dal viso per guardarmi meglio.

Alzai gli occhi sul suo viso, sui suoi capelli in disordine, anche se aveva dormito solo per mezz'ora, sui suoi occhi stanchi e sulle sue labbra rosse, infreddolite dal latte che aveva appena finito di bere.

< Non volevo darti un'impressione sbagliata, non voglio che tu creda che il mio affetto per te sia scomparso, non esista più. Mi sono solo ritrovata catapultata in una situazione più grande di me, ecco tutto. Non mi aspettavo che Kristen fosse incinta, né che tu volessi ricominciare daccapo, né che io mi sarei sentita così confusa... > Tentai di spiegarmi, giocherellando con il mio bicchiere ancora intatto.

< E' difficile, lo so, e lo diventerà ancora di più e io non voglio farti del male. Se credi di non essere pronta, non ti obbligherò a restare. > Rispose, lo stesso sguardo gentile di poco prima.

Annuii pensierosa, abbassando nuovamente lo sguardo, studiando le venature del legno.

< Non voglio lasciarti ad affrontare tutto da solo. > Era la verità, volevo davvero stargli accanto, essere d'aiuto.

< Non devi sentirti obbligata, non ti sto chiedendo di risolvere la situazione. > Mi fece presente.

< Lo so, è solo che voglio esserti vicino. Sono l'unica persona che conosci qui, a New York, a parte Kristen. > Feci spallucce. Non so cosa gli stessi dicendo: che non ero pronta per una relazione, ma che potevo ancora essergli amica? Che potevo sopportare entrambi i ruoli, quello di amante e confidente? Non ne avevo idea.

Questa volta fu il suo turno di annuire pensieroso.

< So che te l'ho già chiesto, ma non ho ottenuto una risposta concreta, per cui... non lo so, mi piacerebbe che rispondessi, questa volta. > Cominciò dopo qualche istante di silenzio.

Sapevo cosa stava per chiedermi. Arrossii, cercando di nascondermi per non mostrare il mio imbarazzo.

< Sei ancora innamorata di me? > Continuò alla fine.

Un mese prima non sapevo cosa potevo aspettarmi da lui: erano tre anni che non ci vedevamo, eravamo entrambi cambiati e non ero certa di poterlo riconoscere. Adesso, le cose erano cambiate ancora: lui era lo stesso Robert di sempre, nonostante la fama, nonostante una ex incinta ed io, anche se non ero la stessa Candice di un tempo, ero comunque ancora la solita ragazzina insicura e paranoica.

Presi un respiro profondo, perché mi rendevo conto che non potevo più temporeggiare, che non potevo più rispondere che non ne ero sicura, che avevo bisogno di tempo; un mese non era molto, certo, ma non me la sentivo di prenderlo ancora in giro.

Incrociai i suoi occhi azzurri in attesa, pieni di aspettativa e speranza.

< Sì, certo che lo sono. > Mormorai, arrossendo, il cuore che batteva veloce, rimbombandomi nelle orecchie.

Lo osservai sorridere e sporgersi verso di me per baciarmi una guancia con tenerezza, giocherellando con i miei capelli.

< Anch'io sono ancora innamorato di te, Candice. > Sussurrò, facendomi mancare un battito, incontrando, prima che potessi anche solo rendermene conto, le mie labbra per un bacio dolce che io approfondii, desiderosa del suo sapore.

Volevo davvero che le cose tra noi funzionassero.

Volevo davvero che mi considerasse il suo punto fermo. 

Volevo davvero che capisse che le mie insicurezze non derivavano da lui, dal suo comportamento, ma solo da me, dalla mia stupida mancanza di fiducia.

Volevo davvero amarlo.

Per farlo, però, avevo bisogno di una forza di cui non disponevo e che avrei potuto racimolare pian piano solo cercando di fare un passo alla volta, senza fretta, senza pretendere di avere sempre tutto sotto controllo.

Forse, dopotutto, avevo davvero bisogno dei miei genitori.

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Capitolo 13
*** Intense ***


Buongiorno a tutte!

Dunque, dunque, sono stranamente "puntuale" questa settimana, perché, sembra un miracolo, ma forse le mie preghiere sono state semplicemente ascoltate, in questi ultimi giorni ho scritto tantissimo, visto che mi sentivo piuttosto ispirata e sono felice di poter pubblicare a distanza di una sola settimana, se non vado errato.

E poi, rileggere questo capitolo mi ha permesso di non pensare ad una serie di orrorifiche immagini che ho visto tra ieri sera e stamattina; mi spiego meglio, va', non vorrei che rimaneste col dubbio :D; non so se seguite X-Factor su SkyUno, ma tant'è, ieri sera c'è stata la prima puntata live ed io, da appassionata di musica quale sono, me la sono vista tutta-tutta, da brava bambina. Insomma, tra i gruppi vocali, "governati" da Arisa, ci sono questi due fratelli, i Fréres Chaos, che, ogni volta che li vedo, mi fanno tornare in mente l'incesto O.o cioè, si comportano come se fossero amanti e non fratello e sorella, per cui la cosa ogni volta mi lascia piuttosto spiazzata, del tipo che mi faccio un sacco di trip mentali su come si possa amare un fratello o una sorella ecc, ammesso che loro abbiano una tresca familiare :D cioè, non voglio insinuare niente, per l'amor del cielo, ma insomma, il dubbio te lo fanno venire, ecco.

Poi stamattina apro Facebook e mi ritrovo davanti le immagini del Pattz e della Stew che si baciano e per poco non vomito la colazione (ve l'ho detto che non sono una Robsten, no?) e ho provato un ribrezzo infinito, quindi, l'unica cosa che mi ha distratta è stato il capitolo, indi per cui, mi sono rinchiusa nella mia cella privata di sogni e desideri e ho sperato davvero che Candice e Rob stessero insieme; tutto meglio della Stew, ne sono convinta. Anche perché, ok, tutti commettiamo degli errori e ovvio che se ami una persona tendi anche a perdonarla, avesse fatto la cosa più grave del mondo, ma non pensi che come ti ha tradito una volta, potrebbe benissimo rifarlo? Ma ok, la smetto, altrimenti scrivo un trattato sulla cosa e non ho nessuna intenzione di scatenare polemiche o simili.

Tornando al capitolo, stanno succedendo un mucchio di cose, la gran parte delle quali si risolveranno nel prossimo capitolo, mentre per le altre bisognerà attendere. Ribadisco, che ho così tante idee, che forse non basterebbero 50 capitoli per mettere tutto in scena, anche se temo che qualcosa, con l'evolversi della situazione, si eliminerà da sé, perciò, non preoccupatevi, quella dei 50 capitoli non è una minaccia :D

Al solito, ringrazio tutte le persone che hanno letto, commentato, inserito la Ff tra le preferite/seguite/da commentare *.* Je vous aime <3

Ancora, al solito, vi ricordo che il link della canzone che inserisco in ogni capitolo, dovrebbe essere ascoltato mentre si legge il capitolo, ma voi, ovviamente, fate come preferite, perché capisco che spesso leggere e ascoltare musica nello stesso tempo, potrebbe deconcentrare un tantino ;)

 

Buon fine settimana e...

 

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

My Heart-Paramore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La mattina dopo, quando mi svegliai, le ore di sonno perse si fecero sentire, tanto che, se Robert non mi avesse sollevata di peso e non mi avesse rinchiusa a tradimento nella doccia, azionando l'acqua fredda, non credo mi sarei mai decisa ad uscire dal letto.

< Grazie alla tua geniale idea di risveglio, i miei vestiti sono tutti bagnati. Come credi che possa andare a lezione? > Lo rimproverai, frizionandomi i capelli con un asciugamano, ancora avvolta nell'accappatoio di spugna dell'albergo.

Per tutta risposta, completamente indifferente, fece spallucce, continuando a spazzolarsi i denti con cura davanti allo specchio.

Gli diedi una gomitata, divertita, a cui lui rispose immediatamente; continuammo così per qualche minuto, finché non decise di provare a farmi il solletico, al che sventolai bandiera bianca, uscendo dal bagno.

I pensieri della sera precedente non mi avevano abbandonata, ma avevo deciso di fare un passo alla volta, di non affrettare troppo le cose e, per il momento, mi sentivo piuttosto decisa, anche se sapevo che la scalata sarebbe stata lunga e faticosa.

Rovistai tra i vestiti di Robert alla ricerca di qualcosa da mettere, fin quando non ritrovai una delle magliette che gli avevo regalato io e che, nonostante fosse decisamente grande per me, aveva il pregio di fermarsi sui fianchi e di non sembrare un vestito. Per i pantaloni, non c'era speranza: non avrei potuto indossare un paio dei suoi, perché, come minimo, ci avrei navigato e poi perché avrei dovuto farci così tante pieghe affinché non ci inciampassi, che sarei solo risultata ridicola, perciò, valutai lo stato dei miei jeans chiari; erano ancora bagnati, senza contare che sarebbe stato impossibile anche solo riuscire ad infilarmeli, in quelle condizioni.

Mentre stavo valutando l'idea di usufruire del servizio lavanderia dell'albergo, sentii due braccia cingermi la vita da dietro e il profumo familiare della pelle di Robert raggiunse le mie narici, non appena si sporse per baciarmi una guancia.

< Dovresti andare in giro così; sei carina. > Mi solleticò con il suo respiro ed io rabbrividii di piacere, arrossendo l'istante successivo, rendendomi conto che ero praticamente svestita dalla vita in giù, fatta eccezione per gli slip, che ero riuscita miracolosamente a salvare dalla doccia, e i calzini.

< Grazie... > Balbettai, sentendomi ridicola.

< Hai fame? > Mi domandò ed io annuii, memore che non avevo toccato cibo dalla sera precedente. < La colazione è in terrazza. > Continuò, sistemandomi i capelli per raggiungere con le labbra anche la mia spalla.

Ok, dovevo ammetterlo, non ero più abituata a certe attenzioni, il che mi costringeva a comportarmi come una ragazzina inesperta.

Abbandonai i jeans bagnati sul letto e seguii Robert in terrazza, dove qualcuno aveva già provveduto ad apparecchiare per due.

Avevo tutta l'intenzione di sedermi comoda e servirmi, quando Robert mi afferrò un polso, prima che potessi anche solo allontanarmi per raggiungere l'altra estremità del tavolo.

< Dove scappi? > Mormorò, attirandomi a sé e facendomi accomodare sulle sue gambe.

Arrossii. Ancora. Dannazione, doveva smetterla di essere così... insomma, così maledettamente destabilizzante!

< A che ora hai lezione? > Mi domandò, imboccandomi come una bambina.

Lanciai un'occhiata all'orologio da polso, che segnava le otto e mezza.

< Fra un'ora e mezza. > Risposi, circondandogli le spalle con un braccio, cominciando a giocherellare con i capelli più corti della nuca.

< Non sono ammessi spettatori? > Sorrise, allungando un braccio per recuperare la mia tazza e riempirla di latte.

Aveva intenzione di vedermi ballare?

< Tecnicamente sì... > Cominciai, accettando di buon grado la tazza che mi stava porgendo.

< Ma...? > Mi osservò con aspettativa.

< Ma non credo sia il caso che tu venga. > Terminai, abbassando lo sguardo.

< Perché no? > Assunse l'espressione di un bambino a cui hanno appena negato un secondo giro sulle giostre.

< Beh, perché ci sarebbero un mucchio di ragazze e si creerebbe il caos e finiresti su tutte le riviste, senza contare che diventerei lo zimbello di tutti. > Ammisi con fervore.

Non volevo che dovesse sentirsi a disagio e non volevo dare modo a tutti di parlare della nostra relazione. Sapevo che, prima o poi, sarebbe venuto fuori, era inevitabile, ma volevo ritardare quel momento il più a lungo possibile.

< Se il problema sono le ragazze, posso indossare una benda. > Scherzò, accarezzandomi la schiena.

Gli risposi con una linguaccia e lui, in cambio, mi abbracciò, rischiando di farmi rovesciare la tazza.

< Mi manca vederti danzare, sai? > Mormorò, accarezzandomi i capelli e solleticandomi la pelle con il suo respiro.

Sorrisi.

< Manca anche a me saperti tra il pubblico. > Confessai. Cercare i suoi occhi, il suo sorriso, la sua espressione entusiasta e orgogliosa, mi era mancato come l'aria durante i saggi di fine anno alla Julliard, tanto che spesso mi ritrovavo ad osservare la folla nella speranza che comparisse il suo volto, per rendermi conto, l'istante successivo, che non sarebbe accaduto.

Chiusi gli occhi e inspirai il profumo della sua pelle, come se bastasse per portarlo sempre con me, per non sentirne il bisogno durante la sua assenza.

Mi accoccolai con la testa nell'incavo tra il collo e la spalla, mentre lui sorrideva e mi accarezzava un ginocchio, delineando il profilo delle ossa con la punta del dito, come se volesse studiarle.

< Avresti dovuto vestirti, sei una tentazione così svestita. > Sospirò, solleticandomi anche una gamba, facendomi venire la pelle d'oca.

< Sbaglio, o sei stato tu a portarmi sotto la doccia vestita? > Riuscivo a malapena a mettere in fila le parole, disorientata dalle sue carezze leggere.

< Ho decretato da solo la mia rovina, allora... > Chiuse gli occhi, raggiungendo le mie labbra.

Ricambiai il bacio con fervore, rendendomi conto che, quella volta, non mi sarei fermata e non avrei certo disdegnato un contatto più intimo, se solo il cameriere non ci avesse interrotti, bussando alla porta per ritirare le stoviglie e i vassoi.

Io, nel frattempo, mi ero rifugiata in camera da letto, sedendomi tra le lenzuola sgualcite e decidendo il da farsi circa i miei jeans ancora bagnati.

Non si sarebbero mai asciugati e dubitavo che con l'aiuto del phon potessi ottenere qualche risultato in tempi brevi.

Sbuffai, lasciandomi cadere all'indietro sul materasso, godendo dei raggi tiepidi del sole che riuscivano a raggiungermi.

< Allora, pensi di prendere un taxi così? > Robert indicò le mie gambe nude ed io mi voltai ad osservarlo, stringendo gli occhi per distinguere meglio la sua figura alla luce del sole.

< Probabilmente sì. > Risposi ironica. < Sarebbe una bella vendetta, osservarti morire di gelosia. > Continuai, sorridendo.

< E chi l'ha detto che sono geloso? > Mi osservò piccato, sedendosi accanto a me e studiandomi.

Incrociai le braccia al petto, indispettita, cercando di colpirlo con un piede, ma senza successo, tanto che lui rise divertito e quasi mi si gettò addosso, facendomi urlare dalla sorpresa.

< Stiamo diventando violente, Candice? > Mormorò il mio nome in maniera provocatoria, quasi come se fosse una caramella, bloccandomi i polsi con entrambe le mani, schiudendomi le gambe con un ginocchio, fissando i suoi occhi azzurri nei miei e costringendomi ad arrossire.

Non risposi, persa nella contemplazione del suo viso e nella voglia che avevo di baciarlo e di accarezzargli i capelli.

Spostò lo sguardo sulla mia bocca e poi di nuovo nei miei occhi, quasi chiedendomi il permesso ed io, come se non avessi atteso altro, sollevai appena il capo, inarcandomi contro di lui, costringendolo a baciarmi.

Mi sfuggì un gemito di piacere, quando allentò la presa da uno dei miei polsi e mi sollevò la maglietta, cercando la mia pelle.

Feci lo stesso con la sua, accarezzandogli la schiena, inclinando il viso per permettergli di raggiungere anche la pelle più sensibile del collo, facendomi boccheggiare.

Sospirò rauco, sollevandosi in ginocchio per sfilarsi la maglia, mentre le mie mani gli accarezzavano i fianchi e le braccia.

< Vuoi che mi fermi? > Sussurrò con difficoltà, accarezzandomi un seno.

Avevo la gola così secca, che dubitavo che sarei mai riuscita a parlare, così, scossi solo la testa, sorridendogli e strattonandogli i capelli, ottenendo in risposta un bacio veloce che mi lasciò insoddisfatta.

Non mi sembrava così sbagliato fare l'amore con lui e la tensione e la vergogna che provavo, erano niente in confronto al desiderio che avevo di sentirmi completamente sua, poco importava il resto.

Evidentemente, non tutti la pensavano al mio stesso modo, perché ad interromperci ci pensò il mio cellulare, la suoneria che avevo associato al numero di Sophia, al massimo, tanto che solo un sordo sarebbe riuscito ad ignorarla.

< Devi proprio rispondere? > Continuò a baciarmi, mentre io tentavo di recuperare l'aggeggio infernale dal comodino.

< Scusa. > Alzai gli occhi al cielo, aprendo la comunicazione.

Sentii un vociare concitato e qualcuno che cercava di zittirlo.

< Soph! Che succede? > Osservai Robert stranito e lui ricambiò con un'occhiata accigliata.

< Candy, ma dove sei? > Urlò nel frastuono.

< Tu dove sei! > Ribadii, urlando a mia volta, mentre Robert si distendeva al mio fianco, lasciandomi la possibilità di mettermi seduta.

< Oh, non ci fare caso, sono solo le matricole che fanno chiasso! > Rispose ed io mi rilassai automaticamente; credevo che fosse scoppiata una rivolta.

< C'è qualche problema? > Le domandai.

< No! No, è che volevo assicurarmi che non ti fossi dimenticata della lezione della Robin, tutto qui. > La sentii sorridere. Da quando in qua Sophia mi telefonava per ricordarmi delle lezioni?

< Non me ne sono dimenticata, perché? > Sempre più perplessa, non potei fare a meno di riflettere su tutto il caos che sentivo.

< Perché... ecco... credo che avrai qualche difficoltà ad entrare a scuola, oggi... > Il chiasso sembrò diminuire considerevolmente.

< Davvero? > Insomma, ma cosa stava succedendo?

< Ok, senti, qui è pieno di giornalisti e paparazzi e non ho idea di cosa stia succedendo, in tutta franchezza; pare che Kristen abbia fatto qualche dichiarazione in merito alla sua gravidanza, al suo rapporto con Robert e al fatto che sta frequentando una ballerina della Julliard, una certa Candice e, insomma, quante Candice conosci che frequentano la Julliard? > Ammise tutto d'un fiato, tirando un sospiro di sollievo l'istante successivo, come se si fosse liberata di un peso.

Probabilmente divenni più bianca di un lenzuolo, perché anche Robert mi chiese cosa stesse succedendo.

< O-ok, senti, ti richiamo, ok? Dammi due minuti. > Balbettai alla fine, agganciando.

< Che succede? > Robert, accanto a me, cercò di incrociare il mio sguardo, ma senza successo.

< Pare che Kristen abbia fatto qualche dichiarazione in merito a quello che sta succedendo e che adesso i giornalisti e i paparazzi abbiano deciso di assediare la Julliard per intervistarmi. > Risposi atona. Ed io che non volevo che tutto il mondo ci stesse addosso, che volevo andarci con calma, un passo alla volta.

< Stai dicendo sul serio? Santo cielo! > Più veloce di un fulmine, recuperò il suo cellulare e in tutta fretta digitò un numero, portandosi l'aggeggio all'orecchio l'istante successivo.

Camminò nervosamente fino in terrazza e, siccome mi rifiutai di seguirlo, captai solo alcune parole dell'intera conversazione.

< Ok, Nick ha detto che tenterà di risolvere la situazione il più in fretta possibile e, nel frattempo, mi manderà qualcuno della sicurezza e una macchina. > Mi comunicò frettolosamente, guardandosi intorno, come se dovesse preparare le valigie per una missione in Iraq e non riuscisse a trovare l'attrezzatura adatta.

< Cosa facciamo? Ci presentiamo lì e facciamo finta di niente? > Mi alzai, infilandomi i jeans ancora umidi.

< Per il momento ti accompagno alla Julliard. > Era serio, mortalmente serio e, se lo conoscevo abbastanza, anche piuttosto arrabbiato.

I paparazzi e i giornalisti non mi spaventavano: ci ero già passata e sapevo cosa significava, ma all'epoca Robert era un astro nascente del cinema e non era così conosciuto, perciò, il massimo che avevo dovuto fare, era stato rispondere a qualche domanda e sopportare qualche flash quando uscivo con gli altri, oppure quando lasciavo l'Accademia per raggiungere il residence. Adesso le cose sarebbero state decisamente diverse, ne ero sicura.

 

< Pare ci sia un ingorgo, signore. > Ci annunciò l'autista, voltandosi verso di noi.

Tentai di sbirciare attraverso i finestrini; eravamo vicini alla Julliard e, anche se quella era una delle strade maggiormente frequentate dai turisti, specie in quel periodo dell'anno, non era mai successo niente del genere, il che poteva voler dire solo che i paparazzi e i giornalisti avevano formato una sorta di capannello nel bel mezzo della strada, probabilmente fatti allontanare dalla sicurezza dell'Accademia.

< Dovremmo almeno cercare di raggiungere il residence. > Affermai, voltandomi verso Robert.

< Non riusciremmo a passare inosservati in mezzo a tutta quella folla di giornalisti. > Aveva ragione. Probabilmente, se non mi avessero mai vista, sarebbe stato più semplice, ma sicuramente avevano già provveduto a riempire le pagine delle riviste con le foto delle interviste di qualche anno prima, ed io non ero cambiata molto, perciò non sarebbe stato difficile identificarmi.

< E se chiamassi Lucas? Potrebbe raggiungerci ed io potrei fingere di essere la sua fidanzata, qualcosa del genere... non baderebbero a noi. > Provai.

< Potrebbe essere un'idea. > Affermò al suo posto Dean, l'uomo della sicurezza che gli avevano affidato.

< D'accordo, prova a chiamarlo e vedi se riesci a farlo uscire di lì. > Sospirò.

Lucas rispose al secondo squillo, ma per lui, come per gli altri, non c'era possibilità di fuga. La direttrice aveva proibito a tutti di uscire dall'Accademia fino a quando i giornalisti non avessero deciso che non avevano niente da fare lì, il che, a detta di Robert, potevano volerci giorni.

< Forse dovremmo solo accontentarli. Avrebbero il loro scoop e se ne andrebbero. > Feci spallucce, a corto di idee e proposte.

Prima o poi avremmo dovuto affrontarli e non potevamo nasconderci per sempre, senza contare che Kristen aveva rilasciato una dichiarazione, perciò sarebbe stato da stupidi tentare di farci vedere separati, quando era ovvio che tutti credevano alle sue parole; inoltre, tutto ciò avrebbe screditato Robert, facendolo passare per un codardo, qualcuno che negava l'evidenza. Probabilmente lo sarebbe stato comunque, perché i giornalisti non tenevano poi tanto in conto la tua opinione, ma almeno lui avrebbe avuto la coscienza pulita.

< Siamo lo scoop del giorno, Candice, ci assalirebbero come belve affamate. > Si accigliò perplesso ed io sospirai.

< E allora cosa possiamo fare? Non possono cercarci in nessun altro posto tranne che qui, ma io non posso nascondermi nel tuo albergo e saltare le lezioni fin quando loro non si stancano. > Sbuffai arrabbiata. Quella situazione era assurda.

< Vi copro io. Anche volendo, non riuscirebbero ad avvicinarsi. > Contribuì Dean ed io lo ringraziai con lo sguardo per avermi appoggiata.

< D'accordo, facciamolo. > Si arrese, intrecciando una mano con la mia e chiedendo all'autista di fermarsi.

Non capii molto di quello che successe subito dopo; i flash scattarono da ogni dove e spuntarono microfoni e registratori portatili in attesa di qualche nostra dichiarazione, ma noi procedemmo semplicemente a testa bassa verso l'ingresso, aiutati dall'azione di Dean alle nostre spalle che non permetteva a nessuno di avvicinarcisi.

Guadagnammo l'ingresso dopo qualche istante, sospirando di sollievo. Mi accorsi solo in quel momento di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo.

L'Accademia sembrava essere rimasta quella di sempre, con il solito via vai tranquillo di ballerini, con i soliti professori che discorrevano con gli alunni fuori dalle aule dalle vetrate trasparenti, il solito vociare allegro e familiare. Il caos era fuori.

< Tutto bene? > Mi domandò Robert, stringendomi a sé.

Annuii, ricambiando la stretta.

Avrei dovuto spiegare un paio di cose alla Direttrice e tremavo al pensiero che potesse escludermi dal progetto di beneficenza per Amnesty International.

< Ho il permesso di assistere alla tua lezione, allora? > Mi sorrise, facendomi dimenticare per un attimo il mio futuro.

< Sei sicuro? > Alzai il viso scettica.

< Certo! Perché non dovrei? > Mi osservò, studiandomi attentamente.

Feci spallucce  e arrossii. 

Ok, il problema non era lui, ero io; io e il mio insensato imbarazzo all'idea che mi avrebbe osservata per due ore, con addosso soltanto una calzamaglia e un tutù.

< Farò il bravo e non darò fastidio. > Continuò, facendo sporgere il labbro inferiore per muovermi a compassione.

< D'accordo, se proprio insisti. > Lo trascinai verso la rampa di scale che ci avrebbe condotti al piano superiore, dove erano situate tutte le aule, svoltando poi verso destra in cerca della sala 103.

Sophia e Sam erano già lì e, non appena la prima mi vide, corse verso di noi, aprendo la porta di vetro, spaventando due ballerine che stavano per superarci.

< Come diavolo hai fatto a venir fuori da quel caos? Miss Stevens era furiosa e ha vietato a tutti di uscire; credo che dovresti passare nel suo ufficio, più tardi, a lezione conclusa... > Continuava a parlare, senza rendersi conto che sia io che Robert la stavamo ormai fissando senza registrare alcunché.

Mi schiarii la voce durante una sua pausa, indicando la mia destra.

< Oh... > Disse soltanto, arrossendo.

< Sophia, lui è Robert; Robert, lei è Sophia, una delle mie migliori amiche. > Li presentai. Robert tese la mano verso di lei, sorridente come sempre, ma Sophia la ignorò, gettandoglisi addosso e abbracciandolo, neanche fosse il padre che non vedeva da mesi.

< Piacere di conoscerti, Robert! Posso chiamarti Rob, vero? Come sono emozionata! Conosco una delle star più affermate al mondo! > Quasi urlò e Robert mi lanciò un'occhiata esasperata, chiaramente convinto di avere a che fare con una pazza.

< Abbassa la voce, Soph, così ci sentiranno tutti... > Le feci notare, tirando entrambi in disparte, anche se non sarebbe servito a molto, visto che le ragazze all'interno dell'aula sembravano aver già notato il mio accompagnatore e confabulavano tra di loro, senza avere il coraggio di avvicinarsi.

Le capivo: probabilmente avrei reagito come loro se si fosse presentata una di noi accompagnata da una stella del cinema come Robert, ma non volevo tutta quell'attenzione ed ero sicura che neanche Robert sarebbe stato felice di essere circondato da ragazze in cerca di un autografo, di una foto o di un abbraccio; senza contare che Dean era ritornato alla macchina, convinto che in Accademia non avremmo avuto bisogno di lui.

I corridoi cominciavano a svuotarsi, complice il suono della campanella che annunciava la ripresa delle attività.

< Non dovrebbe rimanere qui, sai? Dovresti dargli la chiave della tua stanza al residence. > Suggerì Sophia, guardandosi in giro.

< In realtà, volevo assistere alla lezione... > Intervenne lui in imbarazzo, stropicciandosi i capelli.

< Cosa?!? Non esiste! E se ti vedesse Elena? > Sbuffò, come se stesse ripetendo le tabelline ad un bambino troppo distratto per memorizzarle.

< Chi è Elena? > Chiese spiazzato.

< Una lunga storia... > Liquidai io, vedendo sopraggiungere Miss Robin. Frugai nello zaino alla ricerca delle chiavi della mia stanza al residence e, quando le trovai, gliele misi in mano.

< C'è una seconda uscita proprio alla fine del corridoio che sbuca in un vicolo; vai a destra e troverai il residence. Prendi anche il mio tesserino, io entrerò con Sophia. La mia è la seconda stanza al terzo piano, numero 324. > Lo istruii. Era come essere in un film di 007; sembrava gli stessi fornendo tutte le istruzioni per sfuggire a dei criminali.

< O-ok. Ci... ci vediamo più tardi, allora. > Annuì, chinandosi appena per baciarmi le labbra e accarezzarmi i capelli.

< A dopo. > Confermai, stringendogli la mano.

Sarebbe stata una giornata intensa.

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Capitolo 14
*** Kill ***


Salve!

Eccomi qui con l'aggiornamento quasi-puntuale. Avrei dovuto aggiornare ieri sera, ma poi EFP ha avuto dei problemi e, proprio quando stavo per mettermi all'opera, ho scoperto che il sito non funzionava, quindi ho dovuto rimandare ad oggi.

Beh, cosa dirvi? Qui piove a dirotto da un'ora ormai ed io sono in ansia per l'esame di Letteratura Francese I di martedì, senza contare che devo ancora ripetere tutto per bene, perciò, cosa ve lo dico a fare?, solo Candice e Rob riescono a distrarmi, fortunatamente, infatti, per consolarmi, rileggo i capitoli mille volte, tanto che sembro una specie di ossessa :D

In ogni caso, in questo capitolo, conoscerete un po' anche Elena e il suo bel caratterino, ovviamente intollerabile per Candice e abbiamo anche una sorta di appuntamento al ristorante per i due piccioncini, anche se non si tratta di una cena.

Come al solito, ringrazio tutte le persone che hanno letto, commentato, sbirciato lo scorso capitolo e coloro che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare *.* GRAZIE AL CUBO! <3

Se volete avere un'idea del ristorante menzionato del capitolo, questo è il link ufficiale del locale: The Loeb Boathouse Central Park.

Non mi resta che augurarvi un Buon Week-End e, al solito, una...

 

 

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando rientrai, utilizzando una copia delle chiavi che ero riuscita a strappare al sorvegliante pomeridiano dei residence con la scusa che, probabilmente, dovevo averle perse la sera prima in un club e promettendogli che non sarebbe più accaduto, Robert fissava la strada dalla finestra, gli occhi spenti e il vociare ancora persistente dei paparazzi davanti all'entrata dell'Accademia che, sebbene fossero diminuiti rispetto a quella mattina, sembravano avere tutta l'intenzione di soggiornare lì ancora per molto.

Dovevamo utilizzare un'uscita secondaria per raggiungere il residence, autorizzati da Miss Stevens con cui, nonostante ci avessi provato, non ero riuscita a parlare; sembrava fin troppo presa dalla gestione di quell'insulso attacco giornalistico ad una delle Accademie più importanti dello Stato e alla vita privata di una delle sue migliori allieve, come l'avevamo sentita urlare con un avvocato in corridoio.

Forse, dopotutto, non aveva intenzione di escludermi dal saggio di beneficenza.

< Ehi. > Lo salutai, richiudendo la porta dietro di me.

< Ciao. Com'è andata la lezione? > Mi chiese, voltandosi a guardarmi e sorridendomi spento.

< Bene. > Poggiai il borsone accanto alla scrivania e mi liberai del cappotto, che appesi alla sedia lì vicino. < Tu cos'hai fatto di divertente in queste due ore? > Continuai, sedendomi sul letto con un sospiro: gli allenamenti erano sempre più duri ed io sempre più stanca.

Fece spallucce, lasciando ricadere la tenda contro i vetri, studiando la moquette azzurra.

< Non hai curiosato nella mia stanza? > Io l'avrei fatto, se fossi stata in lui; era la parte più divertente dell'essere rinchiuso in una stanza che non ti apparteneva.

< Perché avrei dovuto? > Mi domandò scettico, sorridendo appena.

< Beh, perché è una cosa divertente. > Risposi sarcastica.

< Beh, non ho rovistato nei tuoi cassetti, né nel tuo armadio, né in bagno, né nel tuo pc, né nel tuo comodino e non ho letto il tuo diario segreto. > Elencò, sbuffando divertito e allucinato.

< Io non ho un diario segreto. > Non ne scrivevo più uno da quando avevo sette anni.

Fece spallucce.

< Hai rovistato tra i miei libri, però. > Sorrisi, indicando la mensola su cui li avevo scrupolosamente sistemati. Le copertine non erano allineate, segno che qualcuno li aveva sfilati per leggerne il titolo.

Arrossì, colpevole.

< Mi hanno incuriosito. Non pensavo che avessi anche tempo di leggere... > Si giustificò, scompigliandosi i capelli con una mano.

< Ehi, mi stai dando dell'ignorante? > Scherzai, fingendomi profondamente offesa.

< No! No, è che... sai, i corsi, i saggi... > Balbettò in difficoltà ed io risi, lasciandolo di stucco.

< Leggo prima di andare a letto, per distrarmi e non pensare a tutte le cose che... beh, che mi sono lasciata dietro. > Ammisi.

Mi raggiunse, sedendosi accanto a me.

< Sei pentita delle tue scelte? > Mi domandò, scrutandomi. Anche se avessi mentito, sarebbe stato capace di leggere la verità nei miei occhi.

< A volte sì. A volte penso che se non ti avessi detto addio, se avessi deciso di parlarti della mia decisione di venire a New York a studiare danza, probabilmente non ci troveremmo in questa situazione, adesso e Kristen non sarebbe incinta ed io non avrei uno stuolo di paparazzi in cerca di uno scoop succulento. Poi mi dico che, in fondo, tu adesso hai la tua carriera di attore, hai sfruttato una possibilità e se ci fossi stata ancora io nella tua vita, saresti stato costretto a scegliere, perciò, a volte, penso che sia stato meglio così. > Confessai tutto d'un fiato, gli occhi che pizzicavano per le lacrime che facevo

 fatica a trattenere.

< Evidentemente il destino aveva per noi altri piani. > Mi accarezzò una guancia con il dorso di un dito, sorridendomi dolce.

< Già, a quanto pare sì. > Sorrisi anch'io, tirando su col naso.

< La tua stanza mi piace. > Riprese dopo qualche minuto di silenzio, guardandosi attorno.

< Vuoi fare cambio? > Gli proposi, pensando alla sua suite d'albergo.

Rise.

< Dico sul serio, non è una stanza anonima, ti somiglia. > Cercò di spiegarsi.

< Ho solo aggiunto qualche mensola per i libri. > Feci spallucce.

< Mi perdoni, signorina Modestia, se l'ho sopravvalutata. > Mi pizzicò un fianco, costringendomi a saltare come una rana per il solletico.

< Il solletico non vale, è sleale! > Protestai, cercando di ricambiare, senza successo.

< L'hai voluto tu! > Si giustificò, afferrandomi per i fianchi, facendomi ricadere distesa sul materasso, sovrastandomi e continuando a solleticarmi senza sosta, tanto che, alla fine, ero senza fiato e mi faceva male la pancia dal troppo ridere.

< Basta! Ti prego... ti prego, mi arrendo, basta! > Biascicai tra una risata e l'altra, cercando di fermargli le mani.

< Cosa? Non ho sentito. > Sorrise beffardo, prendendomi in giro.

< Mi arrendo! > Alzai la voce e lui, gli occhi ancora scintillanti di divertimento, il sorriso ad increspargli le labbra, mi sistemò i capelli sulla fronte, facendomi riprendere fiato.

< Tutto ok? > Mi domandò, scrutandomi accigliato.

Annuii.

Strofinò il naso contro il mio, gli occhi socchiusi, le mani che corsero ai suoi capelli, scompigliandoli. Lo baciai, cercando di catturare il sapore della sua bocca, di imprimerlo nella mia memoria, di assaporare il calore confortante del suo corpo sul mio, lo stesso calore che mi ricordava casa, il tocco gentile delle sue mani che avevano intrappolato le mie, ancora tra i suoi capelli e che aveva dolcemente guidato sulle sue spalle, che io avevo accarezzato, procedendo ancora più giù, lungo la schiena e i fianchi.

< Hai lezione oggi pomeriggio? > Mi domandò in un sussurro, separandosi dalle mie labbra.

< Devo provare le nuove coreografie per il saggio di beneficenza. > Alzai gli occhi al cielo, consapevole che mi attendeva un pomeriggio difficile e pieno di discussioni, visto che la coreografa sarebbe stata Elena.

< Non ne sei così entusiasta. > Osservò, baciandomi una guancia.

< Lo sono, solo che la coreografa non è esattamente la mia migliore amica... > Risposi, sbuffando.

< Rivalità tra ballerine? > Scherzò, proseguendo con la sua scia di baci fino al collo.

< Qualcosa del genere. > Sospirai, lasciandolo fare.

< Mi meraviglio di te, Candice; così socievole, così carina, così prudente... > Mi prese in giro, incrociando il mio sguardo.

Gli feci una linguaccia, alla quale rise di gusto, pizzicandomi un braccio e stendendosi accanto a me.

< Hai fame? Posso chiamare Dean e farci scortare a pranzo da qualche parte nei dintorni. > Mi guardò pieno di aspettative.

Non rifiutai. Stavo morendo di fame dopo un'intera mattinata di balletto.

< Non credi che se chiamassimo Dean, i paparazzi potrebbero seguirlo? Avranno intuito che è la tua guardia del corpo, ormai. > Riflettei ad alta voce dal bagno, dove mi stavo cambiando della tuta e stavo cercando disperatamente di acconciare i capelli in modo che non risultassero del tutto un disastro.

< Credi che dovremmo andarci da soli? > Rispose, alzando appositamente la voce per farsi sentire.

< Non passerebbe certo inosservato; noi, almeno, possiamo utilizzare sempre una strada secondaria. > Ero quasi certa che i paparazzi avessero ormai associato l'imponente figura di Dean a Robert, perciò sarebbe stato impossibile non attirare la loro attenzione, specie perché avremmo dovuto indicargli un luogo conosciuto presso cui attenderlo e, con tutta probabilità, qualcuno avrebbe potuto riconoscere Robert, visto che Kristen era già uscita allo scoperto, avvisando tutti della sua presenza in città, cosa che molti giornalisti ritenevano improbabile fino a qualche giorno prima, considerato che, per loro, Robert non avrebbe dovuto avere interessi nella Grande Mela, dopo la premier.

< D'accordo, ma sarà meglio che lo avvisi comunque; non vorrei trovarmi sprovvisto di sicurezza se per caso qualche giornalista spuntasse all'improvviso da un cespuglio. > Cercò di scherzare, ma capii benissimo dal suo tono, anche senza doverlo guardare negli occhi, che era in realtà piuttosto teso e nervoso.

Inspirai profondamente per distendere i nervi, ed uscii dal bagno, Robert che armeggiava ancora con il suo iPhone, deciso a comunicare a Dean i nostri spostamenti.

Come da copione, utilizzammo l'uscita secondaria, passando del tutto inosservati, per poi raggiungere il retro dell'edificio, completamente deserto.

< Dove vuoi portarmi? > Chiesi curiosa.

< Possiamo raggiungere Central Park da qui? > Mi domandò invece, guardandosi intorno.

< S-sì, certo. > Ero perplessa, dovevo ammetterlo. Non voleva portarmi in un ristorante?

Circumnavigammo l'Accademia e raggiungemmo Central Park senza problemi, superandone i cancelli e venendo invasi dal solito vociare della natura e dagli sportivi che avevano approfittato della pausa pranzo per un po' di jogging.

Camminammo per un po', in silenzio, fin quando non raggiungemmo il lago, quello presso il quale era possibile noleggiare una barca e remare tra i grattacieli, ammirando il panorama.

< Vuoi noleggiare una barca? > Gli domandai scettica, sorridendo appena.

< In realtà, avevo parlato di pranzo, perciò... > Mi indicò un ristorantino sull'altra sponda, circondato da un'enorme terrazza, sulla quale erano stati apparecchiati numerosi tavoli.

< Non credevo ci fosse un ristorante qui. > Rimasi di stucco e neanche mi accorsi della sua mano intrecciata alla mia che mi trascinava verso l'ingresso.

Ci accomodammo ad uno dei tavolini accanto alla balaustra, l'odore dolciastro del lago, misto a quello della vegetazione rigogliosa che lo circondava e al cibo che veniva servito ai tavoli accanto al nostro, risvegliarono nella mia memoria la casa sul lago che eravamo soliti affittare d'estate con la mia famiglia, in Scozia.

< Come conoscevi questo posto? > Lo osservai con interesse.

< I miracoli della tecnologia. Ho semplicemente fatto una ricerca su Google. > Ammise con candore, agitando il cellulare.

< E' bellissimo, comunque. > Sorrisi, tornando con lo sguardo al lago.

< Questo ed altro per una signorina affamata. > Scherzò.

< Anche se ci abbiamo impiegato quasi venti minuti per raggiungere Central Park. > Gli feci notare, facendogli una linguaccia.

< Ah-ah, divertente. > Borbottò senza entusiasmo, imbronciandosi come un bambino. < Non apprezzi affatto i miei sforzi di conquista... > Continuò dopo qualche istante.

< Conquista? > Ripetei spiazzata. < Non sapevo che avessi bisogno di conquistarmi. > Riflettei.

< Volevo fare una cosa carina per te, tutto qui. E' un modo come un altro per farti capire che tengo a te e che non vorrei essere da nessun'altra parte, con nessun'altra. > Rispose, stringendomi una mano, accarezzandola con gentilezza.

Ricambiai il sorriso.

< Non sono sicura di meritarti, sai? Voglio dire, non faccio altro che prenderti in giro, e invece tu sei così gentile con me... insomma, sono un'ingrata. > Sbuffai, facendolo ridere.

< A me va bene. Sei semplicemente te stessa ed io non chiedo di meglio. > Avevo come l'impressione che, per la velocità con cui il mio cuore batteva, da un momento all'altro mi sarei ritrovata a terra, priva di sensi, o che sarebbe esploso ed io avrei perso tutto.

Era troppo bello per essere vero, eppure i suoi occhi mi stavano davvero osservando felici, le sue dita stavano davvero accarezzandomi la mano con gentilezza; aveva ragione, con lui ero semplicemente me stessa, senza freni e senza imbarazzi, anche se, a volte, il pensiero del nostro incontro, qualche mese prima, mi faceva ancora arrossire. 

Eppure, in maniera del tutto sconclusionata, anche quella era la me stessa che avevo sempre nascosto, perché avevo sempre creduto che rivederlo, nonostante ne fossi ancora innamorata, non mi avrebbe provocato nessuna reazione, di nessun tipo; ero convinta che sarei rimasta a fissarlo inebetita, stravolta, totalmente insensibile, invece i miei sensi si erano risvegliati d'improvviso quando l'avevo rivisto, quando avevo riascoltato la sua voce, quando mi aveva afferrato la mano e quando mi aveva baciata. 

Ero una nuova me, una me che avevo seppellito tre anni prima e che non sarebbe mai venuta fuori senza il suo intervento, senza la sua voglia di chiarire, di riprovare. 

 

Dopo pranzo, sebbene mi sarebbe piaciuto trascorrere tutto il pomeriggio in sua compagnia, ci separammo all'uscita di Central Park. Dean lo attendeva per scortarlo in albergo, dove io avevo promesso di raggiungerlo non appena terminate le prove.

Rientrare in Accademia non fu difficile: optai per lo stesso percorso che avevo intrapreso con Robert e passai del tutto inosservata, anche se ormai la folla di paparazzi si era dispersa, limitandosi ad un gruppo ristretto di sei fotografi tenaci, decisi a portare a casa lo scoop del giorno.

Sospirai quando notai che all'interno della sala che avremmo utilizzato per le prove, una delle più grandi dell'Accademia, dalle enormi vetrate sul fondo e dagli enormi specchi alle pareti per le correzioni e l'auto-allenamento, Elena era già arrivata e stava provando le funzionalità dello stereo.

Ero in anticipo di soli venti minuti, eppure, sperai con tutto il cuore che Arthur e gli altri super eletti, come amavo definirci, visto che non eravamo costretti a superare l'esame di sbarramento, arrivassero in fretta, togliendomi dall'impiccio di dover, quantomeno, cercare di intraprendere un dialogo civile con colei che aveva fatto di tutto per spodestarmi.

Il suo ruolo di coreografa la poneva in una posizione di vantaggio rispetto a noi, semplici suoi allievi, perciò, non facevo neanche fatica a comprendere per quale motivo non avesse deciso di partecipare al balletto vero e proprio; avrebbe avuto più potere su di noi, in questo modo, ed ero sicura che avrebbe fatto di tutto per rendere palese la mia totale incapacità nel ruolo, nonostante il giudizio non spettasse a lei, considerato che, che a lei facesse piacere o meno, avrei fatto parte del saggio.

Si voltò appena quando aprii la porta, osservandomi con attenzione, come se non mi avesse mai vista.

< Sbaglio, o sei ingrassata? > Ribadì come saluto. Non seguivo una dieta come la sua, ma non avevo mai avuto problemi di linea, limitandomi semplicemente ad evitare troppi zuccheri e troppi grassi, senza rinunciare a nulla.

< Buonasera anche a te, vedo che siamo di buon umore. > Risposi sarcastica, ignorando il suo commento.

Fece spallucce, continuando a trafficare con qualche cd.

< Lo dicevo per te, sai? Lo stress, a volte, può essere un brutto nemico per il fisico. > Spiegò, probabilmente alludendo alla situazione dei paparazzi.

< Non sono affatto stressata, ma grazie dell'interessamento, è stranamente insolito da parte tua. > Non avrei potuto risultare più falsa, ma era più forte di me, non riuscivo a non risponderle a tono.

< Tengo a questo saggio tanto quanto te e non vorrei dover essere costretta a sostituirti; sai, la tua vita privata non è considerata un privilegio, qui. > Si voltò, mentre io mi liberavo della felpa, poggiando il borsone in un angolo.

Arrossii, neanche fossi colpevole di qualcosa.

< Neanche il tuo essere coreografa. > Replicai con astio. Le decisioni, dopotutto, spettavano sempre alla Direttrice, anche se lei, tecnicamente, avrebbe potuto avanzare delle proteste.

La sua replica fu interrotta sul nascere dall'arrivo di Arthur e Isabelle, l'unica ballerina di nazionalità francese riuscita ad entrare di diritto in Accademia senza essere provinata. Era un talento naturale, il suo: era nata per ballare.

< Sei riuscita a non ucciderla? Devi insegnarmi come si fa. > Mi sorrise Arthur, avvicinandomisi per baciarmi una guancia.

< Ho dovuto trattenermi... > Ricambiai il sorriso e abbracciai Isabelle, che mi lanciò un'occhiata comprensiva.

< Tutto bene per... sai, la storia dei giornalisti...? > Mi domandò, scrutandomi attenta.

Annuii.

< Sì, in fondo, non è come avere qualcuno che vuole ucciderti alle calcagna. > Sdrammatizzai, facendoli ridere di gusto.

< Però sono disposti ad immortalarti anche se inciampi e può essere altrettanto distruttivo, no? > Arthur mi fece un occhiolino, prima di cominciare a prepararsi.

Feci spallucce.

Era un po' come venire immortalata nella foto di un turista che vuole solo fotografare un monumento e tu, ignara, gli passi esattamente di fronte all'obiettivo; la foto è ugualmente bella e, fondamentalmente, il turista ha raggiunto il suo scopo, ma nel frattempo in quella foto ci sei anche tu e chissà che magari, un giorno, lui non si ritrovi a guardarla e pensi a chi sei, a cosa fai, perché eri lì in quel momento. Scatti casuali, in effetti.

E comunque, prima o poi, si sarebbero rassegnati alla cosa e ci avrebbero lasciato in pace.

Avevo appena terminato di allacciarmi con cura le scarpette, che Miss Stevens fece il suo ingresso nell'aula, sorridente come sempre.

< Signorina Steele, sarebbe così gentile da cominciare senza la signorina Johnson? Prometto di non rubarle più di qualche minuto. > Si voltò verso Elena, come se dovesse davvero chiederle il permesso di parlarmi.

< Ma certo, signora Direttrice, nessun problema. > Rispose lei sicura, sorridendole.

Arthur alzò gli occhi al cielo ed io sorrisi prima di seguire la Direttrice fuori dall'aula.

Ero nervosa all'idea di cosa mi avrebbe comunicato e, da una parte, avrei voluto giustificarmi, prendermi l'intera colpa di tutto quello che era successo con i paparazzi, di tutte le misure di sicurezza che aveva dovuto mettere in atto per colpa della mia avventatezza, ma, in fondo, non era colpa mia e neanche di Robert. Nessuno aveva avuto sentore della sua presenza a New York, fino a quando Kristen non aveva deciso di divulgare la notizia, perciò, mi morsi soltanto le labbra in attesa delle sue parole.

< Non ruberò molto tempo al suo allenamento, volevo soltanto comunicarle che, qualsiasi cosa succeda, i giornalisti non turberanno più la sua quiete o quella dei suoi colleghi. Ho espressamente chiesto alla Sezione Sicurezza di intensificare i controlli e di non permettere a nessuno di importunare voi o gli altri ballerini dell'Accademia su questioni private. > Sorrise, mentre io non feci altro che arrossire come una sciocca.

< Ma... insomma, lei non è... arrabbiata per ciò che è successo? > Balbettai in difficoltà.

< Furiosa renderebbe maggiormente l'idea, ma sono stata giovane anch'io ed essendo una delle celebrità dell'Accademia all'epoca, non ero in misura minore torturata dai continui flash delle macchine fotografiche, per non parlare dell'assoluta impossibilità di coltivare qualsivoglia rapporto all'esterno della Scuola. Non posso certo rimproverarle di essere innamorata, signorina Johnson. > Chiarì, continuando a sorridere.

Ricambiai.

< I-io... davvero, non so come ringraziarla... non avrei mai voluto causare tutti questi disagi alla Scuola... > Tentai, prima di essere interrotta.

< Suvvia, non dica assurdità! Lei è una professionista eccezionale, la sua vita privata non conta. Se è un attore famoso che la rende felice, non è certo colpa sua. > Mi fece l'occhiolino, stringendomi le spalle a mo' di incoraggiamento.

< Può tornare al suo allenamento, adesso. > Continuò, allontanandosi.

Ci misi qualche secondo a riprendermi.

Miss Stevens non era mai stata una Direttrice severa, anzi, ma non credevo avrebbe gestito così bene la situazione paparazzi di quella mattina.

Dopotutto, ero solo innamorata, non avevo ancora ucciso nessuno.

Rivolsi lo sguardo ad Elena, intenta a mostrare un arabesque, come se fossimo dei ballerini alle prime armi e ritrattai il pensiero di poco prima.

Non avevo ancora ucciso nessuno, ancora.

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Capitolo 15
*** Overseas ***


Salve!

Solita, e quasi puntuale, consegna del venerdì per voi :D

Credevo che sarei riuscita ad aggiornare ogni settimana, ma purtroppo, quando ci si mette di mezzo l'ispirazione, c'è poco da fare, bisogna solo attendere che ritorni, altrimenti anche scrivere due righe diventa un'impresa titanica.

Probabilmente, con i prossimi capitoli, ci saranno altri ritardi, perché, maledetti loro, hanno modificato gli orari delle lezioni all'università a partire da lunedì, per cui, se adesso seguivo soltanto un corso, ora se ne sono aggiunti altri due e inutile dire che gli orari sono tra i più pessimi che mi sia mai ritrovata ad affrontare, con lezioni fino alle 19.30 :/ povera me, come farò?

Un lato positivo c'è, però: il venerdì pomeriggio sono libera (comincio a pensare che l'università si sia informata sul mio giorno prediletto per aggiornare); *ma anche no*;

Anyway, che dire del capitolo? Non ho idea di cosa ne potreste pensare, davvero, ma si inserisce nella vicenda un nuovo personaggio: la famiglia di Candice. Non sto insinuando che sia un male, eh, però non è neanche detto che sia un vero e proprio bene, non so se mi spiego.

Continuo a ripetere sempre che i guai sono in agguato, ed è la verità, purtroppo, però, non so dirvi di preciso il quando, il come e il perché, perché non sono solita stilare una scaletta dei capitoli, per cui, anche se mi rendo conto che, a volte, la tiro troppo per le lunghe, credo che, se sento il bisogno di scrivere di una determinata cosa, sia perché è necessaria, perché non sono solita andare fuori traccia, ecco.

Lo ripeto anche adesso: i guai sono in agguato e anche piuttosto vicini e belli grossi.

Detto ciò, prima di lasciarvi al capitolo, volevo, al solito, ringraziare tutte le persone che hanno letto lo scorso capitolo, che hanno scoperto solo ora questa Ff, che hanno trovato il tempo di recensire anche solo un capitolo, che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e che, a loro modo, mi sostengono ugualmente *.* THANK YOU! <3

Piccola precisazione sulla canzone di questo capitolo: inserirò il link, come al solito, all'inizio del capitolo stesso, ma, se volete seguire il mio consiglio, dovreste ascoltarla nella seconda parte del capitolo, dopo lo stacco. Non inserisco il link lì, perché non vorrei creare troppo caos, finendo per distrarvi troppo tra link, canzone e testo.

Non mi resta che augurarvi un Buon Fine Settimana e una...

 

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sing for Me-Yellowcard

 

 

 

 

 

 

 

 

Ero in ritardo mostruoso.

Le prove erano finite tardi e, considerato che avevamo avuto la possibilità di poter usufruire della sala migliore dell'Accademia fino ad un tempo massimo di cinque ore, Elena aveva voluto sfruttarle tutte, sfiancandoci.

Avevo i muscoli in fiamme e un mal di testa pazzesco per tutte le chiacchiere che eravamo stati costretti a sorbire, pronunciate dalla sua voce irritante.

< Non credo riuscirò ad alzarmi dal letto, domani mattina. > Bofonchiò Arthur, sbadigliando, contagiando tutti gli altri, me compresa.

< Non ho neanche la forza di aprire la porta... > Commentò Sandy, spingendo la porta d'ingresso con una spalla, mantenendola aperta per permetterci di uscire nella sera fredda e ventosa di New York.

Nessun paparazzo in vista, niente fotografi, né giornalisti.

Sospirai di sollievo.

Dovevo raggiungere Robert in albergo, e avrei preferito non essere seguita, né, tanto meno, fotografata o intervistata.

< Non vieni con noi? > Mi chiese Isabelle, quando si accorse che non li stavo seguendo verso i residence, ma mi ero invece fermata vicino al cartello Taxi. 

< Ho promesso a Robert che l'avrei raggiunto in albergo, perciò... > Arrossii, gesticolando impacciata.

Lei sorrise, facendomi l'occhiolino.

< Buona serata, allora! > Mi salutò con la mano e con lei tutti gli altri.

Forse sarei dovuta rientrare anch'io: ero stanca, avevo bisogno di dormire e l'indomani avevo lezione presto.

Per un attimo, valutai l'opzione di raggiungerli e di mandare un sms a Robert, scusandomi di non poterlo raggiungere.

Li seguii con lo sguardo fino all'entrata dell'edificio che ospitava le nostre stanze e li vidi entrare, uno alla volta, e fare un cenno alla guardia di turno.

Sospirai, tornando con lo sguardo al traffico, aguzzando la vista in cerca di un taxi.

In fondo, gliel'avevo promesso e poi, non dovevamo partecipare ad una festa, perciò, mi sarei semplicemente cambiata e mi sarei intrufolata sotto le coperte per una bella dormita.

Stavo giusto per prendere posto sul taxi che si era fermato esattamente davanti a me, quando sentii il suono inconfondibile dell'arrivo di un messaggio sul mio cellulare. Lo sfilai dalla tasca dopo aver comunicato l'indirizzo dell'hotel al tassista.

 

Cosa sta succedendo? Sei su tutti i giornali.

 

Mia madre. Le foto di quella mattina dovevano aver fatto il giro del mondo, ormai, considerato che a Londra era ancora mattina.

Non avevo voglia di spiegarle la faccenda con un sms, così optai per una telefonata.

< Mamma, ho letto il tuo messaggio. > Il mio modo di salutarla.

Sospirò prima di rispondere.

< Cosa sta succedendo? Perché non mi hai detto di aver ripreso i contatti con Robert? > Mi chiese, il tono di voce che assumeva solitamente quando non mi confidavo con lei.

< E' successo tutto così in fretta che... insomma, non ne ho avuto il tempo! > Tentai di giustificarmi senza farla arrabbiare. Sì, insomma, aveva ragione, non le avevo detto niente, non mi facevo sentire da settimane ed era inaccettabile che venisse a sapere di me dai giornali di gossip, senza contare che era stata lei la mia confidente numero uno quando ero ancora a Londra e mi ero fidanzata con Robert.

Mia madre era mia madre, ma era anche mia amica e, anche se ero cosciente che spesso le due cose non andavano d'accordo, perché una madre non poteva essere un'amica, per me era così: lei sapeva fare la mamma, quando avevo bisogno del suo lato materno e l'amica, quando avevo bisogno di qualcuno che mi stesse semplicemente ad ascoltare.

Era a lei che avevo confidato di essermi innamorata del mio miglior amico, di aver deciso di voler diventare la sua ragazza, delle litigate che avevo con Robert quando mi accusava di pensare solo alla danza e troppo poco al rapporto con lui, di come mi aveva baciata la prima volta, durante una mattinata di vagabondaggio a Londra, di come mi facesse sentire in pace col mondo e di come mi sentissi bene tra le sue braccia; era a lei che avevo confessato, seppur con estremo imbarazzo, balbettando, arrossendo e vergognandomi come una bambina che aveva rotto un vaso prezioso, che avevamo approfittato del fatto che loro erano andati a trovare la nonna ad Oxford per qualche giorno, per fare l'amore. Non che avessi avuto la reale intenzione di confessarglielo, ma avevo come la strana sensazione che, ogni volta che mia madre metteva piede nella mia stanza, anche solo per rimproverarmi di non averla ordinata, leggesse dappertutto che quelle pareti erano state testimoni della perdita della mia verginità, perché arrossivo come una sciocca e tentavo di non farle toccare il letto, come se, con il solo sedercisi sopra, avrebbe potuto scoprire tutto.

Capivo come per lei potesse risultare quasi un affronto il fatto di non averle parlato del nostro incontro, della decisione che avevamo preso e del fatto che Kristen fosse incinta e che, presto, prima di quanto potessi immaginare, mi sarei ritrovata a fare da seconda-mamma e Robert da padre.

< Non c'è bisogno che mi spieghi niente; ho letto il comunicato di Kristen, la sua ex-ragazza. > Sentivo il rumore di pagine sfogliate con pigrizia.

Deglutii saliva inesistente, agitandomi sul sedile.

< E' davvero finita tra loro? > Mi domandò con aria fintamente indifferente.

< Sì, direi di sì. > Risposi, sufficientemente convinta, per i miei standard, ma non per quelli di mia madre.

< Diresti? > Si pronunciò, infatti.

< Cioè... ne sono convinta... voglio dire... suppongo che debbano tenersi in contatto, per via della gravidanza e suppongo che rimarranno in contatto anche dopo la nascita del bambino, perciò... > Tentai di spiegarmi meglio.

< Perciò, ora sei tu la sua nuova pupilla. > Completò per me. Stava sorridendo, ne ero sicura.

< Sì, ehm... qualcosa del genere, suppongo. > O forse no, mi suggerì la mia coscienza. Sei la sua "ragazza", non la sua "pupilla", continuò, come a mettermi in guardia. Con mia madre, però, non avrebbe fatto differenza, quindi, sarebbe stato inutile ingaggiare una discussione su quel fronte.

< Come vanno le prove per il saggio della Amnesty International? > Mi chiese, cambiando, finalmente, argomento.

< Oh, piuttosto bene, direi. E, a proposito del saggio, insomma... non mi avete mai vista ballare da quando studio alla Julliard, perciò, pensavo che vi avrebbe fatto piacere partecipare a quest'evento di beneficenza... > Mi morsi un'unghia per il nervosismo, mentre il tassista si fermava all'ennesimo semaforo rosso.

< Sarebbe meraviglioso, tesoro! Avevamo pensato di farti una sorpresa, a dir la verità, visto che sei sempre così restia a renderci partecipi, ma visto che l'invito proviene da te in persona... siamo ancora più entusiasti della cosa! > Urlò così tanto dalla gioia, che dovetti allontanare il cellulare dall'orecchio, onde evitare di rimanere sorda a vita e persino il tassista si voltò verso di me con aria confusa, prima che io gli mimassi che era soltanto mia madre e che lui sorridesse comprensivo.

< Ok, bene! Ehm... ci sentiamo in questi giorni, ok? > Il tassista fermò l'auto di fronte all'entrata dell'albergo ed io, in attesa che mia madre agganciasse, cercai i soldi nella borsa, impacciata.

< E' un modo carino per dirmi che devi incontrare Robert, d'accordo. > Sorrise ancora ed io la imitai, aprendo la portiera e ringraziando il tassista, attraversando la hall dell'albergo l'istante successivo.

< Senza offesa, mamma. > Risposi divertita. Salutai il consierge con un cenno, avviandomi verso gli ascensori, richiamandone uno al piano terra.

< Buona serata, tesoro, ti voglio bene. > Mi salutò con affetto, come al solito.

< Te ne voglio anch'io, mamma. > Agganciò ed io sospirai di sollievo, entrando in ascensore e premendo il tasto che mi avrebbe condotta al quarto piano.

Era tutto silenzioso; non c'era nessuno in giro e si sentiva soltanto l'audio di qualche tv ancora accesa provenire da qualche stanza.

Raggiunsi la 437 e bussai, in attesa.

Strano, pensai, quando, trascorso qualche minuto, Robert non era ancora venuto ad aprirmi. Che fosse al bar dell'albergo?

Provai ancora, stropicciandomi gli occhi e sbadigliando. Il solo pensiero che, se non ci fosse stato, avrei dovuto cercare nuovamente un taxi e affrontare il traffico in direzione opposta per raggiungere la Julliard, mi sentivo stremata.

Provai a telefonarlo sul cellulare, senza successo.

E se si fosse addormentato? Non avevo idea di quale stanza fosse stata assegnata a Dean, perciò, non potevo neanche chiedere a lui.

Bussai una terza volta, più forte, rassegnata al fatto che non ci fosse nessuno, quando, improvvisamente, un secondo prima che voltassi le spalle e mi dirigessi nuovamente verso gli ascensori, la porta si spalancò, mostrandomi un Robert bagnato, i capelli appiccicatiglisi sulla fronte e che ancora gocciolavano, e semi-nudo, un misero asciugamano intorno ai fianchi.

Arrossii in automatico, incrociando il suo sorriso.

< Scusami, ero sotto la doccia. E' tanto che aspetti? > Si giustificò, facendomi cenno di entrare.

< Qualche minuto. Non preoccuparti, sono io in ritardo. > Mi liberai della borsa e del cappotto, dirigendomi, senza neanche pensarci su due volte, in camera da letto, lasciandomi cadere sul piumone morbido e chiudendo gli occhi, beata.

< Sei il ritratto della stanchezza. Vuoi mangiare qualcosa? > Avvertii le sue mani tra i capelli e il profumo del bagnoschiuma mi raggiunse le narici, rilassandomi all'istante.

< Posso fare una doccia? > Domandai, gli occhi ancora chiusi.

< Certo, il bagno è tutto tuo. Intanto, ti preparo qualcosa. > Mi baciò la fronte e si allontanò, costringendomi a riaprire gli occhi.

Fortuna che avevo pensato bene di portare un cambio con me: non avevo certo bisogno di rilassarmi, motivo per il quale utilizzavo la doccia ogni sera, prima di andare a dormire, perché ero sicura che, dopo cinque, estenuanti ore di allenamento, mi sarei addormentata ancora prima di riuscire a poggiare la testa sul cuscino, ma mi era comunque necessaria per permettermi di riposare meglio, pulita e profumata.

 

Quando raggiunsi la cucina, sbadigliando per l'ennesima volta, nella mia tenuta da notte, che consisteva di short e canotta, durante qualsiasi stagione dell'anno, notai che Robert si era rivestito e indossava la sua solita canotta notturna e il suo solito paio di pantaloni del pigiama morbidi.

< Wow, un toast non bruciato! > Lo presi in giro, rubandone uno dal piatto che aveva appena messo a tavola.

Per tutta risposta, mi fece una linguaccia, facendomi ridere divertita.

< Come sono andate le prove? > Mi domandò, sedendosi accanto a me su uno sgabello.

Feci spallucce. Ero riuscita a non uccidere Elena ed era già un gran risultato per me.

< Bene. Sono esausta. > Ammisi, continuando a mangiare. < Tu, cos'hai fatto per tutto il pomeriggio? > Continuai curiosa.

< Solito; ho letto qualche copione, ascoltato un po' di musica e cercato di distrarmi con un film. > Rispose, masticando piano.

Annuii pensierosa.

< Mia madre sa di noi. > Sputai fuori prima di bere un sorso d'acqua dal bicchiere e studiare la sua reazione. 

Era sempre stato intimorito dal giudizio di mia madre, fin da quando eravamo bambini.

< La notizia si è sparsa così velocemente? > Quasi strabuzzò gli occhi e non potei dargli torto, perché avevo reagito nello stesso, identico modo quando mia madre mi aveva mandato quell'sms.

< A quanto pare... > Risposi con un'alzata di spalle.

< E' così grave? > Mi domandò.

< No, non direi... insomma... credo che dovrò farci l'abitudine... > Mi sistemai i capelli, ancora umidi, sulle spalle.

Mi alzai per recuperare i piatti e i bicchieri e sistemarli nel lavello, quando Robert mi bloccò un braccio, a tradimento, avvicinandomi a sé, ancora seduto.

< Ringrazia che non avessi niente in mano. > Sorrisi, sedendomi sulle sue gambe come una bambina e lasciandomi abbracciare di buon grado.

< Mi sei mancata. > Mi strinse più forte e mi baciò una guancia.

Era stato solo un pomeriggio, ma era mancato anche a me, e poco importava se mi stavo riducendo come l'eroina romantica di un film d'amore.

< Anche tu. > Mormorai, portando indietro un braccio per accarezzargli i capelli, ancora umidi.

< E non mi hai neanche salutato in maniera degna, sai? > Mi morse un orecchio per gioco, ma io mi lamentai comunque, pizzicandogli una gamba, cosa che non produsse nessun effetto su di lui, tanto che sbuffai, facendolo ridere divertito.

Mi sistemò i capelli su una spalla per baciarmi il collo in maniera più agevole, mentre io fremevo e rabbrividivo al  tocco leggero delle sue labbra e alla stretta delle sue mani che si faceva sempre più presente sui miei fianchi, portandomi ancora più vicina al suo corpo.

Mi schiarii appena la voce per non gemere in maniera imbarazzante quando raggiunse la spalla, scostandomi la T-shirt.

Arrossii di piacere e di imbarazzo, sistemandomi meglio su di lui, circondandogli la spalla con un braccio, accarezzandogli i capelli più corti della nuca e avvicinandomi al suo viso per baciarlo con trasporto, la stanchezza completamente dimenticata.

< Credi che proveranno ad interromperci, questa volta? > Mormorò con un sorriso, gli occhi ancora chiusi, separandosi dalla mia bocca.

< Uhm... difficile dirlo. Dovremmo spegnere tutti gli apparecchi elettronici, per cominciare. > Gli baciai una guancia, circondandogli il collo con entrambe le braccia.

< Potrebbero bussare alla porta. > Mi annusò i capelli, sollevandomi tra le braccia, dirigendosi in camera da letto e depositandomi con delicatezza tra le lenzuola fresche.

< Non siamo costretti ad aprire; è tardi, penseranno che stiamo dormendo. > Lo strattonai appena per la canotta, sollevando il capo per farmi baciare di nuovo e lui, evitando di farselo ripetere una seconda volta, mi sovrastò con agilità, le braccia sul cuscino, accanto a me, per evitare di pesarmi addosso.

Studiò con la punta del naso ogni singolo centimetro del profilo del mio collo, facendomi il solletico, ritornando poi sui suoi passi con la lingua, costringendomi a sospirare e ad inarcare maggiormente la schiena per fargli capire quanto lo desiderassi e quanto volessi essere sua.

Schiusi le gambe, una sua mano che si era già intrufolata al di sotto della mia T-shirt, accarezzando gentilmente la pelle accaldata, fino a raggiungere un seno, solleticandolo con la punta dell'indice fino a farmi fremere di desiderio.

Incontrai ancora la sua bocca, raggiungendo con le mani la base della sua canotta, sollevandola, per convincerlo a disfarsene, lanciandola sulla moquette.

Mi disfeci anche della mia T-shirt, mentre lui continuava ad annusare la mia pelle come un segugio, come se volesse mangiarmi, disegnando il profilo di ogni ossa dello sterno con la lingua, facendomi gemere di frustrazione.

Mi sfilò gli short, portando con sé anche il rimanente della biancheria intima, con una lentezza disarmante, tanto che dovetti arpionare con una mano le lenzuola, per evitare di prendere il controllo della situazione e ottenere, finalmente, quello che desideravo.

Mi accarezzò le gambe, soffice, fino a raggiungere il mio inguine, lo sguardo acceso di desiderio, il verde petrolio dei suoi occhi improvvisamente più scuro, le labbra rosse e appena schiuse.

Raggiunse il mio viso per baciarmi ancora, per incontrare le mie mani, per farsi scompigliare i capelli e per essere certo che fosse davvero quello che volevo.

Come avrei potuto mentirgli?

Gli ero sempre appartenuta, anche durante quei tre anni di lontananza. Non ero stata di nessun altro, perché il mio posto era tra le sue braccia, le carezze che desideravo erano le sue, l'uomo con cui volevo fare l'amore era lui, quello a cui volevo donare tutto, anche il mio piacere, era lui. 

Era una sensazione strana, come tornare indietro nel tempo ed essere ancora quella ragazzina di sedici anni che non ha idea di come compiacere un ragazzo, non ha idea di come si fa l'amore per davvero, non immaginandoselo o leggendolo nei romanzi rosa, che si stropiccia le mani, perché non sa se deve spogliarsi da sola, o se voglia farlo lui, se deve chiudere le tende, oppure lasciar entrare un po' di luce, se avrebbe dovuto accendere qualche candela o mettere qualche canzone romantica per creare un po' d'atmosfera, che immagina debbano usare delle precauzioni, ma non sa come dirglielo, perché, al solo pensiero, arrossisce e si sente una sciocca, che non immagina che, con la persona giusta, il piacere sia così intenso, tanto da stordirla, che si venga come catapultati in un limbo, dove nient'altro conta se non l'altro e per lui è lo stesso, perché glielo mormora anche in un orecchio, tra gli ansiti e i sospiri e i gemiti e il suo cuore che batte all'impazzata e non vuole fermarsi, batte in sincrono con quello di lui e lei, quella ragazzina di sedici anni, crede di non poter essere più felice di così.

Era, semplicemente, la sensazione che avevo portato con me quando ero partita da Londra per raggiungere New York, la stessa sensazione che avevo rivissuto nei miei sogni, prima di addormentarmi, appena sveglia, sotto la doccia e durante le lezioni, quella di appartenere a qualcosa, a qualcuno, di poter renderlo felice, di poter essere parte di un puzzle in costruzione, ma che, prima o poi, sarebbe stato concluso e allora, sarebbe solo stata necessaria una cornice e una parete sulla quale appenderlo; la sensazione di tornare a respirare dopo troppo tempo, di rendersi conto di saperlo fare ancora, nonostante tutto.

< Abbiamo dimenticato gli aggeggi tecnologici accesi, alla fine. > Mormorò, stringendomi a sé e accarezzandomi i capelli.

Come avrei fatto a separarmi da quel calore, l'indomani mattina?

< E abbiamo dimenticato di chiudere le tende; ci toccherà svegliarci all'alba. > Aggiunsi, gli occhi già chiusi e il senso di torpore che cominciava a rilassare i muscoli.

Mi baciò una tempia, scostandomi i capelli dispettosi davanti agli occhi.

< Non ci hanno disturbato, però. > Sbadigliò, intrecciando una gamba tra le mie.

Annuii soltanto, sistemandomi meglio contro di lui, solleticandogli un braccio.

< Ho sonno. > Brontolai, mettendo il broncio.

Lo sentii ridere divertito e coprirmi meglio con il piumone.

< Dormi, allora. Sogni d'oro. > Sussurrò, sfiorandomi le labbra con le sue.

< Ti amo. > La stanchezza aveva preso il sopravvento su di me, perché non era previsto che gli confessassi i miei sentimenti così, dopo aver fatto l'amore e, in più, mezza addormentata! Mi morsi la lingua, rendendomi conto delle parole appena pronunciate, troppo tardi.

Socchiusi gli occhi, studiando la sua reazione.

Sorrise dolce, rafforzando la presa sulla mia mano.

< Ti amo anch'io, winnie. > Il soprannome che mi ero guadagnata da lui anni prima, all'età di quattordici anni, quando rifiutai categoricamente di andare in campeggio con la sua famiglia senza il mio orsacchiotto preferito, paladino dei miei brutti sogni.

Non credevo se ne ricordasse ancora, ma, a quanto sembrava, in quei tre anni trascorsi lontani, lo avevo sottovalutato troppo, o ero stata io a sottovalutarmi troppo, fermamente convinta che la nostra storia non fosse stata altro per lui che una semplice storiella finita male. 

Ricambiai il sorriso, sfiorandogli la guancia con un bacio, richiudendo gli occhi l'istante successivo, scivolando nell'oblio dei sogni.

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Capitolo 16
*** Words Fly ***


Ma salve!

Come state? Tutti bene? Io sì, anche se in questo periodo avrei solo voglia di rannicchiarmi sotto le coperte con il pc e scrivere fino a notte fonda, senza fare nient'altro, ma purtroppo l'università chiama e bisogna seguire i corsi e studiare e sbuffare anche per quello che ci tocca fare per dare un esame di 6 miseri crediti... ma ok, dopotutto, è la solita routine :D

Passiamo alle cose serie, ovvero il capitolo di oggi; non ho molto da dire al riguardo, se non che è nato in un modo ed è finito esattamente in un altro, cioè, è nato come volevo io ed è finito per fatti suoi, ma tant'è, sono contenta di aver aggiunto l'ultima parte, anche perché mi si è proiettato in testa un nuovo scenario che potrebbe far evolvere ancora di più la situazione e renderla serena per tutti, indi, sempre se tutto va come dico io, dovrebbe venirne fuori, addirittura, qualcosa di decente :D

Mi sono resa conto di una cosa, riascoltando le canzoni che ho inserito all'inizio di ogni capitolo, ovvero che non hanno un vero e proprio collegamento con il capitolo; mi spiego meglio: ci sono certi autori, anche qui su EFP, che magari scrivono il capitolo avendo in mente una determinata canzone da associarvi, da cui "dipende" l'intero capitolo e quindi la trama del capitolo stesso sembra svilupparsi intorno al testo della canzone e non parlo necessariamente di Song-Fic, che, come dice il nome stesso, partono da una canzone per poi sviluppare una trama che sia un po' lo specchio della canzone stessa. Con le canzoni che ho scelto io, invece, succede esattamente il contrario, perché io non scelgo una canzone e poi ci scrivo un capitolo, anzi; scrivo il capitolo e poi mi scervello sulla canzone che potrei abbinarvi, non tanto per il testo, quanto per l'atmosfera. Spesso non ci azzeccano una mazza con il capitolo (o con parte di esso), però è simpatico, perché adesso, ogni volta che ascolto una canzone, rivivo in testa quella determinata scena che ho scritto e penso che ci caschi proprio a pennello. Insomma, tutto questo sproloquio per dirvi che, anche se le canzoni che vi invito ad ascoltare, non vi sembrano molto in tema con il capitolo, provate ad ascoltare la canzone separatamente, dopo aver letto il capitolo e provate a vedere se vi rievoca qualche scena. Magari funziona come con me *w*

Come al solito, ringrazio tutte le persone che hanno letto lo scorso capitolo, che hanno recensito e che hanno inserito la Ff tra le preferite, seguite, da ricordare *.* mi piacerebbe avere anche un commento da tutti quelli che sono silenziosi e leggono soltanto, ma, ovviamente, non vi obbligo mica ;)

Spero di riuscire ad aggiornare fra una settimana o poco più, ma, nel frattempo, vi auguro un buon Week-end e, ovviamente, una...

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Every Me, Every You-Placebo

 

 

 

 

 

 

L'indomani mattina, mi svegliarono il suono squillante ed esageratamente forte della sveglia e un mugugno infastidito. Avevo gli occhi così serrati, da non riuscire a convincermi di doverli aprire, prima o poi, nonostante avessi piena coscienza che la stanza era ormai invasa dalla luce che proveniva dalla porta-finestra, riscaldandomi.

Sospirai, strofinandomi gli occhi con energia, riuscendo finalmente a socchiuderli, guardandomi intorno. Sbadigliai, voltandomi verso Robert che dormiva ancora beato, le labbra appena imbronciate, i capelli in disordine e il respiro regolare.

Sorrisi appena e mi stiracchiai, scostando appena le coperte per liberarmene, mettendomi seduta, rendendomi conto che ero ancora completamente nuda.

Mi alzai in fretta, cercando di essere più silenziosa possibile, e mi diressi in bagno per una doccia calda, portando con me i pantaloncini del pigiama e la T-shirt che utilizzavo per gli allenamenti di danza.

Mi sentivo addosso un'agitazione inspiegabile, di quelle che hai quando aspetti qualcosa di importante, di emozionante, che sai che ti cambierà la vita e non riuscivo a smettere di sorridere come un'idiota davanti allo specchio, mentre lo liberavo dal vapore con una mano.

Insomma, in me non c'era nulla di diverso rispetto alla sera prima, eppure ero stranamente felice, stranamente emozionata e stranamente di buon umore, come non mi capitava da mesi, come neanche la danza riusciva a farmi sentire.

Mi asciugai e mi vestii in fretta, decisa a preparare la colazione: avevo voglia di pancakes al cioccolato.

Lanciai un'occhiata a Robert, assicurandomi che stesse continuando a dormire, prima di dirigermi in cucina, verificando che avessi tutto il necessario per il mio progetto. Robert non cucinava mai, eppure la dispensa era fornita come quella di un ristorante cinque stelle. Sgranai gli occhi alla vista delle varie tipologie di farina che avevo a disposizione: di mais, bianca, integrale, d'orzo, di avena... avrei dovuto chiamare uno chef!

Mi misi all'opera, radunando gli ingredienti sul tavolo da lavoro, recuperando anche una ciotola e cominciando a far riscaldare una pentola sul fornello più grande.

Canticchiai a bassa voce il ritornello di una delle mie canzoni preferite, rimpiangendo il fatto di non avere a disposizione una radio, accontentandomi dello sfrigolio della pastella nella pentola calda che cominciava ad assumere consistenza e al borbottare profondo della caffettiera che avevo appena finito di preparare.

Avevo appena radunato tutti i pancakes ancora caldi su di un piatto per guarnirli con panna e cioccolato fuso, mettendo da parte le due tazze già piene di latte e caffè, quando avvertii un profumo familiare raggiungermi e un braccio circondarmi la vita.

Sorrisi automaticamente, rilassandomi, facendomi baciare di buon grado i capelli.

< Che buon profumino... > Osservò, la voce ancora impastata dal sonno. < Credevo fossi già andata via. > Continuò, stringendomi a sé e sporgendosi appena per baciarmi una guancia.

< Andata via? > Ripetei accigliata.

< Avevi detto che avevi lezione presto. > Chiarì, immergendo un dito nel recipiente della panna.

< Sono solo le sette, è ancora presto... > Risposi, impedendogli di assaggiare anche la cioccolata fusa.

< Ho fame! > Protestò capriccioso, mordendomi il collo per gioco.

< Sarebbe pronto, se solo tu mi lasciassi usare le mani. > Alzai gli occhi al cielo, cercando di divincolarle dalla sua stretta.

< Altrimenti? > Mi provocò, costringendomi a voltarmi verso di lui, lanciandomi un'occhiata maliziosa che mi fece arrossire.

Lo costrinsi ad indietreggiare verso il frigorifero, facendogli aderire la schiena al pannello freddo. Mi morsi le labbra, avvicinandomi al suo viso con fare provocatorio, le mani ancora bloccate nella sua morsa dolce, ma possessiva, socchiudendo appena gli occhi, sfiorando il suo naso con il mio.

< Altrimenti... sparirò per i prossimi due mesi... > Avrei dovuto trattenermi, ma non ci riuscii; spinsi i fianchi verso i suoi, il rigonfiamento pronunciato dei suoi boxer che minacciò di farmi gemere, se solo lui non mi avesse lasciato libere le mani e mi avesse baciata; un bacio appena accennato, un leggero tendersi delle sue labbra verso le mie, in attesa di una risposta che non si fece attendere a lungo.

Mi accarezzò i fianchi, approfondendo il contatto, le mie mani sulle sue spalle, coperte solo da una canottiera nera.

Avremmo potuto continuare per ore, se solo il tostapane, con il suo ronzio continuo e fastidioso, che ci avvisava che, se non avessimo prelevato il pane, si sarebbe sicuramente bruciato, ci spaventò, facendoci ritornare alla realtà.

Avevo ancora voglia di lui, nonostante la notte precedente, e potevo assumere che fosse lo stesso anche per lui, visto le condizioni in cui versava il suo intimo, ma avrei fatto tardi in Accademia e questa volta neanche un'orda di giornalisti appollaiata all'ingresso mi avrebbe fornito una buona scusa, non più almeno.

Mi allontanai dal suo profumo, prendendolo per mano, convincendolo a seguirmi nuovamente fino al tavolo da lavoro, lì dove avevo lasciato i pancakes a raffreddare, in attesa del tocco finale.

Ne impilai tre uno sull'altro, ci spruzzai abbondante panna montata sopra e terminai il tutto con il cioccolato fuso lasciato cadere a filo dal cucchiaio.

Gli porsi il piatto con un sorriso, preparando il mio.

< Non pensavo che la tua dispensa potesse essere così fornita. > Osservai, bevendo un sorso di latte e caffè dalla mia tazza.

< Gli addetti dell'albergo la riforniscono ogni settimana di prodotti freschi, anche se io non consumo molto, a parte latte, biscotti e caffè. > Fece spallucce, addentando un enorme pezzo di pancake, sporcandosi il mento con la panna.

Lo pulii con un dito, ridendo divertita: assomigliava ad un bambino incapace di non sporcarsi.

< Devo regalarti una bavetta. > Lo presi in giro, facendolo arrossire di vergogna.

Per tutta risposta, mi fece una linguaccia, sporcandomi il naso di cioccolata. Ricambiai, sporcandolo di sciroppo d'acero.

< Ok, mi arrendo, non ho intenzione di cominciare una guerra con te. > Alzò le mani in segno di resa, pulendosi con un tovagliolo, mentre io saltellavo felice sullo sgabello per quella vittoria.

< Ho pensato che sarebbe bello invitare anche i tuoi genitori per il saggio della Amnesty International... > Ci avevo riflettuto quella mattina, mentre mi facevo la doccia. In fondo, anche la sua famiglia era stata importante per me; Clare era stata come una seconda mamma e Richard, con quel suo modo di fare impacciato che mi aveva sempre ricordato Robert, mi aveva conquistata subito, per non parlare delle sue sorelle, che, anche se più grandi di me, si erano rivelate subito delle ottime amiche.

< Oh, davvero? > Aggrottò le sopracciglia, perplesso, rinunciando a masticare nell'attesa di una risposta.

< Sì! Voglio dire, perché no? Ci saranno i miei genitori e mi piacerebbe che ci fosse anche la tua famiglia. > Feci spallucce, imburrando una fetta di pane tostato.

Si schiarì la voce a disagio, posando coltello e forchetta nel piatto, nascondendo il viso dietro la tazza tiepida.

< Non... non vuoi? > Non era un dramma, potevo comprenderlo. Con tutto quello che stava succedendo con Kristen, i suoi genitori dovevano sentirsi già sotto pressione ed erano sicuramente preoccupati, considerato che non sarebbero diventati nonni nella maniera classica, non c'era nulla di cui vergognarsi; forse, ero stata io troppo precipitosa, forse non avrei dovuto prendere in considerazione anche quell'ipotesi.

< Gli ho parlato di Kristen e delle sue condizioni, perché non volevo che venissero a saperlo dai giornali o da Internet, ma non gli ho ancora parlato di te. Pensavo di aspettare un po', sai, hanno già dovuto digerire la notizia che Kristen aspetta un bambino e che io, nel frattempo, ho smesso di amarla... non volevo che si trovassero costretti ad affrontare tutto in una volta... > Spiegò, guardandomi negli occhi, scrutandomi quasi, come se stesse cercando di prevedere la mia reazione.

< Oh. C-certo, insomma, hai agito come avrei agito anch'io in una situazione simile... > Balbettai confusa. Io avevo tentennato, ma alla fine, complice anche il carattere di mia madre, avevo dovuto confessarle tutto; lui, invece, continuava a mentire, a dire di trovarsi in compagnia di chissà chi a New York. Forse i suoi genitori speravano anche che avrebbe potuto far pace con Kristen, viste le sue condizioni e la loro attuale vicinanza.

Certo, la situazione era diversa; io non ero incinta di un ragazzo che non amavo più, ma era giusto il suo comportamento, la sua decisione di tenere nascosta la nostra relazione? 

< Non pensare che lo faccia perché ho paura del loro giudizio, solo... vorrei aspettare un po', tutto qui. > Continuò, vedendomi silenziosa.

Annuii distrattamente, allontanando il piatto: non avevo più fame.

Perché quella notizia mi sconvolgeva tanto? Perché stavo reagendo in quel modo, come se mi avesse nascosto qualcosa di più importante? Volevo davvero permettere a quella notizia di stravolgere il mio buon umore?

< Forse avranno visto anche loro le foto... > Commentai, riflettendo.

Fece spallucce, avvicinando lo sgabello al mio, sistemandomi i capelli dietro le orecchie per guardarmi in volto.

< Gliene parlerò, d'accordo? Te lo prometto. > Mi baciò una guancia con dolcezza, stringendomi al suo fianco, massaggiandomi piacevolmente le spalle.

< Credi che possano pensare che sia io la causa della fine della tua storia con Kristen? > Gli chiesi, incontrando i suoi occhi.

Sospirò, abbassando lo sguardo, accarezzandomi i capelli.

< Lo penseranno comunque, anche se io dovessi spiegar loro tutto nei minimi particolari. La mia storia con Kristen era giunta al capolinea ben prima che io arrivassi a New York, ho solo cercato di indorarle la pillola, di non farla soffrire troppo, così le ho chiesto di venire con me, ma aveva altri impegni, perciò ha pensato di raggiungermi la sera stessa della premier, in tempo per l'after-party. Non sapevo che fosse incinta e non sapevo che ti avrei incontrata; non riuscivo a non pensare al fatto che New York è una città immensa e che le probabilità di incontrarti per caso, sarebbero state pari allo zero. Non avrei mai immaginato un finale del genere... > Chiarì.

< E' per questo che non gliene hai parlato. > Constatai. Sarei passata per una sfascia famiglie. 

< Loro ti vogliono bene, Candice, te ne hanno sempre voluto e non credo che una situazione simile possa cambiare il sentimento che ti lega a loro, solo che... insomma, chiunque arriverebbe ad una conclusione del genere, no? E' quello che faranno anche i giornali, quello che, probabilmente, hanno già fatto. Scriveranno che in realtà intrattenevo con te una relazione clandestina da chissà quanto tempo alle spalle di Kristen, che venire a New York e rimanerci era solo una scusa per passare più tempo insieme, sempre all'insaputa della mia fidanzata... siamo in balia delle parole, che ci piaccia o meno; nessuno crede al destino, non quando si tratta di star internazionali. > Mi fece notare, solleticandomi una guancia con un dito, cercando di sorridere.

< Tu credi che fossimo destinati ad incontrarci? > Inarcai un sopracciglio, scettica. Poteva essere stato semplicemente un caso, fortuna, forse.

Fece spallucce, mordendosi una guancia, indeciso.

< Avrei potuto non vederti durante la conferenza stampa. > Osservò pratico.

< Avevamo i posti migliori; se fossi stata un'estranea, o una delle tue tante fan, probabilmente non ti saresti accorto di me; non ero un volto nuovo e hai scrutato la folla come se ti aspettassi di riconoscere qualcuno, perciò... > Fu il mio turno di scrollare le spalle.

Sorrise.

< Lo faccio sempre da quando i miei genitori decisero di farmi una sorpresa durante una delle mie ospitate ad un talk-show. Controllo che non l'abbiano rifatto. > Rise appena ed io con lui.

< E poi mi ero nascosta; ero sprofondata nella poltrona fino al limite concessomi pur di non farmi notare. > Continuai.

< Eppure ti ho vista. > Rispose. < Ho incrociato i tuoi occhi e ti ho riconosciuta. > Proseguì, come se stesse ricordando il nostro primo bacio o il nostro primo incontro.

< E secondo te è stato il destino? > Potevo anche dar ragione alla filosofia del tutto succede per un motivo, niente accade per caso, ma che fosse stata tutta opera del destino, non riuscivo a comprenderlo. Era stato a New York altre volte, per promuovere altri film ed io volente o nolente, quasi trascinata di peso, avevo assistito ad ogni singola premier, Sofia e Sam al seguito, eppure non ci eravamo mai incontrati, non mi aveva mai notata. Era stata solo una coincidenza, un caso e per me destino e caso erano due cose completamente diverse.

< Ci siamo concessi una seconda possibilità, destino o meno, è questo l'importante. > Sorrise, prima di venire distratto dallo squillo del suo cellulare, ancora sul comodino della camera da letto.

< Torno subito. > Mi baciò i capelli e uscì dalla stanza, lasciandomi sola.

Sospirai, lanciando un'occhiata all'orologio, accorgendomi che si era fatto tardi e che, se volevo arrivare in tempo per la prima lezione, avrei dovuto sbrigarmi.

Radunai le stoviglie nel lavello, sperando che almeno qualcuno del personale si sarebbe occupato di lavarle, rassettando il disordine che avevo creato, e mi diressi in salotto, dove avevo distrattamente posato il borsone dopo il mio arrivo.

Indossai la mia solita tuta e sistemai il resto, dirigendomi in camera per controllare che non avessi dimenticato nulla, recuperando anche il cellulare e l'elastico per i capelli. Robert si era spostato in terrazza e ricambiò il mio sguardo, mentre mi osservava radunare le mie cose. Infilai le scarpe e, davanti allo specchio dell'ingresso, pettinai i capelli all'indietro, acconciandoli in una coda alta, pratica e veloce, optando anche per un filo di eye-liner nero.

Recuperai il cappotto e il borsone, tornando alla ricerca di Robert per salutarlo. Aveva terminato la conversazione, ma aveva deciso di rimanere comunque in terrazza, le mani strette intorno alla ringhiera del parapetto e lo sguardo perso verso la città e i suoi grattacieli.

Lo osservai per un istante, abbandonando il borsone a terra, prima di avvicinarmi e richiamare la sua attenzione, sfiorandogli un braccio.

< Già ora di andare? > Mi chiese con un sorriso triste ed io annuii.

< Impiegherò più di quindici minuti per raggiungere l'Accademia e non posso fare tardi alla prima lezione della mattinata. > Spiegai.

Cosa gli aveva fatto cambiare improvvisamente umore?

Studiai la sua espressione tesa e triste, rendendomi conto che non sapevo cosa dire per far sì che si confidasse, per far sì che capisse che avrebbe potuto dirmi qualsiasi cosa.

< Qualche problema? > Indicai con il capo il cellulare sul tavolino.

Scosse la testa.

< Kristen. Vuole parlarmi. > Rispose, tornando con lo sguardo al panorama.

< Problemi con la gravidanza? > Ipotizzai, cercando di non essere astiosa.

< No, almeno, non credo. Vuole che la incontri in centro fra un'ora. > Mi osservò e capii che temeva la mia reazione, specie dopo quello che era successo tra di noi solo qualche giorno prima.

< Forse è importante. > Ipotizzai, considerato che non l'aveva mai telefonato, non quando io ero con lui, almeno.

Cosa si aspettava, che gli dessi il permesso di vederla?

< Tu... insomma... preferiresti che non la incontrassi? > Si stropicciò i capelli, in imbarazzo.

< Sarà la madre di tuo figlio, non posso impedirti di vederla. > Risposi indifferente. Mi rendevo pienamente conto di aver appena assunto l'atteggiamento del fai come vuoi, puoi cavartela da solo, che era anche quello che assumevo sempre quando qualcosa mi indispettiva, quando volevo che si facesse a modo mio e non sopportavo contraddizioni; l'atteggiamento che avevo più volte adottato quando, al liceo, litigavo con Robert in merito agli orari delle mie lezioni di danza, che non ci permettevano di trascorrere più di un quarto d'ora insieme, pausa pranzo compresa.

Cercai di convincermi di quello che avevo appena detto: Kristen sarebbe pur sempre stata la madre del futuro bambino di Robert, anche se non la sua compagna, e avrei dovuto abituarmi al fatto che, spesso, avrebbe richiesto la sua presenza. In fondo, lei era da sola, in una città che non conosceva e il suo unico punto di riferimento era Robert. Non potevo cedere alla gelosia, non dovevo; avrei solo fatto il suo gioco e non volevo litigare con Robert per un'idiozia simile, non l'avrei sopportato.

< Farai tardi anche tu, se non ti dai una mossa. > Sorrisi, sperando che capisse che non ce l'avevo con lui, che la cosa, in un certo qual senso, mi andava bene.

< Sì... ehm... devo ancora farmi la doccia... > Ricambiò il sorriso e mi si avvicinò per baciarmi una guancia e abbracciarmi.

< Grazie per la colazione, sei un tesoro. > Mi mormorò in un orecchio, baciandomi le labbra l'istante successivo.

Ricambiai la stretta, separandomi da lui malvolentieri.

< Ti chiamo appena posso, d'accordo? > Lo seguii in camera da letto, dove recuperai anche il borsone, pronta ad avviarmi verso la porta.

< Ho lezione fino alle due e poi sono in pausa pranzo. > Riflettei, rendendomi conto che non avrei avuto sue notizie per almeno altre sei ore, il che voleva dire continuare a fantasticare su ipotetici scenari che avrebbero coinvolto lui e Kristen di lì a un'ora. Fantastico.

< Possiamo pranzare insieme, se vuoi. > Suggerì, svestendosi della canotta.

Mi distrassi ad osservare i suoi addominali mediamente scolpiti, la leggera peluria che li ricopriva e che scompariva all'interno dei boxer azzurri.

Arrossii, notando i suoi occhi su di me e il suo sorriso divertito, considerato che mi aveva appena colta in flagrante.

< Ehm... no... cioè, mi piacerebbe, ma Lucas vuole discutere di qualcosa circa l'audizione e avevamo deciso di incontrarci a pranzo, perciò... ma possiamo sentirci stasera, se non sei... occupato in altro... > Che idiota! Da quando avevo cominciato a balbettare di fronte a Robert?

< D'accordo, perché no. A stasera, allora. > Si riavvicinò per baciarmi ancora e, anche se avrei di gran lunga preferito dividere il box doccia con lui, mi imposi di allontanarmi.

 

Non avevo neanche fatto in tempo ad attraversare l'atrio per dirigermi verso le scale che mi avrebbero condotto nell'aula giusta, che un piccolo uragano mi travolse, scontrandosi con le mie gambe.

Abbassai lo sguardo e riconobbi gli occhioni scuri e il sorriso dolce di Joshua, l'ometto, come amava definirlo sua madre, di soli quattro anni di Selen, pianista di origini newyorchesi che aveva deciso di ascoltare il consiglio della sua vecchia maestra di pianoforte e di iscriversi alla Julliard. Era al suo quarto anno di Accademia e Joshua era praticamente cresciuto in quell'ambiente, circondato dal brusio degli studenti e dalle note appena accennate che provenivano dalle varie sala prove. Selen era rimasta incinta dopo circa due mesi dalla sua iscrizione in Accademia ed era stato uno shock, per lei, rendersi conto che, probabilmente, avrebbe dovuto ritirarsi, che sarebbe stata espulsa a breve e che sarebbe dovuta tornare a casa dai suoi genitori; la Direttrice, però, le aveva permesso di continuare a frequentare le lezioni e di poter sottoporsi tranquillamente agli esami, se ciò non avesse ostacolato la sua condizione delicata.

Ricordavo perfettamente il pomeriggio in cui le vennero le doglie e uno dei custodi fu costretto a chiamare un'ambulanza. Stava assistendo alla nostra lezione di danza, per la quale avrebbe dato un contributo sonoro con il pianoforte, quando improvvisamente si era inginocchiata e aveva cominciato a gemere dal dolore.

Tre ore dopo, Joshua era beatamente addormentato al suo fianco. 

Evan, il padre del bambino, aveva deciso di riconoscerlo e Selen aveva acconsentito a dargli il suo cognome, ma non se ne era mai voluto occupare, preferendo trasferirsi in Ohio e aprire una propria attività. Era sola, ma non si era mai tirata indietro, aveva sempre combattuto e a Joshua sembrava piacere quella vita frenetica, fatta di lezioni, esami da sostenere, volti nuovi ogni giorno e coccole garantite da tutti.

< Ehi, piccolo! > Mi piegai sulle ginocchia, salutandolo con un sorriso, al quale lui rispose divertito.

< Ti ricordi di me? > Continuai. Erano diversi mesi che non ci vedevamo, ma lui annuì.

< Candy! Calamella! > Esclamò, facendomi scoppiare a ridere. Era il suo personale soprannome per me, visto che non riusciva a pronunciare ancora il mio nome per intero.

Lo sollevai in braccio e proseguii in direzione delle scale.

< Dov'è la tua mamma? > Gli domandai, sbirciando in ogni sala.

Lui sembrò non registrare la mia domanda, perché cominciò ad imitare il rumore assordante di un trattore, facendo finta di starne guidando uno.

< Santo Cielo, Candice! Grazie a Dio l'hai trovato! A questo teppistello piace scappare! > Selen mi corse incontro, felice che suo figlio non si fosse cacciato nell'ennesimo guaio.

< In realtà, mi è praticamente venuto addosso. > Le sorrisi, rimettendo a terra Joshua e salutandola con due baci sulle guance.

< Calamella! > Strillò, indicandomi con decisione, aggrappandosi alle mie gambe per essere preso nuovamente in braccio.

Lo accontentai; mancavano ancora quindici minuti all'inizio della mia lezione.

< Qualche nuovo progetto in campo? > Chiesi a Selen, seguendola lungo il corridoio.

< In realtà, sto preparando la tesi e sono costretta ad esercitarmi qui. Non potrei studiare quanto vorrei a casa. Lui non era previsto nella mia mattinata di studio, ma purtroppo i miei hanno avuto un contrattempo e ho dovuto portarlo con me. > Spiegò, arruffando i capelli al figlio che, nel frattempo, sembrava molto interessato ad una ciocca di capelli sfuggitami dall'elastico.

Non pensavo avrei mai avuto tanta dimestichezza con i bambini, ma da quando avevo conosciuto Joshua, le cose erano cambiate, perché Selen me l'aveva affidato così tante volte, ormai, che avrei potuto cambiargli il pannolino anche ad occhi chiusi, o preparargli da mangiare, o farlo giocare. Prenderlo in braccio era diventato normale, come se fossi stata io la sua mamma, anche a distanza di mesi.

< E' cresciuto tantissimo e ti assomiglia sempre di più. > Ribadii, baciando la guancia paffuta del bambino, che arrossì imbarazzato.

< Grazie. Tu, piuttosto? E' così tanto che non ci vediamo, che temo di essermi persa più di qualche notizia succulenta. Ho letto i giornali... > Mormorò, evitando di farsi sentire.

< Una lunga storia... > Borbottai con un sospiro.

< Perché non ne parliamo durante la pausa pranzo? Voglio salutare anche gli altri. > Mi propose con un sorriso.

< Perché no, con piacere. > Asserii, tranquillizzando Josh che mi avrebbe rivista di lì a qualche ora, passandolo nelle braccia della madre, che gli sistemò i capelli e lo strinse a sé con fare protettivo.

Joshua era tutto per Selen, avrebbe fatto qualsiasi cosa per renderlo felice.

Ripensai a Kristen e alla sua richiesta di parlare con Robert: cosa aveva da comunicargli con tanta urgenza? E se, come aveva ipotizzato Sam, fosse stata tutta una farsa, un piano di Kristen per farmi allontanare da Robert?

Salutai Arthur e Lucas in lontananza, che si stavano avvicinando, seguiti dall'insegnante e da tutti gli altri ballerini che avrebbero preso parte alle prove.

L'attesa mi avrebbe uccisa, me lo sentivo, così come sapevo che non sarei riuscita ad avere la mente sufficientemente sgombra per poter dare il meglio di me, quella mattina.

Sarebbe stato un totale disastro.

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Capitolo 17
*** Children ***


Saaaalve! :3

Come state? Io tutto bene, solito: casa, università, casa e ancora università, ma non mi lamento, anche se vorrei. Stasera ho poco tempo da dedicare alle note pre-capitolo perché devo assolutamente vedere la settima puntata di Beauty and the Beast, non so se conoscete il telefilm. In Italia ancora non è arrivato (ma si vocifera che a breve dovrebbero trasmetterlo sue Rai2), ma io lo guardo in inglese e siccome c'è stata una pausa di una settimana, per via del Ringraziamento, adesso sono in fibrillazione :3

Parlando del capitolo, che è la cosa per cui vi state subendo tutte queste chiacchiere inutili, come al solito, doveva procedere in un modo, invece è andata a finire che ne è venuto fuori l'esatto contrario e, anche se sono soddisfatta del risultato, la mia tabella di marcia è slittata e sono costretta a protrarre la questione Kristen ancora per un po', mi dispiace ç.ç però in fondo è divertente averla come personaggio in una Ff: posso farle fare quello che voglio, tipo farla inciampare e farla finire accidentalmente in un tombino aperto *muahahahahah* *risata malefica mode:on*

No, ok, a parte gli scherzi, ho notato che nessuna delle recensioni che mi sono state lanciate aveva affrontato il nuovo personaggino, Joshua (quanto adoro questo nome? *.*). Capisco che possa essere risultato un personaggio un po' secondario, ma prenderà completamente il sopravvento nei prossimi capitoli, come una sorta di tornado distruttore e farà riflettere Robert su un mucchio di cose... uhm... avete capito la sua importanza adesso? *No, perché non ho detto proprio un bel niente, comunque...*

Parlando della canzone di inizio/accompagnamento capitolo, mi rendo conto che è un po' triste per il capitolo, ma io l'ho pensata esclusivamente per un personaggio del capitolo stesso e spero capirete chi, perché vincerete un bellissimo TV Color Full HD... ehm, no, scherzavo, mi ci stavo immedesimando troppo :D Comunque, è un personaggio che ritornerà nei prossimi capitoli, ecco, non posso dire altro.

Vi ricordo che, se volete avere notizie sull'andamento dei capitoli, foto dei personaggi, spoiler e quant'altro, c'è il mio gruppo su Facebook, You thought you know me. Il gruppo è privato ed invisibile, perché non volevo che i miei amici ci capitassero per caso, ma se mi mandate un messaggio privato su Facebook (trovate il link al mio profilo autore o vero nella scheda di EFP), vi aggiungo volentierissimo <3

Grazie, al solito, a tutte le persone che hanno letto, commentato, inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare *.* I WILL ALWAYS LOVE YOUUU! <3

Bene, alla faccia del ho fretta, ho scritto un papiro -.-", al solito. Non mi resta che augurarvi un buon fine settimana e una...

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Who Knew-Pink!

 

 

 

 

 

 

 

< Quindi, ricapitolando, lei è incinta, ti ha quasi accusata di essere una donna di strada, lui non l'ha ancora detto ai suoi genitori e... tu? > Selen gesticolò con la forchetta, mentre io imboccavo Joshua che, a parte far finta di star partecipando ad una corsa di automobili sul tavolo con il portachiavi di Arthur, accettava di buon grado la macedonia che gli offrivo di tanto in tanto.

< Io cosa? > Sbuffai, bevendo un sorso d'acqua.

< Dove sei finita? Stai mettendo da parte tutto quello che provi per colpa di questa situazione assurda. Non era così che volevi ritrovare Robert. > Per lei era tutto chiaro, quasi semplice, automatico; per me no, non lo era affatto. Stavo sacrificando me stessa per dar retta al mio senso di colpa? Probabilmente sì, ma non c'era da stupirsene, era quello che avevo sempre fatto, il modo in cui mi ero sempre comportata.

< Forse, la verità è che volevo restare a Londra, far finta che la Julliard non esistesse, che fosse la scuola di danza dove avevo ballato da quando avevo sei anni; non avrei mai voluto dirgli addio, ecco tutto. > Risposi, bevendo un sorso d'acqua dalla bottiglia al mio fianco. Joshua aveva terminato la sua macedonia e aveva vinto la sua fantomatica gara di automobili.

Selen scosse la testa, allontanando il piatto verso il centro del tavolo.

< Avresti rinunciato ai tuoi sogni per lui? > Quasi strabuzzò gli occhi, come se fosse inconcepibile, ma la verità era che, se solo ci fosse stata la possibilità di tornare indietro, l'avrei fatto, sarei rimasta a Londra con lui e chi poteva dirlo, forse sarei riuscita a farmi un nome anche in Inghilterra.

In fondo, era stata la mia voglia di evadere che ci aveva portati su due strade completamente diverse.

< Sì. > Feci spallucce, giocherellando con un tovagliolo inutilizzato.

< E se fossi rimasta a Londra, se avessi continuato a seguire le lezioni di danza nel tuo Paese, ma Robert fosse diventato l'attore di adesso, quello che è acclamato da milioni di ragazzine di tutto il mondo, che è costretto a viaggiare spesso, che non è mai a casa, credi che non ti saresti pentita della tua scelta? > Mi chiese, scrutandomi con attenzione.

A volte, parlare con Selen ti dava la sensazione di non star semplicemente facendo conversazione con un'amica di vecchia data; mi sentivo come se fossi seduta di fronte ad una psicologa, come se venissi analizzata e valutata in ogni aspetto di me. Era confortante, ma spaventoso al tempo stesso, perché, il più delle volte, l'analisi comportava consapevolezze nuove e a me le novità non erano mai piaciute, non se riguardavano la parte di me che non volevo mostrare.

< Avrei potuto seguirlo... > Obiettai, rendendomi conto che era quello che avevo sempre pensato, immaginando una vita in cui io non fossi in America. Di fatto, però, se solo mi prendevo del tempo per rifletterci su, mi appariva un'idea assurda, perché costellata di alberghi, premier, feste e gente sempre nuova. Non era quello che avrei voluto per me, per noi, ma come potevo pensare che rimanere a Londra ad aspettarlo, sarebbe stato meno tragico, meno triste, appagante?

Non sapevo più cosa pensare e quella conversazione non mi stava aiutando affatto.

< Non voglio insinuare nulla, Candice, ma ti sono amica e mi preoccupo per te, perciò devo dirtelo. > Selen sospirò e, per un istante, anche Arthur smise di giocare con Josh per ascoltare, facendo sedere il bambino sulle sue ginocchia, lasciandogli completa libertà nell'usufruire delle sue chiavi.

< Cosa? > Avevo come l'impressione che mi avrebbe detto: "Robert ti tradisce, lo sai?", perché, insomma, il tono era quello di una brutta notizia.

< Non sei più la stessa. Lo so, so che non ci vediamo da tempo e che sarei l'ultima persona che potrebbe dirti una cosa del genere, ma è stata questa l'impressione che ho avuto, non appena ti ho vista. Insomma, apparentemente sei la solita Candice, la ballerina, quella che fa di tutto per aiutare gli altri, che sorride e che va avanti come sempre, ma credo che ci sia una parte di te che, non appena Robert è ricomparso nella tua vita, hai completamente seppellito, insieme a tutti i ricordi. Quando frequentavo ancora le lezioni qui, in Accademia, riuscivo a rendermi conto dei momenti in cui avevi bisogno di stare da sola, di pensare per conto tuo e di lasciarti sopraffare dalla nostalgia e dai rimorsi, ma ora è diverso. Non si tratta più solo di senso di colpa o di amarezza; nonostante Robert ti sia vicino, non sei felice come dovresti, come vorresti. > Era il discorso più lungo che le avevo sentito pronunciare da quando la conoscevo e per un attimo, ne rimasi sconvolta: quello che diceva era vero; quando lei frequentava ancora l'Accademia, era l'unica che riusciva a capire quando inventavo una scusa per non uscire con loro e capiva anche che non era perché non amavo la loro compagnia, ma semplicemente perché non avevo cercato altro che distrarmi dai miei pensieri per tutto il giorno e la sera, quando stavamo per rientrare, mi lasciavo andare e cominciavo a convincermi che pensare mi avrebbe fatto solo bene, che piangere mi avrebbe aiutata e non distrutta, perciò avevo bisogno di rimanere da sola con me stessa.

Forse aveva ragione anche su tutto il resto. Il senso di colpa che sentivo nei confronti di Robert l'avevo, in un modo o in un altro, eliminato quando lui mi aveva chiesto di ricominciare da capo, di lasciar perdere il passato e quello che non c'era più e l'amarezza per quello che, in tutto quel tempo, non avevo avuto il coraggio di fare, era semplicemente scivolata via, perché adesso trascorrevamo un sacco di tempo insieme e mi sembrava di essere sulla strada giusta per recuperare il tempo perduto.

Quello che mi lasciava perplessa, del suo ragionamento, era il fatto che non mi vedesse felice. Insomma, sì, ok, non saltellavo dalla gioia e non andavo in giro per la Scuola ad appendere manifesti con foto di me e Robert insieme, ma non ero mai stata una persona esibizionista, che solo perché ha un ragazzo, deve atteggiarsi come se fosse la più grande star dell'universo.

Ero contenta che avessi ritrovato Robert, ero contenta di dormire con lui, di avere qualcuno che mi stringeva a sé durante la notte, di svegliarmi con il suo profumo e di fare colazione insieme; ero contenta che, nonostante tutto quello che stava succedendo, noi fossimo distanti anni luce dai problemi, da Kristen, dai paparazzi e dai giornali e che riuscissimo ancora a ritagliarci del tempo da dedicare soltanto a noi stessi.

Non era abbastanza per essere considerata felicità? 

Feci spallucce, continuando a riflettere sulle sue parole.

< Hai paura di fargli del male. O che lui possa farne a te, per tutta la questione di Kristen. > Le si illuminarono gli occhi, come se avesse, improvvisamente, avuto l'illuminazione.

Avevo paura di ferirlo, era vero. Che lui potesse farmi del male... beh, non me ne curavo molto, era di lui che mi preoccupavo.

< E' normale, sai? Voglio dire, sono una mamma e so cosa significa cercare di fare sempre tutto nel migliore dei modi per garantire il meglio a coloro che ami e so cosa vuol dire fare delle scelte, mettendo da parte te stessa. E' anche questo il significato di amore. > Sorrise, allungando una mano per scompigliare i capelli di Josh che si ritrasse contro Arthur, imbarazzato dal gesto di affetto della madre.

< A volte mi chiedo se non sia meglio Kristen di me. Mi ha ripetuto mille volte che è me che vuole e non lei, ma io non posso fare a meno di pensarci. Lei è incinta e non sarebbe giusto che il bambino cresca senza un padre. > Chi meglio di lei avrebbe potuto rispondere? Sapeva cosa voleva dire crescere un figlio da sola, soltanto con l'appoggio dei suoi genitori. 

Kristen aveva accettato di tenere il bambino anche e soprattutto per Robert, perché era stato lui a convincerla, se si poteva parlare di convinzione in una situazione così delicata e intima, perciò, fosse dipeso interamente da me, avrebbe dovuto cercare di far funzionare le cose tra loro, specialmente quando aveva saputo della gravidanza, prima di decidere di volere solo e soltanto me. Non sarebbe stato un bambino a risolvere i loro problemi, se ne avevano o ne avevano avuti, né, tanto meno, avrebbe portato a far rinascere l'amore tra loro, se ormai di amore non si poteva più parlare, ma le cose, probabilmente, si sarebbero sistemate e sarebbero riusciti a trovare un equilibrio che avrebbe permesso al nascituro di crescere e formarsi alla presenza di entrambi.

Non mi andava giù l'idea che sarebbe cresciuto sballottato di qua' e di la', una volta con il papà, una volta con la mamma. E se poi Kristen, un giorno, si fosse sposata? O se Robert l'avesse fatto? Chi avrebbe dovuto chiamare mamma e papà, coloro che avevano contribuito a farlo nascere, o quelli che l'avrebbero effettivamente cresciuto ed educato?

< Non è una scelta che devi compiere tu per lui, Candice. Se ha già deciso, non tornerà indietro e tu non riuscirai a convincerlo in nessun modo. E poi il bambino avrà entrambi i genitori, solo che non vivranno nella stessa casa; sempre meglio di doverli ascoltare mentre litigano selvaggiamente. > Sorrise appena a quella frase.

Annuii.

< E tu saresti un'eccellente baby-sitter. > Continuò, riuscendo a far sorridere anche me.

< Non credo che Kristen chiamerebbe mai la ex del suo ex come baby-sitter. > Scherzai, facendo ridere anche Arthur e persino Josh che, anche se non aveva compreso molto di quello che avevamo appena detto, sembrava comunque divertirsi moltissimo.

< Credi che ci sia qualche possibilità di presentargli Joshua? > Mi domandò dopo qualche istante.

< Vuoi presentare un bambino a Robert? > Domandai scettica. Gli sarebbe venuto un infarto!

< Perché no? > Mi fissò come se fossi improvvisamente diventata Lucifero in persona.

< Perché si lascerebbe prendere dall'entusiasmo, finendo per fare qualcosa di assolutamente stupido. > Ribadii con convinzione.

< Ma ci saresti tu a controllarlo e poi non credo che Robert sia ancora nella fase dell'uomo che pensa che i bambini siano bambolotti da vestire e da esporre in vetrina. > Si alzò, recuperando il bambino dalle braccia di Arthur, baciandogli una guancia.

< Ok, ma non è necessario! Insomma... non gliel'ha prescritto il medico! > Lanciai un'occhiata accondiscendente ad Arthur, pregandolo di aiutarmi per tentare di convincerla con la mia tesi.

< Ma presto se ne ritroverà uno in braccio, senza avere la più pallida idea di cosa fare. Josh è abbastanza grande per interagire con lui e non porta più il pannolino da mesi, ormai. Il massimo che dovrà fare sarà giocare con lui e tenerlo d'occhio, non è così difficile e si farà un'idea di cosa succederà quando dovrà farlo con suo figlio. > Rispose pratica, sistemando il vassoio del pranzo sulla pila ordinata di altri vassoi, mentre noi facevamo lo stesso.

< Non credo sia comunque una buona idea... > Borbottai.

< Candice, ma insomma, non dovresti avere più fiducia nel tuo fidanzato? E' un uomo, non un bambino! > Mi rimproverò, affrontando la scalinata.

Non era la maturità di Robert che mi preoccupava, anzi, tutt'altro. Ero sicura che si sarebbe comportato in maniera perfetta con Josh, solo che temevo che l'incontro con Kristen, che supponevo non essere foriero di buone notizie, avesse già compromesso il suo amore per i bambini.

< D'accordo, d'accordo. Non vedo il motivo per cui tu debba voler immolare tuo figlio per una sciocchezza simile, ma proverò a convincermi che sia una buona idea. > Mi arresi davanti alla sua testardaggine, convincendomi che, in fondo, sarebbe anche potuto andare tutto per il verso giusto.

Mi ero ripromessa di essere più ottimista, e quale occasione migliore per fare un po' di pratica?

< Bene! Potreste badare a lui per stanotte, mentre io finisco di lavorare alla mia tesi. E' l'unica sera in cui il Conservatorio è disposto a mettermi a disposizione la sala prove. > Si voltò nuovamente verso di me, un'espressione piuttosto convincente sul viso.

< Ok, io devo andare a lezione. Ci vediamo dopo! > Arthur salutò entrambe per sgattaiolare nell'aula sei, mentre io gli rivolgevo, invano, occhiate di disappunto.

< Forse una notte è un po' eccessivo... > Tentai.

< Ti prego, Candy! Sei l'unica persona a cui posso chiederlo senza temere che l'indomani dovrò andare a riprendere mio figlio al Pronto Soccorso. > Mi aspettavo quasi di vederla congiungere le mani in preghiera.

< Candy, Candy, Candy! > Ripeté Joshua, agitandosi in braccio alla madre e indicandomi.

Sospirai, sconfitta su tutti i fronti.

< Vengo a prenderlo appena finisco con le prove. > Borbottai.

< Grazie, sei un amore! > Sorrise e mi strinse una spalla, trasmettendomi la sua gratitudine, scappando via l'istante successivo, forse temendo che avrei potuto cambiare idea.

Col senno di poi, ne avrei avuto tutte le ragioni.

 

Riuscii a telefonare a Robert soltanto qualche ora più tardi, appena terminata l'ultima lezione. Dovevo ancora passare a prendere Joshua nella sala di musica, senza contare che, grazie ad Elena, che aveva pensato bene di utilizzarmi come cavia per un nuovo passo da inserire nel balletto, con il risultato che avevo battuto la caviglia a terra, perché lei, da perfetta vendicatrice qual era, aveva finto di essersi distratta proprio nel momento della presa, ero anche zoppa e non mi sentivo più la caviglia.

Non potevo neanche appoggiarla a terra, tanto era atroce il dolore.

< Sicura di riuscire a raggiungere il residence da sola? > Mi chiese Arthur, preoccupato, osservandomi recuperare il cellulare dalla borsa e camminare in direzione dell'ala di musica con passo malfermo.

< Credo di sì; con il ghiaccio va già meglio. > Mentii spudoratamente. La realtà era che il ghiaccio aveva solo contribuito ad anestetizzare la parte dolorante, con il risultato che adesso, non solo avevo la gamba ghiacciata, ma il piede era diventato completamente insensibile a qualsiasi tipo di movimento io cercassi di fargli fare.

< E come farai con Josh? Senti, capisco che tu non voglia il mio aiuto, davvero, ma non vorrei che la tua situazione peggiorasse. > Si fermò ed io con lui, trattenendo invano una smorfia di dolore.

< Perché non vorrei il tuo aiuto? > Gli domandai scettica, come se cascassi dalle nuvole. Sì, insomma, forse il nostro rapporto non era più come nelle settimane precedenti, specie dopo che mi aveva confessato il suo amore, ma non stavo affatto cercando di allontanarlo, anzi. Ballavamo ancora insieme, dopotutto e, se non ci fosse stata più affinità tra di noi, Elena non sarebbe stata così entusiasta del nostro pezzo, caviglia distrutta a parte.

< Lo sai il perché. > Arrossì e si scompigliò i capelli e quasi mi dispiacque aver finto indifferenza.

Sospirai e alzai gli occhi al cielo.

< Art, ascolta, per me non è cambiato assolutamente niente. Cioè, sì, qualcosa è cambiato, ma siamo sempre amici e io ti voglio ancora bene. Che tu sia innamorato di me... beh, non conta. No, conta, però non può allontanarci, ecco. > Farfugliai confusa, preoccupata di averlo offeso con il mio ragionamento sconclusionato e imbarazzante. Dovevo essere anche arrossita, perché sentivo improvvisamente un gran caldo.

< Ok, allora lascia che ti aiuti; in queste condizioni, inciamperesti al primo gradino. > Sorrise ed io sospirai di sollievo, annuendo appena.

Selen mi stava aspettando e, non appena intravide me ed Arthur, afferrò Joshua, qualche suo giocattolo e la sua borsa, e ci venne incontro sorridente.

< Cosa è successo alla tua caviglia? > La indicò ed io seguii il suo dito, rendendomi conto che il ghiaccio secco aveva cominciato a sciogliersi, inzuppandomi i leggins e le Converse.

< Solo una storta, niente di grave. > Replicai con un sorriso, lasciando che Joshua si sistemasse tra le mie braccia. Arthur afferrò la borsa e insistette anche per portare il mio borsone che, alla fine, gli cedetti.

< Robert passa a prenderti? > Mi chiese Selen prima di salutarci, occhieggiando in maniera sospetta ad Arthur.

< Devo chiamarlo, non ho ancora avuto il tempo di farlo. > Risposi, facendo spallucce.

< Candy buaaa! > Josh quasi si mise a piangere, indicando la mia caviglia e la paccottiglia di ghiaccio sciolta.

< Non è niente, piccolo, solo una storta. Candy tornerà come nuova. > Gli risposi, cercando di tranquillizzarlo, accarezzandogli i capelli e sorridendogli.

< Non c'è bisogno che ti dia raccomandazioni, conosci Josh meglio di me. > Selen sorrise, salutandomi con due baci sulle guance, riservando lo stesso trattamento ad Arthur.

< Fai il bravo con Candy, d'accordo? Ci vediamo domani mattina, ometto. > Baciò Josh con tenerezza e ci lasciò andare.

Arrivare alla fine della scalinata fu una tortura con il peso del bambino in aggiunta. Cercai di limitare le smorfie di dolore, ma fu quasi impossibile non lasciarmi sfuggire qualche lamento sommesso, Arthur che mi osservava accigliato come se, da un momento all'altro, potessi morire.

< Non posso portare Josh con me, quindi se mi aspettassi qui per... diciamo dieci minuti, sarebbe un problema? > Gli domandai, una volta raggiunto il residence.

In realtà, avrei potuto portare Josh con me; Steven, la guardia notturna, lo conosceva bene, specie perché, tempo addietro, quando Selen era impegnata con gli esami, lo affidava a me per qualche notte e così avevo dovuto munirmi di un permesso speciale firmato dalla Rettrice, per permettere a Joshua di dormire nella mia stanza. Per qualche minuto, non avrebbe fatto alcuna differenza, considerato che era pur sempre un bambino, ma non volevo che Arthur fosse costretto ad ascoltare la mia conversazione con Robert. L'avrei messo in imbarazzo, ne ero certa, e poi, era pur sempre ancora innamorato di me e potevo tranquillamente risparmiargli quello strazio.

Annuì, afferrando il bambino e porgendomi il borsone. Fortunatamente il residence era munito di ascensore, altrimenti sarebbe stato un supplizio raggiungere il quarto piano.

La mia stanza odorava di pulito, segno del passaggio inconfondibile di Mindy, la donna delle pulizie a servizio esclusivo della Julliard da più di quindici anni.

Poggiai il borsone in un angolo e mi trascinai fino al letto, abbandonando le chiavi e il cellulare sul cuscino, sdraiando la gamba e liberando la caviglia dal ghiaccio. Come previsto, si era gonfiata e faceva ancora più male di prima. Oltretutto, era la stessa caviglia che mi ero fratturata due anni prima, anche se, fortunatamente, questa volta, a detta di Kay, il fisioterapista a disposizione di noi ballerini, mi aveva assicurata che non ci fossero fratture di alcun tipo.

Avrei dovuto fasciarla, ma non avevo tempo; ci avrei pensato una volta raggiunto Robert in albergo.

Afferrai nuovamente il cellulare e composi velocemente il suo numero, portandomelo all'orecchio. Rispose dopo due squilli.

< Candice! Credevo ti avessero rapita gli alieni! > Scherzò, facendomi sorridere. Forse, dopotutto, l'incontro con Kristen non era andato così male.

< Per tua sfortuna sono ancora sul pianeta Terra. > Risposi.

< Tutto bene? > Mi domandò. La sua poteva essere stata una semplice domanda di cortesia, considerato che non ci sentivamo da quella mattina, ma sapevo che non era così; il tono con cui l'aveva pronunciata, era quello con cui me l'avrebbe domandato se avesse saputo che ero a letto con la febbre. Era strano, anche solo spiegarlo, ma aveva sempre avuto questo sesto senso particolare quando si trattava di me o di qualcuno della sua famiglia; era come se sapesse, prima ancora che glielo si potesse raccontare, che era successo qualcosa, grave o meno grave che fosse.

< In verità no. Ho battuto la caviglia a terra durante l'ultima lezione e adesso è gonfia come una pallina da tennis. > Sospirai afflitta, provando a muovere il piede, non senza qualche sforzo.

< Ouch! Fa molto male? > Quasi lo immaginai accigliarsi in attesa della mia risposta.

< Se ti dicessi che passerà in fretta, mentirei spudoratamente, perciò, sì, fa un male cane. > Borbottai.

< Non puoi farti vedere da qualcuno, lì, alla Scuola? > Era preoccupato, potevo percepirlo dal suo tono di voce.

< Il fisioterapista mi ha rassicurata sul fatto che non ci sia alcuna frattura, ma due anni fa me la sono slogata, per cui, fa ancora più male del solito. > Spiegai, sperando, in parte, di tranquillizzarlo.

< Allora passo a prenderti, non mi va che resti da sola con una caviglia malandata; posso prendermi cura di te. > Sorrisi, arrossendo.

< D-d'accordo, però senti... una mia amica ha insistito tanto ed io non ho saputo dirle di no... è un problema se porto con me una persona? > Mi morsi un'unghia, nervosa. Non potevo dirgli che, in realtà, si trattava di un bambino; mi avrebbe sicuramente presa per pazza e pregata di riportarlo a sua madre, ed io ormai l'avevo promesso a Selen, perciò non potevo tirarmi indietro.

< Una... persona? > Ripeté dopo qualche istante di silenzio.

< Sì, una persona, un mio amico. > Cielo, e se mi avesse fatto una scenata di gelosia, credendo si trattasse di qualche ballerino dell'Accademia?

< O-ok, d'accordo, perché no. Sarò lì tra cinque minuti. > Concluse, fingendo, me lo sentivo, indifferenza totale.

< Va bene, ti aspetto. Ti amo. > Glielo dissi senza pensarci, proprio come la notte precedente. Non amavo esprimere i miei sentimenti per telefono, specie se si trattava di qualcosa di così importante, ma avevo sentito il bisogno di dirglielo, perciò, non ci avevo pensato su due volte.

< Ti amo anch'io, winnie. > Sorrise ed io con lui.

Attaccai e recuperai dal cassetto del comodino uno scaldamuscoli che infilai per mantenere calda la caviglia, sperando che non si gonfiasse ancora, poi recuperai il borsone, svuotandolo di tutto quello che non mi serviva, e ci infilai un cambio completo, più qualche borsa di ghiaccio secco, in caso di necessità e un rotolo di benda, per provvedere alla fasciatura.

Zoppicai nuovamente fino all'ascensore e poi nell'atrio, dove Arthur mi attendeva.

< Tutto ok? > Mi chiese.

Annuii.

< Robert dovrebbe essere qui a momenti. Temo che mi toccherà fasciarmi la caviglia, si è gonfiata e non ha un bell'aspetto. > Contrassi il viso in una smorfia, mantenendo il piede sollevato dall'asfalto. Come minimo mi ci sarebbero volute due settimane per riprendere le prove e noi non avevamo due settimane di tempo! Il Saggio si stava avvicinando: se non fossi stata pronta per allora? Elena non avrebbe perso tempo a sostituirmi, magari con lei stessa ed io, in barba al fatto che non avevo avuto bisogno di superare la prova di sbarramento, sarei stata esclusa dall'esibizione.

< Kay ha detto che non è così grave, vedrai che qualche giorno di riposo basterà. > Mi confortò, accarezzandomi in una spalla in segno di incoraggiamento.

< Ti sto trattenendo dai tuoi impegni... non c'è bisogno che mi aspetti... > Arrossii, sottraendomi con imbarazzo dal suo tocco amichevole, abbassando lo sguardo.

< Non ho niente da fare e poi ti serve una mano, non puoi portare tutta questa roba da sola, non con quella caviglia. > Fece spallucce e si voltò verso il marciapiede, vicino al quale un taxi aveva appena parcheggiato.

Ne scese Robert, che disse qualcosa all'autista, probabilmente di attendere, e ci venne incontro, lanciando un'occhiata ad Arthur, a me e poi al bambino.

< Ehm... Robert, lui è Arthur, un mio amico e lui è Josh, l'ospite di cui ti parlavo... > Mi feci avanti con le presentazioni, recuperando Josh dalle braccia di Arthur, che strinse la mano a Robert con fare impacciato.

Era evidente quanto fosse in imbarazzo: Robert era molto più alto di lui, vestito in maniera casual, ma elegante e, inoltre, lo stava osservando con aria critica, come se vedesse in lui qualcosa che non andava; non era certo l'occhiata che aveva rivolto a Lucas quando l'aveva conosciuto.

< Andiamo? > Mi affiancai a Robert, toccandogli appena un braccio per ridestarlo dal suo studio approfondito.

< Sì, sì, certo. > Rispose, come ridestatosi, afferrando la borsa che Arthur gli porgeva.

< Grazie, Art per avermi aspettata. > Gli sorrisi, mentre Robert mi aiutava a raggiungere il taxi.

< Non c'è di che, è stato un piacere. E' stato bello conoscerti, Robert. > Aggiunse, agitando la mano con fare impacciato.

< Anche per me. > Rispose lui prima di prendere posto accanto a me e informare il tassista che sarebbe dovuto tornare indietro.

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Capitolo 18
*** Happy ***


Buonasera a tutte!

Come state? Io, a parte una mano ridotta a ghiacciolo dal freddo, bene, anche perché sono soddisfatta di essere riuscita ad aggiornare dopo solo una settimana, yeah!

Cosa dire? In realtà non ho molto da anticiparvi per questo capitolo, perché è piuttosto lineare e, a parte qualcosina di eclatante, non succede proprio un bel niente, diciamo la verità :D Nel qualcosina di eclatante, però, c'è una parte che si riferisce direttamente ai guai che vi anticipavo qualche capitolo fa, ma la cosa avrà sviluppi non lentissimi, ma quantomeno costanti, perciò siamo solo all'inizio.

Non credevo di potermi affezionare a qualche altro personaggio che non fossero la Cailin e il Robert di Symbiosis, invece, nonostante tutto, anche Candice mi appartiene, nel senso che, non solo è un personaggio nato dalla mia fantasia, ma è anche un personaggio che mi rispecchia molto dal punto di vista caratteriale, pregi e difetti compresi. E Robert... beh, Robert mi stupisce sempre, nel senso che non credevo possibile svilupparne più di uno, invece, rileggendo le mie vecchie Ff, mi sono accorta di aver approfondito diversi aspetti di lui, di come io credo che sia e mi compiaccio di questa cosa, perché sono felice di non risultare troppo monotona.

Ad ogni modo, dopo queste notizie di mero interesse per voi, ci tenevo, come al solito, a ringraziare tutte le persone che hanno letto, recensito lo scorso capitolo e che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare *.* Grazie mille, davvero, siete davvero in tante ed io sono contenta di farvi trascorrere dieci minuti di tranquillità (spero) con la lettura dei miei capitoli <3

Non mi resta che augurarvi un Buon Fine Settimana, una splendida giornata all'insegna di albero di Natale, luci, palline e decorazioni natalizie varie e un Buon Inizio di Settimana prossima e, ovviamente, una...

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pressure-Paramore

 

 

 

 

Si schiarì la voce mentre il tassista partiva, lasciandosi dietro la figura indistinta di Arthur.

Lanciò un'occhiata al bambino e una a me, accigliandosi.

< Così... lui è... l'amico di cui mi parlavi a telefono... > Cominciò, Josh, incantato dalle luci della città, che non smetteva di muoversi, cercando una posizione migliore per poterle osservare tutte, le dita di una mano in bocca, come sempre quando era sorpreso di qualcosa.

< Sì, è il figlio di una mia vecchia amica; lei sta preparando la tesi e aveva bisogno di una nottata di studio da sola nella sala di musica. I suoi genitori non potevano aiutarla, così... insomma, mi ha chiesto di ospitarlo per una notte. > Spiegai brevemente, Josh che, nel frattempo, irrequieto, aveva poggiato un piede sulla mia coscia e l'altro su quella di Robert, sporgendosi oltre le nostre spalle per ammirare lo scorcio illuminato di Central Park che ci eravamo appena lasciati alle spalle.

Robert sorrise, osservandolo, sorreggendolo per un fianco, onde evitare che un movimento brusco potesse farlo cadere.

Il taxi si fermò davanti all'hotel e Robert si offrì di portare in braccio Josh al mio posto, vista la mia caviglia dolorante.

Accettai di buon grado, zoppicando fino all'ingresso.

D'altronde, Josh sembrava essersi già abituato a lui: gli aveva circondato il collo con le braccia corte e aveva accoccolato la testa sulla sua spalla, chiudendo gli occhi. Robert lo cullò durante la nostra salita in ascensore, accarezzandogli i capelli biondi.

Dove aveva imparato? Sembrava fosse nato con un bambino in braccio; non era spaventato o a disagio e compiva gesti quanto meno naturali per uno che non ne aveva mai tenuto in braccio uno.

< Non pensavo fossi così bravo con i bambini... > Gli confessai, indicando Josh addormentato tra le sue braccia, sorridendo.

Arrossì appena.

< Non lo sono, infatti, però lui è tranquillo e non strilla, il che mi evita un mucchio di paranoie inutili ed isterismi vari. > Rise, scompigliandosi i capelli con la mano non impegnata a reggere il bambino.

< Come farai quando Kristen partorirà? > Gli domandai, digitando il codice al suo posto, zoppicando all'interno della stanza, accendendo qualche luce.

Fece spallucce, posando Josh sul divano, coprendolo con un plaid lì vicino.

< Dici che devo cominciare ad allenarmi con i bambolotti? > Sorrise e mi venne vicino, liberandomi dal peso delle borse, aiutandomi a svestirmi del cappotto.

< Dovresti; posso insegnarti, sono un'esperta di pannolini e pappe. > Ricambiai il sorriso, lamentandomi del dolore alla caviglia, accorgendomi di averla, inavvertitamente, poggiata a terra.

< Non deve avere un bell'aspetto... > La indicò ed io feci una smorfia.

< No, infatti. Devo fasciarla, altrimenti ho paura che si gonfierà ancora di più. > Borbottai, avanzando con cautela verso la camera da letto, sedendomi sul materasso e scivolando fino ai cuscini, poggiandone uno sotto il piede.

Recuperai dal borsone la benda e sfilai con attenzione lo scaldamuscoli, liberandomi anche delle calze, sollevando il pantalone morbido fino al ginocchio.

Robert mi si sedette accanto, osservandomi con attenzione.

< Ouch! > Sbottai, rendendomi conto della fasciatura troppo stretta.

< Ti serve aiuto? > Mi domandò.

Scossi la testa.

< Non lo faccio da un po' e dimentico sempre che non è una fasciatura precauzionale. > Sorrisi, tagliando il rimanente, cercando di fissarlo con un nodo non troppo stretto.

Sbuffai, ricadendo con la testa sul cuscino, stropicciandomi gli occhi. Ciò di cui avevo bisogno, era proprio una caviglia fasciata.

< Che succede? > Avevo ormai le lacrime agli occhi, e non perché una caviglia storta fosse qualcosa di irrecuperabile, ma perché non avrei potuto ballare in quelle condizioni, né provare, e non potevo permettermi due settimane di riposo assoluto, non con il Saggio che si stava avvicinando.

< Non riuscirò a ballare con una caviglia così... > Singhiozzai, coprendomi il volto con le mani, rifiutandomi di guardarlo.

< Ehi... > Lo sentii stendersi accanto a me, accarezzarmi i capelli e cercare di allentare la presa delle mani dal mio viso, ma io scossi la testa con energia, continuando a piangere.

< Candice, è solo una storta, non hai niente di rotto e probabilmente tra qualche giorno potrai ricominciare ad allenarti, non è così grave... > Mi sussurrò, stringendomi contro il suo petto, accarezzandomi la schiena per cercare di calmarmi.

Mi aggrappai alla sua felpa, singhiozzando appena.

Doveva essere lo stress; sì, avevo pianto anche due anni prima, quando il fisioterapista dell'ospedale aveva esaminato le lastre e aveva decretato che la mia caviglia fosse inutilizzabile per almeno un mese; avevo pianto anche quando avevo realizzato che non avrei potuto prendere parte al Saggio di fine anno, scoprendo che il mio ruolo l'avrebbe ricoperto Elena e lo avevo fatto anche quando, durante la ginnastica riabilitativa, cercavo di fare gli esercizi di sempre ed avvertivo una fitta dolorosa proprio all'altezza della frattura. Avrei potuto incolpare Elena tutte le volte che volevo, ma non avrebbe cambiato la mia situazione.

< E' solo che... ho invitato i miei genitori, per la prima volta, ad assistere ad un Saggio importante e non vorrei che facessero un viaggio per niente. Sarebbe triste. > Tirai su col naso, asciugandomi gli ultimi residui di lacrime.

< Avreste del tempo da passare insieme, però e non credo che questo possa considerarsi triste. > Mi pizzicò una guancia, cercando di farmi sorridere ed io lo accontentai, raggomitolandomi contro di lui, sospirando.

Ripensai a quella mattina e alla telefonata di Kristen, ricordandomi improvvisamente del loro incontro in centro.

Mi distesi con cautela su di lui, cercando i suoi occhi e poggiai il mento sulle mie mani incrociate sul suo petto, facendolo sorridere, perché era la posizione che preferivo per chiacchierare: avvertire il calore del suo corpo contro il mio, riusciva a trasmettermi calma e positività.

< Dovresti scioglierli questi capelli, sai? Sei più bella. > Allungò un braccio per depositare l'elastico sul comodino, cominciando, l'istante successivo, a pettinarmi i capelli con le dita, lentamente, rilassandomi.

< Cosa aveva di così importante da comunicarti? Kristen, intendo. > Non avevo voglia di tergiversare ancora, anche perché avrebbe voluto dire continuare a prenderci solo in giro.

Le sue mani smisero, per un istante, di accarezzarmi, poi ripresero, leggere e dolci.

< Voleva mettermi a conoscenza della sua decisione in merito al bambino. > Rispose, rivolgendo gli occhi al movimento delle sue dita tra i miei capelli.

Io continuai a fissarlo, aggrottando le sopracciglia in segno di totale estraneità alla faccenda. Doveva prendere ancora una decisione? Ma non erano trascorsi già tre mesi? E non era ormai troppo tardi per abortire?

< Credevo che avesse deciso di tenerlo... > Cominciai, perplessa.

< Sì, è quello che vuole fare, solo che ha deciso di non volersene occupare. > Incontrò i miei occhi, sgranati per la sorpresa.

< C-come sarebbe a dire? N-non vuole... Vuole darlo in adozione? > Balbettai in difficoltà, non sapendo bene come reagire ad una notizia del genere.

< Non proprio... Vorrebbe che me ne occupassi io. Lei non se la sente, è ancora troppo fragile e non vuole prendersi responsabilità che sa che non riuscirebbe a mantenere. Io non potrei mai sostituire una madre, questo è vero, ma ho te e... insomma, non lo so... forse non sarebbe una cattiva idea. > Spiegò, arrossendo, in evidente difficoltà.

Il mio cuore cominciò ad accelerare i battiti: Kristen stava affidando suo figlio a me? Alla stessa persona che aveva insultato?

Sì, tecnicamente, lo stava affidando a Robert, ma ero io la sua ragazza, adesso, quindi non ci sarebbe stata molta differenza di intenti.

< Tu vorresti prenderti cura di un bambino? Con me? > Mi sollevai dalla mia posizione, le sue mani che scivolarono automaticamente ai miei fianchi.

Si schiarì la voce, evitando il mio sguardo, arrossendo ancora.

< Beh... forse dovremmo parlarne meglio, però... non lo so, sì, è quello che vorrei fare. > Ammise.

Rimasi immobile diversi istanti, conscia della responsabilità che un bambino avrebbe comportato, non solo nella sua vita, ma anche nella mia. Ero di due anni più grande di Kristen e forse non ero pronta neanch'io a fare la madre. Sì, d'accordo, sapevo occuparmi di Josh, ma lui non viveva con me, aveva sua madre che il giorno dopo sarebbe tornata a riprenderselo, non era lo stesso. E poi non sarebbe stato mio, sarebbe stato di Kristen e di Robert e se si fosse affezionato a me, ma le cose tra me e Robert non fossero funzionate? Se fossimo stati costretti a lasciarci? Non potevo non tenere in conto la mia carriera: con un bambino di cui occuparmi non avrei potuto danzare come avrei voluto e avrei dovuto rinunciare ad impegni extra-continentali. Viaggiare non era così importante, ma danzare sì; era la mia vita e non ci avrei rinunciato per nulla al mondo, non per assumermi responsabilità che non mi riguardavano.

< Perché non ha abortito e basta? Perché scaricare su di te tutte le conseguenze di un'azione di cui anche lei si è resa partecipe? > Bofonchiai alla fine.

< Non le avrei permesso di abortire e, lo so, non poteva essere solo una decisione mia, ma non l'avrei sopportato. E comunque, non credo voglia scaricare su di me tutte le conseguenze; non si sente pronta per fare la madre, è comprensibile, mentre io ho cominciato a familiarizzare con l'idea e... > Ma non lo lasciai terminare la frase.

< Familiarizzare con l'idea? Robert, tra sei mesi Kristen partorirà e quell'idea, sarà un bambino in carne e ossa, un bambino come Josh! Non pensi alla tua carriera, a quello che comporterebbe? > Sbottai. Non avrei dovuto innervosirmi, ma non riuscivo a rimanere calma, mi sembrava tutto così irreale, da cominciare a credere che fosse soltanto un incubo, uno spaventoso, surreale incubo.

< Che cosa dovrei fare, allora? Abbandonarlo in ospedale e vederlo adottare da un'altra famiglia? Come potrei vivere con il pensiero che ho un figlio da qualche parte, che non sa niente di me, o di sua madre, che è accudito da altre persone, persone che non sono i suoi veri genitori? > Alzò la voce anche lui, irritato, gesticolando.

< Avreste dovuto pensarci prima! Non puoi immischiare anche me in questa faccenda! Non ho ancora terminato l'Accademia e non ho certo più esperienza di Kristen, anche io non sono pronta a fare la mamma! > Scavalcai il suo corpo con furia, dimentica della caviglia dolorante.

< Però accetti di fare da baby-sitter ad un bambino che neanche conosci... > Sbottò.

< E' diverso, Robert, ma non capisci? Josh ha una mamma, ha una famiglia da cui tornare! Io me ne occupo per tutta la notte, una giornata, ma non è la stessa cosa prendersi cura di un bambino che per i primi mesi avrà costante bisogno di te! > Tentai di farlo ragionare senza litigare, anche perché temevo che, prima o poi, le nostre voci alterate avrebbero svegliato Joshua.

< C'è sempre la tua carriera di mezzo, come se potresti essere l'unica a trovarti in difficoltà! > Si alzò, imbronciato e furioso, camminando verso la porta-finestra.

< Hai sempre la danza come asso nella manica quando discutiamo. Credi che sarei qui, con te, adesso, se considerassi la danza più importante dei miei sentimenti? > Ci risiamo, pensai, le nostre solite discussioni sul fatto che la mia vita fosse occupata esclusivamente dalla danza e che non avessi abbastanza tempo per coltivare una vera relazione.

< Hai una caviglia malandata... > La indicò ed io non sapevo se mettermi a piangere o urlare dalla frustrazione.

< Credi che ti abbia chiamato solo perché non posso più ballare? > Mi passai una mano tra i capelli, le lacrime che minacciavano già di sopraffarmi.

Fece spallucce ed io mi morsi un labbro per non scoppiare nuovamente in singhiozzi, distogliendo lo sguardo dalla sua figura in penombra e puntandolo sulla parete opposta della stanza.

< Non è mai abbastanza, vero? Non lo è il tempo che trascorro con te, non è abbastanza non vedere l'ora che finisca la lezione per correre qui, così come non è abbastanza lasciarmi convincere da Selen a farti conoscere Josh, solo perché tu possa abituarti ad avere un bambino intorno, a cosa voglia dire prendersene cura. Non lo è mai, per te. > Tirai su col naso, infilandomi nuovamente le scarpe, recuperando il borsone e la borsa di Joshua.

< Dove vai? > Mi domandò, smarrito.

< Torno al residence. Se pensi che io sia qui perché non ho nient'altro di meglio da fare, non c'è motivo che io resti. > Risposi glaciale, allontanandomi con cautela verso il salotto per recuperare Josh, che dormiva ancora beatamente. Lo liberai del plaid e cercai di sistemarmelo quanto più comodamente possibile tra le braccia.

< Aspetta, Candice! Non puoi sempre andar via... > Mi raggiunse quando avevo già aperto la porta della camera, pronta ad andare.

< Cosa ti aspetti che faccia? Che rimanga qui a far finta di niente? > Josh si mosse, infastidito.

< Possiamo discuterne! Se vai via, tornerà tutto come prima ed io non voglio perderti di nuovo. > Abbassò lo sguardo sulla moquette azzurra, torturandosi i capelli.

< Allora perché non la smetti di ribadire che la danza è la cosa più importante per me? E' così, amo la danza, fa parte di me, mi fa stare bene ed è per me quello che è per te recitare, ma come potrei anche solo pensare di paragonarla a te? Io ti amo, Robert, è un'altra delle cose che non ho mai smesso di fare, fin da quando ti ho conosciuto. Se mi costringessi a scegliere tra te e la danza, sai che morirei... > Lasciai che le lacrime mi corressero lungo le guance, sbavandomi il trucco.

< Lo hai fatto, però; hai preferito la danza a me, tre anni fa... > Mormorò.

< Ne ho sofferto ogni giorno, lo sai. Ho sbagliato a non parlarti dei miei progetti, ho sbagliato a pensare che te ne saresti fatto una ragione, prima o poi, che per te sarebbe stato semplice lasciarmi andare e, se potessi tornare indietro, se potessi riavvolgere il tempo e tornare al momento in cui ho deciso di trasferirmi a New York per frequentare la Julliard, credimi, sarei sincera con te e cercherei di trovare una soluzione, insieme. > Sospirai, Josh che, nel frattempo, si era svegliato e mi osservava intimorito con i suoi occhioni scuri, spaventato dalle mie lacrime.

< Mi dispiace averti aggredita così; in fondo, non è colpa tua se Kristen è rimasta incinta, né tanto meno il fatto che non voglia occuparsi del bambino. So che comporterà moltissime responsabilità, così come so che dovrò rinunciare a molti progetti per poter essere un padre presente, per non fargli mancare il mio amore, ma è mio figlio, e non sopporterei il pensiero di affidarlo a nessun altro. Non voglio coinvolgerti in questa situazione, la danza per te è importante e lo capisco, anche se a volte continuo a rimproverarti per la tua dedizione, perciò, se deciderai di non volerti assumere questa responsabilità, lo capirò; è giusto che tu faccia quello che desideri, quello che il tuo cuore ti suggerisce. > Mi osservò, contrito e dispiaciuto.

Dispiaceva anche a me. Anche un tempo litigavamo così, recriminandoci a vicenda le nostre passioni, ma allora era tutto più semplice, eravamo dei ragazzini e bastava un sorriso per fare pace. La situazione, in quel momento, ora che eravamo cresciuti, era ben diversa.

< So già cosa risponderebbe il mio cuore e lo sai anche tu. E' la mia testa che ragiona diversamente. > Cercai di sorridere, lasciando cadere a terra le borse, stringendomi Joshua al petto, cullandolo per tranquillizzarlo.

< Non vuoi andare via, vero? > Mi si avvicinò di un passo ed io, per tutta risposta, richiusi la porta della stanza, scuotendo la testa.

Sospirò di sollievo, avvicinandomisi ancora, accarezzando i capelli di Josh.

< Vuoi che lo tenga io? > Mi domandò.

Annuii, lasciando che lo afferrasse per i fianchi. Il bambino, però, non sembrava così intenzionato a separarsi da me, perché, non appena fu tra le braccia di Robert, cominciò a piangere disperatamente, cercando di divincolarsi dalla sua stretta decisa, ma gentile.

< Shh! Che succede, ometto? E' tutto ok, va tutto bene. > Gli mormorò, cullandolo e accarezzandogli i capelli.

Notai il suo sguardo smarrito e, per un istante, ne risi, perché, a dispetto delle apparenze, sembrava davvero incapace di gestire un bambino che piangesse o si lamentasse.

< Si è solo spaventato perché mi ha vista piangere, vedrai che tra un po' si calmerà; continua a coccolarlo, io, intanto, vado a preparargli del latte caldo. > Lo istruii, liberandomi del cappotto, saltellando verso la cucina, Robert come un'ombra dietro di me.

< Sicura che si calmerà? > Mi chiese allarmato, passeggiando per la stanza, continuando a cullare Josh.

Controllai la temperatura del latte, versandolo nel biberon che avevo recuperato dalla sua borsa.

Josh afferrò la bottiglia senza esitazione, smettendo subito di piangere per succhiare il liquido bianco e dolce con ingordigia.

< Forse aveva solo fame... > Osservò Robert, sbalordito, asciugandogli le lacrime con il dorso di un dito.

< Ho fatto piangere anche lui... peggio di così... > Continuò, sedendosi su uno sgabello, assicurandosi che Josh fosse comodo.

< Non è certo colpa tua e poi non gli hai fatto niente, non ce l'ha con te, altrimenti avrebbe rifiutato di farsi prendere in braccio. E comunque, mi conosci, io piango per qualsiasi sciocchezza... > Lo rassicurai, sorridendogli e baciandogli una guancia, circondandogli il collo con le braccia da dietro, facendo combaciare le nostre guance.

< Mi dispiace davvero, Candice. > Mormorò, chiudendo gli occhi, strofinandosi appena contro di me.

< Smettila di colpevolizzarti, è stata anche colpa mia, non avrei dovuto reagire in maniera così aggressiva alla notizia. > Josh mi porse il biberon vuoto, sorridendo soddisfatto, saltellando sulle gambe di Robert.

< Candy! Biccotto! > Agitò le braccia, reclamando i suoi biscotti preferiti, quelli che Selen aveva pensato bene di aggiungere a tutti gli oggetti che gli sarebbero potuti servire.

Recuperai la scatola dal borsone e gliela porsi: odiava quando qualcuno scartava i biscotti al suo posto.

< Ehi, è un buongustaio! Biscotti al cioccolato e miele! > Osservò Robert, cercando di leggere la confezione.

< E va matto per le ciambelle, i frullati alla banana, le torte con la panna, le omelette al formaggio e gli spaghetti. > Elencai.

< Ma che bravo! Lo daresti un biscotto al tuo amico Robert? > Provò, tendendo la mano, sorridente.

Josh allontanò la scatola da lui, metà biscotto ancora in mano, e alzò gli occhi verso di me, come a chiedermi il permesso.

Io lo osservai di rimando, evitando di intromettermi nella sua decisione. Terminò la metà del biscotto in un solo boccone, infilò nuovamente la manina nella scatola, recuperandone un altro e lo tese a Robert, titubante. Robert non provò ad afferrarlo, attendendo che il bambino lo poggiasse sul palmo della mano aperta e, dopo qualche istante, fu proprio quello che Josh fece, sorridendo.

Sgranai gli occhi. Strano che avesse deciso di condividere i biscotti con un estraneo, solitamente li rifiutava persino a Selen, ed io non avevo mai provato a chiedergliene uno, sicura che la risposta potesse essere negativa. Diventava incredibilmente suscettibile quando si trattava dei suoi biscotti.

Robert gli scompigliò i capelli con affetto e gratitudine, addentando il biscotto.

< Cavolo, sono buonissimi! > Affermò, sorridendo a Josh che ricambiò felice.

 

Metà scatola di biscotti dopo, Robert giocava tranquillamente con Joshua, seduto sul tappeto davanti alla tv, tra le sue gambe, un puzzle dalle tessere cubiche che si divertiva a comporre e scomporre, mentre io, distesa sul divano, un cuscino sotto la caviglia dolorante, cercavo di concentrarmi sul film in tv, accarezzando distrattamente i capelli di Robert, rilassandomi.

Sbadigliai, chiudendo gli occhi, stanca e quando li riaprii, credendo che fossero trascorsi soltanto pochi minuti, la stanza era silenziosa, le luci spente, così come la tv e Josh dormiva beatamente sul divano accanto, coperto da un plaid colorato, un cuscino sotto la testa affinché fosse più comodo.

Anch'io ero al caldo e quando provai a muovermi per voltarmi su un fianco, sentii un mugugno infastidito proprio accanto a me e, voltando la testa, ritrovai il volto di Robert a meno di un centimetro dal mio.

Mi voltai il più delicatamente possibile, cercando di non svegliarlo, sistemando meglio la coperta, affinché nessuno dei due prendesse freddo, e mi accoccolai contro di lui, circondandogli la vita con un braccio.

Sospirò prima di socchiudere gli occhi, cercando di mettere a fuoco la stanza, ed io gli sorrisi, stringendomi di più a lui.

< Che ore sono? > Mi chiese in un sussurro.

< Non è ancora mattina. Dormi. > Risposi, baciandogli una guancia.

< Sei sveglia da molto? > Continuò.

< Solo qualche minuto. > Sbadigliai ancora. Avevo ancora sonno, non riuscivo a tenere gli occhi aperti, ma non volevo dormire, sapendo che anche Robert era sveglio.

< Credevo di aver chiuso gli occhi solo per qualche minuto... > Continuai.

< Non ho voluto svegliarti per portarti a letto e poi, Josh si è addormentato sul divano, guardando un cartone animato, così ho pensato che sarebbe stato meglio rimanere in sua compagnia, nel caso si svegliasse durante la notte. > Mormorò, solleticandomi un braccio al di sopra della felpa.

Annuii, rendendomi conto che avrei fatto esattamente la stessa cosa.

Restammo qualche minuto in silenzio, avvolti nel tepore confortevole dei nostri corpi e della coperta, ascoltando soltanto i vicendevoli respiri regolari.

< Posso chiederti una cosa? > Mi domandò alla fine, accarezzandomi i capelli.

Annuii.

< Quel tuo amico, Arthur... insomma, c'è qualcosa che non so? > Sapevo che prima o poi me l'avrebbe chiesto.

< Cosa intendi? > Sussurrai in risposta, prendendo tempo.

< Voglio dire... non ho avuto la stessa impressione che ho avuto con Lucas. Non che mi sia sembrato un maniaco, ma... non lo so, ti guardava con un'aria di possesso e... preoccupazione, che... non so, mi sono sentito attaccato. > Spiegò, delineando il profilo del mio viso con attenzione.

Come potevo spiegarli cosa provava Arthur per me senza farlo impazzire di gelosia?

< Lui... ehm... beh, è... innamorato di me... > Forse la sincerità era la tattica migliore; almeno, non avrei rischiato un linciaggio, se fosse venuto a scoprirlo da qualcun altro.

< Innamorato di te. > Ripeté, come a sentire come suonasse quella frase sulle sue labbra. 

< Innamorato, di te. > Continuò dopo qualche istante, costringendomi ad annuire. 

< Quando pensavi di dirmelo? > Mi domandò alla fine, accigliandosi, accarezzandomi lievemente il collo con due dita, facendomi rabbrividire.

< Beh... è stato inaspettato anche per me, voglio dire... me l'ha confessato durante una lezione di danza, qualche settimana fa e... insomma, è stato scioccante, non me lo sarei mai aspettata... e non pensavo fosse importante, dal momento che non provo niente per lui. > Risposi, intrecciando una gamba tra le sue, mettendomi comoda.

< Tutto ciò che ti riguarda è importante, Candice, soprattutto per me. > Chiarì, stranamente tranquillo.

< Sei geloso? > Gli domandai, il tono di una bambina che aveva appena commesso una marachella e fosse stata scoperta.

< Certo che sono geloso; lo sono sempre stato. > Sorrise, baciandomi il mento, proseguendo lungo la mandibola, fino a raggiungere il collo.

< Ma...? > Continuai per lui, cercando di tornare a respirare.

< Nessun ma. Arthur è tuo amico, non posso impedirti di frequentarlo, né posso impedirgli di provare dei sentimenti per te. Adesso sei qui, con me, ed è questo l'importante. > Sorrise ancora, baciandomi le labbra.

< L'hai guardato in modo strano, però. > Ribadii, separandomi dalla sua bocca, sorridendo divertita.

< Stavo marcando il territorio, ovvio. > Sgranò gli occhi, sorpreso di come non avessi intuito le sue intenzioni.

< Stavi cercando di spaventarlo, forse. > Risi, accorgendomi troppo tardi che l'avevo fatto ad alta voce, rischiando di svegliare Josh. Mi tappai la bocca con una mano e rimanemmo entrambi immobili per un istante, in attesa di un rumore che ci avvertisse del risveglio del bambino, ma la stanza rimase silenziosa e buia e noi tornammo a rilassarci.

< Anche. > Fece spallucce, compiaciuto.

< Cosa dovrei dire io, allora? Mi tocca competere con Kristen e con un mucchio di attrici sicuramente più belle di me. > Respirai il suo profumo di mare e ammorbidente, stringendo la sua maglietta tra le dita, rischiando di strappargliela.

< Sciocchezze. Rimani comunque la mia preferita. > Chiuse gli occhi, tornando a baciarmi.

Selen si sbagliava: ero felice, perfettamente felice.

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Capitolo 19
*** Must ***


Salve a tutte!

Dopo gli aggiornamenti di una settimana dopo l'altra, adesso mancavo da un po', causa ispirazione per la maggiore e, in secondo luogo, il raffreddore e la tosse che mi hanno colpita una settimana e mezza fa -.-" ora, però, sono attiva e pronta ad aggiornare (per vostra sfortuna xD).

Dunque, dunque, parliamo del capitolo: ho dovuto dividerlo necessariamente in due, ma non ci saranno una prima e una seconda parte; semplicemente qui c'è la prima metà della scena e nel prossimo ci sarà la seconda metà, un po' come quando il capitolo di un libro che adoriamo rimane "appeso", senza in verità esserlo sul serio (spero di essere stata chiara :D). In ogni caso, la notizia importante non è questa, quanto il fatto che voglio chiarire un paio di cose sul personaggio di Candice. Mi rendo conto che possa risultare, per la maggior parte di voi, un'estranea, nel senso che voi, al suo posto, non vi sareste mai comportate così e, mi rendo anche conto, che sia una di quelle ragazze che spesso (sempre, in realtà) pensano troppo, riducendo i pensieri a vere e proprie paranoie; anche questo atteggiamento potrebbe essere estraneo a molte di voi. Candice non è un personaggio facile, perché, per la maggior parte, rispecchia i miei atteggiamenti, le mie brutte abitudini di un tempo, ovvero, quelle che concentravano la verità negli altri e mi portavano a credere che avessi sempre il torto dalla mia parte, quelle cattive abitudini che mi facevano preoccupare fin troppo di ciò che potevano pensare gli altri di me e mi portavano a pensare a me stessa sempre di meno. Ovviamente, non posso dire di essere cambiata da un giorno all'altro, ma ci sono state situazioni che mi hanno fatta crescere e ragionare diversamente. Candice non è ancora a quel punto. E' divisa, in tutti i sensi, anche se non lo ammetterebbe mai e ha il terrore di fare del male a qualcuno, perché ha paura di rimanere da sola, di non farcela, di non essere abbastanza forte. Queste sono anche un po' le mie paure e, penso, le paure di un po' tutti, chi più, chi meno. E' per questo che appare così strana e lontana, così straniera, ma fa parte di ciò che ho in mente per lei ai fini della Ff e della sua crescita. Perché, così come io non sono cresciuta da un giorno all'altro, anche lei ha bisogno di scottarsi per poter decidere la sua vera strada e, prima o poi, succederà.

Dopo questo chiarimento-barra-sfogo, ci tenevo (ed è uno dei motivi per cui volevo riuscire ad aggiornare entro oggi) a fare a tutte voi (coloro che mi seguono da sempre, che mi hanno seguito precedentemente e ora non più, chi si avvicina alle mie Ff per la prima volta, chi legge soltanto, chi commenta, chi inserisce tra le preferite/seguite/da ricordare e ovviamente anche a tutte coloro che capiteranno qui per caso) un INIZIO 2013 SCOPPIETTANTE E SERENO, condiviso con le persone che amate e che vi amano. Che questo nuovo anno sia per voi una fonte inesauribile di gioia, serenità, felicità e che possiate dar vita a tutto quello che vi siete preposte. BUON ANNO A TUTTE! <3

Come sempre, volevo ringraziare le persone che hanno commentato lo scorso capitolo, che hanno letto, che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare *.* GRAZIE! Non saprei cosa fare senza di voi *.*

Ora che il mio sproloquio è concluso, non posso far altro che rinnovarvi i miei Auguri di Buone Feste e augurarvi anche una...

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Near To You-A Fine Frenzy

 

 

 

 

 

La primavera si stava avvicinando, l'aria era più mite e la brezza che soffiava dolce e che ti scompigliava i capelli, era tiepida. Il profumo degli alberi in fiore, dell'erba e quello inconfondibile della città, del traffico, dei ristoranti vicini, si fondevano, dando vita ad un'essenza diversa da quella che si respirava a Londra nel medesimo periodo, dove prevaleva l'odore dell'asfalto bagnato, della terra umida di pioggia e dei temporali vicini.

Quella giornata di fine marzo, tuttavia, era speciale non soltanto per il risveglio della natura; i miei compagni di Accademia, i miei amici, avrebbero affrontato uno degli esami di sbarramento più duri dell'interno anno accademico, esame che gli sarebbe valso un posto nel Saggio di beneficenza organizzato dalla Amnesty International.

Ero tesa, come se avessi dovuto affrontarlo io quell'esame, come se sentissi di non aver dato abbastanza, di essere stata una privilegiata perché, sì, lo meritavo, ero considerata una delle migliori allieve dell'Accademia, ma non avevo dato il meglio di me in quelle settimane, avevo dato per scontata la mia partecipazione all'evento, mentre i miei amici avrebbero dovuto combattere di fronte ad una commissione rigida e severa. Volevo che fossero con me ed Arthur su quel palco, volevo che avessero anche loro la possibilità di mostrarsi fieri del percorso che avevano scelto di intraprendere, di invitare i loro genitori e farli sentire orgogliosi del loro bambino. 

L'Accademia era più tranquilla del solito; gli esami erano già in corso e le lezioni erano sospese.

Mi diressi al piano superiore, verso una delle aule designate alla prova, sbirciando con curiosità.

Avevo sostenuto diversi esami di sbarramento durante quei tre anni alla Julliard, tutti molto difficili ed impegnativi, tuttavia, era la prima volta che osservavo la medesima situazione dal di fuori, non facendone parte, come una semplice spettatrice.

Si stavano ancora tutti riscaldando per la prima parte dell'esame ed incrociai, per un breve istante, gli occhi di Lucas, della sua fidanzata, Amanda, di Sam, di Sophia e di Juliana. Sorrisi a tutti, accennando un saluto con la mano e mimando un in bocca al lupo, ricevendo in risposta un sorriso e un pollice alzato.

Credevo di essere più tesa di loro: il cuore mi rumoreggiava fin nelle orecchie, mi sentivo le gambe molli e il respiro pesante e avevo voglia di mangiarmi le unghie, un vizio che avevo mantenuto durante i momenti di stress.

Sentii la porta dell'aula aprirsi e la voce di Lucas chiamarmi.

< Tutto bene? > Mi domandò, scrutandomi con attenzione. < Sei pallida come uno zombie. > Continuò, avvicinandomisi. Forse voleva solo salutarmi, ma aveva sicuramente cambiato idea non appena vista la mia faccia.

< Sì, sì, tutto bene, è solo che sono nervosa per voi e per quest'esame. Siete tutti così bravi... è una prova inutile. > Obiettai, cercando di calmarmi.

Sospirò e mi si avvicinò per abbracciarmi stretta, cullandomi appena.

< Non è così importante, è solo un esame di sbarramento e noi ne abbiamo affrontati tanti, no? > Avvertii il suo respiro tra i capelli.

< Stai mentendo, certo che è importante. > Mi imbronciai. Minimizzare quello che stava succedendo, non era mai una buona tattica per tranquillizzarmi. Lucas e tutti gli altri tenevano a quel Saggio tanto quanto me ed Arthur.

< Ok, d'accordo, è importante, ma l'hai detto tu stessa, no? Siamo tutti bravissimi e non avremo difficoltà a superare l'esame. > Alzò gli occhi al cielo, esasperato. Avrei dovuto essere io a tranquillizzarlo e non il contrario.

< Invece di tifare per voi e darvi la carica, sono qui, nervosa e sotto pressione come una mamma chioccia. > Sorrisi, separandomi dalla sua stretta.

< Non saresti tu se non fosse così. > Mi scompigliò i capelli e mi sorrise.

< Sei preoccupato? > Gli domandai dopo qualche istante, decisa a porre lui al centro dell'attenzione, i suoi sentimenti e non me.

< Solo un po'... > Fece spallucce.

< Andrai benissimo. Andrete benissimo, tutti quanti, ne sono sicura. > Gli strinsi un braccio per incoraggiarlo.

< Tsk! Pensi che non lo sappia? Ovvio che andremo benissimo! > Si atteggiò come una super-star, facendomi scoppiare a ridere.

< Ok, vai a finire il riscaldamento, Mr. Modestia. > Lo spinsi via verso l'aula e lui, prima di entrare, mi fece una linguaccia e mi mandò un bacio con la mano.

< Ci vediamo stasera, splendore. > Mi prese in giro prima di scomparire definitivamente.

E pensare che la prima volta che l'avevo visto in Accademia, prima ancora di conoscere il suo nome, di sapere che si era anche lui trasferito da un paesino vicino Londra, di capire che saremmo potuti diventare amici, mi ero quasi convinta di essermi invaghita di lui, di essere, a dispetto di tutto e tutti, riuscita a mettere il mio amore per Robert in un angolo e aver riaperto gli occhi su chi mi circondava, senza pretendere di ritrovarci sempre lui. Ovviamente, la mia cotta era durata il tempo necessario per capire che non saremmo funzionati insieme e che, comunque stessero le cose, non avevo voglia di impegnarmi, non avevo voglia di dimenticare Robert.

Mi voltai, decisa ad osservare l'esame, convinta che tutti avrebbero dato il meglio di sé.

Erano così assorti nei loro pensieri, così concentrati sull'obiettivo che si erano posti, che non avrei dubitato di nessuno di loro, sconosciuti compresi, eppure, soltanto cinquantacinque di loro avrebbero avuto accesso al Saggio.

< Ehi! > Mi riscossi, osservando un Arthur sorridente affiancarmi.

Gli sorrisi, voltandomi nuovamente per osservare i ballerini al di là del vetro.

< Ciao. > Borbottai soltanto, concentrata.

< Come sta la tua caviglia? > Mi domandò, occhieggiando alla fasciatura che ancora indossavo, più per precauzione che per reale necessità.

< Bene, credo che non ci saranno problemi con le prove. > Risposi.

< E' una buona notizia. > Rimanemmo in silenzio per un po', un silenzio che mi avrebbe sicuramente messa a disagio, se non fossi stata così concentrata su ciò che avveniva nella sala di fronte a noi. Da quando mi aveva confessato i suoi sentimenti per me, qualcosa nel nostro rapporto di amicizia, anche se non avrei saputo dire bene cosa, era cambiato. Non si trattava di un problema di confidenza, di fiducia, di voler bene all'altro... era qualcosa che, in qualche modo, in ogni caso, andava al di là anche della nostra comprensione: era il suo sguardo, che adesso interpretavo in maniera diversa, il rossore che si diffondeva sulle nostre guance, all'unisono, quando ci abbracciavamo, l'impaccio che avvertivo nel rimanere sola con lui, la paura di fare qualcosa di sbagliato che avrebbe potuto offenderlo, tutte le volte che mi ero offerta per raggiungere Robert in albergo da sola, piuttosto che farmi venire a prendere, e solo perché lui non fosse costretto a vederlo, perché non ne soffrisse.

< Senti... ehm... io... > Cominciò, abbassando lo sguardo, gli avambracci che, come i miei, sfioravano il metallo freddo della ringhiera che ci divideva dalla vetrata dell'aula.

Mi voltai verso di lui, conscia che le cose non avrebbero fatto altro che complicarsi ancora di più, qualsiasi cosa avesse detto.

< So che è impossibile, so che non accetterai mai, so che non posso cambiare quello che è stato, ma so anche che non posso non provarci ugualmente... > Continuò, arrossendo.

Aggrottai le sopracciglia, confusa e disorientata. Voleva farmi una proposta? Stava cercando di farmi delle avances?

< Conosci i miei sentimenti per te. Non era esattamente quello il modo in cui avrei voluto parlartene, durante una lezione di danza, anche perché, probabilmente, se Lucas non avesse tirato fuori l'argomento, non te ne avrei mai fatto parola, ma, in ogni caso, è successo e nonostante tu mi abbia rassicurato sul fatto che non sarebbe cambiato niente tra di noi, sento che non è così; non sei a tuo agio quando ti sono vicino, hai paura di sfiorarmi, anche se si tratta soltanto di eseguire una coreografia, non chiacchieriamo sul serio da secoli e sei schiva, timorosa, come se avessi paura di ferirmi. So che parlare di sentimenti cambia sempre le cose, specialmente quando si tratta di persone a cui teniamo molto, così come so che hai tanto a cui pensare in questo periodo ed io probabilmente non farò altro che far aumentare la confusione che sono sicuro domina nella tua testa, ma devo farlo, non posso tenermi tutto dentro, non ci riesco. > Proseguì lentamente, scandendo ogni singola parola, facendomi sentire colpevole: colpevole, perché aveva capito che c'era qualcosa che non andava nel nostro rapporto, che non era più come prima; colpevole, perché avrei voluto che le cose fossero rimaste quelle di un tempo tra di noi.

Mi morsi le labbra in attesa, muovendomi a disagio, come se mi fossi distesa su un materasso di spine.

< Io ti amo, Candice, non ho solo una cotta per te, non mi sono solo invaghito della ragazza che mi ha rivolto per prima la parola. Ti amo e può sembrare scorretto da parte mia, ma è la verità, la semplice e pura verità e non riesco a tacerla. Forse non ricambi i miei sentimenti, forse questo non farà altro che allontanarci ancora di più, ma era importante che tu lo sapessi, perché non riesco a fare finta di niente. > Sgranai gli occhi, sorpresa. Non che credessi qualcosa di diverso, perché sapevo che Arthur, se decideva di dedicarsi a qualcosa, lo faceva con tutto se stesso, che fosse la danza, l'amicizia o l'amore, ma non avevo previsto una dichiarazione simile, nonostante si fosse già dichiarato innamorato di me.

< Io... > Tentai di rispondere, ma lui mi fermò, sorridendo appena.

< Non devi dire nulla, non ce n'è bisogno. So come stanno le cose, so che non posso sostituire Robert, così come so che non cambierai idea su di lui. > Scosse la testa, recuperando da terra la sua tracolla, indossandola.

< Cambiare idea? > Domandai perplessa, ripetendo le sue stesse parole.

< Non vuoi davvero sapere cosa penso di tutta questa faccenda... > Tentennò, preso alla sprovvista.

< Voglio, invece. Hai detto che non cambierò mai idea su di lui; cosa intendi dire? > Mi voltai a fronteggiarlo, curiosa.

< Solo che, per quello che mi riguarda, ti sta usando: la storia di Kristen incinta, il fatto che vorrebbe prendersi cura di suo figlio con te, l'idea di trasferirsi qui perché siate più vicini... è come se avesse già progettato tutto fin dall'inizio, come se stesse seguendo un piano. Non hai potere decisionale su nulla, Candice, è stato già tutto scritto. > Rispose, avvicinandomisi di un passo.

< Come puoi affermare una cosa del genere? Con quale diritto? Tu non lo conosci! > Ribadii, cercando di dare un freno alla rabbia che sentivo montarmi dentro come un fiume in piena, pronto a straripare. Cosa credeva di poter fare? Voleva istigarmi contro Robert, fare in modo che lo disprezzassi, che corressi tra le sue braccia a lodarlo?

< Rimarrai soffocata in una vita che non desideri prima che tu possa anche solo rendertene conto, Candice! Perché non vuoi vedere? Perché sei così ossessionata da lui, da non renderti conto che ti sta legando a sé, senza possibilità di scampo? > Quasi urlò. Non l'avevo mai visto così furioso.

Indietreggiai spaventata.

< Sono io che ho scelto di rimanere al suo fianco, Arthur. Mi ha dato la possibilità di scegliere e questa, per me, si chiama libertà. > Risposi glaciale.

< E come avresti potuto rifiutare? Sei così presa da lui, da esserti dimenticata di tutto ciò che ti circonda. Ieri era il mio compleanno, Candice. I ragazzi mi hanno organizzato una festa a sorpresa e tu, tu dov'eri? La Candice che conosco, non sarebbe mai mancata al compleanno di uno dei suoi migliori amici, non avrebbe mai permesso agli altri di organizzare una festa a sorpresa senza il suo aiuto, non avrebbe mai dimenticato il resto del mondo per concentrarsi solo su se stessa. > Abbassò la voce, l'espressione triste e ferita.

Gli occhi mi si inondarono di lacrime, senza che lo volessi.

Cosa ne era stato della vecchia Candice? 

Robert mi aveva sconvolto così tanto, da farmi dimenticare di avere degli amici? Eppure, avevo cercato di esserci per loro, avevo cercato di mediare tra le due cose... ma mi ero dimenticata del compleanno di Arthur e di quello di Amanda il mese precedente...

< Non posso negare i miei sentimenti per te, ma non posso neanche fingere che tu non sia cambiata in questi mesi. > Mi diede le spalle, camminando in direzione delle scale.

Cos'era successo?

Mezz'ora prima stavo abbracciando Lucas, augurandogli buona fortuna per l'esame di sbarramento; mezz'ora dopo, stavo litigando con Arthur sul mio cambiamento.

Ero diventata davvero così?

Forse Arthur era soltanto geloso di Robert.

 

Mi svegliai di soprassalto, lo squillo assordante della sveglia nelle orecchie, la sensazione di panico che mi assaliva sempre quando ero convinta di aver fatto un brutto sogno.

Ero sudata e i capelli mi si erano appiccicati alla fronte, così come la maglietta che Robert mi aveva prestato per dormire.

Mi passai una mano sugli occhi, cercando di prendere visione della stanza, di rendermi conto che era stato solo un incubo, anche se così reale da sembrare la realtà.

Robert mugugnò dalla sua porzione di letto ed io mi voltai ad osservarlo, tentando di regolarizzare il respiro e il battito forsennato del mio cuore. Era disteso a pancia in giù, come sempre, le braccia sul cuscino, come se ci si volesse aggrappare, le labbra schiuse e i capelli in disordine e metà schiena scoperta.

Mi distesi nuovamente, recuperando il cellulare e disattivando l'allarme della sveglia.

Era il sedici marzo, il compleanno di Arthur. Forse ero così ossessionata da tutta quella storia, da aver addirittura sognato una nostra possibile litigata e proprio durante l'esame di sbarramento per l'ingresso al Saggio, che si sarebbe tenuto di lì a due giorni.

Dovevo essere davvero a pezzi e non mi riferivo soltanto alla caviglia che, in un modo o nell'altro, aveva deciso di essere magnanima con me e di non farmi pesare la storta che avevo subito, tornando attiva dopo appena ventiquattro ore e senza il consulto di un medico.

Sospirai, osservando assorta il soffitto bianco che andava pian piano inondandosi di luce.

Mi accorsi a malapena del braccio di Robert che mi circondò la vita e mi attirò a sé, baciandomi una spalla ancora ad occhi chiusi.

< Già sveglia? Non è il tuo giorno libero, questo? > Mi domandò, socchiudendo gli occhi e osservandomi.

< Ho promesso alle ragazze di aiutarle a preparare la festa a sorpresa per il compleanno di Arthur. > Risposi, accarezzandogli i capelli.

< Mmm. Sei sempre così impegnata... non hai mai tempo per me... > Brontolò fintamente, baciandomi il collo, accoccolandosi con la testa nell'incavo della spalla, solleticandomi la pelle accaldata con il respiro.

Sorrisi.

< Sei invitato anche tu, se non sbaglio. > Gli feci presente.

< Alla festa a sorpresa del tuo migliore amico? Che, per giunta, è anche innamorato di te? > Sgranò gli occhi all'improvviso, sollevandosi sugli avambracci per guardarmi negli occhi.

Annuii.

< Non se ne parla. Sono una star di un certo spessore, ho i miei impegni... > Si lasciò andare su di me, rischiando di schiacciarmi, voltò la testa dall'altra parte, ritornando, apparentemente, a dormire tranquillo.

< Smettila di fare il prezioso! > Lo punzecchiai io di proposito, pizzicandogli un fianco.

< D'accordo, accetto l'invito, ma solo perché non voglio che il tuo amico si avventi accidentalmente su di te con la scusa di aver esagerato con lo champagne. > Approvò dopo qualche istante, trascinandomi accanto a sé.

< Sei calda. Sicura di star bene? > Mi domandò dopo qualche minuto di silenzio.

< Sì, credo di aver fatto un incubo... > Borbottai.

< Cosa succedeva di così orribile? > Sorrise, baciandomi una guancia, cercando di tranquillizzarmi.

Scossi la testa. Non avevo voglia di parlarne.

< Niente di importante, solo che gli incubi mi lasciano sempre questa sensazione strana addosso, che... non so... non riesco a spiegare. > Mentii. Cosa avrei dovuto dirgli? Che nel mio sogno Arthur credeva che lui fosse soltanto un approfittatore? Che mi stesse rovinando il futuro?

< D'accordo. Posso fare qualcosa per calmarti? > Mi abbracciò, accarezzandomi la schiena e i capelli.

Scossi la testa e chiusi gli occhi. Andava benissimo già così.

< Una doccia ti aiuterebbe a rilassarti... > Soppesò, baciandomi gentilmente la nuca, mentre le sue mani sollevavano la stoffa della maglietta e saggiavano la mia pelle.

< Non ho tempo per una doccia; le altre mi aspettano tra un'ora. > Ribadii controvoglia, accarezzandogli la schiena ampia, aggrappandomi quasi a lui.

Mugolò contrariato, strofinando il naso sulla mia spalla, facendomi sorridere.

< Vuoi che ti accompagni? > Mi chiese, mentre io scivolavo via dalle sue braccia.

< Ti annoieresti, ma se ti va di dare una mano, perché no. La tua altezza potrebbe esserci utile quando appenderemo i festoni. > Feci spallucce, alzandomi.

< Sai che esiste un oggetto preposto alla cosa, vero? > Mi osservò divertito scegliere un paio di jeans e una maglietta, la coperta in fondo al letto, lui bellamente disteso, come un Adone pronto ad essere ritratto.

Gli risposti con una linguaccia, evitando di lasciarmi distrarre.

< Ti sei offerto tu di accompagnarmi. Vorresti trascorrere il tempo a guardarci lavorare? > Agganciai gli orecchini ai lobi e tentai di ordinare i capelli allo specchio.

Neanche mi ero accorta che si fosse, nel frattempo, alzato. Mi raggiunse alle spalle ed io, attraverso la superficie riflettente dello specchio, incontrai i suoi occhi, mentre le sue braccia mi cingevano la vita, sollevandomi appena, come per farmi raggiungere la sua altezza.

Mi baciò una guancia, facendomi arrossire, ma io, non ancora sazia, voltai il viso per incontrare le sue labbra umide, perfette.

< La proposta della doccia è ancora valida. > Sorrise furbo ed io lo spinsi via, gettandogli addosso i suoi vestiti, che lui afferrò divertito, dirigendosi verso il bagno.

< Ok, ok, ho capito! > Rise, alzando le mani in segno di resa.

Mentre mi accingevo a preparare la colazione, non potei non pensare allo strano incubo che avevo fatto poco prima di svegliarmi.

Stavo impazzendo, senza ombra di dubbio. D'accordo, probabilmente Arthur mi amava, non aveva solo una stupida cotta passeggera per me, ma cosa avrei dovuto fare?

Niente. Se ne farà una ragione, prima o poi. Ami Robert, o no?

Certo che lo amavo, non accettavo di discutere quel punto neanche con la mia coscienza, eppure... insomma, un fondo di verità in quello che mi ostinavo a definire un incubo, c'era; le cose tra me e Arthur erano cambiate, forse senza che ne avessimo totale consapevolezza, certo, ma erano cambiate e noi non eravamo più intimi come un tempo: ci salutavamo a malapena, evitavamo di trovarci da soli in una stanza per più di qualche minuto, mi sentivo in imbarazzo anche solo ad abbracciarlo o a ballare con lui. 

Forse era solo perché volevo che fosse felice come me, forse era perché, adesso che la maggior parte di noi era impegnato in una relazione, sentivo una stretta al cuore quando pensavo al fatto che lui non aveva nessuno da chiamare tra una pausa e l'altra, nessuno a cui dire ti amo; o forse era, più semplicemente, il fatto che, da quando mi aveva confessato i suoi sentimenti, non ero riuscita a fare a meno di pensarci, come se lui non mi avesse solo fatto una confessione, ma fosse andato oltre, come se mi avesse chiesto di scegliere cosa fare, se rimanere in bilico con Robert, oppure se tentare di capire come potesse evolversi il nostro rapporto.

Era assurdo e ne ero consapevole; d'altra parte, non avevamo parlato molto di quella mattina, a lezione, perciò non ero sicura di cosa intendesse con la sua dichiarazione. 

Amavo Robert e volevo bene ad Arthur: erano sentimenti opposti, non avrei potuto paragonarli, così come non avrei potuto paragonare un fidanzato ad un amico.

Era solo paranoia, sì, doveva essere così.

< Credo tu abbia appena bruciato il caffè. > La voce di Robert mi distrasse dai miei pensieri.

< Cosa? > Chiesi, sbattendo le palpebre un paio di volte per ritornare in me.

< Hai bruciato il caffè, non lo senti quest'odore? > Sorrise appena e aggrottò le sopracciglia, confuso.

< Oh. Ehm... devo essermi distratta... > Borbottai, spegnendo il fornello, arrossendo.

< Sicura che vada tutto bene? > Mi domandò, accarezzandomi i capelli, raccolti in una coda spettinata.

Annuii convinta, dandomi della stupida. Forse avrei dovuto parlarne con lui; in fondo, eravamo soliti dirci tutto un tempo, no?

< Sono solo preoccupata per questa festa, tutto qui. Non sono brava con le sorprese, lo sai. > Feci spallucce, mentendo, dandomi da fare per preparare dell'altro caffè.

< E la festa a sorpresa dei tuoi quindici anni? > Apparecchiò per due, riportandomi alla mente quel pomeriggio di diversi anni prima, quando, tornata a casa da scuola, non avevo trovato nessuno: mia madre non era in cucina e mio padre non era in salotto a leggere il giornale come al solito.

< Cielo, sono stati i minuti più traumatici della mia intera esistenza! > Sbuffai.

< Non è stato così tragico e poi hai anche pianto. > Ribadì.

< Certo, perché credevo che i miei genitori mi avessero abbandonata! > Ricordavo ancora la sensazione di panico che mi aveva invasa, mentre correvo per le stanze alla ricerca di mia madre e mio padre, fin quando, aprendo la porta del salone, non avevo sentito un sonoro pop e una miriade di coriandoli mi avevano invasa, insieme alle voci di tutti che gridavano Sorpresa! Buon compleanno! Ero stata così sollevata di notare i visi dei miei genitori in quella confusione, che mi ero messa a piangere come una bambina.

< Esagerata! Avevi quel vestito a fiori che mi piaceva tanto ed eri bellissima... > Continuò, abbracciandomi alle spalle, come poco prima, facendomi sorridere.

< Credo di averlo conservato, sai? Era anche uno dei miei preferiti. > Risposi.

< Peccato tu non abbia più quindici anni... > Sospirò melodrammatico, sciogliendo l'abbraccio per prendere posto su uno sgabello.

< Già... > Non volevo realmente tornare indietro, ma non potevo neanche negare che avevo trascorso spensieratamente il periodo della mia adolescenza, senza ragazzi che mi dichiaravano il proprio amore, mentre io non sapevo come comportarmi, con Robert sempre presente nella mia vita, come unica preoccupazione il compito in classe del giorno dopo o un esercizio di danza particolarmente difficile. Era tutto più semplice.

 

Tre ore dopo, non solo avevamo finalmente finito di decorare il locale scelto da Sophia per la festa a sorpresa, a quanto pare, uno dei più famosi di New York, sulla ventinovesima strada, che noi, grazie anche alle conoscenze del suo fidanzato, eravamo riusciti a prenotare per un evento privato con pochissimo preavviso, ma avevamo anche ordinato i tavoli e dato disposizioni al DJ e ai buttafuori.

< Che ve ne pare? > Sam aveva appena finito di sistemare l'ultimo festone con l'aiuto di Robert, mentre io e Sophia eravamo praticamente collassate sul primo divanetto disponibile.

< E' ok. > Rispose Sophia, alzando un pollice in segno di apprezzamento.

< Ok, direi che abbiamo finito. > Sistemarono la scala nel ripostiglio e ci raggiunsero.

< Chi è che ha l'album? > Domandò Sam, osservandoci.

Alzai una mano stancamente.

< Album? > Le fece eco Robert.

< E' il nostro regalo. > Spiegò Sophia. < Abbiamo raccolto tutte le foto di questi tre anni trascorsi insieme e le abbiamo sistemate in un album. > Continuò, facendo spallucce.

Ci era sembrato il regalo migliore per Arthur, che si era sempre lamentato di non poter far vedere ai suoi genitori nessuna foto della scuola o dei suoi amici, perché, per la maggior parte, le avevamo scattate noi.

Robert mi aveva fatto un regalo simile per il mio diciottesimo compleanno, ma le foto non erano state raccolte in un album, bensì in un quadro che avevo immediatamente appeso nella mia camera a Barnes e che, tutte le volte che ritornavo a casa, osservavo per ore, come se non avessi già imparato a memoria la disposizione di ogni singola fotografia che ci ritraeva da soli o in compagnia.

< Dev'essere arrivata la torta! > Sam e Sophia scattarono verso i fattorini che erano appena entrati con una enorme scatola bianca, mentre io mi avvicinai a Robert, accoccolandomi contro di lui, cingendolo con un braccio.

< Vuoi davvero che ti accompagni alla festa? > Mi domandò, accarezzandomi i capelli.

< Certo! Perché me lo chiedi? > Alzai gli occhi su di lui che fece spallucce e poi ricambiò il mio sguardo.

< Magari vuoi trascorrere del tempo in santa pace con i tuoi amici... > Soppesò.

< Arthur ha invitato anche te ed io non mi divertirei affatto sapendoti in albergo, da solo, a guardare la tv. > Risposi ovvia. E poi la sua presenza mi avrebbe aiutata a non pensare.

< D'accordo, ma non posso prometterti di non bere. > Scherzò, stringendomi a sé.

Risi.

< Credo che saremmo tutti brilli alla fine, considerato i cocktail che Sam ha scelto di far preparare. > Alzai gli occhi al cielo, osservando le mie amiche che discutevano con i fattorini, la torta, degna di un matrimonio reale, tra di loro.

< Sarà divertente osservarti, allora, considerato che non reggi neanche un bicchiere di champagne. > Mi prese in giro, ridendo.

< In verità, dò i numeri persino con un aperitivo... > Forse avrei dovuto evitare l'alcol, quantomeno per non fare una pessima figura. Avevo ancora in mente  ciò che era successo quando Sophia e Lucas mi avevano convinta a ordinare una birra e il cameriere si era presentato con un bicchiere pieno fino all'orlo, che io, pur di non dar loro la soddisfazione che sarei riuscita a ubriacarmi, finii e, non appena il cameriere tornò per recuperare i bicchieri vuoti, io cominciai, piuttosto spudoratamente anche, a flirtare con lui ad alta voce, scatenando l'ilarità di tutti i clienti. Decisamente un'esperienza da non ripetere.

< Ok, mi occuperò personalmente di sottrarti qualsiasi bicchiere tu abbia in mano. > Mi baciò i capelli, continuando a delineare con un dito il profilo della mia spina dorsale, facendomi rabbrividire di piacere.

Io speravo solo di riuscire a parlare con Arthur, anche se avrei potuto rovinargli la festa. Dovevo. 

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Capitolo 20
*** Surprises ***


Buonasera a tutte! <3

Qui da me piove, tempo ideale per una cioccolata calda, un bel film e un aggiornamento su EFP, no? Bene, se seguite la mia Ff, eccolo! Credo sia uno dei capitoli più lunghi che abbia mai scritto, e anche uno dei più faticosi, emotivamente parlando, perché molte delle emozioni che sono venute fuori nel capitolo, sono anche le mie, o lo sono state ed è sempre difficile mettere nero su bianco le proprie sensazioni, non trovate?

A costo di spoilerarvi il capitolo (ma è necessario, altrimenti non lo farei mai -.-"), Candice non ha la fantomatica "discussione" con Arthur. Il motivo? Beh, spero riusciate a capirlo voi dalla lettura del capitolo, altrimenti non temete, perché verrà spiegato nel prossimo ;)

Detto questo, ho una breve spiegazione anche per la canzone che ho scelto per il capitolo: i Blue sono stati la mia prima band preferita, quando avevo all'incirca 11/12 anni e le loro canzoni mi accompagnano tutt'oggi, anche se mi sono votata più al rock, rock/pop, sostanzialmente perché ricordo ancora tutti i testi a memoria e perché in fondo quello è stato un periodo davvero bello della mia pre-adolescenza, perciò, non appena ho sentito la loro nuova canzone, non ho potuto fare a meno di immaginarci Candice e Rob. Abbastanza semplice, in verità.

Ho detto tutto (spero) e non mi resta, al solito, che ringraziare tutte le persone che hanno commentato lo scorso capitolo, che hanno letto, inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e che hanno inserito me tra gli autori preferiti: GRAZIE! <3

Spero di riuscire a postare al più presto, ma, nel frattempo, vi auguro un buonissimo fine settimana e, ovviamente, una...

 

 

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Hurt-Lovers--Blue

 

 

 

 

 

< Non darò fastidio a nessuno, te lo prometto. > Robert sporse il labbro inferiore in fuori, come un bambino che cerca di irretirti, affinché tu gli compri un lecca-lecca.

Alzai gli occhi al cielo e sbuffai. Erano più di dieci minuti, ormai, che tentava di convincermi a farlo assistere alla mia lezione di danza classica, senza successo. Non che avessi nulla in contrario all'idea che mi osservasse danzare, solo che... insomma, era trascorso tanto tempo dall'ultima volta e mi sentivo a disagio al solo pensiero di eseguire gli esercizi in tutù e calzamaglia, sapendo che lui non mi avrebbe tolto gli occhi di dosso.

< Non sono esattamente una visione durante le prove... > Brontolai, incrociando le braccia al petto.

Distolsi lo sguardo dal suo viso, concentrandolo sul via vai di ballerini che affollavano l'ingresso, dirigendosi, chi in aula per la prossima lezione che sarebbe cominciata di lì a pochi minuti, chi in mensa per un caffè.

Rise, scompigliandosi i capelli.

< Ok, d'accordo. Vuoi davvero sentirmi controbattere su questo punto? > Mi prese in giro, incrociando il mio sguardo.

< Potresti semplicemente aspettare fino al Saggio, no? > Ribattei, pregandolo.

< Ma manca ancora un mese e mezzo! Io voglio vederti ballare adesso. > Sottolineò deciso.

Perché non gli dici semplicemente come stanno le cose? Perché non ammetti che hai paura?

Come potevo? Insomma, era quello che avrei fatto se si fosse trattato... non so, del perché non volevo che entrasse in cucina, giustificandomi che ero un disastro, che non avevo avuto modo di cambiarmi, di farmi una doccia, quando in realtà non volevo che vedesse l'arrosto bruciato; ma come potevo confessargli che ero mortalmente gelosa delle mie compagne di corso? Sarebbe stato pressoché impossibile non riconoscerlo, nonostante il cappuccio e gli occhiali da sole che mi aveva promesso che avrebbe indossato, e io potevo risultare un'egoista, ma non volevo dividerlo con nessuno, neanche per una foto o un autografo, non se stavamo parlando di una classe come quella di danza classica, quella con cui avevo avuto più problemi, sin dall'inizio del mio ingresso in Accademia; per loro ero sempre stata una privilegiata, perché non avevo dovuto sostenere gli esami d'ammissione e perché, del tutto a mia insaputa, mio padre aveva spedito il video di un mio saggio alla Direttrice in persona, corredato da una lettera della mia insegnante di danza di Londra.

Sì, non avevo dovuto affrontare l'esame di ammissione come tutte le altre, ma, in fondo, ero stata comunque provinata. L'intera commissione di danza aveva avuto modo di osservarmi danzare prima del mio ingresso in Accademia e ognuno di loro mi aveva ritenuta idonea. Perché continuare a considerarmi la cocca della Direttrice, quando era chiaro che avevo lavorato il doppio di tutte loro messe insieme per poter eguagliare il loro livello che, a differenza di me, avevano acquisito grazie alla frequenza in altre scuole di prestigio prima della Julliard?

Vedermi in compagnia di Robert, beh... non avevo idea di cosa avrebbero potuto tirar fuori.

Sostenni il suo sguardo in silenzio, rendendomi conto di non aver ancora risposto.

< Sonogelosa. > Dissi tutto d'un fiato, così veloce, che ero sicura non avesse capito.

Abbassai lo sguardo sulle mie mani che si stavano stritolando a vicenda, arrossendo colpevole.

< Cosa? > Mi domandò infatti. 

Sbuffai e la mia ragione si rassegnò del tutto, mandando all'aria l'imbarazzo.

< Sono gelosa, gelosa marcia, in verità. Non voglio che ti riconoscano, non voglio che ti chiedano di poter fare una foto e non voglio che ti saltino addosso come ragazzine isteriche. > Mi sgonfiai come un palloncino dopo quell'ammissione, decisamente più leggera di prima.

Strabuzzò gli occhi, incredulo, poi corrugò le sopracciglia, come se stesse per ribadire qualcosa; dovette ripensarci, perché si scompigliò i capelli e arrossì.

< Tu sei... davvero? > Mi stava forse prendendo in giro?

< Davvero. > Sospirai, avvertendo distintamente il calore delle mie guance.

< Non ero io che dovevo preoccuparmi di quell'Arthur? > Sorrise in evidente imbarazzo.

< Uno contro... quante? Venti? Senza contare tutte le donne che vorrebbero essere al mio posto, adesso. > Ricambiai il sorriso, impacciata.

Era strano provare imbarazzo accanto a lui; in fondo, vergognarsi di ciò che si provava era, in generale, strano, ma io, ormai, ne avevo fatta un'arte, un'arte che avevo messo da parte da quando lui era di nuovo con me.

< Beh, io tra i sette miliardi di persone che ci sono al mondo, ho scelto te. > Afferrò le mie mani tra le sue, intrecciandole davanti a noi, costringendomi ad avvicinarmi.

Arrossii ancora.

< Questo dovrebbe tranquillizzarmi... > Soppesai, osservando i suoi occhi felici e le sue labbra a portata di bacio.

< Dovrebbe... decisamente... > Sussurrò prima di chiudere gli occhi ed incontrare le mie labbra.

< Ti amo, winnie. > Continuò, separandosi dalla mia bocca e accarezzandomi i capelli. < E' sempre stato così e continuerà ad esserlo. >

< Ti amo anch'io. > Lo abbracciai, nascondendomi tra le sue braccia calde e forti.

< Allora, posso assistere alla tua lezione? > Mi domandò per la millesima volta dopo qualche istante trascorso in silenzio a godere l'uno del calore dell'altro.

Risi e scossi la testa.

< Sei un inguaribile testardo, sai? > Afferrai la sua mano e lo trascinai in direzione delle scale.

< Sì, e sono assolutamente fiero di esserlo. > Mi abbracciò la vita e mi sollevò appena per baciarmi una guancia, cogliendomi di sorpresa e facendo voltare nella nostra direzione diverse teste.

< Dov'è finito il tuo sarò discreto, non si accorgeranno neanche di me? > Sorrisi, perché, nonostante tutto, adoravo il modo spontaneo con cui mi ricopriva di attenzioni.

< E' così, sarò praticamente trasparente. > Fece spallucce, fermandomi davanti all'ingresso dell'aula di danza classica.

< Ok, io vado. > Spiai nervosamente il corridoio, praticamente semi-deserto, e l'interno dell'aula, ancora vuota.

< Ma non c'è ancora nessuno. > Sbirciò anche lui.

< Sì, lo so, la lezione inizia tra dieci minuti e devo ancora prepararmi. > Risposi.

< D'accordo, allora me ne starò buono buono qui, a guardarti. > Si sistemò con non-chalance contro la ringhiera di ferro che lo separava dalla vetrata.

< Bene, allora a più tardi. > Mi avvicinai per baciargli una guancia e lui in risposta mi strinse a sé, ricambiando il bacio.

< A dopo. > Rispose in un sussurro. < A proposito... > Mi trattenne, alzando appena la voce. < A che ora è la festa? > Continuò.

< Alle nove, come d'accordo, perché? > Domandai, corrugando le sopracciglia.

< Dean vuole essere informato dei miei spostamenti, perciò... > Alzò gli occhi al cielo.

< E' giusto, avremmo dovuto pensarci. > Robert poteva anche non essere il Presidente degli Stati Uniti d'America, ma sarebbe stato ugualmente spiacevole ritrovarsi all'uscita da un locale assediato da decine di fan.

< Beh, l'avete prenotato per la festa, no? Non ci sarà nessun altro. > Sbottò, giocherellando con il suo iPhone.

< Sì, ma è una questione di principio; pensa se qualche fan venisse a saperlo: si creerebbe il caos. E comunque, Dean è davvero invisibile, a differenza di te. > Gli scompigliai i capelli, sorridendo e sparii in aula, diretta verso gli spogliatoi.

 

A lezione terminata, quando uscii dall'aula per prima, per evitare che qualcuno ci vedesse insieme, non solo ero meravigliata del fatto che nessuna delle mie colleghe l'avesse riconosciuto, ma ero anche stupita di me stessa, perché, nonostante il nervosismo, nonostante l'imbarazzo nel sapere che mi avrebbe osservata, avevo ballato meglio che in qualsiasi altra prova, ricevendone conferma anche dall'insegnante stessa. Ero soddisfatta e felice, nonostante la caviglia mi facesse di nuovo male dopo due ore di esercizi sulle punte.

< Ehi. > Richiamai la sua attenzione, zoppicando nell'avanzare verso di lui.

Corrugò le sopracciglia quando mi vide e il suo sguardo saettò alla mia caviglia.

< Ti fa ancora male? > Mi chiese, invece.

Feci spallucce.

< Un po', ma succede sempre quando la sforzo più del dovuto. > Risposi noncurante.

Lo abbracciai e lui ricambiò di buon grado.

< Eri bellissima, sai? Mi sono quasi emozionato, in effetti. > Sorrise.

< Esagerato! > Arrossii, nascondendomi ancora di più nella sua felpa.

< Dico davvero! Mi è tornata in mente la prima volta che ti ho vista ballare, a otto anni. Eri così aggraziata, così bella, così felice di essere su quel palco, che pensai subito che sarebbe stato questo il tuo futuro, fare la ballerina, diventare sempre più brava. Ero orgoglioso di te. Sono orgoglioso di te. > Ricordavo bene anch'io quella mia prima esibizione; era uno dei ricordi più belli che avevo della mia infanzia.

< Grazie, io... non so cosa dire... > Balbettai in difficoltà.

< Non devi dire niente, volevo solo che lo sapessi, tutto qui. > Senza preavviso, mi sollevò in braccio, costringendomi a legare le gambe intorno al suo bacino.

< Dove hai intenzione di portarmi? > Risi.

< Usiamo l'uscita d'emergenza, così nessuno ci vedrà e io non sarò assediato dalle tue compagne di corso. > Aprì la porta con il gomito e scese le scale con circospezione.

< Guarda che posso ancora camminare, sai? > Scherzai, vedendolo in difficoltà.

< Con quella caviglia? Non direi proprio. Cos'è, hai paura che possa cadere? > Mi aggrappai meglio a lui.

< Almeno, abbiamo superato le scale. > Lo presi in giro.

< Ma che simpatica! Non ricordavo che fossi così spiritosa. > Mi fece una linguaccia, alla quale io risi con gusto, baciandogli una guancia per farmi perdonare.

< Non cercare di corrompermi, non attacca. > Mugugnò poco convinto lui stesso. < Dove vuole che la porti, signorina? > Continuò.

< Devo finire di sistemare l'album per Arthur... che ne dici se ci rifugiamo a Central Park per un po'? > Avevo bisogno di un posto tranquillo e all'aperto, per godere di quella giornata stranamente tiepida e della presenza di Robert.

< D'accordo, mi sembra un'ottima idea. > Approvò.

Camminò senza sosta per diversi minuti, il suo respiro leggermente affannato a farmi compagnia e la sua pelle appena accaldata a riscaldarmi dal vento fresco, in netto contrasto con il clima generale della giornata.

Ad occhi chiusi, avvertii il fruscio dell'erba calpestata, il vociare concitato dei turisti e i flash delle macchine fotografiche; il rumoreggiare delle fontane e le grida dei bambini che davano da mangiare alle anatre del laghetto; le note di qualche canzone proveniente dall'iPod di qualche sportivo che ci passava accanto e le ruote dei passeggini sulla breccia del selciato, poi, di colpo, il silenzio, solo il vento tra le foglie degli alberi.

< Eccoci arrivati. > Mi accarezzò i capelli ed io socchiusi gli occhi, intorpidita dal calore del sole.

< Se vuoi dormire, mi spiace, ma non sono disponibile come materassino. > Scherzò, aiutandomi a poggiare i piedi nuovamente a terra, tra l'erba fresca e profumata.

Mi guardai intorno: era il mio posto preferito ed era quasi deserto, fatta eccezione per qualche solitario che stava approfittando del silenzio per leggere, di due ragazze che, comodamente distese, sembrava studiassero e di una coppia che chiacchierava sottovoce, godendo della vista del lago.

< Sembri leggera, ma non lo sei affatto. > Sbuffò di finta fatica, lasciandosi cadere tra l'erba.

< Ehi! Ma come osi? > Quasi mi lanciai addosso a lui, cercando di fargli il solletico, perlomeno, fin quando non riuscì a bloccarmi i polsi, ricambiando la tortura.

Tentai di dimenarmi senza successo, rotolando accanto a lui, liberando i polsi dalla sua stretta. Non continuò, lasciandomi riprendere fiato.

< Te la faccio pagare, sai? > Gli intimai, sollevandomi per recuperare la tracolla ed estrarne l'album per Arthur e una bustina trasparente contenente le foto ancora da inserire.

< E come? > Imitò la mia posizione a pancia in giù, sorridendo.

< Per esempio, puoi aiutarmi a scegliere le ultime foto. > Quasi gliele lanciai.

< Che compito ingrato! Perché proprio io? > Finse, melodrammatico.

Gli feci una linguaccia e sfoglia l'album fino alla prima pagina libera. Le didascalie ad ogni foto non erano altro che una serie di aforismi sulla danza, tutti scelti da Sam e Sofia e che io avevo soltanto ricopiato con una penna dorata.

Robert sfogliò le foto, terminandole, senza averne scelta neanche una.

Mi osservò.

< Allora? > Domandai in attesa.

< Non ne hai altre? Queste non vanno bene. > Rispose indifferente.

< Come sarebbe a dire non vanno bene? > Alzai gli occhi al cielo, osservandolo riprenderle in mano e sfogliare di nuovo.

< Qui sei troppo svestita, non ci siamo; qui lui sembra ubriaco e anche tu; qui... cosa avevate combinato? Vi siete rotolati nel fango? > Non stava scherzando, era mortalmente serio, neanche avesse dovuto utilizzarle per una rivista.

Mi venne da ridere, perché, fondamentalmente, potevano sembrare foto ridicole ad un occhio esterno.

< In realtà, era il Saggio sull'Inferno di Dante e noi eravamo dei diavoli e quello che tu credi fango, era trucco. > Spiegai.

< Qui anche sei troppo svestita... > Commentò.

< Sì, beh, in realtà interpretavo una prostituta... > Feci spallucce.

< Sì, comunque, non voglio che il tuo amico sbavi sulle tue grazie. > Borbottò.

Risi ancora.

< Sono solo foto, Robert, non è certo un calendario sexy. > Obiettai, evitando che continuasse con i suoi commenti, radunandole davanti a me e cominciando ad osservarle in cerca di una adatta.

< Sono geloso anch'io, sai? > Sbottò in sua difesa.

Lo osservai strappare qualche ciuffo d'erba, indispettito come un bambino, al che, mi avvicinai al suo viso, baciandogli una guancia.

< So che lo sei e, in un certo senso, mi sento lusingata dalla cosa, ma sono solo delle foto e che lui ci sbavi o no sopra, rimarranno tali, non cambierà nulla. > Lo rassicurai.

Sbuffò, baciandomi le labbra senza preavviso. Era tutta una sorpresa, quel giorno, per me, neanche fossi stata io la festeggiata.

< D'accordo, ma voglio tenerne una anch'io. > E rubò dal pacchetto quella che io consideravo la più bella di tutte. Ne avevo una copia anche nella stanza del residence, fermata con una puntina sulla bacheca di sughero di cui erano dotate tutte le stanze. Lucas ce l'aveva scattata durante una prova, a nostra completa insaputa e, stranamente, era l'unica in cui non mi consideravo brutta. 

< E' tutta tua. > Sospirai, scuotendo la testa divertita.

 

Dopo aver terminato di disporre le foto nell'album in modo tale da riempirlo, Robert aveva insistito affinché mi preparassi con lui, in albergo, perciò, eravamo ritornate alla Julliard e, in fretta e furia, avevo riempito un borsone con dei vestiti e della biancheria pulita, la palette di ombretti che mi aveva prestato Sam e il vestito più elegante che avevo, quello che Lucas e Amanda mi avevano regalato per Natale due anni prima e che non avevo mai messo. Il compleanno di uno dei miei migliori amici mi sembrava l'occasione giusta per indossarlo.

Avevo inviato un sms a Sofia e a Sam per avvertirle che ci saremmo incontrate direttamente al locale, ed ero salita su un taxi insieme a Robert.

Qualcuno doveva aver riordinato la camera, perché i vestiti, che solo quella mattina governavano la moquette, adesso erano accuratamente piegati sul piumone, senza contare che odoravano di ammorbidente e che, quindi, qualcuno aveva pensato anche a lavarli, cosa che mi ero ripromessa di fare in un ritaglio di tempo.

< E' tutto in ordine... > Osservai meravigliata, posando il borsone a terra.

< Sì, ho dato disposizione perché sistemassero la stanza, stamattina. Non ti dispiace, vero? > Mi domandò Robert dall'ingresso.

< Dispiacermi? Certo che no, anzi! > Sistemai le magliette nella cassettiera accanto alla porta-finestra, dopodiché, svuotai il borsone sul letto, mettendolo da parte.

< Come avete intenzione di farla sembrare una sorpresa? La festa, intendo. > Robert entrò nella stanza, lasciandosi cadere sul piumone, osservandomi sistemare la mia biancheria nel comodino.

< Sam aveva pensato di far finta, inizialmente, che fosse una festa normale; poi, d'accordo con il barman, spegneranno gli interruttori della luce e noi fingeremo di andare nel panico, preparandoci in fondo alla sala, lasciandolo solo al bancone. D'un tratto le luci si accenderanno, noi urleremo sorpresa! e Lucas e Amanda entreranno con la torta. > Spiegai brevemente.

< Non c'è il rischio che dia di matto anche lui, una volta andata via la corrente? > Imitò le virgolette con le dita, scettico.

< Solitamente, quando succede un imprevisto, Arthur è l'unico che mantiene la calma e si limita ad attendere che torni tutto come prima. Confidiamo su questo. > Feci spallucce, sdraiandomi accanto a lui, incrociando i suoi occhi azzurri.

Sbadigliò, stropicciandosi un occhio come un bambino, la mia mano che, quasi mossa da volontà propria, andò ad accarezzargli i capelli.

< Hai più sentito Kristen? > Gli chiesi in un sussurro. Non sapevo perché l'avessi tirata fuori proprio in quel momento, un momento che potevamo dedicare solo a noi due, però, la verità era che ogni tanto ci pensavo, pensavo a lei e pensavo al bambino, al fatto che dovesse sentirsi piuttosto sola, senza un compagno, senza qualcuno che la accompagnasse alle visite mediche, senza poter condividere la gioia del primo calcio nella pancia con qualcuno che non fossero i suoi genitori. Era piuttosto triste e, anche se era stata scortese con me, anche se mi aveva giudicata senza conoscermi, non riuscivo a non immaginarmi nella sua situazione. Cosa avrei fatto se fosse successo a me? Come avrei reagito, sapendo di non avere più la possibilità di crescere quel bambino con suo padre accanto?

Fece spallucce e riaprì gli occhi, osservandomi.

< Ho provato a telefonarle, ma ha sempre risposto sua madre; non ha più voluto parlarmi dopo quell'incontro in centro. > Rispose.

< Forse ha solo bisogno di tempo per riflettere sulla sua decisione. > Tentai di giustificarla, senza nemmeno sapere bene perché.

< Dean dice che potrebbero esserci dei paparazzi nei pressi della festa, stasera. Voleva che te lo dicessi, così avresti avuto modo di abituarti all'idea. > Cambiò argomento ed io non insistetti; forse avevo sbagliato a chiedergli di lei.

< D'accordo, sopravviverò. > Scherzai, lasciandomi baciare e poi sovrastare dal suo corpo.

Mi separai dalla sua bocca controvoglia, desiderosa di maggiori attenzioni, ma, quando incrociai i suoi occhi, leggendovi rabbia e delusione, non potei fare a meno di ritrarmi, stupendomi del suo cambio repentino di umore.

< Robert... che succede? > Lo richiamai, perché mi appariva distante e freddo. Per tutta risposta, mi bloccò i polsi ai lati della testa, in una presa decisa, ma dolce e mi solleticò la pelle del collo con il suo respiro, costringendomi a rabbrividire di desiderio.

< Robert... > Gemetti senza volerlo, scontrando il bacino con il suo, liberando una mano dalla sua presa e accarezzandogli i capelli e poi le spalle, cercando i suoi occhi.

< Robert, che succede? > Ripetei, tentando di mantenere la voce ferma, cercando di non pensare al suo corpo sul mio e a quanto lo desiderassi.

< Stavo pensando a tutte le volte che mi hai detto vorrei che fosse tutto più semplice. Anch'io vorrei che lo fosse. Vorrei averti seguita tre anni fa, vorrei aver avuto il coraggio di lasciare tutto e seguirti, anche contro la tua volontà. > Rispose in un mormorio che, per quanto fosse vicino, faticai a comprendere.

Strabuzzai gli occhi quando realizzai le sue parole.

< Robert, non è stata colpa tua... non sapevi che avevo deciso di andarmene, non potevi saperlo... > Balbettai, cercando di capire perché mi stesse dicendo quelle cose.

< Avrei dovuto prendere quel dannato aereo con te, invece ti ho lasciata partire, ti ho lasciata andare via... > Posò la fronte sulla mia spalla, stringendomi la mano, quasi volesse mettersi a piangere, ma quando sollevò gli occhi e mi guardò, il suo sguardo era di nuovo limpido e sereno e dispiaciuto.

Gli accarezzai i capelli e il viso, cercando di tranquillizzarlo.

< E' stata colpa mia, Robert, tu non c'entri. Avrei dovuto parlarti di quello che mi passava per la testa, ma non l'ho fatto, perché pensavo che non sarei riuscita più a partire se ti avessi visto soffrire, invece, è stato ugualmente difficile, perché hai sofferto fin da quando mi hai vista preparare la valigia... > Ricordai quel pomeriggio e per un attimo fui tentata di abbandonarmi alle lacrime e alla nostalgia di quello che eravamo, che avevamo, ma le ricacciai indietro e mi lasciai abbracciare.

< Vorrei che Kristen non fosse rimasta incinta... siamo stati così stupidi... se penso che potrei perderti ancora... > Mi strinse più forte a sé, scivolando di lato per non pesarmi addosso.

< Sono qui e non vado da nessuna parte. > Mormorai, stringendo la sua camicia tra le dita, come se non esistesse nient'altro.

 

Quando riaprii gli occhi, ignara di quanto tempo fosse trascorso, mi resi conto di essermi addormentata, ancora tra le braccia di Robert, il suo viso accanto al mio. Dormiva ancora e sembrava tranquillo.

Sospirai, voltando la testa per lanciare uno sguardo all'orologio sul comodino, che segnava le sette e qualche minuto.

Avevamo ancora un po' di tempo prima della festa.

Mi accoccolai nuovamente tra le braccia di Robert, guardandolo dormire, disegnando il profilo delle sue labbra con l'indice.

Non riuscivo a pensare a quello che mi aveva detto prima: avevo anch'io paura di perderlo; temevo che, con la nascita del bambino, Kristen avrebbe potuto cambiare idea, decidere di tenerlo e allora Robert sarebbe stato costretto a trascorrere gran parte del suo tempo con lei, come sarebbe stato giusto. Pian piano tra di noi sarebbe tornato tutto esattamente come un tempo: io avrei sentito la sua mancanza e avrei cominciato ad essere sempre più fredda nei suoi confronti, lui avrebbe cercato una qualche giustificazione solo per non litigare ed io avrei preferito stare senza di lui, piuttosto che essere costretta a dividerlo con un'altra donna. Mi conoscevo, ed era esattamente quello che sarebbe successo.

Lo osservai arricciare le labbra in una smorfia di fastidio, segno che si era svegliato, così smisi di pensare e gli baciai una guancia, stringendomi a lui.

< Ci siamo addormentati? > Mi domandò, sbattendo le palpebre un paio di volte in successione.

Annuii e gli sorrisi.

< Che ore sono? > Sbadigliò, stiracchiandosi.

< Solo le sette. Abbiamo ancora un po' di tempo prima della festa. > Lo tranquillizzai.

< Mmm. > Mugugnò, chiudendo di nuovo gli occhi e abbracciandomi.

< Non vuol dire che puoi rimetterti a dormire. > Puntualizzai, ridendo divertita.

< Sì, invece. Io sono pronto in un attimo, voi donne avete bisogno di più tempo, perciò... > Rispose, ancora ad occhi chiusi.

< E riesci ad arrivare sul set in orario? Dovrei esserne shoccata? > Lo presi in giro.

Borbottò qualcosa di indistinto e che non compresi.

< Ci sono le sveglie per quello, Candice. > Ripeté.

< D'accordo, allora fai finta che io sia la tua sveglia. > Ribattei.

< Tu non hai la radio. > Biascicò appena.

< Posso cantare, se vuoi. > Feci spallucce, cominciando ad intonare una vecchia canzone di Britney Spears che lui non sopportava.

Mi tappò la bocca con una mano, ma io, incurante, continuai.

< Ok, ok, d'accordo! Sono sveglio! > Aprì gli occhi di scatto ed io sorrisi trionfante.

< Ha funzionato. > Esultai.

< Sei stata scorretta. Odio quella canzone. > Si imbronciò, accarezzandomi i capelli.

< Non puoi dire alla radio cosa cantare. > Osservai, fintamente saggia.

< Ma posso sempre cambiare stazione. > Rispose di rimando, sorridendo furbo.

< Ah sì? Sei davvero impossibile! > Lo sovrastai, mordendogli il collo per gioco. Per tutta risposta, mi ritrovai le sue mani sotto la maglietta, impegnate a cercare di farmi il solletico, mentre io tentavo di divincolarmi, ritrovandomi ben presto schiacciata dal suo peso e imprigionata dalle sue braccia e dalle sue gambe.

< Dove scappi, adesso? > Soffiò ad un centimetro dalle mie labbra, scostando una ciocca di capelli finitami davanti al viso.

Sollevai appena la testa per baciarlo.

< Abbiamo davvero bisogno di quella doccia, ora. > Sorrise, prima di prendermi in braccio e trascinarmi sotto la doccia.

In realtà, dopo aver regolato l'acqua e dopo esserci svestiti, non facemmo altro che insaponarci a vicenda e schizzarci come bambini in piscina.

Afferrai il flacone dello shampoo per insaponarmi i capelli.

< Posso? > Mi chiese, pettinandomi i capelli con le dita.

Annuii, passandogli il flacone e voltandomi.

< Mi dispiace per prima, per quello che ho detto... > Cominciò, massaggiandomi la cute con dolcezza.

< Non hai detto niente di... > Provai a rispondere, ma lui mi interruppe.

< Mi riferisco a quello che ho detto quando ho parlato di seguirti a New York anche contro la tua volontà... non l'avrei mai fatto. Era una tua decisione e ho sempre saputo, in fondo, che se non me ne avevi parlato, era perché volevi camminare con le tue gambe, cercare di dimostrare a te stessa di essere in grado di costruire da sola il tuo futuro. Non avrei fatto altro che complicarti le cose se ti avessi seguita. > Spiegò.

Fermai le sue mani tra i miei capelli, voltandomi verso di lui, fronteggiandolo.

< Non volevo costringerti a rinunciare alla tua famiglia per me. Avevi la recitazione, la tua compagnia di teatro... non potevo chiederti di abbandonare tutto per inseguire un mio sogno; sarebbe stato egoistico da parte mia. > Il getto d'acqua mi liberò dallo shampoo senza che neanche me ne accorgessi, mentre Robert scosse la testa.

< No, io sono un egoista ad averti trascinata in questa situazione così grande, per entrambi. Ho agito d'istinto, da vero egoista: ho pensato che non volevo perderti, proprio adesso che ti avevo ritrovata, e che volevo esserti accanto. Non ho incluso i tuoi sentimenti a riguardo, però. > Era strano avere una conversazione di questo tipo durante una doccia, entrambi nudi, in senso letterale e in senso figurato, perché non erano solo i nostri corpi ad essersi svestiti, ma sono soprattutto le nostre emozioni e i nostri pensieri ad aver abbandonato il soprabito in salotto.

< Beh, se avessi voluto andar via, l'avrei già fatto. > Risposi ovvia, allacciando le braccia dietro il suo collo.

< Hai smesso di scappare... > Mi prese in giro, raccogliendo una goccia d'acqua che stava, silenziosamente, solcandomi una guancia.

Annuii, alzandomi appena sulle punte per abbracciarlo.

< Ti amo. > Mi mormorò in un orecchio, stringendomi la vita.

< Ti amo anch'io. > Ricambiai, baciandogli una spalla.

 

< Sei bellissima, smettila di preoccuparti. > Robert afferrò la mia mano, precedendomi all'interno del locale.

Ero piuttosto nervosa, perché le scarpe erano troppo alte per me, che avevo sempre le Converse ai piedi, il vestito troppo corto e troppo appariscente e, in più, credevo di aver combinato un disastro con l'ombretto, rischiando di assomigliare più a un panda che ad una persona.

Erano già tutti arrivati e l'atmosfera era tranquilla e rilassata. Individuammo Arthur un paio di minuti più tardi, facendoci spazio tra gli invitati.

< Art! Buon compleanno! > Lo abbracciai, felice di non avvertire la solita sensazione di disagio.

< Grazie! Robert, sono contento che tu sia venuto. > Tese la mano che Robert afferrò prontamente, sorridendogli.

< Grazie per avermi invitato. > Rispose.

Tese ad entrambi un cocktail, ma Robert me lo tolse dalle mani prima ancora che potessi rifiutare.

< Sei astemia? > Mi chiese Arthur, sorpreso.

< No, ma non reggo l'alcool e, credimi, non vuoi vedermi vaneggiare per tutta la serata. > Risi.

< Vuoi ballare? > Mi propose Robert, facendomi arrossire. Salutai Arthur, rassicurandogli che ci saremmo visti più tardi e guadagnammo il centro della pista.

Fatta eccezione per il festeggiato e un altro paio di amici, tutti stavano ballando, guadagnando la fetta di pista in cui avremmo dovuto ritrovarci durante il finto black-out.

Due canzoni dopo, le luci si spensero e le grida furono così forti, che dovetti tapparmi le orecchie con le mani. Robert mi afferrò per un braccio, guidandomi verso gli altri.

< Che tempismo! > Riconobbi la voce di Sofia.

< Lucas è pronto con la torta, no? > Chiesi sottovoce, le urla che, nel frattempo, erano cessate.

< Me lo auguro. > Tempo qualche istante e apparve la luce fioca, ma presente delle candeline e l'ombra di Lucas e Amanda che spingevano la torta di fronte a noi. Quando ebbero sistemato il tutto, le luci si riaccesero e, come avevamo previsto, Arthur era l'unico ancora seduto al bancone del bar, tanto che, quando urlammo all'unisono Sorpresa!, sgranò gli occhi come un bambino alla vista di una pila di regali e ci venne incontro meravigliato e felice.

< Dovresti esprimere un desiderio e spegnere le candeline... > Gli fece presente Sam, indicandogli la torta.

Quando fu la volta dei regali ed io gli tesi il nostro, mio, di Sofia e di Sam, sembrò capire subito di cosa si trattasse.

< E' bellissimo, ragazze, grazie! > Ci abbracciò tutte insieme, cominciando a sfogliarlo.

< Finalmente avrò qualcosa da mostrare anch'io. > Ribadì, sorridendo.

Avvertii la mano di Robert incontrare la mia.

< In ogni caso, la più bella l'ho rubata io. > Mi mormorò in un orecchio, facendomi sorridere divertita.

Quanto sarebbe durato quell'idillio?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La foto che Robert "ruba"

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Capitolo 21
*** Destiny ***


Salve!

Scusate per il ritardo con questo aggiornamento, ma la scorsa settimana, causa esame, sono rimasta indietro con un mucchio di cose e, anche se ho cominciato a scrivere questo capitolo esattamente una settimana fa e di solito necessito di non più di qualche giorno, non sono riuscita a pubblicarlo per venerdì scorso perché mi mancava la parte finale, quella che sarebbe dovuta essere un tantino più profonda, ma che temo sia solo un mappazzone di parole a caso.

Comunque, volevo raccontarvi un po' di fatti miei che, non temete, hanno a che fare con il capitolo stesso; diciamo che è un capitolo piuttosto autobiografico, ecco. Dunque, 500 Giorni Insieme è uno dei miei film preferiti in assoluto, secondo solo a Donnie Darko. Credo che sia uno dei primi film che consiglierei di vedere perché, pur essendo una storia d'amore a metà (nel senso che non è un film romantico, nel senso più classico del termine), contiene in sé un mucchio di stereotipi che, in fondo, ognuno di noi si è creato sull'amore, ma che alla fine risultano essere nient'altro che illusioni, fantasie. Insomma, credo che la morale del film (semmai il regista avesse in mente di farne scaturire una) sia che bisogna andare oltre i propri ideali, vivere la vita vera che, però, a differenza dei nostri ideali, non ha sempre un lieto fine. Possiamo trovare il Principe Azzurro, certo, ma potremmo anche trovare semplicemente qualcuno di perfetto per noi, che non sia propriamente un Principe, ma che sia anche migliore, perché reale. Insomma, sembra che io stia sparando un mucchio di stupidaggini, ma volevo semplicemente farvi capire il perché della scelta di questo film.

La canzone iniziale, come tutte quelle che scelgo per ogni capitolo, forse non ha un vero e proprio collegamento con il capitolo, ma i Green Day sono la mia band preferita da quando avevo dodici anni e pensando a Candice mi è subito venuta in mente questa loro canzone e credo che, in parte almeno, rispecchi molto la sua persona. In sostanza, c'è un mucchio di me in questo capitolo, di quello che mi spaventa, del fatto che spesso mi sento in bilico e non so mai quale decisione prendere, e far rivivere tutto questo su carta/schermo è stata quasi una liberazione e mi sono sentita appagata e felice.

Ringrazio, infine, coloro che hanno commentato lo scorso capitolo, che hanno letto, che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e che hanno inserito me tra le autrici preferite: GRAZIE! <3

Non mi resta che augurarvi una buona continuazione di settimana e una...

 

 

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Redundant-Green Day

 

 

 

 

 

Lascia che siano le notti passate insieme, le risate a crepapelle e gli abbracci dove tu ed io ci tratteniamo e che usiamo come scusa per restare insieme un minuto in più, a decidere cosa è meglio per noi.

 

E. Calandrini

 

Da quel pomeriggio prima della festa di Arthur, Robert, quasi come fosse un'abitudine, qualcosa di rassicurante che sai che avverrà tutti i giorni, alla stessa ora, aveva cominciato ad assistere alle mie prove. La maggior parte delle volte, neanche mi avvertiva ed io me ne accorgevo soltanto se avevo occasione di uscire dall'aula durante una pausa, oppure quando le prove terminavano ed io, uscendo dall'aula, sentivo chiamare il mio nome.

Era diventato un rituale anche per me e, se succedeva che, per un motivo o per un altro, Robert non poteva essere presente, lo cercavo con lo sguardo ovunque, anche se sapevo che non sarebbe venuto e, alla fine della lezione, mi guardavo in giro come se potesse sbucare all'improvviso da un angolo.

Inizialmente, le mie compagne di corso avevano rumoreggiato sulla sua presenza, ma, non so se per timidezza o per rispetto, nessuna di loro gli si era avvicinata, neanche per chiedere un semplice autografo; dopo una settimana, ci avevano fatto l'abitudine e qualcuna di loro lo salutava persino, uscendo dall'aula, come se fosse un allievo della scuola, e Robert ricambiava impacciato.

< Ciao. > Lo salutai, uscendo dall'aula, bevendo un sorso d'acqua. Cercavo quasi sempre di mascherarlo, ma sentivo ancora le farfalle nello stomaco ogni volta che lo vedevo, ogni volta che i suoi occhi incontravano i miei e mi sorrideva.

Mi si avvicinò, sorridendo, le mani nelle tasche dei jeans e si chinò appena per baciarmi una tempia; il suo personale modo di salutarmi, quello che riservava soltanto a me, da quando avevamo all'incirca nove anni.

< Ciao. > Rispose alla fine, lasciandosi abbracciare. Ero così drogata dalla sua presenza, che non riuscivo a separarmi da lui, dal suo profumo, neanche per le due ore rituali di prove per il Saggio.

< Sei stanca? > Mi domandò, accarezzandomi i capelli.

Annuii.

Avevo solo voglia di una cioccolata calda, di un plaid e di un bel dvd.

< Ho noleggiato qualche film; potremmo sceglierne uno e rimpinzarci di pop-corn, che ne dici? > Mi domandò, seguendo con un dito il profilo della mia spina dorsale.

< Dico che mi hai letto nel pensiero. > Risposi, assaggiando le sue labbra l'istante successivo.

Ci incamminammo verso l'atrio, seguendo gli altri ragazzi che si affrettavano ad abbandonare l'Accademia, per concludere finalmente quella giornata, le mani intrecciate.

Erano mesi, forse anni, che non provavo un'emozione così appagante, come quella di poter stringere la mano del ragazzo che amavo, dimenticando, per un solo istante, che fossi una ballerina, che lui fosse un attore di successo.

Sorrisi, abbandonando la sua mano e intrufolandomi con la testa sotto il suo braccio, come una bambina.

Appena varcato l'ingresso, superammo coloro che si erano attardati a chiacchierare e proseguimmo in direzione del suo albergo a piedi. I paparazzi si erano probabilmente stancati di seguirci nelle nostre monotone giornate, ma non ci avevano di certo dimenticati, perché c'era sempre qualche fotografo pronto a scattare, non appena varcavamo la soglia dell'Accademia e ci allontanavamo nella stessa direzione.

Un paio ci seguirono anche quella sera, a distanza, quasi con rispetto. Udivo, di tanto in tanto, il click della macchina fotografica e, quasi automaticamente, arrossivo, nascondendomi ancora di più contro la giacca di Robert.

< Cosa c'è? > Mi domandò lui, stringendomi e sorridendo.

< E'... imbarazzante. Insomma, tutte queste foto... > Commentai.

< Vuoi che li mandi via? > Propose, già pronto all'azione.

Lo trattenni per la manica della giacca.

< No, non ci stanno disturbando, non ce n'è bisogno. Sono io che non voglio stare al centro dell'attenzione. > Mi giustificai con un'alzata di spalle.

Mi baciò una guancia a mo' di scusa, cominciando a barcollare sul marciapiede e a trascinarmi con sé. Camminavamo a zig-zag come degli ubriachi, rischiando di scontrarci con qualcuno, eppure era divertente e mi sentivo leggera, come sull'altalena, come quando ti svegli la mattina e sai che è domenica e che puoi dedicarti un po' a te stessa, senza impegni, senza scadenze, senza fretta.

Quando mi abbracciò, trascinandomi contro di sé senza preavviso, avvertii la stessa sensazione che ricordavo di aver provato la prima volta che ero salita sulle montagne russe con mio padre. Ero eccitata all'idea di trovarmi così in alto, ma, allo stesso tempo, avevo paura; paura che qualcosa sarebbe andato storto e che noi saremmo stati scaraventati via dai nostri seggiolini, che il cielo avrebbe potuto mangiarci, o forse, più semplicemente, che tutto sarebbe finito troppo presto e quel momento non sarebbe tornato mai più, perché non sarebbe bastato pagare per un altro giro.

Mi aggrappai alle sue spalle con tutta la forza che possedevo, chiudendo gli occhi, lasciandomi avvolgere dal suo calore e dal suo profumo familiare.

Mi lasciò andare dopo qualche istante, allentando la presa, stringendomi al suo fianco e riprendendo a camminare.

Eravamo vicini all'albergo, perché riuscivo a distinguerne la facciata illuminata.

< Ho parlato con mia madre... > Cominciò, scompigliandosi i capelli con la mano libera, guardando altrove.

Mi voltai verso di lui con aspettativa e lui dovette accorgersene, perché incontrò i miei occhi e mi sorrise, come per rassicurarmi.

< Le ho spiegato la situazione e le ho parlato di noi. > Continuò, sospirando l'istante successivo.

< Ma? > Ovvio che ci fosse un ma. 

Si accigliò, osservandomi attento.

< Ma cosa? > Ripeté.

< La tua frase prevedeva un ma. > Obiettai.

< Nessun ma. Rispetta la mia decisione ed è contenta di poterti rivedere più spesso, adesso, tutto qui. > Fece spallucce.

< Tutto qui? Niente recriminazioni, niente è colpa sua, hai il dovere morale di ritornare con Kristen, niente di niente? > Sgranai gli occhi, basita.

Conoscevo Clare da quando ero poco più che una neonata. Lei e mia madre avevano partorito a qualche giorno di distanza e avevano diviso la stessa stanza in ospedale. Era sempre stata come una zia per me, o come una seconda mamma, perché mi preparava sempre la merenda quando andavo a trovare Robert, si ricordava del mio compleanno e mi comprava un regalo anche per Natale. Ai miei saggi di danza non era mai mancata. 

Quando io e Robert le avevamo confessato di stare insieme, di frequentarci non più come semplici amici, lei aveva strabuzzato gli occhi, facendomi arrossire, poi, però, aveva sorriso e aveva continuato a sparecchiare la tavola della cena, Robert che mi stringeva la mano sotto il tavolo, neanche le stessimo confessando che ero incinta.

< Sapevo che prima o poi sarebbe successo. > Aveva commentato soltanto, mentre Lizzie e Victoria, le sorelle maggiori di Robert, si congratulavano con noi.

< Siete giovani, non combinate sciocchezze, d'accordo? > Ci aveva avvertiti l'istante successivo con aria severa.

Avevamo diciassette anni, non eravamo più dei bambini e, in ogni caso, non andavamo mai oltre i baci, almeno in quel periodo.

Comunque, la conoscevo, e sapevo che aveva detto la sua anche in quell'occasione.

< Cosa avrebbe dovuto dire? Sono grande e vaccinato e perfettamente in grado di sapere cosa è meglio per me. > Fece spallucce.

< Sì, certo, è solo che lei ha sempre un'idea precisa su tutto... > Borbottai, precedendolo all'interno della hall dell'albergo e poi, lo sguardo basso, in ascensore.

< Anche Kristen ha parte della responsabilità. Credevo che prendesse la pillola, o, perlomeno, era quello che mi aveva sempre detto; non potevo sapere che fosse una bugia. > Arrossì, scompigliandosi i capelli, nervoso.

Annuii distrattamente.

< Il punto è che adesso è incinta, e che il bambino è tuo. > Risposi.

Aveva poca importanza di chi fosse la colpa maggiore. Si erano comportati da irresponsabili e tanto bastava.

< Lo so. > Confermò mesto, abbassando lo sguardo sulla moquette del corridoio.

Sospirai, liberandomi del cappotto e godendo del calore piacevole della stanza di Robert.

< Le hai detto del Saggio? > Domandai, avviandomi in cucina per preparare i pop-corn, mettendo da parte l'argomento Kristen che, per quanto fosse ormai costantemente presente nelle nostre vite, facevamo sempre più fatica ad accettarlo, specialmente adesso che il parto si avvicinava pericolosamente ed io non avevo ancora scelto cosa fare. Rinunciare a prendermi cura del bambino, avrebbe significato perdere anche Robert, ancora; decidere di essere una mamma, alla mia età, rischiando di non veder mai avverarsi i miei sogni, mi avrebbe causato solo altri sensi di colpa. In fondo, il bambino non era il mio, la responsabilità non era la mia, perché avrei dovuto sacrificarmi per qualcuno che non si sentiva pronta a diventare madre, così giovane, in piena carriera artistica, che si comportava da immatura?

Lo vidi annuire e seguirmi.

< Ha detto che le farebbe piacere e che vedrà di organizzarsi con tua madre. > Continuò, recuperando la confezione di mais per pop-corn dalla credenza.

Sembrava assurdo, ma più cercavo di allontanare il pensiero dalla mia mente, più quello si ripresentava, più forte di prima, più insistente.

Non riuscivo a pensare al fatto che, probabilmente, quelli sarebbero stati gli ultimi mesi che avrei trascorso con Robert, prima di allontanarlo ancora dalla mia vita. O forse no? Cos'era più giusto fare? Rinunciare a tutto per amore, o continuare per la mia strada?

Mia madre, probabilmente, mi avrebbe suggerito di ascoltare il mio cuore, di prendere la decisione più giusta per me, quella per cui non avrei dovuto sentirmi in colpa, un giorno, ma la situazione non era semplice; non si trattava di scegliere tra due ragazzi, non si trattava di decidere per un quaderno, piuttosto che per un altro.

Sofia mi avrebbe risposto che, in fondo, c'erano tanti pesci nel mare e che avrei avuto tempo per innamorarmi ancora, ma come? Robert era tutto ciò che desideravo, non sarei riuscita a farmi avvicinare da nessun altro.

Avrebbero avuto tutti una frase di circostanza da propinarmi, eppure, l'unica persona dalla quale avrei voluto conoscere la risposta, sarebbe rimasta in silenzio. Quella persona ero io, o meglio, una parte di me, quella nascosta, quella che non lasciavo che gli altri vedessero. L'altra me avrebbe accettato passivamente le parole che sarebbero state pronunciate dalle mie labbra e non si sarebbe ribellata, si sarebbe nascosta di nuovo ed io non le avrei permesso di ribattere, perché era sempre così, una continua guerra tra me stessa, una riunione di condominio che terminava sempre nello stesso, identico modo.

< Candice, stai piangendo... che succede? > Mi accorsi delle lacrime che mi rigavano le guance soltanto quando Robert me lo fece notare, avvicinandomisi per asciugarle con il dorso di un dito.

< Non lo so... ho voglia di piangere... > Riuscii a pronunciare tra i singhiozzi, rifugiandomi tra le sue braccia.

Non sarei sopravvissuta, quella volta. Non sarei riuscita a riprendermi, se gli avessi detto addio, se l'avessi lasciato andare, ne ero sicura.

Non mi chiese di smettere, non provò nemmeno a domandarmi a cosa avessi pensato; mi tenne semplicemente abbracciata a sé, accarezzandomi, di tanto in tanto, i capelli e la schiena.

< Qualunque cosa sceglierai, sarà quella giusta. > Mormorò dopo diversi minuti trascorsi in silenzio, solo i miei singhiozzi a farci compagnia.

Sgranai gli occhi.

Aveva capito. Sapeva a cosa avevo pensato, a cosa erano dovute le mie lacrime.

< Soffriremo entrambi, qualunque sia la mia scelta. > Lo corressi.

< Ora siamo insieme, è questo quello che conta. Non voglio sprecare neanche un minuto con te. > Mi baciò una guancia, asciugandomi le ultime lacrime, poi mi sorrise, allontanandosi per recuperare una ciotola per i pop-corn.

< Puoi andare a scegliere il film, nel frattempo. Qui ci penso io. > Mi scompigliò i capelli e continuò a sorridere.

Annuii soltanto, camminando in direzione del salotto, accoccolandomi sul divano, recuperando lo stesso plaid con cui avevo coperto anche Joshua quando era stato qui, rintanandomici sotto prima di afferrare le custodie dei dvd che Robert aveva noleggiato.

Non mi importava molto del film. Volevo solo sentirlo vicino, avvertire il calore del suo abbraccio, il profumo dei suoi vestiti; volevo osservarlo dormire ed imprimere nella mia mente ogni piccolo particolare, dirgli che l'amavo e che faceva dannatamente male quel sentimento, che mi spezzava il cuore in due, ma che non avrei potuto fare altrimenti; volevo fare l'amore con lui, sentirmi completa, assecondare i suoi movimenti e fargli sussurrare il mio nome; volevo rubargli una camicia per non restituirgliela mai più.

Avrei voluto che fosse quello che condividevamo ogni momento, ogni giorno, ogni istante, la decisione che avrei preso; lo volevo con tutta me stessa, ma non bastava. Non erano sufficienti i baci, gli abbracci, le carezze, i sussurri, il nostro leggerci negli occhi.

Non si trattava più di un sentimento, si trattava della vita vera e quella, a volte, era più complicata persino dell'amore.

< Non hai ancora scelto? > Robert mi colse di sorpresa, poggiando sul tavolino di vetro di fronte al divano la ciotola dei pop-corn e due lattine di aranciata.

Scossi la testa, arrossendo, abbassando lo sguardo e sorridendo.

Concentrai la mia attenzione sulle copertine dei dvd.

< Non credevo ti piacesse Notting Hill. > Sventolai la custodia davanti ai suoi occhi e lui, colto in flagrante, arrossì, scompigliandosi i capelli.

< In verità, lo guardo quando ho nostalgia di Londra. > Tentò di giustificarsi, sedendosi accanto a me, scostando appena il plaid.

< Farò finta di crederti. > Lo presi in giro, sorridendo furba. < E questo? > Continuai, mostrandogli la copertina di 40 anni vergine. 

< E' divertente! > Borbottò.

< Ah-ah, d'accordo, sorvoliamo anche su questo. > Mi trattenni dal ridere.

Non so se fosse più divertente il fatto che avesse scelto tutti i film che, nel bene e nel male, avevamo guardato insieme negli anni, o la sua espressione quando gli mostravo le copertine.

< Ok, ho scelto. > Sventolai il dvd di (500) Giorni Insieme come un trofeo, passandoglielo.

< Sapevo che avresti scelto questo. > Sorrise, alzandosi per accendere la tv e inserire il disco nel lettore dvd.

< E' uno dei miei film preferiti! > Risposi ovvia.

< Dopo Jurassic Park... > Scherzò, ridendo.

< Beh, cosa c'è di tanto strano? Mi piacciono i dinosauri. > Arrossii. Era la verità. Quand'ero piccola, obbligavo mio padre ad accompagnarmi tutti i pomeriggi nella Sala dei Dinosauri del Natural History Museum di Londra e ci trascorrevo delle ore, affascinata e spaventata da quei giganteschi scheletri ricomposti.

< Devo procurartene uno per il tuo compleanno, allora. > Mi accoccolai contro di lui che, prontamente, mi cinse le spalle con un braccio.

< Ne ho già uno da addomesticare, ma grazie del pensiero. > Gli feci una linguaccia, tornando con gli occhi allo schermo.

< Ehi! Vuoi dire che sono un dinosauro? > Sbottò offeso.

< Sì, uno di quelli piccoli e velenosi. > Risposi sottovoce, ignorando il suo sguardo shoccato.

< Te lo faccio vedere io il dinosauro che è in me. > Mormorò prima di avventarmisi addosso e mordermi un orecchio, una guancia, una spalla, un braccio e, per finire, il dito di una mano.

Cercai di divincolarmi dalla sua presa, ma pesava su di me con tutto il corpo ed io, che non ero certo forte quanto lui, non potei fare altro che arrendermi, tirandogli i capelli per farlo smettere, lamentandomi.

Mi baciò le labbra e strofinò il naso contro il mio, facendomi arrossire, ancora. Poi mi fece spazio, sistemandosi al mio fianco, coprendo entrambi con il plaid, esattamente come quella volta che Josh aveva dormito qui e noi ci eravamo sistemati sul divano per la notte.

Mi avvolse la vita con un braccio e mi tirò a sé, contro il suo petto, respirandomi tra i capelli, facendomi venire la pelle d'oca.

Avrei voluto rimanere così per sempre: al diavolo la danza, le prove, il Saggio, i paparazzi e i miei amici, Kristen, il bambino, i miei genitori... tutti!

L'unica cosa che volevo era rimanere tra le braccia di Robert, lasciarmi stringere contro il suo petto, sentire i brividi invadermi e i suoi baci accennati tra i capelli e dietro l'orecchio.

< Questo film è noioso... > Sbuffò dopo mezz'ora trascorsa in assoluto silenzio.

< No che non lo è! Non lo stai seguendo affatto! > Lo rimproverai con un sorriso.

< Sono distratto dal tuo profumo. > Si giustificò, baciandomi il collo, scoprendomi la spalla, infilando due dita nel bordo della maglietta per allontanarla dalla mia pelle.

Mi voltai supina, incrociando i suoi occhi azzurri e il suo sorriso. Sorrisi anch'io, avvicinandomi per assaggiare le sue labbra, scompigliandogli i capelli con una mano.

Mi sollevò la maglia sulla pancia, solleticandomi la pelle, continuando a baciarmi. Le sue dita salirono lente fino al seno, che accarezzò con venerazione e che strinse con delicatezza, costringendomi ad inarcare il bacino verso di lui e a gemere appena sulla sua bocca.

Si separò da me il tempo necessario per disfarsi della felpa e della T-shirt, a cavalcioni su di me.

Gli accarezzai le braccia e la sottile peluria che gli ricopriva gli addominali mediamente scolpiti e che terminava in prossimità dell'ombelico, riprendendo poi il suo percorso soltanto per scomparire tra i jeans.

Mi aiutò a disfarmi della canotta, percorrendo le mie curve con le labbra e con la lingua, facendomi sussultare e sospirare il suo nome.

Si disfece in fretta dei pantaloni della tuta e dei suoi jeans, che tirò via insieme all'intimo, stendendosi nuovamente su di me senza pesarmi addosso, i gomiti ai lati della mia testa.

Sorrise e mi baciò.

Lo desideravo. Lo desideravo con tutta me stessa. Desideravo amarlo ed essere amata e poco importava se l'atmosfera non era quella giusta, se stavamo per fare l'amore su un divano, se come sottofondo non avevamo una musica romantica, ma i dialoghi strappalacrime di un film d'amore, se non stavamo parlando affatto, se non con gli occhi e il corpo; poco importava se non si era neanche preso la briga di sfilarmi gli slip, scostando appena di lato il tessuto, facendomi sua senza fretta, guardandomi negli occhi, cercando di non far mancare il calore delle sue mani su nessuna parte del mio corpo.

< Candice... > Articolò in un sospiro, aiutandomi ad aderire maggiormente a lui, fin quando non si sollevò, trascinandomi con sé, sedendosi sui cuscini morbidi, le mie gambe a circondargli la vita.

Mi aggrappai ai suoi capelli con entrambe le mani, mentre lui soffocava un grido rauco, mordendomi la spalla senza farmi male.

Era strana e bellissima la sensazione di essere un solo corpo, un solo cuore, di appartenersi così profondamente, da non riuscire a distinguere l'inizio e la fine dell'altro, da riuscire a congiungere quelle due metà altrimenti divise.

Mi strinse a sé fino a farmi male, il respiro accelerato, i gemiti gutturali che si lasciava sfuggire, il mio nome cantato come una nenia al mio orecchio e poi, l'istante successivo, come un fuoco d'artificio inaspettato, i muscoli di entrambi si irrigidirono e l'orgasmo esplose in noi violentemente.

Avevo deciso di volere tutto.

Avevo deciso che, indipendentemente dalla mia scelta, avrei vissuto al massimo ogni istante con lui.

Avevo deciso che, nonostante il mio cuore ne sarebbe uscito distrutto, avrei dato ascolto alla me seduta nell'angolo, alla me che mi voleva felice e realizzata, ma che aveva anche paura di essere troppo fragile per mostrarsi.

Dopo istanti di immobilità assoluta, come sottofondo, soltanto le voci dei protagonisti del film, sprofondai tra i cuscini insieme a lui, che mi tenne ferma su di sé e mi accarezzò i capelli, baciandomi la fronte, gli occhi azzurri, lo specchio esatto dei miei, grandi e liquidi come di chi è felice, di chi ha toccato il cielo con un dito e ha deciso di restare sospeso ancora un po' in quel limbo di beatitudine e pace.

Ero così minuta rispetto a lui, che mi sentivo una bambina quando mi accoccolavo contro il suo petto, rilassandomi.

Avvertii il fruscio di una coperta e, l'istante successivo, mi sentii al caldo, protetta.

< Mi piacciono i tuoi capelli. > Continuò ad accarezzarli, mormorando, come se un tono di voce più alto avrebbe provocato l'esplosione della bolla che avevamo eretto intorno a noi.

Sorrisi, gli occhi chiusi.

< Continui a dirmelo da quando avevamo tredici anni. > Risposi.

< E' la verità: sono morbidi, profumati, setosi... > Elencò.

< Si chiama shampoo, Robert e solitamente gli umani lo utilizzano sotto la doccia. > Lo presi in giro.

Mi pizzicò un fianco in risposta, ma io non battei ciglio: stavo così bene, che niente avrebbe potuto turbarmi.

< Saccente. > Sbottò.

< Antipatico. > Ribattei, sollevando appena la testa per baciargli una guancia.

Rise piano, ricambiando il bacio.

< Vuoi che ti porti a letto? > Mi domandò.

Scossi la testa e mi strinsi di più a lui, come se non gli fossi già appiccicata.

< D'accordo. > Sistemò meglio il plaid intorno a noi, continuando la passeggiata delle sue mani lungo la mia schiena.

Mentre il monologo finale del film raggiungeva le mie orecchie, Robert sospirò ed io, socchiudendo gli occhi, mi accorsi che aveva lo sguardo puntato sul televisore e la fronte corrugata, come se stesse pensando.

< A cosa stai pensando? > Gli domandai curiosa, accarezzandogli il petto.

< Tu credi nel destino? Nella storia delle anime gemelle? > Mi chiese di rimando, osservandomi.

Non ci avevo mai pensato.

Feci spallucce.

< Non lo so, perché? > Sorrise appena.

< Mi è tornato in mente guardando il film... > Cominciò.

< Anche se non l'abbiamo tecnicamente guardato... > Lo interruppi, facendolo ridere.

< Ho sempre pensato che fosse stato il destino a farci incontrare. > Continuò.

< Eravamo vicini di casa, sarebbe stato impossibile ignorarci, senza contare che mio padre ci teneva ad organizzare quelle famose grigliate in giardino durante l'estate. > Replicai. Mio padre adorava il barbecue e quand'ero piccola organizzava sempre grigliate estive a cui invitava tutto il vicinato. Io e Robert ci eravamo conosciuti così, anche se in realtà avevo avuto modo di incontrarlo durante i pomeriggi d'estate al parco, senza contare che frequentavamo la stessa scuola.

< Sì, ma vi siete trasferiti nel nostro quartiere quando avevi sette anni. Mia madre telefonò alla tua non appena seppe della casa in vendita proprio accanto alla nostra. > Sorrise.

< E questo cosa c'entra con il destino? > Chiesi perplessa.

< Beh, che magari avreste potuto decidere di trasferirvi da qualche altra parte, magari due case più avanti, avreste potuto preferire un'altra zona. Invece, la casa accanto alla nostra ai tuoi genitori è piaciuta da subito, neanche il tempo di entrare in salotto, o di vedere la cucina. > Rise. Lo ricordavo anch'io, perché, mentre io mi guardavo in giro sbalordita e spaventata da quella casa spoglia, priva di mobili e dalle pareti ancora da verniciare, mia madre e mio padre sembravano al settimo cielo, neanche stessero ammirando un castello e mia madre aveva continuato a ripetere anche negli anni successivi, che con quella casa era stato un vero colpo di fulmine. Forse, era solo perché era diversa dagli appartamenti del centro e aveva un giardino privato.

< Avremmo potuto incontrarci da qualche altra parte. > Tentai.

< E dove? Londra è così grande. > Osservò.

D'accordo, poteva essere stato anche il destino a farci incontrare, ma questo cosa cambiava?

< Avrebbe qualcosa a che fare con noi, con la nostra storia? > Domandai schietta.

< Beh, se ci pensi, ci siamo incontrati allo stesso modo qualche mese fa. > Mi scostò i capelli dalla fronte con due dita, continuando a sorridere.

< New York è immensa e tu, quel giorno, hai deciso di accompagnare le tue amiche ad una premier a cui non avresti mai partecipato, se fossi stata da sola. Insomma, hai scelto di accompagnarle, ma se avessi, che so, preferito andare al cinema a vedere un altro film? Se avessi avuto voglia di cioccolata e avessi deciso di abbandonare le tue amiche alla premier per entrare in un locale? O se avessi considerato la cosa solo una perdita di tempo e avessi deciso di rimanere a letto? Non ci saremmo ritrovati. > Continuò.

< E tu credi che sia destino? Non potrebbe solo essere una coincidenza? > Aggrottai le sopracciglia. 

< Magari sì, o forse, è il destino che vuole che stiamo insieme. > Chiuse gli occhi e mi baciò, trattenendomi i capelli con una mano.

Sentii il cuore cominciare a battere all'impazzata, tanto che ne avvertii il rumore sordo fin nelle orecchie, fin nei polpastrelli a contatto con la sua pelle, come se tutto il mio corpo avesse cominciato a pulsare al suono di quelle parole.

Peccato fosse tutto così complicato. Magari non era solo il destino a volerci insieme, magari era tutto il mondo, magari era qualcosa di reale, di vero e non un semplice concetto astratto come il fato, ma cosa sarebbe successo se avessi scelto il sentiero di destra e non quello di sinistra, e cosa sarebbe successo se avessi scelto il contrario?

Ero in bilico, indecisa, divisa e sofferente, ma non volevo che tutte quelle emozioni rovinassero quel momento perfetto, quell'istante di oblio.

 

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Capitolo 22
*** Protect Me ***


Salve!

Come state? Io sono immersa in Manzoni (-.-"), cosa che mi deprime parecchio e infatti non vedo l'ora di dare quest'esame il 21 febbraio, così ho finito per questa sessione e posso cominciare a prepararmi per l'esame di latino (altro divertimento -.-").

Ok, ma a voi non frega niente dei miei esami, giusto? :D Passiamo alle cose serie, va'. Or dunque, riflettevo sulla Ff oggi e mi sono resa conto che non mancano moltissimi capitoli alla fine; io direi, volendola tirare per le lunghe, al massimo altri dieci, ma anche meno se riesco ad essere meno prolissa (cosa quasi impossibile, ma tentar non nuoce). E niente, riflettevo che è davvero triste quando le cose finiscono, vero? Insomma, ogni Ff rappresenta un pezzetto di me, in fondo, e ogni volta che ne concludo una è come se quel pezzetto di me venisse aggiunto ad un mega-puzzle immaginario che rappresenta un po' quella che sono io; un po' come quando superate un livello in un videogioco, avete presente? Ecco, ogni Ff per me è come un livello. 

Sono in vena di filosofeggiare, oggi :D No, comunque, senza tirarla troppo per le lunghe, questo capitolo mi ha commossa parecchio quando l'ho scritto, anche se non so dire bene il perché. Forse perché, ormai, mi sono così immedesimata in Candice, che sento come lei e vivo quello che vive lei, perciò mi sono emozionata come è successo con pochi altri capitoli delle mie varie Ff. Punto centrale è che, finalmente, Candice apprende qualcosa di molto importante, a voi capire cosa. A proposito, avete idea di cosa sceglierà Candice, alla fine? No, perché gli indizi sono stati seminati soprattutto in questi ultimi capitoli...

Bene, bando alle ciance, vi lascio al capitolo, ma prima ringrazio, come al solito, tutti coloro che hanno commentato lo scorso capitolo, che hanno letto, aggiunto la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e che hanno aggiunto me tra gli autori preferiti: GRAZIE, davvero *.*

Non mi resta che augurarvi una buona continuazione di settimana e, ovviamente, una...

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Protect Me From What I Want-Placebo

 

 

 

 

 

Quando mi svegliai, la mattina dopo, era ancora presto e faticai non poco a mettere a fuoco la stanza. Dovetti stropicciarmi gli occhi più volte per abituarli alla penombra. Chissà che ora era.

Recuperai le facoltà mentali necessarie per avvertire distintamente un dolore perforante alla gamba destra. Cercai di muoverla, rendendomi immediatamente conto che era incastrata sotto quella di Robert e che, presumibilmente, il dolore era dovuto al fatto che ne avessi perso completamente la sensibilità.

< Robert! > Tentai di svegliarlo, anche perché temevo che, rimanendo ancora in quella posizione, avrei perso l'uso totale dell'arto.

Lo sentii borbottare qualcosa di indistinto e poi continuare a dormire come se nulla fosse.

< Robert! > Ritentai, più forte, strattonandogli un braccio.

Parve animarsi, finalmente, rivolgendomi uno sguardo assonnato e perplesso.

< Cosa c'è? > Biascicò appena.

< La mia gamba è incastrata sotto la tua, se magari potessi spostarti... > Spiegai, vicina a mugolare di dolore.

Registrò le mie parole con qualche secondo di ritardo, affrettandosi a districare le sue gambe dalle mie, facendomi sospirare di sollievo.

< Ahi! Mi sembra di avere una gamba di legno. > Brontolai, cercando di piegare l'arto per massaggiarlo, in attesa che il sangue ricominciasse a fluire.

< Scusami, non me ne ero accorto. > Sbadigliò, massaggiandomi il ginocchio con una mano.

Tempo qualche istante, e il mio cervello registrò che avevo ancora due gambe, perfettamente funzionanti.

< Mi dispiace averti svegliato. > Voltai il viso nella sua direzione. Aveva gli occhi nuovamente chiusi, i capelli più spettinati del solito e un braccio penzoloni oltre il divano.

< Mm. > Rispose ed io, automaticamente, sorrisi, abbracciandomi a lui e baciandogli una guancia.

Cercai di addormentarmi, chiudendo gli occhi, tentando di rilassarmi, ma quindici minuti dopo ero ancora sveglia. Riaprii gli occhi, rendendomi conto che la ciotola di pop-corn della sera prima era rimasta intatta e le custodie dei vari film che Robert aveva noleggiato, erano ancora sparse sul tavolino di vetro, insieme al telecomando del lettore dvd.

Sbuffai piano. Odiavo svegliarmi presto la mattina e non riuscire a prendere più sonno.

< Ancora sveglia? > Sussultai alla voce di Robert, convinta che stesse dormendo.

< Non riesco a riaddormentarmi. > Brontolai.

Mi strinse a sé, coprendomi le spalle nude con il plaid, affinché non prendessi freddo, poi cominciò ad accarezzarmi i capelli, lentamente, intonando una ninna-nanna senza parole, che mi costrinse a chiudere gli occhi, rilassandomi.

Non ricordavo che avesse una voce così profonda e ammaliante quando cantava. 

< Era così tanto che non ti sentivo cantare qualcosa... > Mormorai.

Ero sicura avesse sorriso, anche se avevo gli occhi chiusi e non potevo accertarmene.

< Shh! > Mormorò soltanto in risposta, baciandomi le labbra, leggero come un alito di vento.

Non volevo più dormire.

Volevo solo continuare ad ascoltare la sua voce, sentire le sue mani tra i miei capelli, il battito del suo cuore leggermente accelerato.

Eppure, senza rendermene pienamente conto, scivolai nel buio; un buio che divenne presto luce, fino a che, davanti ai miei occhi, non apparve il paesaggio familiare del parco in cui io e Robert giocavamo da bambini.

Doveva essere autunno, perché gli alberi erano spogli, le foglie rosse scricchiolavano sotto i piedi, accartocciandosi e spirava un vento freddo che mi scompigliava i capelli. Ero di nuovo una ragazzina di dodici anni e mi dondolavo sull'altalena, lentamente, come se non avessi avuto altro posto su cui sedermi. Il parco era vuoto e silenzioso ed io ero triste e piangevo: tiravo su col naso, ma le lacrime non smettevano di rigarmi le guance, dispettose. Non ricordavo quell'episodio, o forse l'avevo semplicemente rimosso.

Mi asciugai le lacrime con la manica del cappotto che indossavo, quello che ero convinta mi facesse assomigliare ad una palla di Natale gigante, di quelle che si appendono sull'albero e che mia madre insisteva affinché indossassi, perché era il più caldo che avevo e perché era stato un regalo della zia.

Rimasi ferma ad osservarmi piangere, pervasa anch'io da una strana forma di malinconia e tristezza.

Udii dei passi, qualcuno che calpestava le foglie in fretta, come se stesse correndo e mi voltai. Anche la me bambina si voltò, gli occhi rossi di pianto. Intravidi il volto di Robert e sorrisi, perché aveva l'aria di un ragazzino confuso e sperduto, come se si fosse perso in un centro commerciale e non riuscisse più a trovare i suoi genitori.

< Sono ore che ti cerco, i tuoi genitori sono in pensiero per te. > Proruppe, il respiro corto.

< Dove sarei mai potuta andare? > Risposi sarcastica, evitando di incrociare i suoi occhi. Forse, ero solo arrabbiata, non ero triste; forse, avevamo litigato, una di quelle solite liti sciocche, ma per le quali eravamo capaci di non parlarci per giorni interi.

< Sta per piovere, dovremmo rientrare. > Continuò, serio e teso.

< Lasciami in pace, voglio stare da sola. > Risposi, alzandomi dall'altalena e camminando in direzione della chiesa.

< Non posso lasciarti da sola. Si sta facendo buio e non è prudente che una ragazzina... > Ma lo interruppi, voltandomi verso di lui come una furia, spaventandolo, tanto che ebbi l'impressione che stesse per perdere l'equilibrio e rovinare a terra.

< Perché tu cosa saresti? Un uomo adulto? Saresti in grado di difendermi? > Lo guardai in attesa di una risposta, ma Robert rimase in silenzio, sorpreso dalla mia reazione.

< Ecco, appunto. > Conclusi, riprendendo a camminare.

< Senti, perché non ne parliamo? Non è necessario litigare, possiamo trovare un compromesso... > Robert, testardo, corse per raggiungermi, fiancheggiandomi.

< Un compromesso? Ovvero, io abbandono la danza, l'unica passione che non devo dividere con nessuno, rifiuto di partecipare all'ultimo saggio dell'anno, per cosa? Per venire a vedere la tua recita, così tu saresti felice e contento ed io mi sentirei così in colpa per aver abbandonato le mie compagne e la mia maestra, da avere i rimorsi per il resto della mia vita? > Quasi urlai. Allora ero davvero arrabbiata.

Non mi piaceva litigare con Robert, non mi era mai piaciuto, perché ci stavo male e non facevo altro che piangere, pregando che venisse a chiedermi scusa presto, perché io ero troppo orgogliosa per farlo.

< Non essere così pessimista, Candice! Il tuo saggio e la mia recita coincidono e noi non possiamo essere in due posti differenti nello stesso momento, tutto qui. Vorrei che venissi alla mia recita perché è il primo spettacolo in cui interpreto il ruolo del protagonista. I tuoi saggi sono bellissimi, ma monotoni; si somigliano tutti, in un modo o nell'altro. Potresti saltarne uno, solo per quest'anno... > Ma non capiva? Come avrei potuto rinunciare a qualcosa che era soltanto mio, che mi rendeva indipendente, che mi faceva sentire forte, bella e assolutamente capace? 

< Questo non è un compromesso, Robert. Non posso saltare il saggio. Ho lavorato un intero anno per preparare il mio pezzo, non posso mandare all'aria tutto. > Affrettai il passo, sperando che desistesse nel suo desiderio di raggiungermi, invece, Robert non ebbe difficoltà a seguirmi.

< Candice, non voglio litigare con te, ti prego! > Tentò, mentre io ricominciavo a piangere.

< E' proprio quello che stai facendo, invece! > Cominciai a correre, imboccando la strada che mi avrebbe condotta a casa.

< Sei così concentrata sulla danza, che non hai più tempo per niente e nessuno, vero? > Io continuai a correre, mentre lui rimase fermo, gridando, facendomi ancora più male, che se avesse deciso di pugnalarmi alle spalle.

Mi voltai, furiosa, il fiatone e le lacrime, che quasi non mi lasciavano respirare.

< Ti odio! Sei solo un ragazzino arrogante! > Urlai con tutta la voce che avevo, correndo in casa.

Mi svegliai di soprassalto. Robert non era accanto a me, così mi concedetti qualche istante per riprendermi dalla sveglia improvvisa e dal ricordo che avevo appena rivisitato.

Mi infilai la maglietta, radunando i miei vestiti e portandoli con me in camera da letto.

< Robert? > Chiamai, immaginando che fosse in bagno, sotto la doccia. Nessuno.

Dalla cucina non provenivano rumori, così, credendo fosse semplicemente andato a prendere la colazione, optai per una doccia calda, sperando che lo sgomento nell'aver appena ricordato un episodio della mia pre-adolescenza che credevo completamente dimenticato, svanisse.

Non capivo perché fossi così sorpresa. Ne avevamo avute tante di liti del genere. Quando si trattava del mio corso di danza, o del suo corso di recitazione, se io ero tollerante e capivo la necessità di cimentarsi in qualcosa di esclusivamente personale, che si aveva l'intenzione di perseguire come obiettivo reale, Robert non aveva mai accettato la mia totale devozione all'arte della danza. Col tempo era riuscito ad apprezzarla maggiormente, ma non accettava di dividermi con qualcos'altro. Era proprio questo che non capiva. La danza mi aiutava, anche se solo per poco, a dimenticarmi di tutto quello che mi circondava: della nostra amicizia, dei miei genitori, dei problemi a scuola, degli amici; riuscivo a focalizzarmi solo su me stessa, sulle mie esigenze e necessità e mi faceva sentire libera, libera e forte.

Era forse questo che l'aveva sempre così infastidito? Il fatto che potessi, un giorno, non aver più bisogno di lui? Il fatto che la danza sarebbe diventata così importante, da cancellare totalmente la mia vita vera? 

Infilai un paio di jeans e una felpa, una volta liberatami dell'accappatoio, e fu in quell'istante che mi accorsi della porta socchiusa del terrazzino.

Mi avvicinai e sbirciai attraverso il vetro: Robert era seduto al tavolino di ferro, apparecchiato per due, e sembrava occupato con il cellulare, che accantonò in un angolo l'istante successivo.

< Buongiorno. > Annunciai il mio ingresso, osservandolo voltarsi verso di me e sorridermi.

< Buongiorno a te. > Rispose. < Scusami se ti ho lasciata sola, ma Nick mi ha telefonato un paio di volte e non volevo disturbarti e poi, ho ordinato la colazione. > Mi invitò a sedermi sulle sue gambe ed io, senza farmelo ripetere due volte, accettai, baciandolo a fior di labbra.

< Grazie. > Dissi soltanto.

Mi osservò stranito ed io risi.

< Per la colazione e per avermi aiutata a riaddormentarmi. > Precisai, versando nelle tazze di entrambi latte e caffè.

< E' stato un piacere. > Mi strinse a sé e mi baciò una guancia, strofinando il naso sulla mia pelle.

Afferrò una brioche dal cestino alla sua destra, spezzettandola con le dita, avvicinandomi un boccone alle labbra.

Non era come le altre volte; mi sentivo a disagio, tesa, forse anche per via del sogno che avevo fatto e che non avevo ancora digerito.

< Sei tesa. C'è qualcosa che non va? > Mi accarezzò la schiena e mi osservò, accigliandosi.

Sospirai. Gli circondai le spalle con un braccio, giocherellando con i capelli corti della nuca, solleticandogli appena la pelle. Non riuscivo a guardarlo negli occhi, perché ero sicura che se l'avessi fatto, sarei irrimediabilmente scoppiata a piangere come una bambina.

< E' che... ricordi di quella volta che litigammo perché la tua recita e il mio saggio di danza coincidevano e noi non potevamo presenziare alla rappresentazione dell'altro? > Ero certa che se ne ricordasse.

< Non ci parlammo per settimane; sì, me ne ricordo, perché? > Mi sollevò il mento con un dito per guardarmi negli occhi ed io lo feci: mi specchiai nei suoi occhi azzurri, leggendovi confusione.

< Ho sognato il nostro litigio, quando ti dissi che ti odiavo... > Spiegai, gli occhi liquidi.

< Candice, sono trascorsi anni, ormai... > La sua espressione si distese e le sue dita corsero a carezzarmi una guancia, tentando di calmarmi.

< Lo so, è solo che... > Tirai su col naso nello sforzo di non piangere, e alzai gli occhi al cielo per frenare le lacrime. < Credevo di non ricordarmene, credevo di averlo rimosso e rivederlo... insomma, fa ancora male, nonostante tutto. > Continuai.

< Eravamo dei bambini, Candice. > Mi strinse a sé ed io poggiai la testa sulla sua spalla, rabbrividendo dal freddo, nonostante la felpa.

< Sarà meglio rientrare, comincia a fare più freddo. > Lo sentii mormorare e, l'istante successivo, mi sollevò tra le braccia e mi condusse all'interno della camera da letto e poi di nuovo nel salotto, adagiandomi sul divano.

< Vado a recuperare la colazione. > Mi sorrise prima di baciarmi i capelli e scomparire per qualche minuto, ritornando con il vassoio che posò sul tavolino di vetro di fronte a me, scostando la ciotola di pop-corn.

Mi si sedette accanto e mi coprì con il plaid, posandomelo sulle spalle, recuperando la mia tazza e porgendomela.

La porcellana mi riscaldò immediatamente le mani.

Ripensai a quello che aveva detto Robert: eravamo dei bambini, ed era vero; non sapevamo quello che facevamo, per noi litigare significava fare un capriccio, essere dispettosi con l'altro, non ci rendevamo conto delle implicazioni.

< Candice, ascolta. > Mi voltai verso di lui, studiandolo con aspettativa. Si stava torturando le mani con fare nervoso. < So che è difficile, so che vorresti tornare indietro nel tempo e sistemare le cose, compiere scelte diverse, parlarmi dei tuoi progetti e non scappare a New York, avvisandomi il giorno prima, lasciandomi spiazzato. Lo so, perché vorrei anch'io che le cose fossero andate diversamente tra di noi, ma il punto è che non siamo più bambini, non abbiamo più otto anni e non possiamo tornare indietro. Abbiamo fatto degli sbagli, probabilmente ne faremo altri, litigheremo ancora e poi faremo pace, ma non si può tornare indietro, Candice. Adesso la tua vita è questa, il presente è questo preciso istante e l'unica cosa che puoi fare è accettare il tuo passato e cominciare a prendere le decisioni giuste per te, adesso. Forse non ti saresti posta tutti questi problemi se non ci fossimo incontrati, non lo so, ma è successo. Puoi sempre scegliere, Candice; così come hai scelto di concederci un'altra possibilità. Hai tutto il tempo che ti occorre. > Continuò.

Mi accorsi delle lacrime soltanto quando mi sorrise appena e mi trasse a sé per abbracciarmi ed io singhiozzai sulla sua camicia, aggrappandomi a lui.

Aveva ragione.

Stavo vivendo nel passato, stavo cercando di comprendere gli errori che avevo fatto da bambina, da adolescente, come se così facendo sarei potuta tornare indietro e fare tutto daccapo. Non avevo una seconda possibilità nel passato, ce l'avevo soltanto nel presente e dovevo essere capace di sfruttarla. E se non fossi stata forte abbastanza da assumermene le responsabilità? E se avessi sofferto così tanto da voler, ancora, tornare indietro?

Mi asciugai le lacrime con la manica della felpa, separandomi dall'abbraccio di Robert che mi scompigliò i capelli e riuscì a farmi sorridere.

< Ti amo, non c'è bisogno che te lo ricordi. > Si avvicinò per baciarmi le labbra.

< No, però devo ammettere che mi piace sentirtelo dire. > Sorrisi colpevole sulla sua bocca, prima di baciarlo ancora.

L'arrivo di un messaggio sul mio cellulare, ci costrinse a separarci.

Allungai un braccio per recuperare l'aggeggio, mentre lui continuava a tenermi stretta a sé.

 

Prepara i pon-pon, oggi è il grande giorno! 

Lucas

 

Grande giorno?

Pon-pon?

< Chi è? > Venni distratta dalla voce di Robert.

< Lucas. > Gli mostrai il messaggio, al quale lo vidi sollevare le sopracciglia, perplesso.

< E' un giorno importante? > Mi domandò.

Ci pensai su. Non era il compleanno di nessuno, né, tanto meno, era in vista qualche esame.

Esame.

Quella parola pulsava nella mia mente come un campanello d'allarme.

< Ma certo! > Esclamai, spaventando Robert, balzando in piedi, facendo mente locale su dove avessi posato le mie cose. < Come ho potuto dimenticarmene? > Continuai, correndo in camera da letto per recuperare la mia borsa.

< Candice, che succede? > Robert mi seguì, preoccupato.

< L'esame di sbarramento per il Saggio! Me n'ero completamente dimenticata... spero di essere ancora in tempo. > Diedi un'occhiata all'orologio, che segnava soltanto le otto e mezza. La commissione, solitamente, non arrivava mai prima delle nove.

< Vuoi che venga con te? > Si offrì.

< Ci sarà da aspettare, suppongo. > Non volevo che si annoiasse o che rinunciasse a qualcosa di più stimolante per assistere ad un esame di sbarramento.

Fece spallucce e, per tutta risposta, afferrò la giacca di jeans e mi sorrise.

 

Nonostante il traffico, arrivammo in tempo: gli esami non erano ancora cominciati e i più si stavano limitando a fare del riscaldamento, in attesa che il loro nome venisse chiamato.

Lucas, Amanda, Juliana, Sofia e Sam erano seduti in cerchio e chiacchieravano, allungando i muscoli.

Quasi mi meravigliai che fosse tutto così diverso dall'incubo che avevo fatto qualche giorno prima; al posto del silenzio, regnava un chiacchiericcio piacevole e rilassante, il corridoio era invaso da studenti e da amici accorsi ad assistere all'esame ed erano tutti sereni, concentrati, spaventati forse, ma sereni.

Lucas saltò in piedi non appena mi vide.

< E i pon-pon? > Mi chiese serio, puntando le mani ai lati dei fianchi come una mamma arrabbiata.

< Non dargli retta, è solo nervoso. > Intervenne Amanda, baciandogli una guancia e scompigliandogli i capelli.

Robert mi affiancò, impacciato, le mani nelle tasche dei jeans.

< Non sono nervoso! > Borbottò Lucas, seguito da un coro di no sarcastici ai quali risi divertita.

< Andrete benissimo. Tutti quanti. > Affermai positiva.

Volevo che facessero parte tutti del Saggio per la Amnesty International e, fossi stata io l'esaminatrice, non ne avrei escluso nessuno, ma sapevo anche che i posti disponibili erano limitati e che sarebbe stata necessaria la massima concentrazione e preparazione per essere ammessi.

Col trascorrere delle ore, venni contagiata anch'io dal nervosismo e dalla tensione e a poco valevano le rassicurazioni di Robert. Proprio come nel mio incubo, mi sentivo anch'io sotto esame, preoccupata e prossima alle lacrime.

Seduta a terra come tutti gli altri, la schiena contro il petto di Robert, che mi aveva accolta tra le sue gambe, continuai a mangiucchiarmi le unghie in maniera ossessiva, fin quando non chiamarono il gruppo composta da Juliana, Lucas, Amanda, Toby-un ragazzo di colore che non conoscevo-e cinque ragazze, sicuramente delle matricole, che non avevano fatto altro che ripetere la coreografia all'infinito.

< In bocca al lupo! > Li incoraggiai insieme agli altri.

Lucas mi fece l'occhiolino, mentre Juliana e Amanda si limitarono ad un semplice sorriso di riconoscimento.

Sam e Sofia ci avevano lasciati soli per recarsi ai distributori automatici, in cerca di qualcosa di commestibile da mangiare.

< Vuoi smetterla di essere così preoccupata? Andrà tutto bene. > Robert, che si stava divertendo ad intrecciarmi i capelli, neanche fossi una bambola, mi rimproverò all'ennesimo sbuffo.

< Lo so, è solo che l'attesa mi uccide. > Sbottai. < E comunque, vuoi smetterla di cercare di rendermi un'afro-americana? > Scherzai, voltandomi verso di lui per impedirgli di portare a termine l'ennesima treccia.

< Perché, cos'hai contro le afro-americane? > Mi strinse la vita con le braccia e mi baciò una tempia.

< Assolutamente niente, ma da quando tua sorella trascorse un'intera giornata, saltando pranzo e cena, pur di acconciarsi i capelli in mille trecce, sono assolutamente contraria a quel tipo di tortura. > Spiegai.

< Io di quella giornata ricordo solo che divorò anche la mia cena... > Mise il broncio come un bambino ed io risi.

Davvero quelli sarebbero potuti essere i nostri ultimi momenti insieme? Le nostre ultime risate insieme, i nostri ultimi baci?

Ora che ci eravamo ritrovati, non avrei voluto più abbandonarlo.

Lo abbracciai, sentendomi improvvisamente persa.

< Ti amo. > Gli sussurrai in un orecchio.

< Anch'io, winnie. > Rispose, facendomi arrossire e battere il cuore più forte.

Come farò senza di te? 

Avrei voluto urlare, ma tacqui, trattenendo le lacrime.

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Capitolo 23
*** Keep Bleeding ***


Buongiorno!

Per me è un po' inusuale aggiornare di mattina, perché solitamente finisco sempre i capitoli nel tardo pomeriggio e poi ne approfitto subito per aggiornare, ma oggi ho fatto un'eccezione, perché per questo capitolo vi ho fatto attendere un po' e, siccome ho terminato di scriverlo ieri sera, ma aveva bisogno di una rilettura a mente fresca, ho deciso di pubblicarlo in anticipo.

Mi scuso per il ritardo, ma questo capitolo non voleva proprio saperne di venire fuori, per quanto ci provassi. Oltretutto, non ricordo se a qualcuna di coloro che hanno recensito, avevo assicurato che in questo capitolo ci sarebbe stata la famosa chiacchierata con Arthur, ma, in caso l'avessi scritto, mi rimangio tutto, perché le cose, in fase di scrittura, sono andate diversamente, ahimè, quindi la chiacchierata è rimandata al prossimo capitolo.

Non mi rimangio, però, il fatto che questo sia il capitolo decisivo dell'intera Ff. Manca ancora qualcosa per portarla propriamente a termine, ma qui c'è la sostanza di tutto.

Come sempre, ringrazio tutte le persone che hanno recensito, inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare, chi ha scoperto la Ff da poco, ma ha deciso comunque di lasciarmi una recensione (*.*), e tutti coloro che hanno soltanto letto *.* GRAZIE e MILLE VOLTE GRAZIE! <3

Spero di non farvi attendere troppo per il capitolo successivo, ispirazione permettendo :)

 

Non mi resta che augurarvi una buona continuazione di settimana e un felice week-end e, ovviamente, una...

 

 

 

 

 

Buona Lettura! 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Better in Time-Leona Lewis

 

 

 

 

 

 

 

Dovemmo attendere il pomeriggio perché i membri della commissione affidassero l'elenco dei prescelti alla Segreteria dell'Accademia, e quando la Direttrice si diresse verso di noi con il foglio, pronto per essere affisso alla bacheca, regnò improvvisamente il silenzio. Con il suo solito fare sereno e compiaciuto, ci sorrise, affisse il documento e si allontanò, unico rumore quello dei suoi tacchi sul marmo del corridoio.

Non appena ebbe richiuso la porta del suo ufficio dietro di sé, fu quasi una lotta a chi avrebbe letto per primo i nominativi. Soltanto io e Robert rimanemmo indietro, in disparte, in attesa di conoscere il verdetto.

I versi di sorpresa e di sgomento si confondevano ed era difficile attribuirli ad un allievo in particolare.

Lucas fu il primo ad avvicinarmisi, l'espressione indecifrabile, gli occhi vuoti.

Lo osservai in silenzio, trattenendomi dallo scuoterlo per le spalle per farlo parlare. Poi le sue labbra si aprirono in un sorriso meraviglioso e gli occhi gli si illuminarono di gioia, tanto che mi abbracciò e mi sollevò di peso, rischiando di farmi cadere.

< Ce l'ho fatta! Sono stato preso! > Quasi urlò ed io lo strinsi ancora più forte, felice del suo traguardo.

< Sapevo che ce l'avresti fatta! > Risposi, baciandogli una guancia e scompigliandogli i capelli.

Amanda, Juliana e Samantha l'avevano seguito a ruota, abbracciando tutti, persino Robert, che rimase piuttosto perplesso dal gesto e arrossì, ma ricambiò la stretta con entusiasmo, congratulandosi con ognuno di loro.

< Dov'è Sofia? > Domandai nel caos generale, mentre Robert mi stringeva la mano e cercava di non perdermi nella confusione.

Gli altri si lanciarono occhiate perplesse, scrutando la folla che, pian piano, stava cominciando a diradarsi in direzione delle scale e, infine, dell'uscita.

Quando la intravidi, seduta a terra in un angolo, le gambe strette al petto e il viso rigato di lacrime, mi si strinsero il cuore e lo stomaco.

Sapevo quanto ci tenesse a far parte di quel Saggio: era un'ottima occasione per farsi notare da qualche agente o da qualche coreografo ed essere sicuri di riuscire ad avere un futuro, una volta terminata l'Accademia.

Sofia era al suo ultimo anno alla Julliard e per lei, così come per molte altre che erano state scartate, non ci sarebbe stato un altro Saggio a cui partecipare.

Mi allontanai dagli altri e la raggiunsi, sedendole accanto e sorridendole.

< Ehi. > Mormorai per attirare la sua attenzione.

La osservai asciugarsi in fretta gli occhi e tirare su col naso, anche se si sarebbe capito lontano un miglio che aveva pianto.

< Ciao. > Rispose, provando a sorridere, riuscendo a produrre soltanto una smorfia poco credibile.

Era così triste vederla piangere, lei, che era l'allegria fatta persona, che non faceva mancare a nessuno il suo sorriso contagioso, che non potei fare altro che allargare le braccia, affinché mi abbracciasse e tentare di renderle la situazione più leggera.

< Sono una fallita. > Mugugnò tra le mie braccia, ricominciando a piangere.

< Smettila, non devi pensare una cosa simile di te. Sei un'ottima ballerina e non è certo un esame di sbarramento andato male che può cambiarlo. > Si separò dalla mia stretta e mi osservò delusa.

< Era la mia ultima occasione, Candy, lo sai. Non avrò un'altra possibilità. > Spense tutto il mio entusiasmo, eppure, non avevo intenzione di demordere.

< Hai frequentato una delle migliori Accademie di danza del mondo, vorrà pur dire qualcosa, no? Magari, al Saggio non ci sarà nessun coreografo, nessun agente; o magari sì, ma nessuna di noi sarà quello che cerca, chi può dirlo. Non puoi arrenderti, Sofia. > La incoraggiai. Avrebbe dovuto lottare, ma lei aveva tutte le qualità artistiche per riuscire a raggiungere i suoi obiettivi ed io sapevo che ci sarebbe riuscita, presto o tardi.

< Hai ragione, sono solo... amareggiata. Credevo di aver fatto un buon esame... > Scosse la testa, sospirando.

< Sono certa che il tuo sia stato un buon esame. Magari la commissione non era quella giusta per te. Troverai una compagnia che ti accetti per le tue doti, ne sono sicura e lo sono, perché te lo meriti. Hai lavorato più duramente di chiunque, qui dentro, persino di me. A volte, è solo questione di fortuna e di momento giusto. > Le sorrisi.

< Almeno, non ho perso il tutù. > Rise, riferendosi ad un episodio di cui, per mia sfortuna, era stata testimone anche lei, durante il mio primissimo esame di sbarramento in Accademia, quello che avrebbe concluso il mio percorso di studi come allieva del primo anno e mi avrebbe permesso di accedere al secondo. Durante l'ultima coreografia avevo perso il tutù e avevo quasi rischiato di condannare all'invalidità uno dei migliori ballerini di New York, diplomatosi pochi anni prima alla Julliard. Come se non bastasse, durante la scivolata del suddetto ballerino, alla quale avevo partecipato, nel tentativo di non perdere l'equilibrio e di non rovinare a terra, avevo sforzato la gamba destra, affinché attutisse la caduta, con la conseguente slogatura alla caviglia che mi aveva causato non pochi problemi. Un vero e proprio disastro.

< Non ricordarmi quell'episodio, ti prego. E' stata una delle mie peggiori figuracce. > Borbottai, alzandomi in piedi e invitando lei a fare lo stesso.

< Una delle peggiori figuracce della Scuola, vorrai dire. > Mi prese in giro, spintonandomi appena.

< Sono contenta che le mie disgrazie ti divertano tanto, sai? > Bofonchiai, fintamente offesa, facendola ridere ancora di più. In fondo, ero riuscita nel mio intento: sollevarle il morale.

Gli altri, nonostante la nostra assenza, avevano deciso all'unanimità di festeggiare in un locale non molto distante. Sofia aveva provato a declinare l'invito, ma alla fine era stata costretta a cedere all'insistenza di Lucas che, se ci si metteva, sapeva essere davvero petulante.

< Noi avremmo una buona scusa per rifiutare. > Accennai a Robert, seguendo gli altri verso l'uscita.

< Ovvero? > Mi chiese, stringendomi al suo fianco.

< Beh, potresti fingere di dover lavorare domani mattina presto, per esempio. > Gli proposi candidamente. Volevo festeggiare con i miei amici, ma da un lato, avrei preferito rintanarmi nella stanza d'albergo di Robert a comportarmi da asociale.

< Quella non sarebbe una scusa, sarebbe una bugia, e anche bella grossa, direi. > Mi fece notare, baciandomi i capelli.

< Ma è tutto il giorno che siamo fuori... > Protestai appena.

< Ok, ho capito, sei gelosa. > Sorrise trionfante, tanto che gli si illuminarono persino gli occhi.

< Oh no, la gelosia non c'entra questa volta. > Risposi. < E' che... non lo so, non sono più abituata a questo genere di cose, sai, uscire con gli amici per festeggiare qualcosa di importante, divertirmi... > Continuai.

< Allora, direi che è arrivato il momento di abituartici. > Mi pizzicò una guancia con due dita, come ad una bambina.

< Neanche tu sei molto mondano, non puoi farmi la predica. > Sbuffai, incrociando le braccia al petto.

< Sono a New York da poco e le uniche persone che conosco sono i tuoi amici e le tue amiche. Dove potrei andare? > Rispose semplice. Osservai la sua espressione serena e appagata, quella che probabilmente dovevo avere anch'io, perché stavo maledettamente bene stretta a lui, con i miei amici a pochi passi di distanza che scherzavano tra di loro, nella mia città preferita.

< I VIP non organizzano feste, cerimonie, cose del genere? > In fondo, se ne sentiva parlare spesso in tv.

< In gran quantità, a dire il vero, ma non sono il tipo da feste VIP. Spesso fatico persino a partecipare agli after-party delle premier dei miei film. > Rise appena.

< Visto? Sei un asociale anche tu. > Confermai.

< Due asociali formano un'ottima coppia, però. > Aggiunse, osservandomi.

< Ok, te ne devo dare atto, hai ragione. > Alzai gli occhi al cielo, fintamente infastidita.

< Dovremmo avvisare Arthur; che fine ha fatto? > Sam si voltò verso di me, ma io sollevai soltanto le spalle: non avevo notizie di lui da qualche giorno.

< D'accordo, lo chiamo io. > Intervenne Lucas, estraendo il cellulare dalla tasca dei jeans.

Probabilmente, conoscendo Lucas, non gli aveva dato neanche il tempo di rispondere, perché aveva cominciato ad urlare come un matto, ripetendo i nomi di coloro che avevano superato l'esame e improvvisando un balletto ridicolo che fece voltare verso di lui diverse facce divertite.

Era impossibile come, nonostante li stessi frequentando da tre anni, non fossi diventata svitata come loro.

Risi, scuotendo la testa.

< E' sempre così? > Mi chiese Robert, divertito ed incredulo.

< Sì, sempre, tutti i giorni. > Anticipò la mia risposta Sofia, prendendomi a braccetto e camminando con noi.

< Bene! E' un sollievo sapere che sei in ottime mani. > Lanciò uno sguardo perplesso a Sofia che non riuscì a trattenere una risata.

< Lei non è da meno, è che adesso ci sei tu e cerca di contenersi... > Rispose la mia ex migliore amica.

Le lanciai un'occhiata inceneritrice, a cui lei rispose con un'alzata di spalle.

< Cosa mi sono perso? > Rise, lanciandomi un'occhiata maliziosa, alla quale arrossii come una bambina.

< Dunque... ad una festa era così ubriaca, che è salita sul tavolo e ha cominciato a ballare, fingendo di essere una spogliarellista. > Cominciò ad elencare Sofia.

Strabuzzai gli occhi. Non era mai successa una cosa del genere... forse.

Mi separai da Robert, tentando di raggiungerle i fianchi per farle il solletico, che lei non sopportava. Peccato che fosse decisamente più veloce di me e che riuscì a sfuggirmi, utilizzando Sam come scudo umano.

< Me la paghi! > Quasi urlai, rinunciando alla mia vendetta, ritornando da Robert fumante di rabbia.

< L'hai fatto sul serio? > Mi domandò tra le risate.

< Non credo di ricordarmelo. > Borbottai, incrociando le braccia al petto.

< Avrei voluto esserci, armato di macchina fotografica. > Continuò a sghignazzare, incurante del fatto che lo stessi praticamente fulminando con lo sguardo.

< Vuoi smetterla di ridere? > Gli tempestai un braccio di pugni, non riuscendo a trattenere un mezzo sorriso.

< Ok, ok, d'accordo, non picchiarmi. > Rise, imprigionandomi i polsi per farsi smettere, guardandomi negli occhi il tempo necessario per avvicinarsi al mio viso e baciarmi.

< Ehm... buonasera...? > Ci separammo quando sentimmo qualcuno schiarirsi la voce e salutarci imbarazzato: Arthur.

Arrossii all'istante, mentre Robert cercava di non incrociare il suo sguardo.

< Ehi... ti stavamo aspettando, mancavi solo tu. > Risposi con esitazione, impacciata.

Esattamente una di quelle situazioni in cui avrei preferito non trovarmi, nonostante non fossimo da soli.

Accennò un sorriso, prima di rivolgersi ai neo-eletti che avrebbero partecipato al Saggio della Amnesty International, congratulandosi con loro, Lucas che lo trascinò con sé nella canzoncina stonata di poco prima.

Mi strinsi a Robert, abbracciandogli la vita, sospirando di sollievo.

< Cosa c'è? > Mi domandò, accarezzandomi i capelli.

Feci spallucce.

< Non trovi che sia imbarazzante? > Alzai gli occhi sul suo viso.

< Cosa? Essere interrotti da colui che ha una spropositata cotta per te? > La sua non era una vera e propria domanda, quanto un'affermazione sarcastica.

Annuii comunque.

< Dovresti smetterla di proteggerlo, sai? E' adulto, sa badare a se stesso e difendersi; non ha bisogno della balia. > Mi fece notare.

< Ma è mio amico e so che probabilmente si è già rassegnato con me, so che, in ogni caso, non mi avvicinerebbe più con un certo intento, ma non riesco a non sentirmi a disagio... > Tentai di spiegarmi, l'odore di sigarette e birra ad invaderci le narici, mentre entravamo nel locale prescelto.

< Abbiamo tutti ricevuto un rifiuto, no? > Dovette alzare la voce per riuscire a sovrastare la confusione generale.

Occupammo un tavolo al piano superiore e ci liberammo dei cappotti. Non c'erano abbastanza sedie per tutti e non potevamo recuperarle dai tavoli vicini perché occupati, così io e Amanda fummo costrette ad accontentarci delle gambe dei nostri cavalieri.

Gli altri cominciarono a sfogliare il menù, commentando i vari piatti, mentre io e Amanda cominciammo una discussione riguardante la Direttrice musicale dell'Accademia, Miss Leroi. Era stata prima ballerina a Londra e aveva ballato per le compagnie più importanti del mondo, prima di stabilirsi a New York per occuparsi della Julliard. Era un punto di riferimento per tutti gli allievi ed era colei che programmava le audizioni degli studenti più promettenti dell'ultimo anno.

L'avevamo vista aggirarsi nelle varie aule, accompagnata dalla Direttrice tecnica e sapevamo che voleva dire solo una cosa: notizie importanti in arrivo.

Si era fermata spesso nella nostra classe di danza e durante le prove per il Saggio e aveva consultato più volte i registri degli insegnanti.

Eravamo tutti tesi e sulle spine, perché un'audizione avrebbe potuto cambiarci la vita, forse per sempre.

< Quale audizione? > Intervenne Arthur, accigliato.

< Quella per il balletto russo. Come mai non ne sai nulla? > Gli chiese Amanda, anticipandomi. Quell'argomento era il centro della conversazione di qualsiasi ballerino dell'Accademia, in quei giorni.

Fece spallucce.

< Miss Leroi mi ha proposto un'audizione per uno dei maggiori teatri di Londra, così sto cercando di concentrarmi su quella. > Accennò un sorriso, mentre io spalancavo gli occhi, sorpresa.

< Non ne hai fatto parola con nessuno, fino ad ora? > Domandai, stupita. Io avrei saltellato dalla gioia, al suo posto.

Abbassò lo sguardo, torturandosi le mani con fare impacciato.

< Scaramanzia... insomma, non è detto che mi prendano... > Si giustificò.

< Ma è comunque una notizia fantastica, no? > Amanda lo incoraggiò, posandogli una mano sulla spalla, scuotendolo appena.

< Sì, suppongo di sì. > Ammise alla fine, accennando ad un sorriso grato.

< Vorrei essere al tuo posto. > Confessai con un sospiro. < Sarebbe bello tornare a Londra. > Continuai, occhieggiando a Robert che, nel frattempo, stava continuando la sua conversazione con Lucas.

< Potresti fare il provino anche tu. > Suggerì Amanda.

< Non credo di riuscire ad affrontarne due, compreso il Saggio e le Prove Finali. > Alzai gli occhi al cielo, giocherellando con uno dei menù abbandonati sul tavolo.

< Essere primi ballerini in Russia è un grande privilegio, sai? E sono sicuro che avresti maggiori possibilità, lì. > Intervenne Arthur pratico, osservandomi.

< Neanche io sono sicura che mi prendano e poi, Miss Leroi non ci ha comunicato nulla, ancora, perciò... > Risposi, facendo spallucce.

< Devono convocarti! Sei la migliore ballerina della Julliard! > Protestò.

< Sì, beh... mai dire mai. > Non che fossi pessimista o che fossi la classica falsa umile, assolutamente. Credevo nelle mie doti di ballerina e, se ero entrata alla Julliard, la miglior Accademia dello Stato, ci doveva pur essere un motivo, così come ce ne doveva essere uno per la convocazione per il Saggio per la Amnesty International, solo che le audizioni mi spaventavano. Dovevi ballare di fronte a facce estranee, che non avevi mai visto, che non ti conoscevano, che avrebbero giudicato il tuo potenziale solo in base a quei quattro minuti di danza. Mi rendevano nervosa, ecco.

< Di cosa state parlando? > Ci interruppe Lucas, portando la sua attenzione su di noi.

< Audizioni. > Gli rispose Amanda, sorridendogli e abbracciandolo.

< Uhm... audizioni... che parola insolita... > Borbottò perplesso, scoppiando a ridere l'istante successivo.

< Parliamo d'altro. > Continuò. < Propongo una sfida di ballo contemporaneo, in pista: chi ci sta? > Sollevò Amanda dalle sue gambe e la prese per mano.

Non mi ero neanche accorta che la musica era cambiata e che in pista si era accalcata più della metà del locale.

Robert mi abbracciò la vita, posando il mento sulla mia spalla, studiando il mio profilo.

< Perché quel muso lungo? > Mi domandò, mentre gli altri abbandonavano le sedie per seguire Lucas.

Nessuno ci chiese se volessimo aggregarci e, mentalmente, li ringraziai; dopo quella discussione sulle possibili audizioni, non ero dell'umore giusto per scatenarmi.

Sbuffai.

< Non lo so, sto pensando al balletto russo e al fatto che, se dovessero accettarmi nella loro compagnia, dovrei trasferirmi a Mosca e... non lo so... > Risposi, confusa.

< Pensi che le cose tra di noi sarebbero più difficili? > Come se già non lo fossero abbastanza, avrei voluto rispondere.

Feci spallucce.

< Si tratta del tuo futuro, Candice. Non dovresti sprecare un'occasione così, in ogni caso. Hai lavorato duramente per essere quello che sei oggi e te ne pentiresti, in futuro. > Rimasi colpita dalle sue parole, quasi non fosse stato davvero lui a pronunciarle.

< Lo credi davvero? > Gli domandai titubante, incerta.

< Certo! Certe occasioni capitano una sola volta nella vita, credimi. > Mi sorrise e mi scompigliò i capelli, baciandomi una guancia.

< Quindi... non ti dispiacerebbe rimanere qui, da solo, senza di me? > Continuai.

Rise appena.

< Certo che sì, sciocchina. Ma voglio che tu sia felice e realizzata. > Spostai le gambe di lato e circondai le sue spalle con un braccio, accoccolandomi a lui.

Il suo sostegno era fondamentale per me.

Non potevo mentire e affermare che non ci fosse mai stato, ma non mi ero mai sentita sufficientemente compresa, sostenuta e incoraggiata, fino a quel momento.

Eppure.

Eppure c'era Kristen e il bambino che sarebbe nato di lì a poco ed io non potevo più far finta di ignorare la mia decisione al riguardo.

< Senti... ehm... sai che mi dispiace per quello che è successo tra di noi, tre anni fa e sai che ti ho promesso che non sarebbe più successo, che ti avrei parlato delle mie scelte e dei miei dubbi e dei miei propositi... > Era difficile per me affrontare un discorso simile e sperare di non piangere. Mi tremava la voce e guardarlo negli occhi mentre mi aprivo totalmente a lui, ancora di più di quanto non avessi già fatto in passato, rendeva il tutto ancora più complicato; ma era la cosa giusta da fare, la più giusta per me e non potevo più ignorarla.

Lo vidi annuire e aggrottare le sopracciglia, perplesso.

Davvero non aveva compreso le mie intenzioni?

< E' difficile dirlo e non posso prometterti che sarà indolore, ma devo farlo, altrimenti non so se ne avrei più il coraggio. > Presi un respiro profondo, ricacciando indietro le lacrime, poi rialzai lo sguardo, incontrando i suoi occhi azzurri profondi e dolci.

< Io... non posso occuparmi del bambino, Robert. Non sono pronta per una tale responsabilità e, l'hai detto anche tu, ho lavorato tanto per raggiungere questi risultati nella danza e un bambino mi frenerebbe. Non potrei mai aggregarmi ad una compagnia e dovrei rinunciare alle prove, ai Saggi... dovrei rinunciare a una parte di me a cui sono legata, che mi rende quella che sono e non posso farlo. Non posso sacrificarmi così... > Una lacrima sfuggì al mio controllo, ma l'asciugai in fretta con la mano, cercando di mostrarmi risoluta.

Robert rimase assolutamente immobile, come una statua di marmo, tanto che cominciai a pensare che non stesse neanche più respirando. Aveva lo sguardo vacuo e incredulo e la mano che mi stava massaggiando la schiena lentamente, si era aggrappata alla mia felpa.

< Dì qualcosa... > Lo pregai alla fine, impaurita dalla mancanza della sua voce.

< Potrei chiederle di dare il bambino in affidamento... > Cominciò, quasi parlando a se stesso, più che a me.

< Robert... > Ma parve non sentirmi.

< Siamo ancora in tempo per selezionare una famiglia e conoscerla... > Continuò.

< Robert... > Tentai ancora, ma senza successo.

< In fondo, possiamo scegliere l'adozione aperta e potremmo chiedere loro di inviarci foto, di andarlo a trovare, ogni tanto, di telefonargli, di mandargli dei regali per il suo compleanno e per Natale... > Era un fiume in piena, sembrava non arrestarsi mai.

< Robert! > Quasi urlai e alla fine lo vidi voltarsi verso di me, quasi mi vedesse per la prima volta, quasi non si fosse reso conto che avevo ascoltato tutto quello che aveva detto. < Non puoi prendere questa decisione adesso, senza averne discusso con Kristen, senza averci pensato a sufficienza. Hai detto di non volere che tuo figlio crescesse in una famiglia estranea, e io non voglio che tu faccia questo per me. Non è quello che vuoi. > Continuai, cercando di farlo ragionare.

< Non voglio perderti, Candice. Sei sempre stata la mia isola felice, ed è ancora così. Non posso lasciarti andare. > Mormorò.

< Per me è troppo difficile, Robert. Non riuscirei a sostenerne il peso, mi dispiace. Vorrei che capissi che dirti ancora addio è, per me, altrettanto faticoso, ma non posso fingere di essere la fidanzata perfetta e covare dentro di me frustrazione e risentimento per tutte le cose alle quali ho dovuto dire di no.

Non voglio scappare, voglio che tu capisca. > Risposi, rinunciando a trattenere le lacrime.

Annuì, più volte, come a prendere coscienza della cosa.

< D'accordo, sì, hai ragione... > Tirò su col naso.

Era assurdo che gliel'avessi confessato in un pub, con la musica ad alto volume, seduta sulle sue gambe, quando avremmo dovuto festeggiare l'esame di sbarramento degli altri.

Avrei riso, se non fossi stata impegnata ad asciugarmi le lacrime.

< Non può essere giusto, se fa così male, no? > Mi accarezzò i capelli, nel tentativo di incoraggiarmi, ma il gesto non fece altro che rafforzare il mio pianto.

Aveva ragione: come poteva fare così male, se era la scelta giusta? Se fosse stata la puntata di uno di quei telefilm che mi ostinavo a guardare con Sam, la voce narrante avrebbe saggiamente affermato che la cosa giusta non è sempre sinonimo di più semplice, ed io le avrei dato ragione.

Nella vita reale avrei potuto applicare lo stesso ragionamento, ma la verità era che avrebbe continuato a far male e non mi avrebbe fatta sentire affatto meglio.

< Mi dispiace... io... se non fosse stato tutto così complicato... > Tentai di rispondere tra i singhiozzi che mi scuotevano le spalle.

< No, dovrei essere io a chiederti scusa, per averti trascinato in tutto questo e per averti obbligata a prendere una scelta; non volevo che le cose tra noi andassero così. > Mi asciugò le lacrime con il dorso di un dito, provando a sorridermi.

Lo abbracciai, chiudendo gli occhi e cercando di imprimere il suo profumo nella mente. Avrei davvero dovuto rubargli una camicia.

< Mi mancherai. > Rantolai.

< Anche tu, Candice, non immagini quanto. > Rispose.

< L'invito per il Saggio è ancora valido, però. > Mi allontanai a malincuore dalla sua stretta, cercando di assumere un'aria perentoria.

< Non me lo perderei per niente al mondo. > Cancellò le ultime tracce salate dalle mie guance.

Sorrisi.

< Vuoi andare via? > Mi chiese.

Era un addio, il nostro, ma un'altra notte stretta a lui, non me la sarei negata.

Avvisammo gli altri della nostra dipartita ed io ringraziai mentalmente le luci colorate del locale, perché permisero ai miei occhi rossi di passare inosservati, così come la mia espressione angosciata.

L'aria fresca mi permise di tornare a respirare, quel tanto necessario per rendermi conto che non era stato un sogno, che era successo davvero e che la ferita del mio cuore si era riaperta e aveva ripreso a sanguinare copiosamente.

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Capitolo 24
*** Tears ***


Salve a tutte!

Innanzitutto, Buona Festa della donna! Di solito non mi piace fare gli auguri per questa festa, considerato il motivo per cui è stata creata e, più in generale, perché le donne che subiscono abusi, violenze e vengono uccise sono in numero sempre maggiore, ogni anno, ma quest'anno sono un po' egoista in merito, nel senso che ho pensato a me e a mia madre, che ne abbiamo passate tante, per cui molti momenti sono stati difficili, ma che, nonostante tutto, siamo ancora qui e allora ho pensato che la Festa della Donna poteva essere un buon modo di festeggiarci e quindi mi sono concentrata sull'aspetto positivo della cosa e non su quello negativo, come ho fatto tutti gli altri anni.

Comunque, questo non c'entra niente con il capitolo, pardon :) Dunque, dunque... beh, è stato un capitolo difficile, anche questo, e lo so che può sembrare una scusa, ma, credetemi non lo è, perché quando si è troppo invischiati in una storia, si perde il punto di vista oggettivo dell'intera faccenda e diventa più complicato mettere nero su bianco le idee. Nelle recensioni ho letto che molte di voi non immaginavano come, la Ff, avrebbe potuto avere un lieto fine, visto quello che è successo nello scorso capitolo. Avrei dovuto scriverlo in risposta alle recensioni di ognuna, ma lo faccio qui, così anche chi non recensisce ha modo di ricevere una spiegazione, o presunta tale. Se devo essere sincera, non ne avevo idea neanch'io, almeno fino a ieri pomeriggio. Non posso spiegarmi bene perché non avete ancora letto il capitolo, ma cercherò di essere chiara e spoiler free per tutti: se tutte voi avete seguito il mio stesso ragionamento, il problema principale nella storia tra Candice e Rob è questo bambino, di cui Robert vuole prendersi cura, perché Kristen non se la sente di fare la madre (tsk!). Continuo a ripetere che, volendo essere il più sincera possibile, avevo anche valutato l'opzione, non tanto che non fosse figlio di Robert, perché nella mia testa è sempre stato così e non avrei avuto il coraggio di scrivere che, all'improvviso, veniva fuori che non era più figlio suo, quanto di far succedere qualcosa a Kristen e quindi, di conseguenza, al bambino. Ora, non è che io sia una sadica, eh, ma davvero non avevo idea di come risolvere la cosa. Tuttavia, non me la sono davvero sentita di far morire una creatura innocente, quindi, non preoccupatevi, il bambino è sano e salvo ;) e ciò che succederà a Candice e Robert dovrete scoprirlo da soli, leggendo il capitolo.

La decisione di Candice sicuramente vi sembrerà assurda, nel senso che non è che una persona prima dice una cosa, poi, il minuto successivo, dice l'esatto contrario, ma tenete conto che è una Ff, che non posso tirarla troppo per le lunghe, altrimenti finirebbe per annoiare e per diventare un mappazzone (chi ha seguito Master Chef Italia sa cos'è xD) e che, anche se cerco sempre di attenermi alla vita vera, non sempre posso farlo e mi prendo qualche licenza letteraria (se ancora ne esistono), opportunamente evidenziate in corsivo.

La canzone che ho scelto, che, come vedrete, è dei Paramore, trovo che sia perfetta per Candice e Rob, testo compreso e che riassuma un po' tutta la loro situazione, per cui è l'unica volta in cui la canzone ha diretta attinenza anche con il capitolo.

Un'ultima cosa e vi lascio alla lettura, altrimenti le note sono più lunghe del capitolo (anche se temo che lo siano già -.-"): credo proprio che questo sia il penultimo capitolo della Ff, quindi manca l'ultimo, il prossimo, e un breve epilogo e poi posso dire conclusa anche questa Ff ç.ç L'ho realizzato ieri sera, ed è stato un mezzo trauma, ma comunque... *sniff-sniff*

Che dire d'altro? Ma certo! Che sbadata! Ringrazio tutte le persone che hanno recensito, letto, inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e che hanno aggiunto me tra gli autori preferiti *.* I LOVE YOU! E un ringraziamento speciale va a Carla (che qui su EFP è midnightsummerdreams) per avermi aiutata con le questioni mediche del capitolo *.* <3

 

Vi auguro un Buonissimo week-end e uno splendido inizio di settimana e, come sempre, una...

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All I wanted-Paramore

 

 

 

 

 

 

 

Decidemmo di prendere un taxi e, nell'attesa, sembrava che non avessimo più niente da dirci.

Io continuavo a dondolarmi sul posto, le mani nelle tasche del cappotto e i capelli che mi svolazzavano davanti agli occhi; Robert fingeva di scrutare il traffico, gli occhi ridotti a fessure per proteggerli dal vento freddo che sembrava volerci tagliare il viso, come se non fossimo stati già abbastanza a pezzi.

Era al mio fianco, ma sembravamo distanti chilometri, ognuno perso nelle proprie fantasie.

La situazione non cambiò all'interno del taxi. Guardavamo in due direzioni opposte, come estranei trovatisi a dividere un passaggio.

Quasi corsi all'interno della hall e dell'ascensore dell'albergo, spingendo il numero del piano un attimo prima che lui entrasse.

Mi guardò, schiarendosi la voce, chiaramente a disagio, torturandosi i capelli e poi le mani.

Io non sapevo neanche dove guardare. Volevo incrociare i suoi occhi, osservare la sua figura, ma non ci riuscivo: il mio cervello non rispondeva agli impulsi.

Lasciai che aprisse la porta della stanza, precedendomi all'interno e, quando la richiusi alle mie spalle, mi ci appoggiai contro, chiudendo gli occhi, sospirando di sollievo.

Nonostante tutto, mi sentivo a casa.

< Tutto bene? > Mi domandò, scrutandomi dopo essersi liberato della giacca e averla posata sul bracciolo della poltrona lì vicino.

Scossi la testa.

Come poteva andare bene? 

Sospirò, avvicinandomisi.

Mi specchiai nei suoi occhi azzurri, rendendomi nuovamente conto che sarebbe stata una delle ultime volte, poi, i miei occhi scesero ad osservare le sue labbra, mentre la lingua bagnava le mie, pregustando un sapore che non ero sicura avrei assaggiato ancora.

< Vieni qui. > Mi tese le mani, che io ignorai, fiondandomi direttamente tra le sue braccia, aggrappandomi a lui, sbilanciandolo appena all'indietro.

< Ehi, sarò sempre qui, Candice. Se avrai bisogno di me, ci sarò, sempre. > Sussurrò, accarezzandomi i capelli.

Forse sarebbe stato così, lui ci sarebbe sempre stato, ma come avrei potuto chiedergli aiuto, come avrei potuto guardarlo negli occhi senza ricordare ciò che avevamo perso, ciò che avevo deciso di lasciare?

Non ero pentita della mia scelta, tutto quello che mi ero forzata a confessargli in quel pub era la pura verità, ma mi sarebbe mancato e sarebbe stato maledettamente difficile ricominciare. E poi, lui avrebbe avuto un figlio di cui prendersi cura, un nuovo, piccolo essere umano che avrebbe avuto bisogno di cure costanti e di attenzioni, come avrei potuto intromettermi?

Non risposi, continuando a bagnargli la felpa di lacrime.

Non so per quanto tempo rimanemmo così, abbracciati in mezzo al salotto, al buio, anche se avevo smesso di piangere; so solo che, ad un certo punto, Robert si mosse in direzione della camera da letto, con me ancora abbarbicata a lui. Scostò le coperte, adagiandomi tra le lenzuola con attenzione, forse credendo che mi fossi addormentata.

Sciolsi le gambe dalla sua vita, ma mi rifiutai di fare altrettanto con le braccia, ancora intorno al suo collo, tanto che forzò appena la presa per convincermi ed io aprii gli occhi, facendolo sorridere appena.

< Sei sveglia, ecco perché era così difficile convincerti a lasciarmi. > Scherzò, un centimetro dal mio viso.

Sorrisi anch'io, slegando le braccia dal suo collo, persuasa a lasciarlo andare.

< Vuoi cambiarti? > Mi chiese, occhieggiando ai miei vestiti. Mi aveva solo spogliata della scarpe e dei calzini e avevo addosso ancora il cappotto.

Annuii, sollevandomi a mezzo busto, liberandomi anche della felpa e dei jeans, mentre lui individuava la maglietta che utilizzavo solitamente per dormire e i pantaloni morbidi del pigiama e me li tendeva con non-chalance.

Poggiai nuovamente la testa sul cuscino, più comoda, osservandolo al buio, seduto al mio fianco, un braccio teso vicino a me.

< Dormi con me, vero? > Gli domandai, terrorizzata dal fatto che potesse decidere di trascorrere la notte sul divano, come una bambina che chiede ai genitori di potersi addormentare con la luce accesa, perché ha paura dei mostri.

< Certo, dammi un minuto. > Scomparve in bagno, riemergendone dopo qualche minuto, già con indosso la sua solita maglietta consunta e i suoi pantaloni della tuta.

Si distese al mio fianco, sollevando le coperte e, neanche il tempo che sistemasse la testa sul cuscino, in cerca di una posizione comoda, gli ero già vicina, una gamba tra le sue e un braccio intorno ai suoi fianchi.

< Hai freddo? > Stavo tremando, ma non era per la temperatura.

Scossi la testa, lasciandomi comunque stringere e accarezzare energicamente la schiena.

< Andrà tutto bene, Candice. Non ti lascerò mai da sola. > Lo sentii mormorarmi tra i capelli.

< Come farai con il bambino? > Non riconoscevo neanche più la mia voce, tanto era sottile e flebile.

< Beh... mi prenderò cura di lui. Non saremo più una coppia, ma cosa ci impedisce di essere amici? > Rispose speranzoso.

< Io... ecco... non credo che ci riuscirei, Robert. Non voglio esserti amica e neanche tu vuoi essermi amico. Non posso fare finta di niente. > Come avrei potuto? Due amici non si sentono a disagio se trascorrono una giornata insieme; due amici parlano di qualsiasi cosa; due amici si confidano; due amici non fingono, non si raccontano bugie.

Noi non saremmo mai potuti essere questo.

< N-non potrò più chiamarti, o vederti? > Sgranò gli occhi, facendomi venire voglia di ricominciare a piangere.

< Sarebbe... sarebbe solo una sofferenza, adesso e... ci faremmo soltanto del male... i-io non credo che sia una buona idea... > C'era qualcosa che mi opprimeva il petto, qualcosa che mi impediva di respirare.

< D'accordo... allora tu... tu cosa farai? > Chiusi gli occhi, tentando di regolarizzare il respiro e di ricacciare indietro le lacrime.

Era patetico; forse non sarei dovuta rimanere con lui, quella notte. Avrei dovuto tornare al residence e magari andare soltanto a riprendermi le mie cose, l'indomani mattina, in compagnia di Sam, o di Sofia, o di entrambe.

Affrontare quella conversazione era maledettamente doloroso.

Feci spallucce, apparentemente impassibile.

< Quello che ho fatto anche tre anni fa: danzare, per evitare di pensare. > Mormorai.

Sospirò, voltando gli occhi al soffitto buio.

< Non credo riuscirò ad innamorarmi di nessun'altra. > Confessò alla fine, dopo diversi minuti di silenzio.

Sapevo che era la classica frase che avrebbe detto qualunque ragazzo che sta per essere abbandonato dalla propria fidanzata, ma sapevo anche che Robert non era un ragazzo qualunque, di quelli che, prima o poi, se ne fanno una ragione e vanno avanti.

Era come me: quando amava, lo faceva in maniera assoluta, totale e, se tre anni non erano riusciti a spegnere il sentimento nei miei confronti, o quanto meno ad assopirlo, probabilmente neanche una vita intera sarebbe bastata.

< Di Kristen ti sei innamorato, però... > Arrossii, perché non era di lei che volevo parlare, non quella notte, ma le parole erano scivolate fuori dalle mie labbra senza controllo, prima che il cervello potesse elaborarle e cacciarle indietro.

< Non credo fosse amore. Sì, insomma, credevo di aver messo una pietra sopra la nostra storia già da molto tempo, ma... non lo so, stare con lei, non era come stare con te. Siete diverse, questo è ovvio, ma io non facevo che mettervi a confronto e quando ho avuto la piena consapevolezza di questo mio comportamento, ho deciso di lasciarla... non era giusto nei suoi confronti, e non lo era nei miei. > Nonostante il buio, riuscì ad inquadrare i miei occhi, osservandomi a lungo, senza che riuscissi a rispondere.

< Eppure, avrete qualcosa che vi legherà per sempre, adesso. > Lei non voleva occuparsi del bambino, certo, ma questo non significava che se ne sarebbe dimenticata; d'altronde, come avrebbe potuto? E poi, chi poteva garantirle che non avrebbe cambiato idea, una volta preso in braccio? Si sa che, molto spesso, quando qualcosa non è ancora reale, si tende a respingerla, ma quando poi ci appare davanti agli occhi, decidiamo di accoglierla, qualunque siano le conseguenze.

Se Kristen decidesse di prendersi cura del bambino, Robert non si tirerebbe certo indietro.

Sospirò ancora, traendomi ancora di più a sé, come se non gli fossi già abbastanza vicino.

< Prima che tu partissi per la Julliard, prima del nostro addio, fantasticavo moltissimo sul nostro futuro; cercavo di immaginare i volti dei nostri genitori quando gli avremmo comunicato che avevamo intenzione di sposarci, o che, magari, tu eri incinta ed io ti volevo tutta per me, per sempre; oppure, cercavo di comporre i volti dei nostri bambini e avevano tutti il tuo naso e le tue labbra e il tuo carattere forte, determinato e dolce. Non avrei mai pensato di crescere un figlio che non fosse nostro. > Sentivo le lacrime spingere per sopraffarmi e riuscivo a capire dalla sua voce spezzata che anche lui era sull'orlo del pianto.

< Non puoi dirmi queste cose, Robert... sarà ancora più difficile andarmene... > Borbottai, cercando di reprimere i singhiozzi, senza successo.

Lo abbracciai, pregando perché potessi fondermi con il suo corpo.

Se qualcuno ci avesse osservati dall'esterno, avrebbe sicuramente riso di noi, di quanto dovessimo sembrare patetici e sdolcinati. Era stata mia la decisione di lasciarlo, di fare in modo che vivesse la sua vita, e non me ne pentivo, perché era la cosa più giusta per me, per noi, eppure... decidevamo di lasciarci, ma continuavamo a piangere e a cercarci.

Non aveva senso, ma non riuscivo a fare a meno del suo calore, delle sue mani sulla mia pelle, dei suoi occhi azzurri.

Mi strinsi alla sua maglietta, chiudendo gli occhi, inspirando il suo profumo, desiderando ardentemente che fosse tutto un incubo, un brutto sogno dal quale mi sarei svegliata, l'indomani mattina, e per il quale mi sarei data della stupida. 

Ma non era un incubo, non era frutto del mio inconscio, o della mia fantasia; era tutto vero, maledettamente vero ed io avevo paura di frantumarmi, di continuare a perdere pezzi, così tanti, da non riuscire più a trovarli per ricompormi, per avere il coraggio di andare avanti.

Come avrei anche solo potuto allentare la presa dalla sua maglietta, l'indomani mattina, e fingere che tutto si sarebbe sistemato?

Come potevo mentire a quella parte di me che, ormai, non se ne stava più in un angolo a lasciarsi dominare, ma che era il registro di tutte le mie emozioni? Non sarei riuscita a spingerla nuovamente nel suo angolo, non adesso che l'avevo così faticosamente costretta ad alzarsi, a combattere.

Avrei solo voluto dormire per sempre, chiudere gli occhi, consapevole che non avrei affrontato la luce.

 

Quando schiusi le palpebre, consapevole di aver dormito soltanto venti minuti, era ancora presto; le tende socchiuse lasciavano filtrare una luce fredda e grigia sul soffitto: le prime avvisaglie di un'alba scura e rigida.

Mi dolevano i muscoli per la posizione scomoda che avevo assunto ore prima, stretta così spasmodicamente al corpo di Robert, che quasi mi meravigliai del suo respiro tranquillo.

Dovevo andare via da quella stanza, da lui, altrimenti non avrei avuto più il coraggio necessario per farlo, se lui si fosse svegliato.

Nonostante la sensazione di vertigine, provocata dal semplice allontanamento del mio corpo dal suo; nonostante il peso al cuore che avvertivo e che temevo che, da un momento all'altro, mi avrebbe vista in lacrime; nonostante le gambe molli e il tremore alle mani, riuscii ad abbandonare il caldo confortevole delle coperte e a dirigermi in bagno per una doccia calda e veloce, così veloce, che non ebbi neanche il tempo di pensare, di riflettere sulle mie azioni.

Non tentai neanche di asciugarmi i capelli, per paura che il rumore del phon potesse svegliarlo; me li frizionai meglio che potei con un asciugamano, poi li raccolsi in una crocchia veloce, evitando di preoccuparmi dei capelli che continuavano a svolazzarmi davanti agli occhi ad ogni piccolo movimento.

Indossai i vestiti della sera prima e ritrovai il borsone che avevo riempito delle mie cose qualche settimana prima, cominciando a rovistare nel disordine in cerca dei miei indumenti e dei miei oggetti.

Cercavo di non lanciare neanche uno sguardo alla figura addormentata poco distante da me; cercavo di non pensare che, una volta fuori da quella stanza, da quell'albergo, sarei scoppiata a piangere.

Mi muovevo il più silenziosamente possibile, recuperando un paio di jeans, una maglietta, uno slip, un paio di calzini, il pantalone di una tuta, una spazzola, un paio di orecchini, quattro bracciali, una sciarpa, una fascia per capelli.

Gettavo tutto alla rinfusa nel borsone, fingendo di stare bene.

Quando il borsone fu pieno e la stanza più vuota, indossai le scarpe e il cappotto.

Avrei dovuto lasciargli un biglietto?

Non avevo poi molto da dirgli.

Ci riflettei un istante, prendendo tempo, ma, quando alla fine mi decisi che non sarebbe servito, che sarebbe risultata solo una presa in giro, avvertii il desiderio di baciarlo, di sfiorare la sua pelle per qualche altro istante.

Mi avvicinai, titubante, sperando di non svegliarlo, e mi chinai su di lui, chiudendo gli occhi per perdermi nel suo profumo di more e zucchero filato.

Gli baciai le labbra, leggera, il cuore che batteva all'impazzata, la paura di poterlo, solo con quel suono, svegliare; invece lui mugugnò qualcosa, voltandosi verso di me, continuando a dormire, un piccolo sorriso ad addolcirgli il viso.

Sorrisi anch'io prima di voltarmi e uscire definitivamente dalla sua vita.

Una volta varcata l'entrata principale dell'albergo, non riuscii neanche a chiamare un taxi; cominciai a correre, sempre più veloce, le lacrime che mi offuscavano appena la vista.

Volevo allontanarmi il più in fretta possibile da lì, raggiungere il residence dell'Accademia e sprofondare sul mio letto, ignorando tutto il resto e poco importava se per farlo mi sarei scontrata con qualche passante, se sarei inciampata, se avessi sentito la milza bruciare e i polmoni reclamare ossigeno; se le gambe fossero diventate molli, se le lacrime avessero reso tutto più confuso e indistinto, se i miei pensieri si fossero concentrati sul fatto che, da quel momento, sarebbe stato tutto come tre anni prima e i miei sforzi per cambiare non sarebbero serviti, perché ero di nuovo da sola e Robert non era più accanto a me.

Raggiunsi il residence senza fiato, rifiutando di fermarmi anche solo per attendere l'ascensore, optando per le scale.

Sbattei la porta della mia stanza così violentemente, che temetti, per un istante, di averla scardinata.

Abbandonai il borsone a terra, guardandomi intorno mentre riprendevo fiato, come se vedessi quella stanza per la prima volta: la scrivania accanto alla finestra, le mensole dei libri, l'armadio di legno chiaro, il televisore spento, l'i-Pod abbandonato sul letto, il comodino pieno dei miei porta-fortuna, le foto di me e Robert insieme nascoste nell'ultimo cassetto, in fondo.

Raggiunsi il letto, liberandomi del cappotto e delle scarpe. Afferrai l'i-Pod, sdraiandomi, infilai le cuffie e scorsi la libreria in cerca di qualcosa che non mi facesse pensare.

Ero stata io a volerlo, che senso aveva piangere o disperarmi?

 

Non sono sicura di quanto tempo trascorsi così, in stato catatonico, le lacrime che mi rigavano le guance, gli occhi che cercavano, di volta in volta, di mettere a fuoco il soffitto e le orecchie che continuavano ad accogliere la musica più triste che ero riuscita a trovare; nella mia mente era tutto così ovattato, che i pensieri si erano ingarbugliati fino a formare un'enorme matassa, di cui io facevo fatica ad ordinare i fili, eppure, non m'importava; lasciavo che si aggrovigliassero, senza fare niente per districarli, così come lasciavo che le lacrime mi bagnassero gli occhi e il viso senza fermarle, non più.

Mi riscossi soltanto quando sentii bussare alla porta.

Non avrei voluto aprire, ma poteva essere qualcosa di importante, perciò spensi l'i-Pod, abbandonandolo sul cuscino, e tentai di asciugarmi le lacrime con le maniche della maglia che indossavo, tirando su col naso.

Non ebbi neanche il tempo di aprire completamente la porta, che Arthur mi riempì di parole.

< Ehi! Ho visto che non rispondevi al cellulare, così ho pensato di venire a vedere se eri rientrata. Lucas e Amanda pensavano di fare un ripasso veloce della coreografia, sai, per la lezione di oggi pomeriggio... > Si interruppe all'improvviso, osservandomi e spalancando gli occhi l'istante successivo.

Dovevo avere un aspetto orribile.

< Cos'è successo? > Mi domandò, ritirando il sorriso di poco prima, assumendo un'aria corrucciata e preoccupata.

Mi scostai per permettergli di entrare, facendogli cenno di accomodarsi dove preferiva.

Scelse il letto, così spostai qualche cuscino per accomodarmi accanto a lui, le gambe incrociate.

Continuavo a piangere senza neanche rendermene conto; le lacrime continuavano a scivolarmi sul viso, in silenzio.

< Candice... > Mormorò, cercando di guardarmi in viso, anche se io continuavo a negargli il mio sguardo, torturandomi le mani e l'orlo della maglia.

Mi asciugò una lacrima con il dorso di un dito.

< Sai cosa mi dice sempre mia madre? Che ogni lacrima è un segreto, ma se decidi di non condividerli con nessuno, appassiranno, un po' come i fiori recisi. > Disse, facendomi scappare un sorriso, perché, anche se non conoscevo la madre di Arthur, avevo come l'impressione di averla già incontrata, perché aveva sempre una frase filosofica per ogni occasione e, nel corso di quei tre anni, Arthur ne aveva menzionate parecchie, anche di piuttosto improbabili.

< Non credo che le mie lacrime siano un segreto. > Risposi, la voce stranamente tranquilla.

< Hai litigato con Robert? > Tentò.

Scossi la testa.

< Oh. Allora, lui ha litigato con te. > Mi fece una linguaccia ed io sorrisi. Sapevo che odiava vedermi triste.

< Ho deciso che la nostra relazione non poteva andare più avanti. > Cominciai, facendo spallucce.

Se solo ripensavo alla sera precedente, avrei rischiato di affogare nelle lacrime e nel dolore.

Sospirò.

< Per via di Kristen e del bambino? > Mi chiese comprensivo.

Annuii.

< In verità, Kristen non c'entra; è solo che io non sono pronta per fare la mamma. Ho sacrificato molto per diventare una ballerina, ho lasciato Londra, la mia famiglia, lui, i miei amici, ed ora che sono ad un passo dalla realizzazione del mio più grande desiderio, non sopporto l'idea di vedermelo strappare via così. > Chiarii, lanciandogli un'occhiata.

< Allora, perché piangi? > Raccolse una lacrima, scivolatami sul mento.

Tirai su col naso e mi venne voglia di mettermi a ridere per l'assurdità di quella situazione.

< Perché so che mi mancherà come l'aria, che sarà difficile andare avanti, adesso che mi ero abituata alla sua presenza, che non sarà più lo stesso... > Mi tremò la voce e mi interruppi, cercando di trattenere altre lacrime, alzando gli occhi al soffitto.

< Ma tu sei sicura che sia quello che vuoi, no? > Mi voltai verso di lui.

< Sì... io... sì, ne sono sicura. > Risposi, guardandolo negli occhi.

< Bene, perché è questo l'importante, no? > Già, era quello l'importante, aveva ragione, però... c'era qualcosa di stonato in tutta quella faccenda, anche se non riuscivo ancora a capire cosa.

Forse, era il fatto che quella era la prima chiacchierata che facevo con Arthur da quando mi aveva parlato della sua cotta per me; forse, era il fatto che non avevamo ancora discusso dei suoi veri sentimenti nei miei confronti; forse, era il fatto che non mi andava di parlare di Robert con lui, anche se era uno dei miei migliori amici.

< Tu... ehm... io ti piaccio ancora, vero? > Arrossii, abbassando lo sguardo sulle mie mani.

Lui si schiarì la voce e sospirò, come se dovesse cominciare un lungo discorso.

< Non sarei la scelta migliore per te, in questo momento, Candice, lo sai, vero? Ti faresti soltanto del male... > Rispose.

< No! Io non... non volevo intendere questo... > Alzai lo sguardo sul suo viso, scuotendo la testa. Ora che aveva anche frainteso la mia domanda, sarebbe stato ancora più imbarazzante parlarne.

< E' solo che... ho fatto un sogno qualche settimana fa; era il giorno dell'esame di sbarramento ed eravamo andati entrambi a fare il tifo per gli altri. Poi, abbiamo cominciato a litigare e tu continuavi ad accusarmi del fatto che non mi rendevo conto che Robert mi stesse soltanto usando e manipolando, decidendo al mio posto e che tu eri innamorato davvero di me ed io... insomma, non l'avevo mai capito. > Continuai, tutta d'un fiato, prima che potessi perdere il coraggio.

< E' stato solo un sogno, perché pensi che sia così importante? > Mi domandò, arrossendo appena.

Feci spallucce.

< Nei sogni si cela sempre un po' di verità, perciò ho pensato che magari quelle cose le pensavi sul serio, che non mi avevi detto niente per non ferirmi. In fondo, da quando mi hai parlato dei sentimenti che nutri nei miei confronti, le cose tra di noi sono cambiate: se ci troviamo da soli non siamo mai a nostro agio come un tempo, non chiacchieriamo più da allora, a malapena ci scambiamo qualche parola durante gli intervalli... siamo più distanti, ecco. > Spiegai, torturando una piega dei miei jeans.

< E pensi che questo sia successo perché non approvavo il tuo rapporto con Robert? > Era più un'affermazione che una domanda vera e propria, ma io annuii lo stesso.

< Candice, tu lo ami, come potrei non approvare una relazione che ti rende felice? Da quando hai ripreso a frequentarlo, non fai altro che sorridere; persino i muri hanno capito che lui ti rende felice, che è quello che hai sempre desiderato. E poi, ti ha lasciata scegliere, anche se con qualche riserva, anche se ti ha sempre posto di fronte al fatto compiuto; ma lo capisco, perché quando ami davvero una persona, vorresti tenerla stretta a te per sempre e vorresti fare sempre la cosa giusta per non lasciarla scappare, e si prendono decisioni per entrambi, ma solo perché non sopporteresti l'idea di sentirla dire no. E' da egoisti, forse, ma l'amore è anche un po' questo. Robert ti ha lasciata andare, perché vuole che tu sia felice, perché vuole che tu realizzi tutti i tuoi sogni, e questa è stata l'unica scelta giusta che poteva compiere, e l'ha fatto. Tu hai scelto di lasciarlo per il bene di entrambi, lui te l'ha lasciato fare, perché eri tu a volerlo. In questo, non avrebbe potuto essere meno egoista. > Aveva gli occhi lucidi quando finì di parlare.

Il suo ragionamento non faceva una piega. Probabilmente, per lui era stata la stessa, identica cosa: vedermi con un altro era stato doloroso, ma l'aveva accettato, perché io ero felice, perché mi vedeva sorridere tutti i giorni, perché ero più in forma che mai. Io avevo solo cercato di proteggerlo, ma, come aveva detto Robert la sera precedente, non ne aveva bisogno, perché le sue difese le aveva già erette, ed erano quelle che gli avevano permesso di starmi accanto senza gelosia, senza astio nei confronti di Robert, senza rabbia, anche se questo aveva significato allontanarsi da me.

< Però... io ti piaccio ancora... > Tentennai. Non stavo cercando di provocarlo; volevo soltanto che fosse tutto più chiaro tra di noi, come prima della sua confessione.

< Vuoi che sia sincero? > Annuii alla sua domanda, guardandolo arrossire.

< Da impazzire. > Continuò, abbassando lo sguardo, la voce flebile e imbarazzata.

Sorrisi, catturandogli una mano tra la mia, costringendolo a guardarmi.

< Mi dispiace aver frainteso il tuo comportamento e capisco che sia stata dura, per te, vedermi insieme a Robert, ma sono contenta che tu mi abbia parlato dei tuoi sentimenti. > Era la verità. Arthur era una persona splendida, sotto tutti i punti di vista, ed io gli avevo attribuito pensieri che non gli appartenevano, anche se era avvenuto in un sogno.

Fece spallucce, ricambiando il sorriso e la presa sulla mia mano.

< A me dispiace per come sono andate le cose tra voi. > Gli occhi lucidi, continuò a sorridere ed io mi sentii davvero capita e amata.

Ero fortunata ad avere amici come lui.

< Posso abbracciarti, o è... troppo? > Gli domandai, facendolo ridere.

< Certo che puoi! Prometto di non mangiarti. > Scherzò.

Mi rannicchiai tra le sue braccia calde, sospirando di sollievo, sentendo le sue mani accarezzarmi piano i capelli.

< Sei sicura che le cose tra di voi non possano sistemarsi? So che un bambino comporta enormi sacrifici e responsabilità, ma altrettanti ne comporta restare divisi... > Mormorò.

< Perderei la possibilità di diventare una vera ballerina professionista e non farei altro che rinfacciarglielo per il resto della vita. Non voglio essere la fidanzata perfetta, non è quello a cui miro; voglio essere me stessa e occuparmi personalmente delle conseguenze delle mie decisioni. Non lo biasimo per aver deciso di voler badare a suo figlio; fossi stata in lui, probabilmente avrei fatto lo stesso, ma il bambino non è una mia responsabilità e, per quanto mi faccia male dirlo, non posso essergli madre, non adesso, almeno. > Risposi sincera, separandomi da lui.

< Sai che ti voglio bene e che mi fido di te, perciò non prendertela, ma ti sono stato vicino in questi tre anni e ho visto cosa ha significato per te allontanarti da lui, dirgli addio. Non voglio che tu ti faccia del male. Una ferita auto-inferta provoca più dolore e più rabbia delle altre. > Aveva ragione, ma cos'altro avrei potuto fare? Rimanere con lui, fingere che il fatto di prendermi cura di un bambino non mio mi andasse bene? Continuare a danzare, consapevole che c'era un bambino che dipendeva totalmente da me, da noi, ma che non avrebbe mai visto i suoi genitori, perché entrambi impegnati nel loro lavoro? Lasciarlo crescere con la consapevolezza che lui veniva dopo tutto il resto? Non potevo sopportarlo, e non era quello che voleva Robert, perciò, tanto valeva rinunciare sin dall'inizio. E se Kristen avesse deciso di tenere il bambino, sarebbero stati una famiglia; forse non perfetta, ma pur sempre una famiglia come tutte le altre.

< Cosa dovrei fare? Non posso assumermi una responsabilità più grande di me. Non sono pronta per fare la mamma. > Ammisi arrendevole.

< Solo perché non vuoi, non è detto che tu non sia pronta. Capisco le conseguenze che comporterebbe e capisco anche che non potresti ambire ad un posto all'interno del balletto russo, come hai sempre sognato, ma pensaci. Robert ti ama, così come tu ami lui; ne vale davvero la pena? > Ero colpita dalle sue parole, ma non persuasa.

Rinunciare ai miei sogni per amore. Detta così poteva sembrare una cosa eroica, romantica, da romanzo, ma nella realtà? Non vivevamo in una fiaba e non tutte le storie avevano un lieto fine. Forse, per me e per Robert non ci sarebbe stato un vissero felici e contenti; se lui credeva che fosse stato davvero il destino a farci incontrare, allora perché permetteva che ci separassimo?

Erano trascorse alcune ore da quando avevo lasciato il suo albergo, ma di lui nessuna traccia. Non un messaggio, non una chiamata. Non che me l'aspettassi, considerato che ero stata io a dirgli che, in quel modo, ci saremmo soltanto fatti ancora più male.

< Comunque, te la senti di venire a lezione? Posso trovare una scusa... > Lo interruppi. Non potevo permettermi assenze.

< Sì, certo, ti raggiungo subito. > Annuii, accompagnandolo alla porta.

Mi salutò con un veloce bacio sulla guancia e scomparve, correndo, nella sua stanza, qualche porta più in là della mia.

Dovevo cambiarmi e preparare il borsone. Lo svuotai da tutto quello che avevo recuperato nella stanza di Robert, lanciando i vestiti nel cesto della biancheria sporca, mettendo ordine tra le spazzole nel cassetto del piccolo armadio in bagno, sistemando il resto nei diversi scomparti della scrivania.

Indossai la tuta e mi sciacquai il viso. Infilai nel borsone le scarpette, le mezze punte, la calzamaglia, il tutù, un asciugamano, un pettine e qualche elastico per capelli.

Stavo cercando di sistemare i capelli in una crocchia, davanti allo specchio, quando il cellulare squillò, facendomi sussultare.

Lo recuperai dal letto con la tachicardia, timorosa di sapere chi fosse. Mi morsi l'interno di una guancia con così tanta forza, quando lessi il suo nome sullo schermo, che sentii il sapore del sangue in bocca, maledicendomi l'istante successivo.

Sapevo che non mi avrebbe dato retta, sapevo che avrebbe chiamato.

Risposi al quarto squillo, il cuore in gola.

< Candice, ascolta, lo so che avevi detto che sarebbe stato meglio non sentirci, né vederci, ma è un'emergenza. > Respirava così affannosamente, che per un attimo temetti che stesse male.

< Cos'è successo? > Mi lasciai cadere sul letto, preoccupata.

< Kristen. Mi hanno chiamato dall'ospedale e mi hanno chiesto di recarmi lì il più in fretta possibile. > Ora capivo il motivo del suo affanno: stava correndo.

< Dove sei? > Gli chiesi, la testa che già cercava una scusa per assentarmi dalla lezione. Non potevo lasciarlo solo, non me lo sarei mai perdonata, senza contare che aveva solo me a New York.

< Sono appena entrato nel parcheggio del Saint Vincent's. > Rispose.

< D'accordo, ti raggiungo subito. > Chiusi la telefonata, senza neanche attendere che mi rispondesse e, afferrato il cappotto, mi precipitai alla porta di Arthur, bussando con forza.

< Candice! Che succede? > Strabuzzò gli occhi: dovevo essere pallida come un lenzuolo.

< C'è un'emergenza, Kristen è in ospedale e Robert mi ha chiamata per avvisarmi, gli hanno detto di raggiungere l'ospedale il prima possibile, perciò, credo che ci sia qualche problema. Puoi ancora inventare una scusa per me, per la lezione? > Non riuscivo a stare ferma, ero impaziente e preoccupata.

< Certo, sì, nessun problema. Vuoi che ti accompagni? Mi sembri molto scossa... > Notò.

< No, no, sto bene, prenderò un taxi e ti terrò aggiornato, d'accordo? > Mi allontanai in direzione delle scale, quasi urlando per farmi sentire.

< Ok. > Sentii rispondermi.

Fermai un taxi alla velocità della luce e chiesi al tassista di fare il più in fretta possibile. Erano soltanto le due del pomeriggio e, fortunatamente, nonostante la pioggia, non c'era molto traffico; arrivammo in meno di due minuti.

Di Robert nessuna traccia: probabilmente, si era già recato in reparto.

Quasi corsi in direzione del banco informazioni, spaventando la centralinista.

< Sa dirmi il reparto della signorina Stewart? > Le domandai in fretta.

< Lei chi è, mi scusi? > Mi guardò con aria sospetta.

< Un'amica, una cara amica. > Ok, bugia, ma cosa avrei potuto risponderle? Sono l'ex del suo ex-fidanzato? Non mi avrebbe mai concesso l'informazione alla quale anelavo.

< Quarto piano. > Rispose, continuando ad osservarmi critica.

< Grazie mille! > Corsi verso il primo ascensore disponibile, schiacciando il tasto corrispondente.

Non appena le porte si aprirono nel reparto maternità, individuai la figura di Robert seduto di fronte ad uno dei distributori automatici di bibite, lo sguardo basso, i gomiti sulle ginocchia.

< Ehi. > Richiamai la sua attenzione, riprendendo fiato.

Alzò lo sguardo su di me, un misto di preoccupazione e sconfitta.

Mi sedetti accanto a lui.

< Sei riuscito a capire cos'è successo? > Gli chiesi, temendo la risposta.

< Aveva dei forti dolori e perdite di sangue... dovranno far nascere il bambino... e ho paura che qualcosa vada storta... > Spiegò velocemente.

< Vedrai che andrà tutto bene. Staranno bene, entrambi. > Cercai di rassicurarlo, accarezzandogli i capelli.

Incrociò i miei occhi e rimase in silenzio per qualche istante, facendomi arrossire.

< Grazie per essere corsa qui. > Mormorò.

Feci spallucce.

< Non potevo lasciarti solo in una situazione del genere. > Risposi con sincerità. Lui avrebbe fatto la stessa cosa per me.

Annuì pensieroso, sospirando.

< Ehi, si sistemerà tutto, te lo prometto. > Poggiai la testa sulla sua spalla, incastrando il braccio nel suo, per essergli più vicina.

< Anche tra di noi? > Sussurrò, pieno di speranza e aspettativa.

< Robert... > Cominciai, ma lui mi interruppe prima che potessi continuare la frase.

< Lo so, scusa, sono uno stupido... è solo che non riesco a capacitarmi della cosa; sembrava tutto così semplice, qualche settimana fa... > Scosse il capo, come a liberarsi di un pensiero troppo doloroso.

< Non è stato mai semplice, fin da quando Kristen ti ha detto di essere incinta. Siamo stati insieme e, credimi, sono stati i mesi più belli che io abbia trascorso a New York, ma non possiamo ignorare tutto il resto. > Osservai.

< Potremmo provare. So quanto è importante la danza per te, e io non voglio che tu rinunci al tuo sogno, ma noi potremmo seguirti, ovunque; potrei assentarmi dalle scene per un po', prendermi cura del bambino mentre tu sei via... > Voleva farmi capire che era fattibile, che non era impossibile come avevo sempre pensato e, in fondo, vista da quella prospettiva, la situazione non era così terribile: io avrei continuato a danzare e, anche se questo avrebbe significato assumermi la responsabilità di un bambino, pensare a più cose contemporaneamente, non mi avrebbe precluso la carriera che sognavo da bambina. Robert poteva smettere i suoi panni d'attore per un po' e aiutarmi. E poi, forse Arthur aveva ragione: ero convinta di non essere pronta a fare la mamma, soltanto perché non volevo. I bambini mi piacevano, ne avevo sempre desiderato uno, specialmente da quando avevo cominciato a fare da baby-sitter a Joshua e, anche se sapevo che sarebbe stato diverso, anche se sapevo che non sarebbe bastato amare i bambini per fare la madre, forse dovevo concedermi il beneficio del dubbio.

Avevo le capacità e la forza per essere entrambe le cose, ne ero sicura.

Osservai i suoi occhi lucidi e la sua espressione fiduciosa, in attesa di una mia risposta.

Era assurdo cambiare idea dopo neanche ventiquattro ore, ma la verità era che amavo Robert, che non sarei stata capace di innamorarmi di nessun altro, dopo di lui, che avrei sempre avuto il rimorso di come sarebbe potuta essere una vita con lui, avere una famiglia. Lasciandolo, avevo soltanto messo a tacere uno dei problemi, quello che riguardava la mia carriera di ballerina: non avrei smesso di ballare, sarei stata libera di viaggiare per il mondo, di fare audizioni, di partecipare a spettacoli; però, probabilmente, il rimorso più grande sarebbe stato quello di aver lasciar andare l'unica persona che mi amava per quella che ero, che aveva imparato a sostenermi in ogni situazione, che era cambiato così tanto, che spesso me ne stupivo anch'io.

Mi stava offrendo quello che avevo sempre desiderato: amore incondizionato, possibilità di non rinunciare ai miei sogni, sostegno e fiducia.

Ero stata così cieca, da non averlo compreso prima?

Forse, quello che diceva sempre di me, che anteponevo la danza a tutto il resto, non era poi così distante dalla verità, solo che non avevo mai voluto ammetterlo.

< Io... > Tentennai, sopraffatta da tutti quei pensieri, torturandomi le mani e allontanandomi appena da lui.

Dovevo seguire il mio cuore, e in quel momento, la risposta che mi stava suggerendo era inequivocabile.

< Io credo che... potremmo provare... > Mormorai, arrossendo come una sciocca.

< Ne sei sicura? > Strabuzzò gli occhi, sorpreso e incredulo.

< Sì... io... sì, ne sono sicura. > Sorrisi, capendo di aver fatto la scelta giusta nel momento in cui vidi le lacrime riempirgli gli occhi e il sorriso diventare ampio e sincero.

Mi abbracciò stretta, accarezzandomi i capelli.

Avrei potuto lasciar perdere, voltarmi e dire a me stessa di non pensarci, che presto avrei trovato qualcun altro di cui innamorarmi; ma la verità era che non volevo perderlo, perché c'erano occasioni che non si potevano sprecare e non valeva soltanto per la danza.

Se pensavo che soltanto poche ore prima stavo piangendo per la fine della nostra storia, mi sentivo piuttosto ridicola.

< Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo... > Continuò a ripetermi nell'orecchio, la voce dolce.

Arrossii e lo strinsi più forte a me.

< Ti amo anch'io. > Mormorai in risposta, prima che un medico ci costringesse a separarci, schiarendosi la voce.

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Capitolo 25
*** Lucky ***


Buonasera a tutte! <3

Dunque, dunque, dunque... queste note di inizio capitolo saranno un po' lunghe, perché è l'ultimo capitolo ufficiale della Ff, e ci sono diverse persone da ringraziare. Non voglio farlo nell'Epilogo, perché, come sa chi ha seguito altre mie storie, i miei Epiloghi sono piuttosto brevi e ho paura di far diventare le note il centro di esso, piuttosto che l'Epilogo stesso, quindi preferisco spostare tutto all'ultimo capitolo, in modo da avere una pagina più libera per la vera fine.

Innanzitutto, mi scuso per quest'immenso ritardo. Sono stata piuttosto presa con l'università e con la preparazione di un esame che, fino a poco tempo fa, credevo di riuscire a dare il 10 Aprile, e che solo una settimana fa o poco più, mi sono resa conto di essere impossibilitata a studiare tutta la mole di dispense assegnateci per quella data, tanto che l'ho rimandato al 15 Maggio. Lo stress per questo esame ha un po' raffreddato la mia ispirazione, tanto che non sono riuscita a scrivere neanche una parola per due settimane intere. Poi, quando ho avuto la situazione più sotto controllo, tutto è affiorato, dando vita a quest'ultimo capitolo, che spero gradirete.

Non ho nulla da anticiparvi al riguardo, perché non si tratta altro che di sbrogliare i nodi della matassa, e se vi anticipassi qualcosa, rovinerei il finale a tutti.

Tuttavia, ho qualcuno da ringraziare, partendo da coloro che hanno inserito la Ff tra le preferite:

1 - annaleesa [Contatta]
2 - EllyBelly [Contatta]
3 - ire1920 [Contatta]
4 - Lesley_Gore [Contatta]
5 - Minelli [Contatta]
6 - pallina932 [Contatta]
7 - Two girls and a heart [Contatta]
8 - _DreamingLondon_ [Contatta]
9 - _screps_ [Contatta]

Coloro che hanno inserito la Ff tra le seguite:

1 - 96giuggi [Contatta]
2 - allie_c [Contatta]
3 - Alvarez_RT [Contatta]
4 - antanasia [Contatta]
5 - anto32 [Contatta]
6 - barbystew [Contatta]
7 - cee [Contatta]
8 - danybor [Contatta]
9 - elibru [Contatta]
10 - epril68 [Contatta]
11 - eri99 [Contatta]
12 - francytwilighter80 [Contatta]
13 - frassrock [Contatta]
14 - Gracevelyn [Contatta]
15 - Lilith82 [Contatta]
16 - Love_in_London_night [Contatta]
17 - luna09 [Contatta]
18 - MalvyCojan [Contatta]
19 - maria concetta [Contatta]
20 - Midnight_moon [Contatta]
21 - paty87 [Contatta]
22 - pinkprincess [Contatta]
23 - S o p h i e [Contatta]
24 - shasca [Contatta]
25 - valina_babi [Contatta]
26 - viva4ever [Contatta]
27 - WeloveSneakers [Contatta]
28 - _Cloud_of_tears_ [Contatta]

E colei che l'ha inserita tra le ricordate:

1 - Deby14 [Contatta]

 

GRAZIE DI CUORE A TUTTE! <3 Davvero, se non mi aveste fatto capire quanto tenevate a questa Ff, probabilmente non sarei andata avanti, l'avrei abbandonata, perlomeno sul web; invece, il vostro inserirla tra le seguite/preferite/da ricordare, mi ha fatto capire che, in fondo, ne valeva la pena, perciò, ancora GRAZIE!

 

Ringrazio di cuore anche tutte le persone che hanno recensito, senza distinzioni: quelli che hanno recensito una sola volta, che hanno recensito un solo capitolo, che li hanno recensiti tutti, il cui commento era troppo breve per apparire tra le recensioni, ritrovandolo nei messaggi privati... tutti, nessuno escluso <3 Vale lo stesso discorso di sopra; ho sempre considerato le recensioni importanti per migliorare, per avere una maggiore stima di sé, per capire cosa va e cosa non va nella propria storia e credo che tutte le recensioni ci insegnino qualcosa. Io, personalmente, dopo ogni Ff scritta, mi sono accorta di aver appreso moltissimo da ogni recensioni che mi era stata lasciata e ho sempre fatto tesoro di tutte le parole spese per me o per le mie Ff: GRAZIE MILLE ANCHE A VOI! *.*

 

Ringrazio anche tutti coloro che hanno soltanto dato un'occhiata alla Ff, e che sono stati tantissimi *.* GRAZIE!

Per concludere, ancora una volta, mi sembra doveroso ringraziare Carla, soprattutto per quest'ultimo capitolo, perché l'ho riempita di domande e lei, con gentilezza e pazienza mi ha sempre risposto e ha sempre cercato di aiutarmi per il fattore medico della vicenda *.* GRAZIE! *.*

 

Come ho spesse volte ripetuto, in Candice c'è una grande parte di me, forse più che in tutti gli altri personaggi delle mie Ff, e mi mancherà scrivere di lei e di Robert, così come di Arthur, di Sofia, e del nuovo arrivato che, purtroppo, ha poco spazio per esprimersi; ma, come sempre, tutti loro rimarranno nel mio cuore e avranno un loro posticino speciale, così come spero sarà anche per voi che mi avete seguito in questa ennesima avventura.

Prima di lasciarvi al capitolo, mi sembra doverosa una comunicazione ufficiale: ho una nuova Ff su Robert che non vede l'ora di essere pubblicata e che avrà come titolo Three Stones. Ne ho parlato nel gruppo dedicato alle mie storie (e che vi ricordo essere questo: You tought you know me; è un gruppo privato, perciò dovete richiedermi l'accesso, ma non temete, accetto volentieri tutti coloro che me lo chiederanno via messaggio privato qui, su EFP, o su Facebook, nel mio profilo autore o personale), ma per chi non ne fa parte, aggiungo qui la trama ufficiale della nuova Ff:

Solephine non ha mai smesso di credere nel futuro.
Quando la incontra, Robert capisce che il suo futuro è lei.
Stanno per coronare il loro primo anno di matrimonio con la nascita di un bambino, quando Solephine 
rimane coinvolta in un incidente stradale, entrando in coma.
Robert si trova in una situazione in cui non ha mai pensato di potersi trovare: solo, costretto a crescere un bambino che non sa se vedrà mai la mamma, ossessionato dal pensiero che Sole possa non svegliarsi più, troppe cose da fare, mille altre da gestire, emozioni da tenere a freno.

(dal Prologo)

"Non potevo sapere che avrei fatto bene ad essere spaventato; non sapevo che, quando il telefono era squillato ed io avevo letto il nome di mia madre, la mia vita non sarebbe stata più la stessa. D’altronde, come potevo?"

 

Il prologo sarà pubblicato in concomitanza con la pubblicazione dell'Epilogo di "C'era una stella...", cosa che avverrà, all'incirca, nella metà della prossima settimana. Sarei molto felice se voleste seguirmi anche nel prossimo progetto, molto più delicato di quest'ultimo e a cui tengo molto.

 

La finisco di ciarlare e vi lascio, finalmente, al capitolo :)

 

Buon fine settimana a tutti e, come sempre...

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Where The Lines Overlap-Paramore

 

 

 

 

 

 

< Lei è il signor Pattinson? > Chiese il dottore con fare professionale, lanciandomi uno sguardo indifferente, la cartella clinica in una mano e una biro nell'altra.

< Sì, sono io. > Rispose Robert, alzandosi. 

Lo imitai, ma avevo come l'impressione che il medico non gradisse affatto la mia presenza.

< Le dispiace se... parliamo in privato? > Mi guardò ancora, così come Robert, che aveva seguito il suo sguardo.

< Lei è la mia fidanzata, voglio che ascolti anche lei. > Arrossii, la mia mano, mossa da volontà propria, incontrò la sua, stringendola.

< D'accordo, allora. La signorina Stewart è fuori pericolo, così come il neonato. Dovrà rimanere qualche settimana in incubatrice, ma sembrano non esserci altre complicanze. E' stata fortunata. > Sorrise appena e sentii Robert rilassarsi e sospirare di sollievo, come se fosse stato in apnea per tutto quel tempo.

Incrociai i suoi occhi lucidi e il suo sorriso felice e non potei fare a meno di ricambiare, stringendomi a lui, mormorandogli un flebile te l'avevo detto che sarebbe andato tutto bene.

< Possiamo vederli? > Fu la prima cosa che Robert domandò, scrutando ansioso le stanze di fronte a noi.

< La signorina sta riposando, dovrebbe svegliarsi tra qualche ora. Chiederò all'infermiera di accompagnarvi dal bambino. > Si defilò con un cenno, mentre noi rimanemmo lì, fermi, attoniti.

< Ho sempre creduto dovesse essere una femmina. > Furono le prime cose che Robert disse, quando l'infermiera ci condusse nella sala delle incubatrici. Avevamo dovuto indossare un camice verde, come quello dei chirurghi, che ci facevano assomigliare a degli extra-terrestri, tanto che dovetti trattenermi dal ridere in faccia a Robert, quando l'avevo visto indossare il suo. Certo, non dovevo essere più presentabile di lui.

Avevo il cuore che doveva star registrando i mille battiti al secondo. Avvertivo il suo costante tum-tum perfino nelle orecchie, in ogni centimetro di pelle, in ogni cellula, come mi era capitato soltanto con Robert. Mi tremavano le mani e le gambe e avevo la pelle d'oca, la salivazione azzerata e un aspetto orribile, neanche fossi lì per vedere mio figlio.

Mentre l'infermiera ci conduceva all'incubatrice giusta, afferrai la mano di Robert, stringendola più che potevo.

< Tutto bene? > Mi scrutò preoccupato. Lui era il ritratto della felicità e della gioia ed io, l'emulazione blanda di uno zombie. 

Annuii soltanto, riportando l'attenzione ai passi che stavamo compiendo.

< Va tutto bene. Ti adorerà. > Mi sorrise incoraggiante ed io credetti di stare per svenire, perché, era un'assurdità, ma non mi sentivo nel posto giusto, e non perché fossi in ospedale, o in una sala piena di incubatrici vuote, ma perché avrebbe dovuto esserci Kristen al mio posto, in fondo, era lei la vera madre e, anche se mi sarei occupata io del bambino, o almeno, ci avrei provato, mi sembrava di stare usurpando un diritto, di star infrangendo qualche legge che, me ne rendevo perfettamente conto, esisteva solo nella mia testa.

< Forse non dovrei vederlo... > Mi fermai, slegando la mano dalla sua.

< N-non vuoi? Hai... cambiato idea? > Si girò a guardarmi, perplesso.

< No! No, non ho cambiato idea, solo che... dovrebbe essere Kristen a farlo per prima. E' lei che l'ha dato al mondo, no? > Mi torturai le mani, arrossendo come una sciocca.

< Credi che vorrebbe farlo? Ha detto di non volersi occupare di lui, perché dovrebbe vederlo? > Mi chiese, improvvisamente stizzito, deluso.

< Non lo so... magari ha cambiato idea... > Ipotizzai.

< Ti prenderai cura tu di lui, Candice, non Kristen. Ci prenderemo cura di lui, insieme. Credi non sia abbastanza per avere il diritto di vederlo? > Mi si avvicinò, lo sguardo dolce e felice di poco prima.

Forse aveva ragione lui. Forse, Kristen non avrebbe voluto vederlo.

Mi sforzai di sorridergli, ma a lui parve bastare, perché mi afferrò nuovamente la mano, guidandomi verso l'infermiera che, nel frattempo, paziente e sorridente, si era fermata nei pressi dell'incubatrice giusta, attendendoci con aspettativa.

Quando abbassai lo sguardo, conscia che non avrei potuto cercare certo di rivedere me nei lineamenti del bambino, la prima cosa che notai fu la massa informe e piuttosto consistente di capelli biondi che sembravano avere vita propria.

Sorrisi, cercando di trattenere le lacrime.

Per essere un bambino nato con quattro settimane d'anticipo, non era affatto gracile come mi sarei aspettata.

Aveva gli occhi verdi della madre, e la prima cosa che fece, fu cominciare a piangere.

< Non riesco a credere che sia mio figlio... > Robert era stupito, meravigliato e sembrava non essersi neanche accorto che, nel frattempo, il bambino era stato sollevato nelle braccia dell'infermiera per essere cullato.

< Vuole tenerlo in braccio? > Gli domandò, ma lui parve non sentirla neanche, tanto che fui io a scuoterlo appena.

Osservò le braccia tese dell'infermiera e poi mi rivolse uno sguardo spaventato, a cui io risposi con un sorriso e un cenno.

L'infermiera depositò il fagottino azzurro tra le sue braccia con attenzione, spiegandogli che, se avesse voluto, avrebbe potuto tenerlo stretto a sé, come in un marsupio, affinché il bambino avvertisse il calore del suo corpo, stabilizzando la sua temperatura corporea. In questo modo, non avrebbe avuto bisogno dell'incubatrice.

Robert seguì le sue istruzioni con un certo impaccio e, quando si sentì abbastanza stabile e sicuro, si voltò verso di me, facendomi notare come il bambino si fosse immediatamente calmato, tra le sue braccia.

Sorrisi e mi avvicinai.

Avevo paura di fargli male, così mi azzardai soltanto a carezzargli una mano, così piccola e fragile che temevo si sarebbe spezzata a contatto con la mia.

< E' bellissimo, Robert. > Mormorai sincera.

< Dovremmo scegliere un nome. > Sussurrò in risposta.

Un'altra di quelle cose per cui avrei volentieri ceduto il posto a qualcun'altra. Come potevo scegliere il nome ad un bambino non mio? 

Forse avrei dovuto semplicemente smetterla di vederlo come un'entità a se stante, come qualcosa che non mi avrebbe mai riguardata, di cui non mi sarei addossata nessuna responsabilità. Non l'avevo portato in grembo per nove mesi, non l'avevo sentito scalciare e non avevo pianto al momento della prima ecografia, ma avrebbe fatto comunque parte della mia famiglia, della nostra famiglia, se tutto sarebbe andato per il verso giusto.

Mi rilassai, riflettendo sul fatto che, in fondo, non poteva essere così difficile abituarsi all'idea. Dopotutto, avevo sempre saputo che Kristen era incinta e che, prima o poi, avrebbe partorito, anche se la mia mente aveva cercato di rimuovere questo dettaglio, permettendomi di non concentrarmici troppo.

< Proposte? > Gli chiesi, alzando lo sguardo su di lui.

Fece spallucce, ricambiando con un'occhiata pensierosa.

< Che ne dici di Bentley? > Era un nome che mi era sempre piaciuto, fin da quando una vecchia amica dei miei genitori era venuta a trovarci, portando con sé anche il piccolo fagottino che aveva partorito pochi mesi prima, presentandocelo come Bentley Smith. E poi, non era un nome molto comune.

Robert sembrò pensarci un po' su, indeciso. 

< E' un bel nome. > Dichiarò infine, carezzando gentilmente la testa del bambino.

< E poi, significare radura, il che si adatta perfettamente ai suoi occhi verdi. > Aggiunsi.

< Si adatta perfettamente anche a noi. > Mi sorrise. < Voglio dire, la radura è un luogo isolato, protetto, nascosto, bellissimo; forse è quello di cui abbiamo bisogno, un luogo dove poterci rifugiare di tanto in tanto e Bentley potrebbe esserlo. > Chiarì, notando la mia espressione perplessa.

< Allora, è deciso? Lo chiameremo Bentley? > Quasi saltellai, entusiasta.

< Ma hai almeno ascoltato una singola parola di quello che ho detto? > Sbuffò, a metà tra l'indignato e il divertito.

< Certo che sì! > Sbottai, offesa, incrociando le braccia al petto. < Bentley potrebbe essere il nostro rifugio, no? > Continuai, alzando gli occhi al cielo.

< Sì, beh... qualcosa del genere. Vuoi prenderlo in braccio? > Mi tese il bambino con attenzione, anche se io lo stavo praticamente perforando con il mio sguardo terrorizzato. Avevo avuto a che fare con diversi neonati a Londra, in particolar modo quando frequentavo il liceo e tentavo di guadagnarmi dei soldi che fossero solo miei, facendo la baby-sitter per alcuni amici dei miei genitori, senza contare che avevo badato a Joshua, praticamente da subito, non appena Selen era stata risucchiata dagli impegni dell'Accademia; eppure, in quel momento, mi sentivo così inesperta, così incapace, che tremai quando l'infermiera mi aiutò a sistemarlo nella stessa posizione in cui Robert l'aveva tenuto stretto a sé fino a quel momento. Avevo paura di romperlo, di fargli male, come quando avevo carezzato la sua mano.

Lanciai uno sguardo a Robert, che mi sorrise e mi accarezzò i capelli, avvicinandomisi per baciarmi una tempia.

< Sarai una madre perfetta, me lo sento. > Mi sussurrò in un orecchio.

< Lo credi davvero? > Alzai gli occhi su di lui, speranzosa.

Annuì.

< Ti ho osservata con Joshua... ho capito subito perché la madre avesse deciso di affidarlo a te. > Ricambiai il suo sorriso, osservando Bentley chiudere gli occhi e addormentarsi.

Come poteva, Kristen rinunciare a tutto questo?

 

Qualche giorno dopo, terminate le prove per il Saggio, sempre più imminente, mi ero diretta in ospedale. Avevo attraversato l'atrio e diviso l'ascensore con qualche infermiere, fino a ritrovarmi al quarto piano, come di consueto. Credevo di trovare Robert nella sala delle incubatrici, come l'avevo soprannominata io, Bentley in braccio come al solito, invece non era lì e Bentley giaceva sveglio nella sua incubatrice, solo. Rivolse gli occhi verso di me, quando mi vide ed io sorrisi, tamburellando le dita contro la superficie liscia della struttura.

Dal giorno del parto, non avevo più pensato a Kristen. Sapevo che Robert era andato a farle visita, perché me ne aveva parlato, ma io non avevo fatto altro che annuire e trovarmi d'accordo con lui, perché, in fondo, cosa avrebbe dovuto fare, ignorarla? L'avrebbero dimessa a breve, il tempo di ricevere i risultati delle nuove analisi. Avevo chiesto di lei a Robert, quando aveva fatto ritorno nella sua camera d'albergo, e lui aveva semplicemente scrollato le spalle, rispondendomi che si era ripresa bene e che non c'erano state ulteriori complicazioni, ma avevo notato dal suo sguardo che c'era qualcosa di più, qualcosa che non voleva dirmi. Non avevo insistito e presa dalle prove e dalle visite a Bentley in ospedale, mi ero dimenticata di lei.

Quella sera, però, dopo aver coccolato Bentley e ringraziato l'infermiera di turno, in cerca di Robert, ero approdata nei pressi della sua stanza. La porta era aperta, ma non avevo avuto il coraggio di entrare, temendo di non trovarvi Robert e di attirarmi, ancora una volta, le sue ire.

Tesi le orecchie, pronta a carpire il suono di qualsiasi voce presente.

< Sei sicuro che voglia farlo davvero? Insomma, si sta prendendo una grande responsabilità... > Era la voce di Kristen e sembrava... preoccupata?

< Possiamo provarci e se qualcosa non dovesse andare per il verso giusto, potrò sempre occuparmene io. > La voce di Robert era di poco più alta di un sussurro, tanto che faticai a comprendere tutte le parole.

< Il bambino com'è? Mi somiglia? > Stava sorridendo, riuscivo ad intuirlo dal modo con cui aveva formulato la domanda.

< Ha i tuoi occhi e il tuo naso, fortunatamente. > Risero entrambi.

Mi si strinse lo stomaco al pensiero che, in fondo, Bentley non sarebbe mai stato solo mio figlio. Che l'avesse frequentata o no, che fosse scomparsa dalla sua vita o meno, Kristen sarebbe comunque rimasta la sua madre biologica e io non potevo farci niente.

< Puoi vederlo, se vuoi. > Le propose Robert e avvertii distintamente il fruscio concitato delle lenzuola.

< No, no, non è il caso, mi pentirei della mia scelta, ne sono sicura. > La sua voce mi raggiunse ovattata.

< Rimarrà sempre tuo figlio, Kristen, che tu lo voglia o no. Hai fatto la tua scelta, come potresti cambiare idea? > Sapevo che era sbagliato origliare, così come sapevo che non avrei dovuto intromettermi, ma il corridoio che conduceva alle altre stanze era semi-vuoto e nessuno aveva fatto caso a me.

< Non lo so, ma non sono pronta. > Sospirò. < Lei gli vorrà bene, vero? > Continuò dopo qualche istante.

Mi sentii morire, come se la terra si stesse aprendo sotto i miei piedi. Non avrei saputo spiegarne il motivo, ma il cuore aveva preso a pulsare fin nelle orecchie e avevo l'affanno, come se avessi corso.

Ero così spaventata di quello che Kristen pensava di me? O era la risposta di Robert quella che temevo?

< Candice sarà una madre meravigliosa per lui, credimi. > La sua risposta non mi permise di rilassarmi.

< E la sua carriera di ballerina? > Perché all'improvviso era così curiosa di cosa avrei fatto?

< La seguiremo ovunque sceglierà di andare; in fondo, è suo diritto perseguire i suoi sogni e non sarò di certo io ad impedirglielo. > Doveva essersi alzato, perché avevo avvertito il grattare di una sedia.

< Grazie per i fiori e per la visita, non merito la tua gentilezza. > Mi sentivo una ladra a rimanere così, nascosta, ad origliare, neanche si fosse trattato di un'investigazione dell'FBI.

Raddrizzai le spalle e finsi naturalezza, pronta ad entrare in scena. Doveva essere la mia specialità, in fondo, calcare il palcoscenico.

Tempismo perfetto: non feci neanche in tempo a raggiungere la porta, per bussare educatamente, nonostante fosse aperta, che venni travolta da Robert, tanto che, se non fosse stato per la sua prontezza di riflessi, sarei sicuramente rovinata a terra.

< Candice! Dove scappi? > Sorrise, scompigliandosi i capelli, aggrottando le sopracciglia.

< Ti stavo cercando. Non eri da Bentley, così ho pensato di dare un'occhiata in giro... > Arrossii, colta in flagrante.

Kristen si schiarì la voce per richiamare l'attenzione ed entrambi ci voltammo verso di lei, curiosi.

< Robert, potresti lasciarci un minuto da sole? > Domandò con fare cortese.

Robert sembrò registrare con qualche secondo di ritardo la richiesta, tanto che rimase stupito a fissare Kristen per quelle che a me parvero ore. L'istante successivo, mi afferrò un polso, facendomi scontrare con il suo petto, abbracciandomi brevemente.

< Ti aspetto fuori. > Mormorò, accarezzandomi i capelli, prima di uscire dalla stanza e chiudere la porta, rivolgendo un ultimo sorriso a Kristen.

Rimasi ferma, immobile, come una statua di ghiaccio, fissando l'armadio bianco di fronte a me, ignorando lo sguardo della ragazza a pochi metri da me, che mi stava perforando la schiena.

< Siediti. > Mi sollecitò alla fine.

Quando mi voltai, individuando la sedia accanto a lei, la sua espressione era rilassata e sorridente, niente a che vedere con quella brusca e arrabbiata di diversi mesi prima.

Mi accomodai con sospetto, come se, da un momento all'altro, l'avrei vista lanciarmi addosso qualcosa e cominciare ad urlare come una pazza.

< Puoi stare tranquilla, non ho intenzione di lanciarti quel vaso di fiori. > Rise appena, seguendo il mio sguardo, puntato sul vaso di fiori che, presumibilmente, le aveva regalato Robert.

Mi sforzai di ridere anch'io, convincendomi che sarebbe stato assurdo, ma ne risultò soltanto uno sfogo nervoso, falso e deludente.

< Devo chiederti scusa per come ti ho trattata qualche mese fa, quando tu e Robert siete venuti a trovarmi. Ero arrabbiata, furiosa perché mi sarei ritrovata a crescere un bambino da sola, senza nessun aiuto. Tuttavia, non avevo il diritto di offenderti, di giudicarti senza conoscerti e soprattutto di mancarti di rispetto, perciò ti chiedo scusa. > Esordì, guardandomi negli occhi senza nessuna esitazione.

Annuii, incapace di dire altro.

< Robert mi ha parlato un po' di te in questi giorni e trovo che sia molto fortunato ad avere accanto un'alleata come te. Abbiamo cercato di costruire qualcosa insieme, tempo fa, credendo che fosse amore, ma lui non ha mai parlato di me come, invece, parla di te. > Distolse lo sguardo dal mio e sorrise appena, scuotendo la testa.

< Probabilmente, ero l'unica ad essere davvero innamorata. Cercavo di tenerlo legata a me con tutte le forze, disperatamente, come un fumatore che cerca le sue sigarette in un momento di stress e, devo essere sincera, ho pensato spesso che una gravidanza sarebbe stata ideale per il mio scopo. > La fissai sbalordita. Cos'era quella, una confessione? Voleva dirmi che, in realtà, aveva progettato di rimanere incinta, così come avevano ipotizzato i miei amici?

< La verità è che non ne ho avuto il coraggio. Robert non era innamorato di me e neanche un bambino avrebbe potuto risolvere la situazione. E' stato un caso. Anzi, credo di poter essere la testimonianza vivente che la pillola, una volta su mille, non fa il suo dovere. > Rise amara, mentre io mi rilassavo contro lo schienale della sedia.

Rimase qualche minuto in silenzio, giocherellando con il bordo del lenzuolo.

< Puoi promettermi una cosa? > Mi fissò, colma di speranza.

< Credo di sì. > Risposi.

< Promettimi che ti prenderai cura di lui, di lui e del bambino, qualsiasi cosa succeda tra di voi. Puoi farlo? > Scrutando i suoi occhi, verdi come quelli di Bentley, capii che era ancora innamorata di Robert, anche se tentava di nasconderlo e che, nonostante tutto, non ero gelosa di lei, o arrabbiata. La capivo, perché, sebbene in maniera diversa, eravamo simili. 

< Certo, te lo prometto. > Sorrisi, cercando di tranquillizzarla.

Mi alzai, pronta ad andare.

< Robert non ha voluto dirmi come avete deciso di chiamarlo. Posso sperare di essere più fortunata con te? > La sua voce mi sorprese a due passi dalla porta, sorridente come poco prima.

< Bentley. > Risposi. In fondo, lo meritava. Aveva messo da parte i suoi sentimenti per permettere a Robert di essere felice.

Annuì, salutandomi con la mano, come una bambina.

Robert si era seduto su una delle sedie di plastica che ci avevano visto protagonisti della nostra riconciliazione, appena qualche giorno prima, e quando alzò lo sguardo su di me, sorrisi, affrettando il passo per raggiungerlo.

< Tutto bene? > Mi domandò.

< Sì, tutto bene. > Confermai, lasciandomi stringere tra le sue braccia.

< Sei ancora sicura di volere che i tuoi genitori e i miei partecipino al tuo Saggio? > Mi chiese, rifiutandosi di lasciarmi andare.

< Perché non dovrei? > Quasi risi contro la sua camicia azzurra.

< Dovremmo almeno avvisarli che conosceranno il loro primo nipote... > Ponderò.

Prevedevo già una lunghissima chiacchierata con mia madre.

Sospirai rassegnata.

< Temo dovranno farci l'abitudine. > Risposi alla fine.

< Perché? Hai intenzione di cominciare a procreare nell'immediato? > Mi rivolse un'occhiata maliziosa alla quale, come di consueto, arrossii, tirandogli un pizzicotto sul braccio come rimprovero.

< Sei osceno! Siamo in un ospedale! > Borbottai, guardandomi intorno per assicurarmi che nessuno l'avesse sentito.

< Santarellina dei miei stivali... > Mi prese in giro, sollevandomi appena alla sua altezza per baciarmi con trasporto, prima di sospingermi verso l'ascensore.

< Sei scorretto, non vale. > Incrociai le braccia al petto, fintamente arrabbiata.

< In amore e in guerra, tutto è lecito. > Mi scompigliò i capelli, l'aria da saggio dipinta sul viso.

Ricambiai con una linguaccia, sistemandomi la treccia.

< A proposito, prima che me ne dimentichi, devo parlarti di una cosa... > Cominciò, afferrandomi una mano e facendo intrecciare le nostre dita.

< Cosa? > Domandai, curiosa.

< Ho fissato un appuntamento con un'agenzia per vedere una casa. > Lo disse così, semplicemente, come se mi avesse annunciato che avremmo pranzato al McDonald's, piuttosto che al Burger King.

Sgranai gli occhi, presa alla sprovvista.

< Una... c-casa? > Mi venne quasi da ridere per quanto assurda potesse essere la sua affermazione.

< Sì, una casa. Quando Bentley verrà dimesso dall'ospedale, non potremo certo continuare a vivere in una stanza d'albergo, no? Avrà bisogno di una sua stanza, delle sue cose e di certo non potremmo prenderci cura di lui, rimanendo separati. Pensavo che la soluzione migliore fosse vivere insieme. > Spiegò con calma.

Certo, non aveva tutti i torti e, se dovevo essere del tutto sincera, ci avevo pensato anch'io.

< E pensavi di trasferirti qui, a New York? Definitivamente? > Non che mi sembrasse così strano, ma credevo avrebbe quantomeno atteso il parere dei suoi genitori.

< Sì, perché, qualche problema? > Camminammo affiancati, in cerca di un taxi libero, fermandone uno che per poco non ci investì.

< No, non fraintendermi, solo che pensavo volessi parlarne con i tuoi, prima. > Chiarii.

< Io ho già deciso e non saranno le loro opinioni a farmi cambiare idea. > Mi sorrise, sicuro, circondandomi le spalle con un braccio, avvicinandomi a sé per baciarmi i capelli.

< D'accordo. > Accettai. < Ma non mi porterai a vedere una villa per ricconi, vero? > Non che non mi piacessero le mega-ville dei VIP, con giardino, piscina personale, sauna, ma non facevano per me, erano esageratamente esagerate e a me sarebbe bastato un appartamento normale.

< Non ti fidi di me, per caso? > Mi osservò, fintamente triste e deluso.

< No, per niente. > Lo presi in giro, accoccolandomi contro di lui.

< Beh, sono sicuro che ti piacerà. > Rispose.

Il taxi si fermò di fronte ad una delle zone residenziali più chic di New York, ed io alzai gli occhi al cielo, osservandolo truce.

< Che c'è? > Mi domandò con fare fintamente innocente. < Non è una villa. > Continuò.

< Sì, ma è una delle zone più esclusive di tutta la città. > Borbottai.

< Fidati di me, ti prego e non fare quella faccia. > Mi strinse a sé, ma io non ricambiai l'abbraccio, ancora indispettita.

Insomma, non che non mi facesse piacere il suo interessamento, o la sua volontà di avere a nostra disposizione un intero appartamento, magari già ben arredato e con una delle viste più invidiate dall'intero popolo newyorkese, ma non era il mio mondo, quello e non volevo dovermi far andare bene un appartamento solo perché la gente avrebbe così capito che ero la fidanzata di un attore famoso.

< D'accordo, d'accordo, proverò a fare uno sforzo. > Ribadii, seguendolo.

Ovviamente, l'atrio del palazzo, in stile coloniale, assomigliava moltissimo alla hall di un albergo a cinque stelle, con i lampadari di cristallo, tappeti ovunque e piante rigogliose e ben curate.

Il portiere salutò Robert con un cenno, mentre ci dirigevamo verso l'ascensore dorato.

Quinto piano e la situazione non era migliorata: arredi costosi, moquette perfetta e un filare di luci che percorrevano l'intero corridoio che conduceva ai vari appartamenti.

< Pronta? > Mi chiese con un sorriso prima di far scattare definitivamente la serratura.

Annuii, davvero curiosa.

Spalancai gli occhi quando la porta si aprì, rivelando un ingresso semplice, ma di buon gusto, dai colori pastello che mi diedero subito una sensazione di tranquillità e familiarità.

Più avanti, il salotto, caratterizzato dalla classica parete di vetro di cui dovevano essere dotati tutti gli appartamenti di quell'edificio. L'arredamento era accogliente e dai colori caldi, come se ci avesse già vissuto qualcuno ed era semplicemente perfetto.

Mi meravigliai della libreria già piena di libri e di alcune cornici che mi ritraevano con la mia famiglia, già disposte su alcune mensole.

< Cosa ci fanno le mie fotografie qui? > Aggrottai le sopracciglia, perplessa.

< Oh, quelle. Beh, doveva essere una sorpresa... mi sono permesso di trasferire tutte le tue cose qui, così potremmo venire ad abitarci già da subito... > Arrossì, come colto in flagrante, la mano che corse a spettinargli i capelli.

Rimasi imbambolata per qualche minuto, incredula.

< Oh. > Riuscii solo a pronunciare, tornando con lo sguardo alla fotografia.

< Sono stato troppo precipitoso? > Si avvicinò di qualche passo, le mani nelle tasche dei jeans, in evidente imbarazzo.

< No! No... cioè, sì, ma non mi dispiace, dico davvero... hai fatto bene, così, almeno non dovrò preoccuparmi di svuotare la mia stanza al residence... > Sorrisi, cercando di tranquillizzarlo.

Non era un dramma, anzi, aveva avuto più coraggio di me; io, probabilmente, conoscendomi, mi sarei riempita la testa di dubbi e domande prima di decidermi per quell'appartamento, o per qualsiasi altro.

< Mi dispiace aver scelto anche per te, solo che volevo che fosse una sorpresa, una sorta di regalo... > Mi raggiunse alle spalle, circondandomi la vita con le braccia, posando il mento sulla mia spalla.

< Regalo?!? Per cosa? > Nessuno mi aveva mai regalato una cosa così costosa come un appartamento.

< Per la tua decisione, per la tua forza di voler provare, nonostante tutto. > Spiegò.

< Non c'era bisogno di regalarmi un appartamento, Robert. Sarebbe bastato anche un ti amo. > Lo presi in giro, ridendo appena.

< Lo so, ma credevo che meritassi di più. > Mi baciò una guancia, facendomi arrossire, come al solito.

< Grazie, è bellissimo qui e... sì, beh, sono ancora un po' arrabbiata, ma potrei perdonarti... > Mi allontanai dalla sua stretta, sorridendo furba.

< Farò qualsiasi cosa, davvero. > Rispose immediatamente, afferrandomi le mani. < Anche perché non hai ancora visto il resto... > Continuò, guardandomi colpevole.

< Resto? Quale resto? > Aggrottai le sopracciglia, studiandolo.

Per tutta risposta, mi costrinse a seguirlo su per una rampa di scale di legno scuro, fino al piano superiore, lì dove dovevano essere sistemate le camere da letto e i servizi. In realtà, era diverso da come me l'ero immaginato: era tutto molto semplice, pochi quadri appesi alle pareti color indaco, un fine parquet come pavimento... nulla a che vedere con l'ingresso o il salotto. Era tutto meno eclatante e, per questo, decisamente nelle mie corde.

Robert mi condusse di fronte ad una porta verniciata di celeste, sulla quale campeggiavano lettere di legno, a formare il nome di Bentley. 

Sulle prime, mi chiesi se fosse davvero quello il resto di cui parlava; insomma, se aveva acquistato l'appartamento, era anche perché Bentley potesse avere i suoi spazi, perciò, un'intera cameretta tutta per lui mi sembrava il minimo.

Tuttavia, quello che vidi una volta abbassata la maniglia, non me lo sarei mai immaginata: il parquet chiaro era ricoperto di peluche, di tutte le dimensioni; c'era un cavallo a dondolo vicino alla finestra; una culla vicino all'immenso armadio blu, che mi chiesi quando Bentley avrebbe mai finito di riempirlo; un piccolo divanetto sul quale erano sparsi altri giocattoli, tra cui diversi sonagli e numerosi libri di fiabe; una sedia a dondolo di legno e, proprio accanto alla porta d'ingresso, un fasciatoio.

< Hai comprato tutte queste cose? > Volsi lo sguardo a destra e a manca, chiedendomi come avesse fatto, in soli tre giorni, ad occuparsi di tutto.

< In realtà, sono tutti regali: dei genitori di Kristen, in primis, dei miei amici, dei miei genitori... > Elencò, scompigliandosi i capelli.

< I tuoi genitori sanno già tutto? > Strabuzzai gli occhi. Avevo perso il conto di quante volte dovevo averlo fatto in quella mezz'ora.

< Sì, beh, ho dovuto confessare... > Si scusò con una smorfia.

All'appello mancavano soltanto mia madre e mio padre e, se pensavo che, di lì a qualche giorno, avrebbero preso un aereo insieme, per raggiungerci a New York in occasione del mio saggio, mi sentivo davvero nei guai. Clare avrebbe tirato fuori l'argomento e se mia madre non ne avesse avuto ancora notizia, non ve l'avrebbe mai perdonato.

< Potresti parlarci tu con mia madre... > Piagnucolai, raggiungendolo sulla soglia della camera, la voglia di sbattere la testa contro il muro, fino a dimenticare il mio nome.

< Potrei, ma dovresti farlo tu. > Sorrise, accarezzandomi i capelli. < Ti va di vedere la nostra camera? > Mi trascinò di fronte ad una stanza dalla porta già aperta.

Aveva il soffitto spiovente, come se fosse stato un attico, tanto che avevo paura di non riuscire ad entrarci, tanto sembrava piccola, vista da fuori. Era semplice ed essenziale: il letto era privo di struttura di sostegno e il materasso era stato semplicemente adagiato sul parquet, tanto che ne occupava metà stanza. Avrebbero potuto dormirci cinque persone, in un letto del genere. C'era una cabina armadio di media grandezza con tutti i miei vestiti già in ordine e un piccolo tavolino per la toeletta e il trucco. Era come se ogni stanza risalisse ad un'epoca differente.

< Cosa te ne pare? > Mi domandò, sprofondando sul materasso morbido.

< E' bellissima. > Mi liberai del cappotto, poggiandolo sulla sedia di fronte al tavolino e mi guardai intorno ancora un po', prima di raggiungerlo e di cadere in ginocchio accanto a lui, che si sollevò, aggrappandosi ai miei fianchi e mi baciò la bocca con urgenza, attirandomi a sé.

Mi aggrappai alle sue spalle, fino a che non mi ritrovai schiacciata dal suo peso, le labbra un centimetro dalle mie.

Le sue mani corsero a sistemarmi le ciocche di capelli ribelli sulla fronte e il suo indice a delineare il profilo del mio naso, delle labbra e del mento.

< Sei ancora arrabbiata con me? > Mi sorrise, solleticandomi una guancia con il respiro.

Annuii, artigliando una mano tra i suoi capelli morbidi e profumati.

< Come posso farti cambiare idea? > Mi scrutò attentamente negli occhi, come in cerca di un indizio, fin quando io non cominciai a spogliarlo del cappotto, slacciandone i bottoni.

< Vuoi inaugurare la casa? > Scherzò, annusandomi.

< In realtà, solo la camera da letto, ma se sei così pretenzioso... > Ammiccai, finendo per ridere anch'io.

< Le tradizioni vanno rispettate. > Mormorò, aiutandomi a disfarmi della felpa.

 

No one is as lucky as us

Were not at the end but oh we already won

No one is as lucky as us.

Where The Lines Overlap-Paramore

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Capitolo 26
*** Dance with Somebody-Epilogo ***


Buon sabato pomeriggio a tutti!

Eccomi con l'Epilogo di questa Ff :(

E' triste abbandonare dei personaggi, anche se non sono reali ç.ç

Ho appena pubblicato, tuttavia, il Prologo della Ff di cui vi parlavo nell'ultimo capitolo: Three Stones *.* che spero vi piaccia *.*

Che dire? GRAZIE ancora a tutti, specialmente a coloro che hanno recensito l'ultimo capitolo e che hanno letto <3

Vi lascio all'Epilogo, con la speranza di strapparvi un sorriso, perché, come si suol dire: la fine non è altro che un nuovo inizio ed io credo che questa frase calzi a pennello a Candice e Rob :)

 

Buon fine settimana a tutti e, per l'ultima volta...

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Still Into You-Paramore

 

 

 

 

 

Sei anni dopo

 

< No, Bentley! Non puoi tirare i capelli a tua sorella! > Stavo disperatamente cercando di fare almeno tre cose contemporaneamente: tentare di distogliere Bentley dai capelli di sua sorella Linda, raccogliere tutto il necessario per la lezione di danza classica, che sarebbe cominciata di lì a quaranta minuti, e controllare che la cena non si bruciasse.

Avrei dovuto esserci abituata, ma la verità era che non potevi abituarti al caos; non io, almeno, che avevo sempre cercato di vivere nella quiete e nell'ordine.

Eppure... eppure, era quello che era successo.

Sei anni e la mia vita era cambiata radicalmente.

La nostra vita era cambiata radicalmente.

Prendersi cura di Bentley, all'inizio, non fu semplice, specialmente perché dovevo conciliare le prove, i saggi, le lezioni, con il suo ritmo sonno-veglia e con gli sporadici impegni di Robert. Per non parlare delle notti insonni e dei suoi continui pianti.

Avevo pensato di arrendermi, di lasciar perdere, di non essere semplicemente portata per fare la madre, ma avevo resistito; avevo pianto tra le braccia di Robert e mi ero lamentata con i miei amici, ma avevo resistito e lottato, perché tutto funzionasse e perché Bentley, che sembrava essersi affezionato a me, non dovesse patire la mia lontananza.

Avevo rinunciato al contratto più importante della mia vita per lui, nonostante le insistenze di Robert e i suoi ti seguiremo, verremo con te. Non ne ero pentita. Lavorare in teatro a New York come prima ballerina era abbastanza e avere il continuo appoggio di tutti i miei amici, di Robert e di Bentley, che dichiarava con orgoglio ai suoi amichetti che la sua mamma danzava, non facevano altro che convincermi che avevo fatto la scelta giusta.

Durante il Saggio di sei anni prima ebbi modo di confrontarmi con due dei miei peggiori demoni: i miei genitori e quelli di Robert.

Avevo parlato con mia madre a telefono qualche giorno prima che partisse e le avevo spiegato l'intera situazione. Dire che ne rimase scioccata, sarebbe come dire che Arthur non fosse ancora, nonostante tutto, innamorato di me; inizialmente, per digerire la cosa, aveva balbettato qualche frase sconclusionata sul bambino, su me e Robert e su cosa avrei fatto con la mia carriera; poi, quando aveva compreso che era davvero quello che volevo e che non ero disposta a perdere Robert, non dopo tutto quello che avevamo passato, l'avevo sentita sorridere e affermare che sarebbe stata felicissima di conoscere il suo primo nipotino.

Clare mi aveva accolta con un sorriso e un enorme mazzo di rose rosse, subito dopo lo spettacolo, mentre Robert veniva da me per congratularsi, Bentley tra le braccia.

E poi... poi, era successa Linda.

Quando scoprii di essere incinta, tre anni più tardi, piansi come una fontana per ore.

Non riuscivo ancora a gestire Bentley, come avrei fatto con un nuovo bambino?

Quando l'avevo confessato a Robert, dopo aver rimboccato le coperte a Bentley, temevo sarebbe svenuto. Aveva assunto un colorito pallido e sembrava sul punto di vomitare. Poi, dopo qualche minuto, ripresosi dalla sorpresa, mentre io mi torturavo le mani e lo osservavo di sottecchi, spaventata, mi aveva sorriso, gli occhi luminosi e mi aveva sollevata tra le braccia, facendomi fare una giravolta.

< Non è uno scherzo, vero? > Aveva ripetuto una, due, tre, quattro volte, fin quando non avevo perso il conto dei suoi baci.

Avevo imparato a convivere con la nausea dei primi mesi e a rinunciare alle lezioni di danza, quando, all'ottavo mese, sembrava dovessi prendere il volo da un momento all'altro.

Ho continuato a sentirmi inadeguata, fin quando non ho stretto Linda tra le braccia, un mese dopo, e non ho notato tutte le piccole somiglianze con noi. Aveva i capelli del mio colore, gli occhi di Robert e un sorriso dolcissimo.

Eravamo riusciti a costruirci una famiglia, quella che avevamo tanto desiderato ed io non potevo che esserne orgogliosa.

< Mamma! Linda mi ruba i colori! > L'urlo di Bentley mi riportò alla realtà, lontano dai ricordi.

< Potete usarli insieme, senza litigare. > Ammonii entrambi, recuperando un pastello dal pavimento.

< Ma lei li ruba! > Protestò ancora.

< Bentley, non è ancora in grado di parlare, non può chiederteli in prestito, no? Li usate a turno. > Cercai di spiegargli, accarezzandogli i capelli.

Lui sbuffò, mettendo il broncio, in attesa che la sorellina terminasse il suo disegno.

Sorrisi intenerita, preoccupandomi, l'istante successivo, di ritrovare le mie scarpette da ballo.

Robert, rientrato da poco, era ancora sotto la doccia, così decisi di cambiarmi, prima di ritornare in salotto e apparecchiare per i bambini.

Avevo appena finito di sistemare i bicchieri e le posate, quando sentii qualcuno richiamare la mia attenzione, cercando di spogliarmi dei pantaloni della tuta: Linda, dai suoi cinquanta centimetri, mi sorrideva, tendendomi il foglio su cui aveva designato la sua personale interpretazione di noi quattro.

La sollevai in braccio, osservando il disegno.

< Ma che brava! Siamo noi, questi? > Indicai una serie di spalle che emergevano dal divano. Lei annuì, contenta, stampandomi un bacio sulla guancia. Ogni giorno che passava, mi ricordava sempre più me da piccola: piena di affetto per tutti, sempre disposta a donare una carezza o un bacio a tutti i componenti della famiglia.

< Bentley, la cena è pronta. > Lo chiamai, portando in tavola il suo piatto preferito di quel mese: pollo arrosto e patatine fritte.

Abbandonò i colori, fiondandosi a tavola, cominciando già a riempirsi il piatto, mentre io facevo sedere Linda accanto a lui e la servivo, dopo averle sistemato la bavetta.

< Fai l'ometto di casa e badi a lei, mentre la mamma finisce di prepararsi? > Gli domandai, baciandogli una guancia.

Lui assunse subito un'espressione seriosa, annuendo.

Volai alla ricerca di un elastico per legarmi i capelli, fermandomi davanti allo specchio nel corridoio del secondo piano.

Intravidi Robert intento a rivestirsi, così, una volta completata la mia coda, mi fermai ad osservarlo dalla soglia della porta della nostra stanza.

Com'era possibile che, più passava il tempo, e più lui diventava bello? Forse ero io che, nonostante gli anni trascorsi, non smettevo di avere i brividi quando mi guardava, né le farfalle nello stomaco quando mi sfiorava. Persino durante le nostre discussioni, non riuscivo a concentrarmi sul motivo della lite, insignificante, rispetto all'amore che sentivo e che tutte le volte mi scuoteva.

Quando si accorse di me, mi sorrise ed io ricambiai.

< Hai lezione? > Mi domandò, infilandosi la canotta.

< Già. I bambini stanno mangiando. > Risposi, osservando con attenzione i suoi movimenti.

< E...? > Continuò.

< E, cosa? > Aggrottai le sopracciglia.

< Non dimentichi niente? > Si infilò i pantaloni della tuta.

Riflettei, perplessa, convinta che fosse tutto: avevo fatto il bagnetto ad entrambi, li avevo vestiti, mi ero ricordata di somministrare l'antibiotico a Linda esattamente mezz'ora prima di cena, come da ricetta, li avevo lasciati liberi di disegnare e avevo controllato i compiti di Bentley un'ora prima. Cos'altro avevo mai potuto dimenticare?

Mi sorrise, vestendosi anche della maglia che utilizzava solitamente per dormire, avvicinandomisi.

< Non mi riferisco ai bambini, Candice. > Sorrisi anch'io, perché, come al solito, aveva indovinato i miei pensieri.

< Ho dimenticato di torturarti sul fatto che dovresti, finalmente, raderti? > Lo seguii in bagno, dove sistemò l'accappatoio e mise in ordine i flaconi di shampoo e bagnoschiuma utilizzati.

In risposta, mi fece una linguaccia, lanciando un'occhiata all'orologio: la mia lezione sarebbe cominciata entro quindici minuti ed io non ero ancora uscita di casa. Se prendevo in considerazione il fatto che, a quell'ora, il traffico doveva essere un inferno, non sarei mai arrivata in tempo.

< Dovresti andare, è tardi. > Mi lanciò un'occhiata dallo specchio.

Sospirai.

< Non mi hai ancora detto cosa mi sono dimenticata... > Borbottai come scusa per non allontanarmi.

Mi raggiunse, sistemandomi le ciocche ribelli di capelli che mi erano scivolate dinanzi agli occhi. Il mio cuore accelerò senza ritegno e le farfalle nel mio stomaco cominciarono a svolazzare, rischiando di farmi vomitare dall'emozione.

Allungò una mano verso il lavabo, recuperando qualcosa che non riuscii ad identificare, troppo concentrata sui suoi occhi, che mi osservavano attenti.

< Ho trovato questo, prima... > Cominciò, rigirandosi l'oggetto tra le mani.

Abbassai gli occhi e riconobbi il test di gravidanza che avevo fatto quella mattina e che dovevo aver dimenticato accidentalmente in bagno. Avevo cercato di dimenticarmene; non tanto perché, essendo positivo, avrei dovuto fare i conti con un altro neonato, ma perché, di lì a poco, Robert avrebbe intrapreso un nuovo progetto cinematografico ed io avrei sentito la sua mancanza più che mai.

In gravidanza tendevo ad essere un tantino troppo sensibile.

< Ah... quello... > Balbettai, in evidente difficoltà.

< Devi dirmi qualcosa? > Mi domandò ad un centimetro di distanza dalle mie labbra.

< Sonoincinta. > Dissi tutto d'un fiato, lasciandomi distrarre.

< Oh, sì, beh, sai, ci ero arrivato. > Socchiuse gli occhi ed io feci altrettanto, pregustando il sapore del suo bacio.

< Quindi? > Mormorai.

< Quindi... quando avevi intenzione di dirmelo? > Mi attirò a sé con entrambe le braccia intorno alla vita, facendomi sussultare.

< Presto. > Borbottai.

< Perché non ti credo? > Sorrise furbo ed io sbuffai come una bambina.

< Sarai più impegnato del solito in questo periodo e, lo ammetto, ho cercato di non pensarci. > Risposi rassegnata.

< Ma il film sarà girato a New York e sarò sempre presente, lo sai. > Posò la fronte contro la mia, baciandomi l'istante successivo.

< Bleah! Prendetevi una camera! > Ci separammo spaventati nell'udire la voce disgustata di Bentley, seguito da Linda, che, a quanto sembrava, doveva aver finito la cena e aveva pensato bene di venirci a cercare.

Ridemmo entrambi, spingendoli fuori dalla stanza, cominciando a rincorrerli.

In fondo, i bambini mi piacevano ed era ora di dare a Linda una sorellina, o un fratellino.


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