The sun is breaking in your eyes.

di Just another Ghost
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** What would it be without you, Anna? ***
Capitolo 2: *** My heart is yours... ***
Capitolo 3: *** What if you're making me all that I was meant to be? ***
Capitolo 4: *** AVVISO ***



Capitolo 1
*** What would it be without you, Anna? ***


 The sun is breaking in your eyes.
 


1. What would it be without you, Anna?


 
«Porca merda sono in ritardissimo!» sbraitai rivolta alle lancette dell’orologio stilizzato nel mio cellulare.
Rebecca sapeva essere stronza forte quando in ballo c’erano le prove e un concerto imminente, per quanto di poco conto fosse.
Non eravamo dei mostri con gli strumenti, ma amavamo la musica, e questo bastava.
Suonavamo principalmente cover di band già affermate, soprattutto Paramore o Evanescence su mio preciso suggerimento, perché più compatibili con la mia voce. Però non mancavano i classici del metal e del grunge, ai quali riuscivo ad adattarmi, bene o male.
Amavo cantare, suonare e scrivere, per quanto fossero patetici i miei tentativi di comporre qualcosa di decente, che non suonasse melenso e ad alto tasso glicemico.
Ci provavo, seppur con scarsi risultati.
Rebecca si ostinava a dire che i miei testi fossero “da pelle d’oca”, ma ciononostante non avevamo mai pensato seriamente di arrangiarci una melodia.
Ero più portata per i lunghi racconti introspettivi che per i brevi e striminziti testi musicali.
Molti non mi capivano, compresi i ragazzi della band.
Passavo ore rinchiusa nella piccola camera all’interno dell’appartamento in affitto, condiviso con Rebecca per meglio sostenere le spese, a leggere senza sosta, oppure a fantasticare mentre melodie conosciute suonavano dallo stereo bianco.
Non avrei mai ammesso a nessuno la mia indole sognatrice.
Ero una stoica cantante senza né arte né parte, al primo anno di psicologia dell’Università di Milano.
E, in un certo senso, andava bene così.
Mi piaceva il mio sarcasmo, grazie al quale potevo ergere una sottile ma impenetrabile barriera tra me e il mondo esterno.
Potrebbe sembrare una cosa crudele e malsana, ma non avrei mai rischiato di soffrire inutilmente, non più.
Avrei preferito anni di apatia al dolore più insopportabile.
Sentii qualcosa vibrare nella tasca posteriore dei pantaloncini a jeans e lessi il nome sul display illuminato.
Gab.
Alzai gli occhi al cielo e mi preparai al peggio.
Okay, potevo farcela.
Mi ero preparata questa scusa per tutta la mattina, doveva funzionare.
«Ascolta, lo so. Va bene? So di essere in ritardo, ma credimi, posso spiegarti. La colpa è di questa tempesta solare che manda a farsi fottere ogni genere di apparecchio elettronico, compresa la nuova sveglia super tecnologica che ho comprato proprio ieri. Non è colpa mia, giuro! Tra l’altro, sono già a pochi isolati da casa tua!» dissi d’un fiato, incrociando le dita e sperando che se la bevesse.
Silenzio, poi uno sbuffo.
«Sbrigati, ci sono novità» grugnì dall’altro lato dell’apparecchio un incazzatissimo Gab.
Rimasi interdetta un attimo.
L’Arcangelo Gabriele, il Santo Protettore della Calma e del Sangue Freddo che mugugnava senza sosta, straripante nervosismo?
Già, quella tempesta stava mandando i nostri cervelli dritti al capolinea, non poteva che essere altrimenti.
«Novità?» mi arrischiai a chiedere con una voce innocente da agnellino.
«Sì. A Reb è venuta in mente una cazz… un’idea assurda» spiegò.
Ridacchiai. «Cosa c’è, Gab, il fioretto di quest’anno riguarda il non dire più parolacce?» lo presi in giro, chiudendo subito la chiamata prima che potesse rispondere e di conseguenza mandarmi a quel bel paese.
Corsi letteralmente fino al cancello in ferro battuto che dava sull’enorme villa di Gab, nella periferia di Milano.
Suonai il campanello, stringendomi nel leggero giubbotto di pelle beige e maledicendomi in silenzio per la mise decisamente troppo estiva.
Non ero più nella soleggiata Sicilia, dove puoi camminare in pantaloncini fino a Novembre inoltrato.
Avvertii un click metallico e spinsi il pesante portone, attraversando il giardino ben curato ed entrando in casa dalla porta aperta.
«Ehilà!» gridai alla casa all’apparenza vuota, dirigendomi verso la porta sul retro che conduceva alla piccola dependance adibita a sala prove poiché insonorizzata.
Entrai nel piccolo abitacolo, trovando tutti i membri già lì.
Rebecca suonava distrattamente la sua batteria rosso fuoco, persa nei suoi pensieri, i begli occhi verde acqua distanti anni luce.
Marco scribacchiava le ultime cose sulla scaletta per il concerto ormai prossimo, seduto su una sediolina di legno con il petto a contatto con lo schienale.
Gab, infine, accordava nervosamente la sua chitarra, seduto per terra a gambe incrociate.
Lanciai un fischio preoccupato. «E’ così grave?»
Reb sollevò gli occhi su di me e fece un sorriso strano, malinconico.
«Ci sono altre novità» annunciò, venendomi incontro e fissandomi con quegli occhioni immensi.
«Altre?»
Lei annuì, abbracciandomi fortissimo per qualche secondo. «Mi dispiace tantissimo» esalò, staccandosi.
«Ti dispiace per cosa?» chiesi aggrottando le sopracciglia e poi spalancando gli occhi sentendola sussultare a causa di un singhiozzo.
«Non ce la faccio…non ce la faccio…» ripeté a bassa voce, abbracciandosi a Marco.
Stavano insieme da qualche mese, ormai.
«Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?» quasi urlai, marciando verso il centro della stanza, rivolta a Gab. «Almeno tu» sibilai, puntandogli un dito contro.
Mi fissò senza espressione per un po’, poi, con un sospiro, si alzò e aprì la bocca per parlare.
«Si tratta di Anna» disse con voce piatta, atona.
«Anna?» domandai in un soffio, portandomi una mano alla gola.
Anna era stata la nostra bassista per un sacco di anni, fin dalle superiori, ed era una delle mie più care amiche, una di quelle alle quali ero più legata.
Poi, però, aveva vinto una borsa di studio per l’università newyorkese di scrittura creativa ed era partita, lasciandosi dietro un vuoto enorme.
Non la sentivo da mesi, ormai.
E mi mancava da morire.
«Sì. Ha… ha avuto un incidente. È grave» mormorò ancora Gabriele, mentre Rebecca piangeva in silenzio stretta alla maglietta di Marco.
Mi pietrificai, incapace di comprendere fino in fondo quelle parole.
Vorticavano nella mia testa, sconvolte, disordinate.
Anna. Incidente. Grave. Anna. Incidente. Anna. Anna. Incidente. Grave.
Mi sentii soffocare e dovetti avvicinarmi alla finestra.
«Dimmi che è uno scherzo, Gab» esalai ad occhi chiusi, nel tentativo di trattenere le lacrime.
«Sarebbe davvero di pessimo gusto. Emma, dobbiamo andare da lei. Subito» ordinò con voce tremante Gabriele, mordendosi le labbra per non piangere.
La amava.
Dio, se la amava.
Era stata il suo unico punto di riferimento per anni e quando era andata via era caduto in uno stato di depressione terrificante.
Adesso andava meglio, ma la notizia dell’incidente aveva fatto tornare a galla ogni cosa.
Annuii. «Immediatamente. Faccio la valigia e prendiamo il primo volo. Informatevi, io sono qui tra meno di un’ora» dissi d’un fiato, volando letteralmente fino a casa.
Non pensavo al sudore che mi colava dalle tempie, non pensavo a quanto potesse essere grave la situazione, non pensavo alla pazzia che stavamo per fare o ad avvisare i miei.
L’unica cosa che riuscivo a pensare era “Non lei”.
 
Gettai un paio di completi in valigia, a casaccio, senza curarmi degli abbinamenti né tantomeno dei colori.
Mi sentivo daltonica, il mondo era tutto una scala di cupi e tristi grigi.
Una volta chiusa la valigia e sbarrata la porta dell’appartamento, tornai a casa di Gab e non mi stupii di trovarli tutti già fuori, con la macchina caricata e pronta.
«Svelta» mi mormorò dolcemente Gabriele, vedendo i miei occhi lucidi.
Mi ero ordinata di non piangere.
Non avrei ceduto.
Caricai tutto e mi sedetti davanti, accanto a Gab, mentre Rebecca e Marco si abbracciavano sul sedile posteriore.
In un’altra occasione avrei fatto una battuta riguardo il loro stare sempre appiccicati, ma in quel momento sembrava crudele e inappropriata.
Lei aveva bisogno d’amore ancor più del solito.
Provai una fitta di leggerissima invidia nel vederli insieme, occhi negli occhi, stretti l’uno all’altra, come fossero una cosa sola.
Non mi lamentavo della mia situazione sentimentale, solo che a volte sarebbe stato bello avere qualcuno accanto, qualcuno con cui condividere tutto…
Ma forse avevo dei gusti troppo complicati.
Me lo diceva sempre anche Reb.
Avvertii una mano posarsi sul mio ginocchio e mi voltai alla mia sinistra, trovando un angosciato Gab, che tuttavia si sforzava di sorridere.
«Sta’ tranquilla» sussurrò, prima di voltarsi nuovamente verso la strada.
Sospirai, attendendo di arrivare all’aeroporto.
Non era molto distante, appena un quarto d’ora di macchina.
Be’, noi ci mettemmo dieci minuti, vista la spericolata guida di Gab.
Ci dirigemmo al check in e attendemmo l’arrivo del volo, sperando vivamente di arrivare il più presto possibile.
Seduta sulla poltroncina di plastica dura e grigia, seguivo con lo sguardo i passeggeri indaffarati che si dirigevano verso i propri voli.
Una signora paffuta in tailleur, decisamente troppo stretto per lei, si dirigeva affannata verso l’imbarco, con le voluminose valigie che la seguivano a stento, traballanti.
Una bambina dalle trecce brune trotterellava allegra, con la mano stretta in quella del papà stanco ma sorridente e l’altra che agguantava un ventaglio colorato e grande.
Ad un certo punto la bambina si arrestò e con un adorabile broncio implorava il padre di farla salire sulla schiena. Ovviamente l’uomo la sollevò di peso e, nonostante le valigie, la sistemò per bene sulle proprie spalle, mentre la bimba si dimenava tutta contenta con in mano solo lo strampalato ventaglio.
Sorrisi assistendo a quella scenetta.
Ecco l’amore incondizionato, quello di un padre verso la propria figlia, la propria principessa, quando nonostante la stanchezza, i problemi, le preoccupazioni, riesce comunque a regalarle un sorriso e una giornata più felice.
Continuai la mia osservazione.
Un gruppo di persone in bermuda a fiori si dirigevano dalla parte opposta, verso l’uscita dell’aeroporto, probabilmente diretti al mare o in qualche località turistica.
Un’altra equipe di uomini in giacca e cravatta nera di muovevano a blocchi verso zone diverse dell’edificio, alla ricerca di chissà cosa o chissà chi.
Sembrano tanto guardie del corpo. Pensai distrattamente, dirottando nuovamente i pensieri verso l’universo Anna.
Come l’avrei trovata?
Quali zone del suo piccolo corpicino fragile erano state squartate durante l’incidente?
E la sua brillante memoria avrebbe resistito al trauma?
Scossi la testa, tornando a guardare davanti a me.
Sempre meglio che deprimermi pensando al peggio.
Passò un ragazzo dai capelli scuri, di corsa, diretto al check in, con le basette corte appiccicate alle tempie per il sudore.
Aveva con sé solo un piccolo bagaglio e si guardava intorno ansioso, spostando il peso da una gamba all’altra.
Ridacchiai tra me e me, pensando che magari quei signori cercavano proprio lui.
Un criminale in camicia azzurra, jeans e Superga non si era mai visto.
Sembrava un ragazzo della mia età.
Probabilmente doveva aver sentito la mia risata, o forse aveva notato il mio sorriso con la coda nell’occhio – non ero così lontana da lui, dopotutto – e fece scontrare il suo sguardo con il mio.
La prima cosa che pensai, in quel momento, fu azzurro.
Quel colore era ovunque.
Azzurri gli occhi, azzurra la camicia, azzurre le scarpe.
La seconda fu figuraccia.
Gli avevo appena riso in faccia, cazzo.
Tuttavia fui costretta in ogni caso a smettere di ridere, perché i suoi occhi mi avevano incatenata.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo.
Lui sì.
In meno di un millisecondo, si voltò verso il luogo d’imbarco e sparì dalla mia vista, lasciandomi intontita.
Per cinque minuti buoni non riuscii a muovermi, scioccata dall’intenso colore di quelle iridi e da quanto erano messe in risalto grazie alla camicia del medesimo colore.
Avevo sempre avuto un debole per gli occhi chiari in contrasto con il colore scuro dei capelli, ma per mia sfortuna ogni ragazzo che avevo incontrato e aveva quelle caratteristiche non mi filava di striscio.
Avevo detto di avere dei gusti complicati, no?
Mi alzai traballando dalla sedia, sentendo chiaramente la chiamata del nostro aereo e cercando i miei amici tra la folla.
Una volta insieme, ci imbarcammo.
Il viaggio fu relativamente tranquillo.
Relativamente perché, nonostante le eccezionali previsioni metrologiche, dentro ognuno di noi stava avvenendo una tempesta di straordinaria intensità.
Gab, al mio fianco, continuava a shakerare la gamba su e giù, su e giù, su e giù, tanto da farmi impazzire.
Reb continuava a singhiozzare in modo insopportabile, mentre Marco stava zitto.
Ehilà, c’è nessuno?!
Avrei voluto scuoterlo fino a farlo svegliare e non avrei disdegnato di strozzare Rebecca con le mie stesse mani.
Dio, un po’ di autocontrollo.
Dopo ore di volo, atterrammo all’aeroporto di New York, affollato come una strada all’ora di punta.
Quasi ci perdemmo e fu solo per miracolo se riuscimmo ad uscire da quel nido di vespe.
«Okay, dove si va adesso?» chiese tirando su col naso Reb, mano nella mano con il suo ragazzo.
Gab tirò fuori una cartina e un foglietto con quello che doveva essere l’indirizzo dell’ospedale nel quale era ricoverata Anna.
«Dobbiamo imboccare la 165 e poi girare subito a destra. L’ospedale St. George è lì di fronte» spiegò tra uno sbadiglio e l’altro, cercando di chiamare un taxi.
Gli strinsi una spalla e lo superai. «Così non si fermeranno mai» spiegai in un sussurro, fischiando il più forte possibile e sorridendo debolmente alla vista di un taxi che inchiodava a pochi metri da noi.
«Veloci» intimai, entrando nell’abitacolo buio e cercando di spiegare al tassista la strada da percorrere.
Questo mi fece un cenno d’assenso e partii a tutta velocità nel traffico di New York City.
Mi lasciai cadere all’indietro sullo schienale, sospirando. «Fortuna che ho fatto il linguistico»
Reb fece una breve risata, posando la testa sulla mia spalla e chiudendo gli occhi, esausta dal pianto e dal viaggio.
«Volete andare subito da lei?» chiesi quando ormai mancavano pochi isolati alla 165 «possiamo anche sistemarci in hotel prima, e poi farle visita domattina» proposi di malavoglia.
Non avevo alcuna intenzione di aspettare ancora, ma erano tutti degli zombie, me compresa.
«No» disse deciso Gab, seguito a ruota dagli altri due, che scossero la testa.
Sospirai di sollievo. «Neanche io. Gab, i suoi sono già lì?»
«Sì. Sono arrivati stamattina»
«Quando è successo?» chiesi finalmente.
Non avevo avuto la forza di domandare i dettagli dell’accaduto, era successo tutto troppo in fretta.
«Ieri mattina, stava andando all’università, quando un pazzo l’ha messa sot…» spiegò, ma lo bloccai in fretta.
«Non voglio sentire altro» tagliai corto, chiudendo gli occhi e sperando nel meglio.
Non avevo chiesto come era accaduto, non avrei potuto sopportare le immagini del suo corpo dilaniato in chissà quale maniera, o del suo sguardo terrorizzato appena prima di perdere i sensi.
«Arrivati. Sono sessanta dollari» annunciò il tassista, contando soddisfatto le banconote che gli aveva porto stancamente Gab.
Scendemmo dall’abitacolo, inoltrandoci in una via stracolma di fiorai, bar e cartolerie.
Sospirai, conoscendo fin troppo bene quel tipo di business.
Per anni, durante la mia infanzia e adolescenza, avevo fatto visita all’unica struttura ospedaliera presente nella mia vecchia città.
Semplici controlli medici, prelievi sanguigni per tenere sotto controllo la mia celiachia, nulla di preoccupante, soprattutto quando a proteggerti ci sono le mura accoglienti e tappezzate di carta colorata del reparto pediatria.
Il vero dramma era iniziato quando dovetti spostarmi per un po’ nel reparto gastroscopia, praticamente a pochi metri da quello di chirurgia.
Odiavo l’odore stantio di disinfettante, odiavo i volti angosciati dei visitatori, odiavo i pianti sommessi che provenivano dai corridoi.
Ma tutto si era normalizzato al momento del mio ritorno in pediatria.
Purtroppo nulla poteva evitarmi di scorgere quelle espressioni traumatizzate e dolorosamente consapevoli, al piano terra, vicino all’entrata.
Evitavo gli ospedali come la peste e li frequentavo solo se strettamente necessario.
Ritrovarmi a chilometri di distanza da casa, praticamente sola, in una struttura ospedaliera sconosciuta, era qualcosa di surreale.
Probabilmente la mia, di espressione, non aveva nulla di diverso da quelle che mi terrorizzavano durante la mia infanzia.
Lo sguardo perso, vuoto, le labbra tirate in una smorfia agonizzante, il volto pallido e stanco.
Tutti elementi comuni in ciascuna delle facce lì presenti.
Prendemmo le scale, il reparto chirurgia si trovava solo al secondo piano.
«Qual è la stanza?» chiese Rebecca ritrovando un po’ di contegno.
Le sorrisi per ciò che cercava di fare.
Mostrarsi forte, nonostante dentro di sé stesse urlando.
«La 103. In fondo al corridoio a sinistra. C’è una nota musicale sulla porta, ha detto sua madre» informa Gab, sorridendo mestamente.
Ricambiai il sorriso con altrettanto entusiasmo.
Quasi corremmo fino alla porta della camera, ma ci arrestammo notando che era già occupata da alcuni medici e infermieri.
«Emma» mi sentii chiamare da una voce familiare e mi voltai verso la proprietaria con gli occhi quasi inondati di lacrime.
Una donna bionda, con i capelli vaporosi a caschetto mi fissava, con un sorriso tirato sulle labbra pallide e secche.
Doveva avere circa quarantacinque anni, ma in quel momento ne dimostrava sessanta.
I capelli di solito perfettamente in ordine erano sconvolti sulla fronte, gli occhi vivaci erano arrossati dal pianto e dalla stanchezza e il colorito aveva assunto una tonalità giallastra.
Anche l’abbigliamento era radicalmente cambiato.
Indossava dei pantaloni di tuta grigi, troppo pesanti per la stagione e una maglia a collo alto consumata e scolorita.
Mi venne incontro abbracciandomi e a quel punto fu troppo.
Vedere di persona, toccare con mano il dolore palpabile di Lucia, la mamma di Anna, era insostenibile.
Piansi tutte le lacrime trattenute troppo a lungo, affondando i singhiozzi nella sua spalla.
Non volevo farmi vedere così vulnerabile, ma non era assolutamente il momento di far prevalere il mio egoismo, non in una situazione come quella.
«Dio, stai tremando» mi sussurrò Lucia, stringendomi forte e facendomi accomodare su una sedia di plastica affiancata ad altre tre.
Non sapevo che dire, non sapevo che fare.
Come avrei potuto, d’altronde?
«Andrà tutto bene, tutto bene. I dottori dicono che c’è qualche probabilità che ne esca, non è un coma profondo come sembra e… e…» spiegò a bassissima voce, bloccandosi per via dei singhiozzi e posandosi una mano sulla bocca.
Fu il mio turno di stringerla.
«Non ce la faccio…» quasi urlò, angosciata.
Strinsi i denti e le palpebre, facendo gocciolare un altro po’ di sale e cullandola dolcemente.
«Lo so, Lucia. Lo so» e quella notte non ci fu che l’amara consapevolezza di una possibile vita senza Anna accanto.


Note della pseudo autrice Just Another Ghost:
Okay, questa cosa è venuta fuori durante una lezione di Scienze della Terra a scuola, mentre i moti rivoluzionari del nostro caro pianeta mi facevano venire la nausea.
Non sono una fan appassionatissima di Logan Lerman o dei suoi film, ho visto Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo un po’ di tempo fa, ma è stato guardando un trailer de I Tre Moschettieri che mi ha colpito sul serio.
Voglio dire, ho sempre avuto un debole per i ragazzi dal faccino d’angelo, con gli occhi azzurri (oh Santa Madre di Dio) e i capelli scuri, ma questo qua diventa una specie di tigre quando recita, e io AMO i ragazzi dalle mille risorse è.é
Comunque sia, è davvero un bravo attore e vista la nostra passione per la musica in comune, mi è sembrato carino renderlo protagonista della mia storiella J
Benissimo, è tutto. Per capire meglio il racconto ecc ecc vi indicherò alcune canzoni che verranno citate nei vari capitoli a cominciare da “My Heart” nella versione al piano dei Paramore, i miei Tesssori ♥ http://www.youtube.com/watch?v=HoN2gMrQya8 
Mi sono dilungata anche troppo. Buon proseguimento ;)
Un bacio.
G.

 

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Capitolo 2
*** My heart is yours... ***


The Sun si breaking in your eyes.



2. My Heart is yours...


Con il mattino, arrivò anche una nuova prospettiva nel vedere le cose.
La figura esile di Anna non sembrava così spettrale alla luce del sole di New York e il ritmo frenetico dell’ospedale, attivo già all’alba, rappresentava una distrazione.
Avevamo dormito tutti lì, sistemati alla meglio, dopo feroci lotte con i medici che ci intimavano di andar via visti gli inesistenti legami di parentela.
Chissà, forse a fare cambiare loro idea erano state le lacrime di Reb, oppure la mano di Gab poggiata al vetro che lo separava da Anna, o ancora la mia esclamazione sibilata.
Lei è mia sorella!
Comunque sia, avevamo passato una nottata d’inferno.
Mi svegliai a causa dell’imprecazione decisamente troppo alta di un’infermiera.
Sospettai che lo avesse fatto a posta, poiché per il resto della mattinata era stata in religioso silenzio, e solo ogni volta che mi passava davanti sorrideva gongolante.
Subito dopo di me, anche Gab aprì gli occhi e decidemmo di prendere una boccata d’aria in cortile.
«Dormito bene?» mi chiese per spezzare il silenzio, calpestando una foglia secca grande quanto la sua mano.
Alzai un sopracciglio. «Mi prendi in giro?»
Rise senza entusiasmo, una risata dura e breve. «Non sai quanto vorrei che fosse così»
Gli passai un braccio intorno alla schiena e lui mi strinse per le spalle. «Mi dispiace così tanto…» gli sussurrai, abbassando la testa.
Lui alzò le spalle. «A volte cerco di convincermi che se non fossi così innamorato di lei, probabilmente sarebbe più facile. Ma poi mi rendo conto dell’assurdità dei miei pensieri, perché so che starei tanto male quanto adesso» spiegò con voce colma di tristezza e rammarico.
Lo strinsi forte, e lui riprese.
Fu un bene, perché sinceramente ero a corto di parole.
«Sono stato così idiota a non averglielo mai detto. Un coglione di dimensioni colossali. Se solo avessi provato a… a… tenerla con me, a starle vicino. Non avrei mai potuto impedirle di frequentare quella scuola, ma magari… magari l’avrei seguita io e a quel punto forse tutto questo non sarebbe successo. Forse a quest’ora staremmo insieme, ad abbracciarci tra una lezione e l’altra…» si agitò, coprendosi il viso con le mani.
«Ehi, ehi. Ssst. Gabriele, non devi minimamente pensare che sia colpa tua. Non puoi. Le cose accadono, e purtroppo non abbiamo una macchina del tempo per cambiarle. Non sai quanto la vorrei anch’io in questo momento. Ma non c’è. E tu non puoi rovinarti la vita con i se e con i ma. Non puoi ritenerti responsabile» gli ordinai perentoria, scoprendogli il viso e fissandolo dritto negli occhi castani.
Il suo labbro inferiore tremò senza controllo e a quel gesto non potei che abbracciarlo di slancio e stringerlo fortissimo.
«Grazie» mormorò tra i miei capelli.
«Non dirlo»
Si staccò da me, fissandomi a sua volta. «Non devi farlo neanche tu. Sentirti in colpa, intendo. So cosa stai pensando, cosa ti passa per quella testolina. Tu hai meno colpe di me per ciò che è successo. L’unica colpa è quella di volerle troppo bene»
Annuii e rientrammo in silenzio, stretti l’uno all’altra, nel tentativo disperato di ritrovare un minimo di forza.
 
 
«Oh, eccovi» disse con voce roca Reb, venendoci incontro. «Lucia dice che se volete potete entrare in camera, ma adesso c’è già qualcuno, non ho idea di chi sia o per quanto rimarrà lì»
Gab annuì e senza degnare di uno sguardo la vetrata trasparente si diresse alla finestra più lontana, affacciandosi.
«Come stai, tesoro?» mi chiese Rebecca, stringendomi una spalla.
Le presi la mano e la baciai, fingendo un sorriso sereno.
Non gliela diedi a bere.
S’incupì. «Già» disse solamente, abbracciandomi per qualche secondo e tornando a sedersi accanto a Lucia con un sospiro.
Continuavano a risuonarmi in testa le note di My Heart, la versione al pianoforte che avevo sentito un po’ di tempo prima.
 
Stay with me, this is what I need, please.
 
Sing us a song and we'll sing it back to you
We could sing our own but what would it be without you?

 
This heart, it beats, beats for only you
My heart is yours



Canticchiai a bassa voce il motivetto, ma sembrava il Requiem di Mozart.
Già, come sarà senza di te, Anna?
Attesi pazientemente che il visitatore andasse via, lasciandomi libera di vedere la mia piccola Anna, seduta accanto a Lucia e Reb.
Quanto tempo passò, non saprei dirlo.
Quando Marco tornò, dopo aver sistemato tutto in albergo, erano già le undici e mezza.
Feci mente locale.
Erano quasi tre ore che stava lì dentro, lo sconosciuto.
«Ehi, Lucia. Chi c’è dentro con Anna?» chiesi in un sussurro.
Lei sembrò pensarci su, poi, con un sorriso tenero, disse semplicemente «Logan».
Non mi era molto d’aiuto.
«E’ un compagno d’università?» domandai ancora.
Lucia annuì. «Le vuole molto bene. Stanno insieme da tre mesi»
Fitta al cuore.
Pugnalata alle spalle.
Gab. Cristo Santo, Gab! In quale triangolo sei finito?
«E… come si sono conosciuti, lo sai?» balbettai sotto shock.
Annuì ancora, sempre sorridendo. «Era la sua guida quando è arrivata qui. Sai, cose che fanno all’università. È stato un colpo di fulmine. Lei è proprio cotta, nonostante la differenza di età. Sai, lui ha ventidue anni»
Trovai incredibilmente toccante il fatto che Lucia ne parlasse ancora al presente, e inoltre mi diede una speranza in più, per quanto minima.
Eppure non riuscivo a non pensare a Gabriele, ai suoi sentimenti per Anna, al suo amore non ricambiato.
Gli era stato concesso il beneficio del dubbio, ma adesso?
Ne sarebbe uscito distrutto, nulla gli avrebbe impedito di conoscere lo sconosciuto che aveva preso inconsapevolmente il suo posto.
Il corridoio di un ospedale non è esattamente il luogo adatto per sfuggire dalla cruda realtà.
Proprio mentre cercavo di ricordare il nome del ragazzo, questo aprì la porta, mostrandosi al pubblico lì presente.
Provai una sorta di déjà-vu non appena incontrai il suo sguardo color del cielo.
Azzurro.
Era lui, il ragazzo incontrato al check in che mi aveva appena sfiorata con lo sguardo e che tuttavia non ero riuscita a non fissare.
Cazzo se aveva gusto Anna.
Scossi la testa, non era il momento di pensare a quello.
I capelli scuri erano tenuti a bada da un berretto grigio e solo pochi ciuffi facevano capolino sulla fronte pallida.
Aveva gli occhi azzurri stanchi ma attenti, brillavano di desiderio e di qualcos’altro che tuttavia non riuscii a riconoscere subito.
Affetto? Amore?
Indossava gli stessi vestiti che gli avevo visto all’aeroporto, probabilmente nemmeno lui se l’era sentita di farla aspettare.
Anche stavolta, i suoi occhi mi sfiorarono per caso, ma si soffermarono più della volta precedente.
Probabilmente si stava chiedendo dove mi avesse vista.
Lucia, al mio fianco, si alzò e quasi gli corse incontro, incatenata dal debole ed esausto sorriso che – Logan! Ecco come si chiamava! – Logan le rivolgeva.
«Salve, Lucia» la salutò in italiano.
Sorrisi sentendo il suo buffo accento.
«Logan, tesoro! Sono contenta che tu sia qui» esclamò questa, abbracciandolo come se fosse suo figlio.
Non sapevo che fare, se alzarmi, se presentarmi, se raggiungere Gab che fissava l’ultimo arrivato con astio evidente o se restare dov’ero.
Non potevo certo continuare a fissare la scenetta commovente, tenendomi una mano sul viso per evitare di scoppiare a piangere.
Parlottarono tra loro per un po’, poi, non appena lo sguardo del ragazzo si posò nuovamente su di me, Lucia sembrò improvvisamente ricordarsi di fare le presentazioni.
Si voltò e mi sorrise, incitandomi ad avvicinarmi.
Cercai di ricambiare, imbarazzata e li raggiunsi.
«Logan, lei è Emma, la migliore amica di Anna. Sono come sorelle» spiegò in italiano, e sbirciai l’espressione di Occhi Azzurri per assicurarmi che capisse tutto.
«Noi siamo sorelle» corressi gentilmente, tendendo una mano verso Logan e sorridendogli lievemente.
«Piacere di conoscerti» dissi in inglese, temendo che non riuscisse a comprendere ogni singolo vocabolo italiano.
Ricambiò il sorriso con il mio stesso entusiasmo, pari a zero viste le tragiche circostanze – non potevo certo biasimarlo – e mi strinse la mano.
Sembrò apprezzare il mio tentativo di parlare la sua lingua, perciò tentai di impegnarmi nel farlo al meglio.
«Hanno affrontato un lungo viaggio fin dall’Italia, con così poco preavviso per di più. Ti ringrazio davvero tantissimo, cara. Perché non vai in albergo a rinfrescarti?» mi domandò Lucia, facendomi arrossire.
Ero vestita assolutamente come una barbona, con un paio di pantaloncini a jeans strappati e una felpa troppo larga, prestatami da Gab.
Evidentemente anche Logan si accorse del cambiamento di colore sul mio viso, perché sorrise divertito.
Non sei messo molto meglio, tu, pensai, guardandolo.
«Voglio vedere Anna, prima» mi impuntai.
Ed era vero, in parte.
In realtà, la cosa che più mi preoccupava era immaginare Logan, Gab e Lucia, da soli, nel corridoio solitario del reparto chirurgia, a discutere riguardo il primo appuntamento tra Anna e Occhi Azzurri.
Scossi la testa impercettibilmente, inorridita.
Assolutamente no. Non dovevo permetterlo.
Lucia non mi contraddisse e annuì con un sorriso.
Mi voltai verso Logan. «E’ stato un piacere, Logan» dissi a mezza voce, sforzandomi di sorridergli, e mi allontanai verso Gab, che aveva sicuramente assistito alla scena, nonostante sembrasse preso dalla figura di Anna al di là della vetrata.
«Ehi» sussurrai, stringendogli una spalla. «Entriamo, dai»
Prese un respiro profondo e spinse la porta, entrando per primo.
Io restai indietro, sbirciando con la coda nell’occhio Logan, che analizzava la scena con attenzione.
Fissava Gab, il suo modo di fare, di restare al capezzale di Anna, di abbassare la testa per nascondere le lacrime che inevitabilmente uscivano.
Fissava me, la mia mascella serrata, le lacrime che non facevo scappare, non qui, non davanti a lui.
Avrei giurato che riuscisse addirittura a palpare il mio fastidio per quanto riguardava la sua presenza lì.
Gab, è sempre stato Gab, anche se Anna non se ne rendeva conto.
Erano l’uno la parte migliore dell’altro.
Mi costrinsi ad entrare, senza però avvicinarmi troppo.
Avevo il terrore spaventoso di non ritrovare più il mio piccolo raggio di sole sotto le bende e le cicatrici.
«Quel pazzo con l’Audi le ha aperto il ventre in due, l’operazione è oggi pomeriggio» disse Gab con una voce tombale che mi fece rizzare i capelli sulla nuca.
«Quanto durerà?»
Scosse la testa. «Lucia non ne sa nulla. Non ha voluto sapere altro. Ha detto ai medici “voglio solo che stia bene, non mi interessa il come o il quando. Portatemi indietro la mia bambina”» riportò le parole della donna con voce tremante, asciugandosi qualche lacrima sfuggita al suo ferreo controllo.
«E’ sempre lei» mi sussurrò poi con una voce totalmente diversa.
Spostai immediatamente lo sguardo sul suo viso, trovandolo sorridente.
«Gab…» tentai, ma mi bloccò con un gesto.
«Guardala!» ordinò quasi ridendo «è sempre lei, sotto questa mascherina per l’ossigeno, sotto le ferite, i tagli, il sangue ancora fresco. È ancora la mia Anna!» rise di gusto, una risata che mi fece salire le lacrime agli occhi.
Dopo cinque minuti buoni passati così, tra le sue risate agonizzanti e i miei silenzi, sentii un cambiamento.
Le risa divennero più forti e non mi ci volle molto per capire che stava singhiozzando.
«Oh, Dio, Gab» sospirai, avvicinandomi a lui e stringendolo forte, mentre affondava la faccia nella mia spalla e piangeva come un bambino.
«E’ ancora lei. È ancora lei» ripeteva come una nenia, cercando, forse, di convincere sé stesso.
Dopo un po’ di tempo passato in silenzio, non appena la sua crisi cessò, si alzò dalla sedia, diretto fuori.
«Dove vai?» chiesi, aggrottando le sopracciglia.
Era passato a malapena un quarto d’ora.
«Devo prendere una cosa»
Tornò dopo pochi minuti con in mano una custodia nera.
Mi sorrise e non potei che ricambiare, intuendo le sue intenzioni.
«Ti sentivo cantare My Heart prima. E allora mi è venuta l’idea di suonarle qualcosa. Giusto per non starcene qui a piangerci addosso. Te la senti, Em?»
Annuii decisa.
Non potevo essere più d’accordo.
Lanciai uno sguardo fuori dalla vetrata e aggrottai le sopracciglia non appena mi accorsi dello sguardo incuriosito di Logan fisso su di noi.
Mi accorsi di Lucia che sorrideva e gli parlava a bassa voce, probabilmente della band.
Tornai a guardare Anna e, non appena Gab ebbe accordato la chitarra, mi sedetti dal lato opposto del letto rispetto a lui e cominciai a cantare.
Sentivo gli occhi azzurri di Logan e quelli verde smeraldo di Lucia fissi su di me.
Le lacrime premevano per uscire, ma stavolta avrei vinto io.
Cantavo per Anna, per Lucia, per Gab e per me stessa, cantavo con il sorriso sulle labbra perché sapevo quanto quella canzone piacesse alla mia migliore amica.
«This heart it beats, beats for only you, my heart is yours, my heart is…» terminai la canzone e sorrisi a Gab, restando ancora un po’ a guardare Anna.
Mi tornò in mente l’episodio ricorrente che si verificava ogni singola volta che dormivo a casa sua.
Io sapevo essere pigra, ma lei mi batteva alla grande.
E così, quando la mattina mio padre doveva venirmi a prendere a casa sua e lei dormiva ancora, rimanevo a fissarla e a torturarla con il solletico o facendo più rumore possibile.
Inutile dire che, nonostante i miei sforzi, non si svegliasse mai.
Cominciavo a pensare che lo facesse di proposito.
Controllai l’orologio e mi accorsi che era quasi ora di pranzo, così dissi a Gab che sarei andata in hotel per cambiarmi e mangiare qualcosa.
Lui decise di rimanere ancora un po’.
Salutai con un sorriso Lucia, Marco e Reb che stavano piluccando delle insalate, offerte dalla struttura ospedaliera.
Rebecca mi rivolse una smorfia disgustata e scoppiai a ridere, per la prima volta in quei due giorni infernali.
La musica era davvero l’unica medicina efficace.
Uscii dall’ospedale, diretta all’hotel che grazie a Dio era solo qualche traversa più avanti.
Salii in camera, una stanza sobria e con due letti gemelli dalle trapunte blu notte.
L’avrei divisa con Gab, meglio lasciare a Reb e Marco la loro intimità, anche perché non avevo alcun problema a dormire con il mio migliore amico.
Raggiunsi la mia valigia e tirai fuori i primi vestiti che trovai, per poi dirigermi verso il bagno e fare una doccia veloce.
L’acqua calda servì a sciogliere i miei nervi tesi e, in più, mi ricordava casa.
Per qualche minuto, fu tutto come se non fosse mai accaduto nulla.
Ero nel bagno della mia vecchia casa in Sicilia – con il rubinetto del lavandino aperto perché altrimenti l’acqua calda te la potevi sognare – e la musica che suonava dall’ipod.
Tutti i casini, l’università di Anna, l’incidente, Logan che prendeva il posto di Gab, non erano mai successi.
Era tutto come prima.
Era casa.
 
 
Una volta indossati un paio di jeans, una canotta nera e un cardigan lungo, asciugai i capelli umidi e uscii, diretta nuovamente in ospedale.
Quasi dimenticai il pranzo, ma il brontolio insistente del mio stomaco era troppo fastidioso per essere ignorato.
Comprai un panino al bar sotto il St. George e salii al reparto chirurgia.
L’ascensore, come al solito, era stracolmo.
Mi voltai, decisa a prendere le scale, ma per mia sfortuna lo feci troppo in fretta, così travolsi mezza dozzina di persone.
Borbottai alcuni I’m sorry e sgusciai via, ma una mano bianca e affusolata mi afferrò il polso.
Guardai verso il proprietario di quella stretta delicata e non mi sorpresi di trovare Logan.
«Vuoi parlare?» mi chiese nel suo americano perfetto e terribilmente melodioso.
Avevo sempre amato quella lingua, facevo di tutto per guardare i programmi alla tv in lingua originale.
«Riguardo a…?» chiesi acida, senza però riuscire a scrollarmi di dosso la sua mano.
Mi faceva uno strano effetto sentire la sua pelle contro la mia.
Fece un sorrisino divertito.
Be’, almeno aveva senso dell’umorismo, il ragazzo.
Ma ero sicura che Anna non se ne fosse invaghita solo per quella faccia da premio oscar e quella voce sexy e roca.
Tornò serio dopo un momento. «Anna» mormorò con voce incrinata.
Dovetti impiegare un secondo in più per capire di chi stesse parlando.
L’accento storpiava incredibilmente il suo nome.
Mi incupii. «Vorrei davvero riuscire a parlare di lei adesso, ma ho bisogno di un po’ di tempo per metabolizzare la cosa. Mi dispiace» dissi secca, scrollando il braccio e salendo quasi di corsa le scale, diretta al reparto chirurgia.
Ma cosa diavolo voleva da me, adesso?
Mi stava già sui coglioni per essere una delle cause della sofferenza di Gab, ci mancava solo il voler essere amici.
Che parlasse pure con Lucia, di certo sarebbe stata più disponibile.
«Emma» mi sentii chiamare e fu solo per miracolo che non sferrai un cazzotto al proprietario di quella voce.
E fu un bene, perché altri non era che Marco.
Sospirai di sollievo. «Ehi, Marco. Pensavo fossi… lascia perdere. Dimmi»
«Nulla, volevo dirti che tra poco io e Reb stacchiamo, vorrei distrarla un po’… ti dispiace se io e lei stiamo un po’ per conto nostro? Non vorrei che pensassi che trascuriamo Anna e tutto il resto…» spiegò fissandomi con quegli occhioni grigi sinceri.
Come si poteva dire di no a quella specie di panda dolcissimo?
Era un tesoro, ed ero contentissima che trattasse con i guanti la mia Rebby.
Gli sorrisi. «Grazie per esserti preoccupato di dirmelo, ma per me non c’è alcun problema. Anzi… vorrei che la tenessi fuori il più a lungo possibile… Non vive molto bene questa situazione» considerai, lanciando uno sguardo alla sua figura inginocchiata accanto ad Anna.
Lui annuì e mi abbracciò, lasciandomi un po’ infastidita, ma contenta che cominciasse ad esternare i suoi sentimenti con noi della band.
Avevo scritto in fronte “orso abbraccia tutti” per caso?!
Dopo pochi minuti entrambi stavano uscendo mano nella mano.
Il resto del pomeriggio passò lento e pigro, tra via vai di medici, infermieri e visitatori.
Si era fatta davvero un sacco di amici all’Università, ma d’altronde non avevo alcun dubbio.
Anna era ammaliante, affascinante e sapeva stregare chiunque, esempio lampante era Logan.
Da adolescente paragonavo spesso la mia persona alla sua, trovandomi mille difetti in confronto a lei.
Lei era bella, alta, con gli occhi verdi e i capelli biondi.
Io arrivavo al metro e sessanta per chissà quale grazia divina, e avevo i tipici tratti mediterranei, occhi cioccolato e capelli castani.
Avevo provato a tingerli di rosso, ma mia madre mi aveva scoperta e ogni mio tentativo era stato stroncato sul nascere.
Non ero arrivata neppure ad aprire il tubetto di tinta!
Ma con il tempo ero riuscita ad apprezzarmi per quello che ero, una semplice ragazza che nella musica trovava la sua identità e che stava bene anche da sola, senza bisogno di trovarsi un ragazzo ogni mese.
Avevo appena deciso di riprendere la lettura de La Metamorfosi di Kafka, un libro che mi aveva appassionata sin dalla prima pagina.
Amavo l’introspezione, il realismo magico dell’autore e i risvolti psicologici che abitavano ogni suo scritto.
Ma purtroppo la mia vita era fatta quasi interamente da imprevisti, quindi non appena vidi due figure familiari appartarsi e parlare tra loro, fui costretta ad abbandonare la lettura.
Gab aveva chiamato da parte Logan e adesso parlavano in italiano a bassa voce, vicino alla finestra, lanciandosi occhiate astiose.
Mi alzai, terrorizzata e li raggiunsi, cercando una scusa.
«Ehm, Gab! Scusami, potresti accompagnarmi un attimo a comprare qualcosa da bere?» gli domandai con gli occhi sbarrati dall’ansia.
Non mi guardò neanche. «Dopo, Em»
«Ma Marco e Reb ci hanno chiesto di raggiungerli e…ah, cazzo» sospirai, battendomi una mano sulla fronte e facendo una smorfia rassegnata.
Ero una frana.
Sentii una risatina soffocata provenire da Logan e mi trattenni a stento dal fulminarlo.
L’unica cosa da fare era allearsi con il nemico.
Gli feci un gesto complicato che voleva significare “vattene via” e accentuai il tutto con delle espressioni facciali che dovevano essere esilaranti perché non smise un attimo di ridacchiare.
Ma la cosa importante fu che capì e lasciò me e Gab da soli.
«Ma che cazzo vuoi fare, eh?!» lo accusai puntandogli un dito contro.
Guardò altrove, le braccia incrociate al petto.
«Vuoi che faccia il monologo? E va bene. Non hai capito forse che qui siamo in un ospedale, che siamo qui per Anna, non per una guerra a chi ha più testosterone, né per battaglie medievali per la mano di una fanciulla. Ti è chiaro? Siamo. Qui. Per. Anna. E basta. Tutto il resto può aspettare. Ti prego, c’è anche Lucia…» lo implorai, lanciando un’occhiata nervosa alla donna che stava assistendo alla scena con la coda nell’occhio, mentre mescolava il suo caffè da tre quarti d’ora nel tentativo di non farsi scoprire.
Strinse i pugni per un attimo, poi, con un sospiro, sembrò calmarsi e mi sorrise senza molta convinzione.
Continuai a fissarlo, dubbiosa, ma lui voltò il viso e tornò alla vetrata a vegliare sulla sua Anna.
Okay, stavo dalla sua parte, lo ero sempre stata, ma non poteva comportarsi come un bambino nel bel mezzo di una tragedia.
Anna si era fatta una vita lì a New York, non poteva biasimarla.
Aveva trovato qualcuno che la sapesse amare abbastanza da renderla felice – nonostante non tanto quanto Gab avrebbe potuto fare – e l’unica cosa che il mio amico doveva fare era accettarlo.
Mi strofinai stancamente gli occhi, tornando al mio libro e lanciando di tanto in tanto delle occhiate verso Gabriele, Logan e Lucia, preoccupandomi di tenere a debita distanza i primi due.
Ma risultava davvero difficile concentrarsi sulle parole mentre di lì a poco Anna sarebbe stata operata nel tentativo di salvare la sua spina dorsale.
Rischiava di non camminare più, ma sempre meglio invalida che morta.
Il mio era solo egoismo, lo sapevo, ma non potevo fare a meno di desiderare quella ragazza accanto, così come non potevano fare altro Gab, Lucia, Logan e gli altri.
Era talmente ingiusto!
Dopo qualche manciata di minuti, un paio di medici i camice turchese e con le mascherine entrarono nella stanza per prendere Anna e portarla in sala operatoria, sotto gli occhi ansiosi e piangenti della madre, sotto il volto pietrificato di Gab, che stava indietro, in disparte, i pugni stretti lungo i fianchi, sotto gli occhi intensi di Logan, resi ancora più turchesi dalle lacrime che non voleva far uscire, sotto i miei, di occhi, che erano troppo deboli per non seguire la sottile figura di Anna allontanarsi, troppo masochisti per non infliggersi l’ennesima pugnalata, troppo deboli e fragili, fragili come vetro.
Nessuno parlava, nessuno respirava, c’era solo l’inquietante cigolio delle ruote del lettino che si allontanava.
Mi ritornò in mente una vecchia lezione di scienze delle superiori riguardante i fusi orari.
Mi affascinava l’idea che, se avessi percorso il tragitto da Roma a New York, ad esempio, in sei ore esatte, o anche meno, sarebbe stato come se il tempo non fosse mai trascorso e sarei arrivata in America alla stessa ora alla quale ero partita.
Era un pensiero immaturo, stupido, eppure in quel momento, mentre Anna spariva, non riuscivo a smettere di pensare che, forse, avrei potuto cambiare le cose, avrei potuto fermare il tempo.
Oppure, ancora, attraversando la linea del cambiamento di data, sarei riuscita a rivivere il tragico giorno, come una sorta di macchina del tempo improvvisata.
Feci una risata secca e auto denigratoria, richiamando l’attenzione di Logan, che mi lanciò un’occhiata infastidita ma anche un po’ curiosa.
Probabilmente pensava che fossi pazza.
Lo ignorai, avvicinandomi a Lucia e circondandole le spalle con un braccio, mentre affondava i singhiozzi nella mia maglietta.
Provai un moto di fastidio.
Per una volta, mi sarebbe piaciuto essere consolata, invece di consolare.
Ma quello non era assolutamente il momento di dare sfogo al proprio egoismo.
«Andiamo, Lucia, ti accompagno a prendere un caffè» propose Gab, sciogliendo l’abbraccio e sostituendosi a me.
Gli lanciai un’occhiata riconoscente, che contraccambiò con un occhiolino.
Tornai a sedermi, senza però riflettere sul fatto che mi trovavo da sola, in corridoio, con Logan.
Lo vidi grattarsi distrattamente la nuca, in imbarazzo almeno quanto me.
Chiusi nuovamente il libro, alzando gli occhi al cielo.
Mi era impossibile leggere con lui che mi fissava.
«Allora…» cominciai, cercando di trovare un argomento.
Mi morsi nervosamente il labbro inferiore, sfregandomi una tempia.
Era una specie di tic, credo.
Mi fissò con uno sguardo che si sforzava di essere gentile, ma che lasciava trasparire solo tristezza.
«Tu… così, tu e Anna stava… state insieme?» mi corressi velocemente, dandomi dell’idiota per la domanda più che ovvia.
Lui annuì con un sorriso malinconico.
Deglutii, ingoiando un amaro boccone.
Sentirselo dire dal diretto interessato era tutta un’altra cosa.
«E… vi conoscete da molto?» chiesi ancora con voce tremante.
«Dall’inizio dell’estate, quando è venuta all’Università per l’orientamento. Seguiamo lo stesso corso di Scrittura Creativa, solo che lei è una matricola e io mi laureo tra qualche anno» spiegò, anche lui in imbarazzo, arrossendo.
Un ragazzo timido.
Questo mi diede una spinta in più.
«Mi piacerebbe poterti dire che mi ha parlato di te, ma non la sento da… una vita» sospirai, tirando le somme.
Abbassai lo sguardo sulla punta delle mie converse semi distrutte, aspettando una sua risposta.
Che non arrivò.
Risollevai gli occhi verso il suo viso ed incontrai quei fari azzurri che nonostante i metri che ci separavano riuscivano a brillare.
Come la prima volta che lo vidi, in aeroporto, mi sembrò di averlo già incontrato.
Il modo in cui incurvava le labbra in un timido sorriso, gli occhi che mi scrutavano in cerca di qualcosa a me sconosciuto, mi causavano una sensazione di familiarità.
Nessuno dei due distolse lo sguardo.
«Il tuo amico…» cominciò a dire dopo qualche minuto, lasciandomi finalmente libera da quell’azzurro e facendo vagare gli occhi un po’ ovunque, l’accenno di un rossore sugli zigomi.
«Gab» lo informai automaticamente, senza pensarci.
«Gab» ripeté, guardandomi per mezzo secondo e tornando a fissare le sue mani intrecciate in grembo. «Lui ha… avuto una storia con Anna?»
Scossi piano la testa. «Forse non dovrei dirlo proprio a te, che ne sei coinvolto più di tutti» spiegai cercando, chissà per quale oscuro motivo, il suo sguardo.
Lo trovai e lui si sporse in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia e congiungendo le mani, in attesa.
«Ma… ma mi sembri una brava persona» ammisi con un sospiro scocciato, che lo fece sorridere.
Ricambiai, mio malgrado. «Quindi, sarò sincera. Ma tu acqua in bocca con lui!»
Annuì deciso, con gli occhi spalancati, provocandomi una risatina. «Gab è innamorato di Anna da circa tre secoli e mezzo. Non ha mai smesso di guardarla da lontano, facendosi un male della madonna, proteggendola ed essendole amico, nonostante il dolore nel non poterla avere. E adesso che lei sta… rischiando grosso, è distrutto. E poi ci sei tu» feci una pausa, fissandolo in modo eloquente. «Tu sei come un cucciolo indesiderato che ha assorbito tutte le attenzioni della padrona, le quali Gab sperava potesse dedicare a lui Anna, un giorno. Non te ne faccio una colpa, ma… ma io e Gab siamo come legati da un filo invisibile, tutto ciò che lui prova, lo provo anch’io, e viceversa. Non nego di averti detestato per qualche intensa ora. Mi dava un fastidio tremendo vedere lo sguardo sognante di Lucia mentre parlava di te ed Anna, quando Gab la guardava attraverso il vetro, sperando che si risvegliasse improvvisamente» mi asciugai con rabbia una lacrima che era sfuggita al ferreo autocontrollo delle mie palpebre.
«Anch’io amo Anna» sussurrò semplicemente Logan, con enfasi.
Sorrisi amaramente. «Ma non quanto lui» sibilai.
«Chi te lo dice?» protestò acido, con una smorfia.
Lo incenerii. «Gab ha aspettato sette anni. L’ha aspettata per sette anni. E la ama ancora più di prima. Io non so cosa sia l’amore, cosa vuol dire amare una persona, né ne ho mai avuto la prova. Ma Gab… posso assicurarti che il sentimento che prova, qualsiasi cosa sia, è più forte anche di questa enorme cazzata che sta succedendo ad Anna» stavo quasi urlando e lui si era ritirato sulla sedia, fissandomi mentre mi alzavo dolorante e lo fronteggiavo.
«Lui non merita tutto questo» ringhiai.
«Ed io invece sì?!» rispose con lo stesso tono, alzandosi e arrivando a qualche palmo da me.
Arricciai il naso, stizzita. «Tu non hai aspettato un solo secondo, lei ti è praticamente caduta addosso»
«Cavoli, e io che pensavo che l’amore si misurasse per l’intensità del sentimento e non per il tempo che si è passati nell’aspettarlo. Grazie per la delucidazione» esclamò acido, grondante sarcasmo.
Feci per ribattere, ma più di una volta richiusi la bocca, senza parole.
Mi aveva ammutolita e un sorrisino vittorioso ma amaro svettava sulle sue labbra.
Chiusi gli occhi, cercando di calmarmi.
Era assurdo litigare per una cosa del genere.
Anche Anna aveva fatto le sue scelte, Logan non aveva tutte le colpe.
Lo sentii sospirare e allontanarsi di poco.
«Ricominciamo daccapo» propose con la voce decisamente più controllata.
Aprii gli occhi di scatto, alzando un sopracciglio e fissandolo scettica.
Allungò una mano verso di me. «Io sono Logan. E tu sei…?» chiese cercando di non scoppiare a ridere.
Strinsi le labbra, per evitare di ridergli in faccia. «Emma, la migliore amica di Anna. Mi ha parlato tanto di te» feci con una voce frivola che lo fece ridere.
Afferrai la sua mano, e il sorriso scomparve dalle labbra di entrambi.
Niente scintille, scottature, elettricità tra i nostri corpi a poca distanza.
Nulla di tutto ciò.
Soltanto quella tiepida e avvolgente sensazione di familiarità.
Era qualcosa che andava al di là di un semplice incrocio di sguardi al check in.
«Ci siamo già…» fece per chiedere, ma dei passi provenienti dall’inizio del corridoio ci fecero scattare e ritornare ai nostri posti, lontani.
Cercai di non fissarlo e lo stesso faceva lui, continuando a grattarsi il collo bianco lasciato scoperto dalla tshirt.
Feci finta di riprendere la lettura del mio romanzo, attendendo l’entrata di Gab e Lucia, i quali non si fecero aspettare.
Lucia prese posto accanto a me, stringendomi un ginocchio fasciato dai jeans e sorridendomi stancamente.
Ricambiai, posando per un secondo la mia mano sulla sua e continuando a spiare con la coda nell’occhio Logan, che ci fissava a sua volta.
Chissà se si rendeva conto dell’effetto che faceva trovarsi i suoi occhi turchesi addosso, così belli e indiscreti, nonostante il velo di timidezza che li avvolgeva.
Avevo sempre desiderato un paio di iridi verdi, grigie o azzurre, ma purtroppo non avevo mai potuto far nulla per cambiare il marrone del mio sguardo.
Di lenti a contatto colorate non se ne parlava proprio.
Non avrei assolutamente potuto sopportare ulteriori maschere a nascondere la mia vera identità, per non parlare del fastidio che mi davano addirittura quelle trasparenti.
Preferivo di gran lunga i miei bizzarri occhiali dalla montatura spessa e grande a quei cerchietti colmi di liquido irritante.
Gab tentava di non fulminare Logan che, a sua volta, si sforzava di fare gravitare lo sguardo verso gli oggetti inanimati.
Probabilmente Lucia si accorse dell’imbarazzo che regnava sovrano e tentò più volte di metter radici per una conversazione, senza risultati.
«Emma, perché tu e Gab non ci suonate la canzone che avete cantato ad Anna? Non riuscivamo a sentire con le pareti insonorizzate» propose a un certo punto la donna al mio fianco, guardandomi colma di aspettative.
Amava la musica, proprio come sua figlia, e amava sentirci fare ciò che più adoravamo.
Suonare.
Gab si agitava, spostando il peso da una gamba all’altra, per nulla entusiasta all’idea di suonare davanti al suo rivale.
Io, dal canto mio, non riuscivo a spiccicare parola.
Avrei voluto cento volte rispondere di no.
Gli occhi intensi di Logan mi avrebbero scrutata e giudicata per tutto il tempo, non avrei saputo reggerli.
Ma il sorriso incoraggiante di Lucia accanto a me, il suo sguardo stanco eppure così speranzoso e colmo di vita, mi bloccavano.
No.
No.
No.
«D’accordo» acconsentii con un sospiro.
Gab fece un verso strozzato e intuii che avrebbe volentieri strozzato me.
Alzai le spalle, guardandolo e avvicinandomi a lui.
«Ti sei bevuta il cervello, Emma?» mi sibilò, accordando nervosamente la chitarra che aveva appena liberato della custodia.
«Lo faccio per Lucia» dissi semplicemente, con un tono che non ammetteva repliche.
Lui annuì distrattamente, poi cominciò a suonare.
Dopo un lungo intro, che durò quasi due minuti, finalmente mi fece segno di cantare.
A quell’ora le visite erano vietate, i medici si trovavano in gran parte in pausa e le infermiere sonnecchiavano un po’ ovunque.
Potevamo suonare liberamente.
« I am finding out that maybe I was wrong
That I've fallen down and I can't do this alone» cantai i primi versi a voce bassa, rossa in viso a causa delle due paia d’occhi addosso a me.
Ma il significato della canzone mi travolse presto e, incurante degli spettatori, mi lasciai andare.
Non posso andare avanti da sola, Anna.
Lo hai sempre saputo.
«Stay with me, this is what I need, please? Sing us a song and we'll sing it back to you
We could sing our own but what would it be without you?» il ritornello era ciò che meglio esprimeva il mio stato d’animo in quel momento.
Era già dura non poterla più vedere tutti i giorni, non averla più nella band…
Non era più lo stesso senza lei, inutile negarlo.
«I am nothing now and it's been so long
Since I've heard the sound, the sound of my only hope.
This time I will be listening».
Ascolterò, Anna, ma non so fino a che punto tutto questo servirà.
Chi la sente la voce di una piccoletta che canta in ospedale?
«This heart, it beats, beats for only you. My heart is yours. My heart is… yours» conclusi la canzone con voce incrinata, forse troppo presa dal significato e cercai ansiosa gli occhi di Lucia.
Erano velati di lacrime e con un fazzolettino di stoffa cercava di asciugare le poche gocce sfuggite.
Poi, quasi di riflesso, il mio sguardo trovò quello di Logan, fisso su di me.
Gli occhi erano leggermente socchiusi, come stesse mettendo a fuoco qualcosa, ma capii subito che era un tentativo di nascondere le lacrime.
Abbassò immediatamente la testa, non appena si accorse della compassione nel mio sguardo e mi sentii avvampare per essere stata così idiota.
Chi può volere la pietà di qualcuno?
Raccolsi le gambe, dapprima incrociate sopra la sedia a mo’ di indiana, al petto e mi dondolai nervosamente, lo sguardo fisso sulle scarpe.
«Gab, sei veramente un tesoro di ragazzo» disse dolcemente Lucia, sorridendo al mio amico.
«E tu, Emma, hai un talento impressionante. Non sentirti in colpa per queste» accennò una risatina, indicando il fazzolettino bagnato «la canzone è meravigliosa, ma la tua voce è riuscita a farmi commuovere. Hai una dote da non sottovalutare. Arrivi al cuore della gente, tesoro» e si alzò per abbracciarmi.
Affondai il viso nella sua maglietta e piansi.
Piansi per Anna, per Gab, per Lucia.
Piansi perché la causa di quelle lacrime non era certo la mia voce.


Note della pseudo autrice Just another Ghost:
Tadààà, non ve l’aspettavate il nostro Logan fidanzato, e con Anna per di più…
Bene, questo coso lungo dodici pagine di word è stato un parto, un vero e proprio parto.
Ma, eccolo qua.
Godetevelo, perché il terzo arriverà un po’ in ritardo, e ci sarà un colpo di scena che farà cambiare idea su alcuni personaggi.
Ma non anticipo nulla :P
Non c’è molto da dire, anche questo è un po’ un capitolo “di mezzo”, pieno di scoperte, giusto per chiarire i caratteri essenziali di Gab, Emma, Logan, Anna e gli altri…
Non mi dilungo oltre, ringrazio chi recensirà e chi leggerà in silenzio.
Non vi critico, ragazzi, sono io stessa una lettrice silenziosa, l’importante è che voi ci siete. In un modo o nell’altro.
Un bacio!
G.

 

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Capitolo 3
*** What if you're making me all that I was meant to be? ***



Salve a tutti, prima che cominciate a leggere, vorrei dire un paio di cose, nulla di che, tranquilli, non vi ruberò molto tempo.
Intanto, vorrei che leggeste questo capitolo ascoltando What About Now, che merita veramente http://www.youtube.com/watch?v=XqTzrUJNtyU .
Sono fermamente convinta che le storie prendano un sapore diverso e più vero se lette con la canzone giusta in sottofondo :)
Pooi, per il fatto delle incongruenze tra l'età dei personaggi, (Logan non ha 22 anni, infatti, come invece è citato nella storia), vorrei specificare, onde evitare incomprensioni varie, che è tutto dovuto a motivi pratici, per l'andamento della storia. Capirete in seguito ;)
Be', ci vediamo sotto belli!



The Sun is breaking in your Eyes.



3. What if you're making me all that I was meant to be?



Cantammo altre due canzoni su richiesta di Lucia, che continuava a sorridere e a lanciarmi sguardi incoraggianti. Nonostante detestassi il fatto di dover continuare a cantare davanti a Logan, vederla sorridere mi faceva sentire meglio, quindi acconsentii.
Nonostante detestassi il fatto di dover continuare a cantare davanti a Logan, vederla sorridere mi faceva sentire meglio, quindi acconsentii.
Gab suonò gli accordi di All or nothing at all, una canzone che aveva sempre amato fare ad ogni piccolo concerto che avevamo organizzato.
E poi la conoscevamo entrambi a memoria.
Era strano cantare una canzone del genere senza il sostegno di un microfono, di un’asta che potesse sorreggermi.
Odiavo essere tanto scoperta e vulnerabile.
La seconda canzone fu What about now, dei Daughtry, una band che ammiravamo entrambi tra quelle più soft, per così dire.
Durante entrambe le esibizioni tenevo gli occhi fissi in quelli di Lucia oppure sulle dita di Gab che scivolavano sicure sulle corde, o ancora sul viso rilassato del mio amico, che mi lanciava sorrisi rassicuranti di tanto in tanto.
Evitavo accuratamente ed intenzionalmente Logan.
Mi sembrava terribilmente ingiusto che fosse costretto ad ascoltarci, mentre magari avrebbe preferito riflettere da solo sulla sua ragazza e sui rischi che correva.
Ma lui non è costretto. Puntualizzò una vocina saccente nella mia testa.
In effetti, poteva benissimo andare a prendersi un caffè o chissà che altro, piuttosto che starmi a sentire cantare d’amore e speranza.
«Direi che può bastare così» mormorai con un sorriso imbarazzato non appena terminammo anche What about now, alzandomi e posando un bacio sulla guancia di Gab.
«Vado a prendermi un caffè» annunciai, barcollando verso le scale, diretta al piano terra.
Ero sicura che ci fosse un distributore anche su quel piano, ma avevo bisogno di sgranchirmi le gambe.
E senza contare il fatto che sarei dovuta passare davanti a stanze stracolme di pazienti agonizzanti.
No, grazie.
Caffè. Caffè. Caffè.
La mia testa non pensava ad altro.
Amavo la caffeina, tenevo sempre una caffettiera rosso fuoco accanto a me quando potevo, per poter soddisfare il mio smodato bisogno di quella bevanda paradisiaca.
Presi un bicchierino di carta stracolmo di caffè, entusiasta per quel regalo tutto americano.
A casa le macchinette ti lasciavano quasi sempre a bocca asciutta.
Ma non appena presi un sorso, fui costretta a ricredermi.
Sembrava acqua sporca.
Di caffè aveva ben poco.
Scolai comunque il contenuto, bisognosa di un po’ di energia e uscii nel cortile appena fuori dall’ingresso per fare due passi.
Era quasi buio ormai, ma gran parte delle ambulanze non erano ai loro posti, segno che molta gente, in quel preciso momento, stava per fare una piccola gita in ospedale, grave o meno non ci è concesso saperlo.
Passeggiai per un po’ attorno alla struttura color avorio, senza pensare a nulla se non al calore sulla mi pelle che andava affievolendosi, fino a diventare una spiacevole sferzata gelida.
L’estate era proprio finita.
Chissà perché, pensando all’estate, mi vennero in mente gli occhi di Logan.
E fu una cosa strana, perché ogni cosa in quel ragazzo urlava Inverno.
Dalla pelle diafana, ai capelli scuri, ai lineamenti delicati.
Eppure quegli occhi erano talmente simili al cielo terso estivo che non riuscivo a non associarli alla sensazione della salsedine sulla pelle e sul viso, alla sabbia tra i capelli e al calore del sole.
Sperai che amasse davvero Anna come lui sosteneva.
Dovevo accettare il fatto che lei e Gab non sarebbero mai potuti stare insieme, che il mio raggio di sole si era fatta una vita lontano da casa, aveva trovato un ragazzo da amare, che la facesse sentire felice, che le teneva la mano mentre lottava contro la morte in un letto d’ospedale.
C’era anche l’altra faccia della medaglia, però, ovvero il dolore del mio adorato chitarrista che la osservava da lontano, senza poter avvicinarsi o sfiorarle anche soltanto il viso con le dita.
Non gli era permesso.
Il suo posto non era quello.
Non più.
 
 
Salendo al reparto chirurgia incontrai Rebecca e Marco che si sorridevano, abbracciati, e provai un moto di gelosia.
Tutte le persone a me care amavano o avevano amato, ricambiati o meno, qualcuno.
Tutti tranne me.
Per un po’ di tempo avevo stentato a credere nell’esistenza di quel sentimento, esempio lampante ne erano i miei genitori, insieme da quasi trent’anni, ma pressoché sconosciuti.
Dormivano nello stesso letto, mangiavano ogni giorni insieme, ma non si parlavano mai, non si conoscevano per niente.
Una volta estinta la passione, non rimane altro che la monotonia di un rapporto ormai giunto al capolinea.
Forse, però, le cose stavano cambiando, almeno tra noi giovani.
Forse.
Restavo comunque io, una povera Forever Alone, come usava definirmi Reb, che snobbava qualsiasi ragazzo le si avvicinasse.
Oddio, non ero mica una zitella acida, avevo fatto anch’io le mie esperienze – per quanto disastrose –, ma ero ben lungi dal cercarmi a tutti i costi un ragazzo.
E quello non era neppure il momento adatto per lanciarsi alla ricerca del miglior partito sulla piazza.
«Sapete nulla di Anna?» chiese Reb, affiancandomi.
Scossi la testa. «L’hanno portata in sala operatoria. Non ho idea di quanto tempo abbia passato lì dentro, ho perso anche la concezione del tempo ormai»
«Ti capisco» concordò.
«Che avete fatto, piccioncini?» chiesi con un sorrisino rivolta principalmente a Marco, che tossì colto alla sprovvista, mentre Reb arrossiva violentemente.
A quel punto della conversazione eravamo già arrivati in corridoio e Lucia ci veniva incontro.
Scoppiai a ridere. «Okay, okay. Risparmiatemi i dettagli, ragazzi» scossi la testa divertita e mi rivolsi alla madre di Anna. «Ci sono novità?» chiesi, cambiando totalmente atteggiamento.
«Dicono che stanno operando, tra un paio d’ore dovrebbero farla uscire da quella cazzo di sala operatoria» mi irrigidii al suono di quella frase.
Lucia non era mai tanto volgare, doveva essere proprio a pezzi.
Annuii distrattamente.
«Ragazzi, forse dovreste tornare in albergo. Almeno per riposarvi un po’. Domani mattina vi aggiornerò su tutto» propose Lucia.
Scossi decisa la testa, seguita a ruota da Gab. «No. Noi restiamo qui fino a quando…»
«Ragazzi!» ci richiamò la donna, aggiustandosi i capelli biondi nervosamente. «Dovete essere ragionevoli. Avete bisogno di riposare, non è il momento di fare gli eroi. La condizione di Anna non cambierà se voi resterete qui come zombie. E questo vale anche per te, Logan» aggiunse, puntando gli occhi verdi in quelli azzurri del ragazzo.
«Lucia, io devo…» tentò di protestare, senza successo.
«Tu non devi fare nulla. Solo dormire, perché sei uno straccio» ordinò con la voce che tradiva un certo orgoglio verso tutti noi.
Sorrise bonaria.
«Vi ringrazio per essere qui a sostenermi, ma davvero dovete pensare un po’ a voi. Andate, ci vediamo domattina» ci salutò, tornando a sedersi esausta sulla scomoda sediolina di plastica.
Annuimmo tutti, dirigendoci come opliti verso l’uscita.
«Stai anche tu in albergo, Logan?» chiese Reb gentile, stretta nell’abbraccio di Marco.
Lui le sorrise, scuotendo la testa. «Io abito qui, ho un appartamento vicino all’università»
«Vuoi che ti facciamo compagnia?» propose Marco.
Né io né Gab sembravamo particolarmente entusiasta all’idea.
«Vi ringrazio, ma non è lontano da qui. Ci vediamo domani» e si allontanò agitando la mano verso di noi.
Tirai un sospiro di sollievo.
In pochi minuti arrivammo nei pressi dell’albergo, ma non ero assolutamente pronta ad entrare.
Oltrepassare quella soglia avrebbe significato altro silenzio.
Decisi di fare due passi nelle vicinanze, aveva fatto buio soltanto da qualche minuto.
Nessuno fiatò e così fui libera di gironzolare un po’ lì intorno.
Avevo visto poco del mondo, ma New York non era certamente il tipo di città che mi si addiceva.
Troppo caotica, troppo tecnologica, troppo tutto.
Se fosse stato possibile, avrei volentieri vissuto nell’Inghilterra ottocentesca, oppure ai tempi dei Tre Moschettieri.
Non lo avrei ammesso nemmeno sotto tortura, ma le antiche usanze e la cavalleria mi affascinavano.
Da piccola immaginavo di volteggiare nel mio vestito vaporoso nel bel mezzo di una sala da ballo, mano nella mano con il mio accompagnatore.
Be’, a quei tempi “l’accompagnatore” era Antonio Banderas, del quale mi ero presa una cotta dopo aver visto The Legend of Zorro, ma quelli erano dettagli.
Dettagli imbarazzanti.
Considerato il fatto che ero solita invaghirmi di gran parte degli attori “grondanti romanticismo” che vedevo alla tv.
Compreso Johnny Depp in Edward mani di forbice.
Dio se ero messa male.
Sorrisi mentre facevo l’ennesimo giro dell’isolato con il naso all’insù ad ammirare le prime stelle che si scorgevano.
Era una zona poco illuminata, probabilmente in periferia, visto che anche l’hotel non era proprio nel centro città.
Si poteva scorgere Venere, forse, non ero mai stata brava con l’astronomia, ma le stelle mi affascinavano, quindi mi limitavo a sbirciarle dalla finestra, la sera.
Mentre camminavo, sempre a testa in su e con un sorrisino stampato in faccia, non mi accorsi di non essere sola e finii dritta contro un maglioncino grigio fumo che profumava di pulito.
«Oddio, scusami!» mi affrettai a dire, accorgendomi solo in seguito che il ragazzo davanti a me altro non era che Logan.
«Ti sei fatta male?» chiese, tenendomi per le spalle onde evitare un mio rovinoso scivolone.
Scoppiai a ridere alla vista della sua faccia.
Aveva gli occhi spalancati per lo stupore e le labbra semi dischiuse, per non parlare del berretto grigio che gli stava dritto in testa come fosse un puffo.
«Che c’è?» domandò, l’ombra di un sorriso sulle labbra.
Strinsi le labbra per evitare di ridergli in faccia e mi allungai per sistemargli il cappello.
Lui arrossì un po’ e lo aggiustò ai lati, per poi sorridermi affranto.
«Non eri male in versione nano da giardino» constatai strizzandogli l’occhio.
Rise. «Come mai non sei in hotel?»
Alzai le spalle. «Avevo bisogno d’aria. Anche se qua ci sono più fumi che in una fabbrica» feci una smorfia.
«Se il termine di paragone è una cittadina della Sicilia, allora hai ragione» disse sorridendomi e lanciandomi un’occhiata divertita di traverso, mentre passeggiavamo fianco a fianco.
«Già. E tu?» domandai.
«Io cosa?»
«Non dovresti essere nel tuo appartamento vicino l’Università?»
«Le mie ragioni sono le stesse delle tue» disse semplicemente.
Annuii distrattamente, tornando a rivolgere lo sguardo al cielo.
«Stai cercando un ufo?» mi domandò ironico Logan, facendomi ridere.
«Cerco di contare le stelle»
Alzò un sopracciglio, come per dire “ma fai sul serio?”.
Ridacchiai. «Ho sempre voluto un telescopio, ma non avevo dove metterlo. E se avessi toccato uno di quei cosi super tecnologici probabilmente l’avrei distrutto in due secondi».
Si unì alla mia risata.
«Anche Anna lo voleva» accennai con voce malinconica.
Logan s’incupì, guardando fisso davanti a sé e serrando la mascella.
Lo guardai a lungo.
Aveva davvero un bel viso.
I tratti erano delicati, quasi infantili, ma non avresti mai detto che fosse un ragazzino.
La sua voce, i suoi modi di fare, quel modo di incurvare il sopracciglio sinistro mentre parlava, erano tutti piccoli dettagli che ti rapivano.
Adesso capivo come aveva fatto a conquistare la mia Anna.
Sorrisi senza entusiasmo e lui se ne accorse.
«Stai pensando a lei?» mi chiese a voce bassa, provocandomi un brivido lungo la schiena.
L’avevo detto che l’americano era sexy.
L’avevo detto!
Dio buono, non farmi fare cazzate.
Annuii. «Non riesco a… immaginare la mia vita senza di lei. Siamo sempre state indivisibili, due facce della stessa medaglia. È sempre stata così… perfetta. La parte migliore di me» sussurrai con una punta di tristezza.
«Lei è bellissima. Sono un ragazzo fortunato» mormorò guardando anche lui il cielo stellato.
Ci eravamo appoggiati al muretto di un vicolo poco lontano dall’hotel.
«Certo che lo sei. Non… non lasciarla andare via» implorai ed erano molteplici i significati di quella frase.
Mi fissò concentrato per un po’, ma ero incapace di ricambiare.
Le lacrime sarebbero arrivate di lì a poco.
Voltò la testa appena in tempo e quasi mi commossi per quel gesto di umanità.
Non asciugai quella goccia salata che scendeva lungo la mia guancia.
«Mi sono piaciute le canzoni» disse con voce più serena, nel tentativo di distrarmi.
Cercai di sorridere. «Grazie. La prima mi sembrava adatta…»
«Lo era. Lucia ha ragione. Hai la capacità di colpire chiunque ti ascolti. E te lo dice un appassionato di musica».
«Suoni?» domandai incuriosita.
Mi rivolse un sorriso compiaciuto. «Il pianoforte e un po’ la chitarra. Anch’io ho una band con cui suono nel tempo libero, proprio come voi».
«Sinceramente riesco ad immaginarti come musicista» ridacchiai, guardandolo.
Alzò un sopracciglio, sorridendomi.
Oh Santa Madre di Dio.
«Davvero?»
Deglutii, annuendo.
I suoi occhi azzurri incontrarono i miei, ancora più scuri nell’oscurità del vicolo e quasi dimenticai di respirare.
Eravamo due goffi ragazzi, appoggiati ad un muretto, le mani dietro la schiena, occhi negli occhi.
Era una situazione pericolosa.
Estremamente pericolosa.
Mi morsi il labbro inferiore, senza riuscire a reprimere il desiderio.
Era solo quello.
Solo attrazione fisica.
Nulla di più.
Come potevo non essere attratta da Logan, andiamo!
«Emma» mi chiamò con voce roca, facendomi annaspare in cerca di ossigeno.
Oddio, oddio, oddio.
Fermatelo ora, oppure lasciate che sia il tempo a fermare la sua corsa, per permetterci di incontrarci sotto questo cielo stellato.
Non resistetti e mi avvicinai pericolosamente alle sue labbra, sfiorandole appena.
Profumava di menta.
Inverno.
Freddo e accogliente inverno, qui, tra le sue braccia che ancora non mi avvolgono ma che vorrei disperatamente addosso.
Azzerò i centimetri, facendo scontrare le nostre labbra in un bacio lento, ma senza alcun significato.
Solo attrazione fisica, mi ripetei.
E lo stesso era per lui.
Lui vuole il mio corpo, pensai con una nota di rammarico.
Schiusi le labbra e il suo profumo mi avvolse, mentre le nostre lingue si incontravano e si rincorrevano.
Mi aggrappai al suo maglione, mentre spostava le mani ai lati del mio viso, approfondendo il bacio.
Era diventato qualcosa di diverso.
La passione esplodeva, intensa, irrefrenabile.
C’era sempre una canzone che risuonava nella mia testa mentre baciavo qualcuno.
Stavolta c’era solo la sua voce.
Solo attrazione fisica.
Il suo corpo contro il mio, schiacciato sul muretto, intrappolato da Logan.
Solo attrazione fisica.
Le sue mani sulle mie guance.
Solo attrazione fisica.
Le nostre labbra incollate, indivisibili.
Solo attrazione fisica.
Le sue mani che scendevano lungo le mie spalle, giù fino alla vita.
Solo attrazione fisica.
Io aggrappata al suo collo, mentre i nostri corpi entravano in contatto con un fremito.
Solo attrazione fisica.
Lui che mi solleva da terra, io che stringo le gambe intorno al suo bacino.
Solo attrazione fisica.
Noi che arriviamo chissà come nel suo appartamento, Logan sopra di me, dentro di me.
Solo attrazione fisica.
I nostri respiri che si rincorrevano, i gemiti, i sospiri.
«Solo attrazione fisica» sussurrai sul suo collo mentre raggiungevamo l’apice insieme.
«Non potrebbe essere altrimenti» mi rispose, baciandomi un’ultima volta, dolcemente, e accasciandosi al mio fianco.
Fissai il soffitto per quella che sembrò un’eternità, pensando ad ogni cosa.
Quella frase mi aveva lasciato l’amaro in bocca.
Non potrebbe essere altrimenti.
Non potevo certo illudermi che avesse fatto sesso con me perché ero la donna della sua vita.
Lui amava Anna.
Lo avrebbe sempre fatto.
Ed io ero un’illusa, perché pensavo sul serio, mentre entrava dentro di me, che le nostre anime si fossero salutate complici, per poi dirsi addio per sempre.
L’avevo detto anch’io.
Solo attrazione fisica.
Mi odiavo per aver fatto tutto ciò ad Anna.
Mentre lottava per restare in vita, io ero a letto con il suo ragazzo.
Ma che razza di amica ero?!
Mi girai a guardare Logan e sorrisi nel vederlo dormire beato, proprio come un bambino.
Gli accarezzai una guancia delicatamente e mi alzai, recuperando le mie cose.
Sgattaiolai in bagno e mi guardai allo specchio.
Ma che diavolo ero diventata?
Una specie di puttana di quart’ordine, che se la faceva con i fidanzati delle proprie amiche?
Mi facevo schifo.
Presi un po’ d’acqua e bagnai lo specchio, in modo da rendere meno visibile la mia immagine, coperta di goccioline impalpabili.
Avevo addosso una tshirt di Logan ed inspirai inconsapevolmente il suo profumo.
Era stata una notte incredibile.
Le sue mani erano ovunque, le sue labbra erano ovunque, lui era ovunque.
Ma dovevo riprendermi.
Stavo per sfilarmi la sua maglia quando mi accorsi di una figura appoggiata allo stipite dell’ingresso del bagno.
«Ti ho svegliato?» chiesi, atona, cercando di non fissarlo.
Indossava dei pantaloni di tuta grigi.
«No, ero in dormiveglia. Che stai facendo?» chiese, avvicinandosi e sedendosi su uno sgabello proprio dietro di me, in modo da riuscire a guardarmi negli occhi tramite lo specchio.
«Cerco di non farmi schifo da sola» gracchiai, chiudendo il rubinetto e voltandomi verso di lui.
Aveva lo sguardo acceso, attento, serio.
«Non c’erano sentimenti. Era solo sesso, Emma» mi disse, pronunciando il mio nome in modo così incantevole…
Dio, quanto ero patetica.
Provai una fitta al cuore, abbassando lo sguardo.
Sesso e amore erano sempre andati di pari passo per me, la mia prima volta era stata con l’unica persona che a quel tempo mi capiva… si era rivelato un errore, in seguito, ma io credevo di amarlo, o almeno, gli volevo un gran bene.
Per Logan evidentemente non era così.
«Non devi sentirti in colpa» aggiunse, avvicinandosi a me e sollevandomi il viso.
Ero certa di essere orribile, con i capelli raccolti in una coda disordinata, il trucco quasi inesistente e quella lunga maglietta a coprirmi a malapena.
L’immagine del sogno proibito di ogni uomo!
«E’ comunque un tradimento, sentimenti o no» obbiettai, chiudendo gli occhi, incapace di guardare nei suoi.
Mi ero cacciata in un enorme guaio.
Non potevo permettermi cose di quel genere.
Non con Logan.
Tentennò. «E’ stato un momento di… debolezza. Eravamo entrambi provati ed esausti. Non succederà più» assicurò, certo di consolarmi.
Oh, Logan… come può consolarmi il fatto che non potrò mai piùsentirti come ti ho sentito stanotte?
Sospirai e lo interpretò come sollievo.
Mi sorrise, posandomi un bacio sulla fronte.
Non è abbastanza, adesso, pensai, incurvano gli angoli delle labbra all’ingiù.
«Ti sei pentito, Logan?» domandai di botto.
Dovevo saperlo.
Rimase in silenzio per un po’ ed ero certa che mi stesse scrutando.
«E tu?» chiese finalmente.
Scossi flebilmente la testa.
Che senso aveva mentire?
«Neanche io» e si diresse nell’altra stanza, lasciandomi con qualcosa di peggio dell’illusione.
La speranza.
 


Angolo della pseudo-autrice Just Another Ghost:
Bene, rieccomi qui :)
Vi prego, non odiate i miei piccoli, Emma è confusa e Logan... Logan soffre come un pazzo. E' un po' OOC, perché io personalmente immagino il caro Lerman molto più sensibile, ma qui entra in gioco il fattore età. A 22 anni non può certo piangersi continuamente addosso... Be', mi sembra tutto, alla prossima :)
Un bacio,
G.
PS: Ho in cantiere una nuova storia, ambientata durante le riprese de I Tre Moschettieri… Vorrei sapere se magari potrebbe farvi piacere leggere di questa povera disgraziata, amante dei vestiti vaporosi ottocenteschi, che incontra il nostro Lerman durante un provino per le comparse J
Fatemi sapere :P 

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Capitolo 4
*** AVVISO ***


AVVISO:

Scusate scusate scusate tantissimo, mi dispiace davvero di aver abbandonato il sito e tutta la storia, ma ho avuto così tanti casini e l'ispirazione sembrava andata a farsi benedire.
Non scrivevo da mesi, non scrivevo neanche la lista della spesa!
Non sognavo neanche più, e i sogni sono la parte fondamentale di ogni mio racconto, di ogni frase o parola, senza essi io non esisto.
Ero disperata, non avevo più alcuna scintilla, ogni cosa che scrivevo mi sembrava banale, insulsa e già sentita e stra sentita.
Però.
Esattamente cinque mesi fa ho conosciuto una persona e lo so che non ve ne può fregare una mazza, ma mi sono innamorata.
Adesso qualcosa è cambiato.
Ho fatto un sogno un po' di tempo fa, mi sono svegliata alle tre di notte, ho preso il primo quaderno che mi è capitato a tiro - quello di latino, con tanto di versioni incomplete, ma vabbè - e ho scritto.
Ho scritto tutto quello che mi passava per la mente e pian piano mi sono sentita libera.
L'ho detto a tutti, l'ho urlato al mondo.
E ora mi sento meglio.
Quindi, rullo di tamburi, penso che molto probabilmente riprenderò la storia.
Non voglio darvi false illusioni, ma ho visto che si sono aggiunte altre recensioni, quindi sono ancora più motivata (  ^_^  )
Beeene, alla prossima alla prossima,
Pace, Amore, Musica.
Oh, e ovviamente, Sogni ♥
G.

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