Remind Me

di Titinina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo ***
Capitolo 2: *** Secondo - Pioggia ***
Capitolo 3: *** Terzo - La statua di Hachiko ***
Capitolo 4: *** Quarto - Kabukicho ***
Capitolo 5: *** Quinto - Luna ***
Capitolo 6: *** Sesto - Il proiettile ***
Capitolo 7: *** Settimo - Colpe e discolpe ***
Capitolo 8: *** Ottavo - Un passo indietro ***
Capitolo 9: *** Nono - Profumo ***
Capitolo 10: *** Decimo - Vita, morte e destino in preparazione ***
Capitolo 11: *** Undicesimo - Molo 47 ***
Capitolo 12: *** Dodicesimo - Ad un passo ***
Capitolo 13: *** Tredicesimo - Vincitori e vinti ***
Capitolo 14: *** Quattordicesimo - Così uguale, così diverso. ***
Capitolo 15: *** Quindicesimo - Il destino ***



Capitolo 1
*** Primo ***



Tutti intorno era silenzioso, la sala era buia, sembrava abbandonata. Nessun rumore proveniva da quella casa, solo quel silenzio assordante, così terrificante, così triste.
La luce fioca dei lampioni della strada illuminavano, in piccola parte, le stanze di quella casa vuota, le ombre si stagliavano sul pavimento, creando un gioco di linee scure date da i mobili silenziosi, fermi; ma ad un occhio attento, l’ombra che davvero inquietava di più, era quella massa informe, curva, chiusa.

C’era una donna in quella casa, una donna raggomitolata su se stessa , con un dolore lacerante nel cuore, nell’anima.

Quella posizione era l’unico modo di proteggersi dal proprio inferno personale, stando raggomitolata su se stessa cercava di credere che un minimo di calore, proveniente da se stessa, potesse darle conforto, ma la sua battaglia era persa in partenza, quel suo esile corpo piegato dalla sofferenza, non riusciva a darle nessun calore, solo la consapevolezza di essere sola.

Stringeva a sé una foto, lei con i capelli corti, sorridente, felice. Lui che l’abbracciava e sorrideva di rimando.
Ricordava perfettamente quel momento, impresso a fuoco nella sua memoria.

FLASHBACK
Tutti insieme, come una famiglia, si erano ritrovati a festeggiare Natale a casa di Doc. Ovviamente la neve aveva coperto tutta la città, il giardino di Doc era completamente bianco. Senza pensarci un attimo quel giardino divenne un campo di battaglia, le palle di neve arrivavano su tutti creando momenti di vera ilarità.
La battaglia era senza sosta, neve ovunque, Mick stava prendendo la pala per lanciare la neve su Umibozu. Umibozu non fu molto contento di quella valanga di neve, prese il biondino americano e, con una gomitata ben assestata, lo fece affondare nel terreno, non contento, gli rovesciò altra neve addosso.
Kaori guardava la scena divertita e lui in uno slancio, ridendo come un matto, l’aveva abbracciata davanti a tutti, ridendo di Mick. Lei gli accarezzò il viso, mentre lui la strinse. Intanto si alzò una folata di vento che fece volteggiare la sciarpa di Kaori, sembrava che quel vento fosse lì per loro esclusivamente, che li avvolgesse con quella brezza per essere partecipe, anche lui, di quell’energia che emanavano, forte e allo stesso tempo pacifica. Miki immortalò quel momento così speciale, così semplice, così prezioso.

FINE FLASHBACK

Erano passati quasi due anni da quel Natale, l’ultimo che avevano passato insieme.
Kaori guardò ancora quell’unica foto. E le lacrime continuarono a scendere sul suo viso, singhiozzi a non finire le sconquassavano il petto, dondolava disperata e raggomitolata. Niente poteva lenire il suo dolore, la solitudine del suo cuore non si colmava e la notte la passava in bianco attaccata alla finestra, con la piccola speranza di vederlo spuntare da qualche parte.
Due anni dolorosi. Due anni impossibili. Due anni senza di lui. Senza Ryo.

Rabbia, sconforto, angoscia, disperazione albergavano in Kaori, tutte le notti le sfogava piangendo quelle lacrime così amare.
Due anni in cui tutta la sua esistenza prese una piega sconfortante, aveva perso tutto. Tutto ciò che conosceva e ciò che gli era più caro. I suoi occhi erano spenti, senza vita, tutta la luce era andata perduta, solo degli occhi vuoti.
Kaori era solo un corpo che funzionava biologicamente. Si respirava, si dormiva, si camminava, si parlava, ma era fatto tutto per inerzia, per sopravvivere al dolore. Aveva sopportato tutto con stoica fierezza, ma questo brutto tiro mancino che il destino le aveva dato, non riusciva a reggerlo.
Pensò che il destino si stesse accanendo con lei, le portava via tutti quelli che amava.
Fece una risata amara, pensando che, per otto anni, Ryo aveva cercato di allontanarla per la paura di perderla, e, per gioco del fato, era stata lei a perdere lui.
Forse aveva toccato la felicità con mano e allora le era stata inflitta questa ennesima botta. Felicità pura da quando Ryo si era dichiarato alla raduna. Quell’abbraccio aveva suggellato il loro amore. Quel giorno si erano promessi di vivere l’uno per l’altra senza più muri, senza più paura. Quella notte si erano amati per la prima volta, come non era mai successo prima per nessuno dei due. Finalmente avevano fatto il salto. Si scoprivano giorno dopo giorno, momento dopo momento, tra urla, sguardi magnetici, martelli, baci furtivi, carezze e polvere da sparo. Il loro paradiso.

E poi quel maledetto giorno. Lui sulla soglia della porta. Si erano salutati a loro modo, tra un urlo e un lancio di martello.
Ryo aprì la porta di casa, girato con la borsa sulla spalla. Kaori gli corse dietro e lo abbracciò possessivamente.



Queste parole sussurrate, la promessa di tornare presto a casa.
E la porta si chiuse.
E un brivido freddo le attraversò la spina dorsale.
Le loro ultime parole,l’ultima volta che si erano visti, l’ultima volta che il loro abbraccio li aveva confortati.

Ma non aveva mantenuto la sua promessa. Lui non era tornato.

La bile, per l’ennesima volta, le si rivoltò e rigurgitò di nuovo il suo dolore. Nessuna traccia di lui, sembrava sparito dalla faccia della terra.
Rimase lì ferma, nel suo dolore, ad aspettare l’alba, un nuovo giorno sarebbe arrivato, doveva ricominciare a fare la sua pantomima di fronte agli altri, far finta di vivere.
Senza Ryo.



In quella mattina di metà marzo, Mick Angel decise di uscire di buon’ora, aveva un appuntamento di lavoro, una nuova cliente che chiedeva il loro aiuto. Prima di uscire di casa, baciò Kazue, che gli passò la sua tazza di caffè. Finalmente aveva trovato la donna che lo completava, Kazue dava un tocco di serenità alla sua vita, vederla al suo rientro dopo una giornata faticosa, era il premio che si era giustamente meritato. Dopo una vita passata a combattere per la sua sopravvivenza, era finalmente giunto ad un equilibrio interiore, non più la legge del taglione, ma vivere con gioia, con voglia di dare, con voglia di amare. E la donna che lo aspettava a casa era ciò che di più prezioso aveva al mondo in questo momento.

Scese velocemente le scale di casa e aprì il portone. Ma il suo sguardo celeste si incupì, davanti a lui una palazzina bianca. Ecco lo schiaffo mattutino, il ritorno alla realtà, quella palazzina non era più una casa accogliente, ma un rifugio dal mondo per un’anima perduta. Un’anima che aveva amato e che da due anni non riusciva a darsi pace. Abbassò lo sguardo e cercò di scacciare in qualche modo quel pensiero. Si sentiva in colpa. Si in colpa, lui era stato fortunato, dopo tanto cercare aveva finalmente trovato il suo posto, la sua dimensione.

Ma gli abitanti della palazzina di fronte non erano stati così fortunati, quella palazzina bianca conteneva solo dolore ora, e allora sentiva quel senso di colpa afferrargli lo stomaco nei confronti di coloro che gli avevano dato il dono di vivere con la loro amicizia, e lui non aveva potuto contraccambiare.

Mick accese nervosamente la prima sigaretta della giornata, camminando lentamente, nella brezza mattutina, cercò di darsi una scrollata da quei pensieri, aveva una nuova giornata da affrontare.
Si incamminò con passo deciso nelle vie di Shinjuku, andando verso il Cat’s Eye.



Miki Injuin stava spazzando l’entrata del suo bar, gli ultimi clienti di quella mattinata stavano uscendo dal bar. Quella mattina il bar era stato affollato, come del resto le altre mattine. Gli impiegati degli uffici della zona avevano scoperto il Cat’s Eye e avevano preso l’abitudine di fermarsi al bar per un caffè prima del lavoro. Nella zona, la fama del Cat’s Eye era decisamente migliorata. Tutti ne parlavano molto bene, tutti dicevano che la proprietaria era gentile, educata e molto bella. Ogni tanto compariva il marito della proprietaria, ma, quell’uomo gigante e pelato, si vedeva sempre molto poco, stava nel retrobottega, non spaventando i clienti come prima.

Miki Injuin non poteva lamentarsi. Lei e suo marito si amavano, gli affari andavano bene, si desiderava tanto un bambino, ma se in quel momento non arrivava, non era un problema. La sua vita scorreva serena, come aveva desiderato. Si fermò alzando lo sguardo verso l’insegna del suo bar. Cat’s Eye. Ma il sorriso di Miki non arrivava davvero ai suoi occhi.
Il suo bar aveva cominciato ad andare bene da quando non veniva più distrutto, da quando le vetrine erano intatte, da quando i suoi vassoi non venivano lanciati, da quando suo marito non piantonava più il bar per fermare lo stato di lubricità del maniaco, da quando la sua migliore amica non andava in giro con un martello di enormi dimensioni per fermare il maniaco.

Miki fece un ghigno, il maniaco, lo Stallone di Shinjuku. Il suo bar andava meglio. Ma la sua famiglia, i suoi amici, si erano diradati. Non perché non si volessero bene. No. Perché la loro unione si era appesantita a causa si una perdita a cui non riuscivano a dare una spiegazione. Niente più scherzi, niente più risate, niente più calore.

Kaori e Ryo. Ryo e Kaori. I due nomi le rimbalzavano nella testa . Strinse più forte con le mani il manico della scopa. Una lacrima le scivolò sulla guancia senza che se ne accorgesse.

- Oh Darling, le belle donne come te non dovrebbero piangere, ma solo sorridere.

Mick porse il suo fazzoletto a Miki da vero galantuomo, come nel suo stile.


Umibozu nel retro del bar stava scaricando la merce, le casse di caffè, i liquori, le vivande.

Pagò il fornitore del bar e firmò la bolla.

- Signor Ijuin, sbaglio, o è da un po’ che non fa gli ordini per le tazze nuove?

- Mh non ne abbiamo bisogno.

E si voltò portando con sé la merce.
Riuscì, senza grandi sforzi, a portare tutto all’interno del bar. Con la sua meticolosità sistemo tutto in ordine. Finito il suo lavoro, la sua mano si posò per aprire la botola interna, e lì tastò delle scatole impolverate. Tazze e piatti inscatolati, nuovi. Umibozu sapeva da quanto tempo erano lì, sapeva benissimo perché non avevano bisogno di tazze, non c’è ne era bisogno perché nessuno più le rompeva.

Umibozu strinse forte la mano in un pugno. Quel figlio di puttana non poteva essere morto. La pelle doveva fargliela lui. Non poteva essere morto, avevano ancora una sfida in sospeso.

Il tintinnio del campanello del bar risuonò e Umibozu riconobbe immediatamente il passo di sua moglie e di Mick che entravano nel bar.

Mick aprì la porta a Miki e la fece entrare.

- Kaori è arrivata?
- Non ancora Mick. Ma vedrai che non ritarderà. Lei non è mai in ritardo.
- Già.

Mick accese ancora una sigaretta, si sedette su uno degli sgabelli del bancone e accavallò le gambe. Umibozu uscì dal retro e, dopo aver salutato con un cenno della testa, cominciò a preparare il suo famoso caffè, ma questo era per lei, che stava arrivando.

Kaori era a pochi passi dal Cat’s Eye. Camminava lenta in quella mattina di marzo. Cercava di respirare e di camminare. Questo era l’input che dava il suo cervello. Respirare e camminare. Il senso di angoscia che l’aveva attanagliata per tutta la notte doveva rimanere a casa. Cercò di sorridere, di trovare il modo di sorridere. Ma non ce la fece. Aprì la porta del bar.

Miki guardò Kaori, i capelli che le arrivavano sotto il collo, il viso bianco e smagrito, le occhiaie. Era dimagrita e anche tanto, sembrava il fantasma di quella donna che aveva conosciuto e che amava come una sorella.

- Buongiorno a tutti.
- Buongiorno Kaori, siediti, Umi ha preparato il tuo caffè.
- Grazie Miki, grazie Umibozu, non so che farei senza il tuo caffè.
- Mangia anche questo pezzo di torta Kaori, è appena sfornata.

Umibozu porse la tazza davanti a Kaori e versò il caffè con cura.

- No grazie Miki, non ho molta fame.
- Dai sicuramente non avrai fatto ancora colazione. Mangiane almeno un pezzetto.

Kaori scosse ancora la testa, ma si sforzò di mettere almeno in bocca un cucchiaio. Sapeva che era dimagrita molto, di certo anche gli altri se ne erano accorti, e si preoccupavano per lei. Mettendo il boccone in bocca, guardò Miki.

- E’ squisita! Grazie. Allora Mick, quando arriva la cliente?
- Tra mezzora, Darling, abbiamo il tempo di rilassarci.
- Bene. E poi mi sembra che questo caso sia molto semplice.
- Si, dobbiamo solo scortarla al tribunale venerdì mattina.
- La porta direttamente Saeko qui, vero?
- Si, certo.
- Bene.

Mick guardò Kaori vestita di un maglioncino bianco e di jeans semplici. Più la guardava più cercava di capire dove trovava, in quel corpo esile, la forza e la volontà di lavorare. Quella donna, che una parte del suo cuore amava ancora, indossava una maschera, ma riusciva a vedere comunque la sua sofferenza e avrebbe voluto davvero abbracciarla, ma non lo avrebbe fatto. Non voleva compatirla, il suo modo di starle vicino era continuare a lavorare con lei, per lei, per City Hunter.


Una porsche rossa sfrecciava tra le vie trafficate di Tokyo, Saeko Nogami dava gas alla sua auto facendo slalom tra le macchine, guidava sicura verso il distretto. Era ormai pomeriggio, la mattinata l’aveva passata al Cat’s Eye con una testimone che aveva affidato alle cure di City Hunter, ovvero Mick e Kaori. Un caso molto semplice, dovevano solo scortarla il giorno dopo al tribunale, niente di eccezionale.

Correva ancora forte, tutto era più difficile in verità, ogni caso tortuoso diventava abbastanza difficile da superare, quel maledetto non poteva aiutarla, scomparso da due anni. Giurò su se stessa che se fosse ritornato gli avrebbe impiantato uno dei suoi coltelli nei gioielli di famiglia.

Parcheggiò la sua porche sotto la questura ed entro nell’edificio. I poliziotti le fecero il saluto al suo passaggio, ma non li guardò neanche, abilissima nei suoi tacchi alti, Saeko, si chiuse nell’ascensore e salì al penultimo piano dell ‘edificio. Si inoltro nel corridoio e fece cenno di saluto alla sua segretaria. Entrando nel suo ufficio, si sedette sulla sua poltrona di pelle comoda.

Con mille pensieri per la testa fece per tirare fuori la sua agenda da un cassetto in modo da vedere quali altri appuntamenti aveva per la giornata. Improvvisamente la sua attenzione virò sulla foto. Lei, Maki e Ryo. L’occhio cadde su Ryo, per la rabbia chiuse il cassetto con troppa forza e si alzò a prendere un bicchiere di scotch, se ne versò nel bicchiere e si girò verso la vetrata del suo studio. Bevve tutto d’un fiato. E il suo senso di colpa si propragò nel profondo del suo essere come l’acol. Era colpa sua, se non gli avesse parlato di quel caso, se non avesse detto di Maki, lui non sarebbe partito. Scacciò quel pensiero, l’aveva promesso a lei, lei le aveva detto che quello era il loro mestiere e che non era colpa sua. Erano i rischi del mestiere.
Ripercorreva con la mente la figura di Kaori, i suoi occhi gonfi di pianto ma una forza sovraumana nel cercare di farle capire che non la riteneva responsabile di quello che era accaduto. Le aveva ricordato lei e il suo dolore di anni prima alla scomparsa del suo Maki. Sapeva benissimo che Kaori sfogava la sua rabbia e la sua frustrazione la notte, da sola, come del resto faceva lei da dieci lunghi anni.
Si rimise al lavoro, sapeva che la notte sarebbe stata lunga in ufficio, e tirò fuori le carte del processo del giorno dopo.

***********************************************************************

Quegli occhi scuri, castani, luminosi, lo stavano fissando. Pieni di vita, pieni di luce per lui. Non riusciva a vedere i tratti di quella donna, ma poteva vedere la sua bocca muoversi. Sembrava dirgli qualcosa. Ma lui non sentiva, non sentiva niente, glielo ripeteva - non sento quello che dici- e lei gli sorrideva, allora non importava ciò che diceva, quel sorriso era così rassicurante, così bello, così caldo che il resto non importava.
Ma quel sorriso si allontanava, cercava in tutti i modi di raggiungerla, gli urlava di fermarsi, di aspettarlo. Intanto una strana angoscia gli serrava il cuore. Correva, ma tutto veniva annebbiato. E ogni volta rimaneva solo, con la strana sensazione di aver perso qualcosa di importante, di fondamentale per lui.

Un tuono fece un enorme boato, lui si svegliò di colpo dalla sua branda, madido di sudore.

Ancora una volta quel sogno lo perseguitava, una donna che gli sorrideva, ma lui non sapeva chi fosse. E quell’angoscia continuava a serragli il petto. Si strofinò gli occhi energicamente. Pensò fosse una stupidata farsi soggiogare così da un sogno. Eppure continuava a farlo tutte le notti.

Un uomo aprì la tenda dove lui riposava.

- Ehi Steve, tocca a te la ronda.

Steve si alzò, infilò gli stivali e accese una sigaretta.

- Si, sto arrivando.

Tra una boccata di fumo e l’altra, allungò le braccia. Gli aspettava un’altra nottata sotto quell’acqua torrida. Era da circa un anno che ormai faceva il mercenario insieme a quel plotone nella giungla thailandese. Non ricordava chi fosse, sapeva soltanto che una mattina si era svegliato pieno di fasciature e di bruciature e non ricordava assolutamente nulla, la sua testa era vuota, nessun ricordo. Lo aveva trovato il plotone in cui era stato ingaggiato. Avendo solo con sé una pistola e un anello, aveva dedotto che, forse, rimanere con loro, era il modo migliore per sopravvivere.

Nella sua testa solo un nome: Steve Lee.

Il suo plotone pattugliava la giungla, e quell’ambiente militaresco e infido gli era familiare, forse era nato in quel posto, visto l’agio con cui si muoveva, forse aveva sempre vissuto lì e non se lo ricordava. Ma gli sembrava il posto più congeniale per lui, perciò non si fece troppe domande,si sentì nei panni giusti nel ruolo di mercenario.

Steve si guardò allo specchio, passò la mano tra i suoi capelli neri, ormai lunghi che teneva legati. Immerse le mani nell’acqua del catino di fronte a lui e si rinfrescò il viso energicamente, la barba era ormai lunga, gli copriva il viso, ma decise di lasciarla così ormai da qualche mese. Indossò la giacca della sua tuta mimetica e gettò il mozzicone a terra. Uscì dalla sua tenda, non senza aver preso con sé l’anello, che teneva attaccato al collo con un laccio e che nascondeva sotto la maglia, e la sua pistola, una Colt Python 357 Magnum, decisamente una bella pistola.

Fece cenno al suo compagno e cominciò il suo giro di ronda.

La pioggia lo bagnava da capo a piedi, ma non se ne curava, con la mente sempre attiva, scrutava la zona, attento ad ogni minimo rumore che la giungla faceva di notte.
Steve Lee, però, non riusciva a togliersi dalla testa quel sorriso che tutte le notti lo perseguitava.

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Capitolo 2
*** Secondo - Pioggia ***



Golden Triangle – Thailandia

La pioggia continuava a scrosciare incessante sulla giungla.

Baiko Miura, nella sua tenda, si accese l’ennesimo sigaro, il fumo uscì dalla sua bocca, il viso soddisfatto per il sapore che il tabacco gli lasciava nella bocca. Il suo viso era rilassato, tutto stava andando secondo i suoi piani, presto sarebbe giunto il momento di ritornare in patria, da dove era dovuto scappare. Tokyo, pensò Baiko, sarebbe ricaduta nelle sue mani come vent’anni prima.

Le sue piantagioni erano davvero produttive, i contadini che le lavoravano erano instancabili e l’armata che aveva creato attorno a sé proteggeva tutto il suo “impero della droga”. La polizia del luogo era stata facilmente corruttibile, tant’è che lo lasciavano in pace. Certo c’era stato da combattere con altri mercenari, ma aveva vinto e conquistato. Si non poteva decisamente lamentare.
Ora doveva solo riconquistare il suo territorio, Tokyo. Vent’anni fa Baiko Miura era a capo della Kyodo – kai, banda di yakuza, che aveva preso piede in città. Gli affari gli stavano andando bene: prostituzione, night club, droga. Normale amministrazione. Ma purtroppo tra i suoi si era infiltrato un uomo della polizia, entrato nel loro mirino, il suo gruppo fu totalmente smantellato. La polizia arrestò la maggior parte dei suoi uomini e lui si ritrovò a scappare, non senza un bel malloppo.

Il Golden Triangle era il posto giusto dove ricominciare il suo giro losco di affari, con una giurisdizione propria dove sopravviveva solo il più forte, Baiko si fece notare subito. In poco meno di dieci anni era diventato uno dei signori della droga, oppio e eroina, e riforniva mezza Asia.

Ma lui aveva solo ed un unico obiettivo: ritornare da dove era dovuto scappare. Voleva vendetta, voleva riprendersi ciò che era suo di diritto. Aveva avuto informazioni su come giravano le cose a Tokyo. Molte cose erano cambiate, piccole bande erano sparse nei quartieri, ma tutte erano a capo della Godda – ikka. Il loro capo era giovane, si avvaleva di tecnologie moderne, ma Baiko pensò che un uomo giovane sarebbe stato un ostacolo molto semplice da raggirare. Quello che lo preoccupava di più era una voce che sconfinava anche oltre oceano, c’era un uomo a Tokyo, un uomo che da solo era al di sopra della giustizia, sia della giustizia della società, sia della giustizia della mala, tutto era regolato da lui. Lui metteva ordine in città, se qualcosa andava storto, lui le sistemava. Anche i boss anziani avevano timore di quest’uomo. In molti avevano provato a farlo fuori, ma nessuno ci era riuscito. Baiko pensò davvero che questa era l’ostacolo maggiore per la sua rinascita, altro che qualche ragazzino che giocava a fare il mafioso. L’unica soluzione era scovare e seguire quest’uomo, studiarne le mosse e i punti deboli, in modo che al momento giusto sarebbe caduto. Baiko sapeva già a chi affidare questo incarico.

Si rivolse ad uno dei suoi sottoposti.

- Mandami qui Steve
- Si, capo.

L’uomo uscì dalla tenda alla ricerca di Steve Lee. Baiko sapeva che lui era la persona giusta, in meno di un anno con loro, aveva portato a termine, in maniera pulita ed efficiente, molte missioni. Era abile, anche se non conosceva nulla del suo passato, si fidava delle sue capacità. Era un tipo taciturno, con uno strano sguardo, certamente schivo e voleva fare sempre a suo modo, stava sempre sopra le regole, ma alla fine, l’importante, era che portasse a termine il suo incarico.

Steve stava pulendo uno dei suoi coltelli a serramanico.

- Ehi Steve, il capo ti cerca.
- Ok .

Lasciò lì il suo lavoro, impugnò la python, e andò verso la tenda del capo.

- Capo

Entrò senza bussare, come sempre, e, senza chiedere permesso, si mise comodamente seduto, portando i piedi sopra il tavolino.
Baiko storse il naso, ma non fece notare il suo disappunto. Non era il momento di insegnare al ragazzo chi era il capo.

- Steve preparati, tra due giorni parti
- Dove.
- Tokyo
- Per fare cosa?
- Devi metterti sulle tracce di City Hunter, scovarlo ed eliminarlo.
- E questo chi è?
- Dicono che sia il giustiziere della città.
- Qualche pivello che si è montato la testa. Vorrà dire che mi prenderò qualche giorno di vacanza.
- Non prendere la questione sotto gamba, Steve. Ti farò avere tutte le informazioni che ho, nuovi documenti e vestiti.
- Nessun problema, è tutto?
- Si è tutto.
- Bene.

Steve Lee uscì dalla tenda di Baiko soddisfatto, finalmente un po’ d’azione. Non si ricordava se fosse mai stato a Tokyo, ma l’idea gli piaceva. E poi un caso così semplice, eliminare un uomo che si faceva chiamare City Hunter, il giustiziere della città. Ridicolo.
Si avviò alla sua tenda per sistemare le sue poche cose e prepararsi alla partenza.
Steve Lee al più presto sarebbe stato sulle tracce di City Hunter.

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Shinjuku - Tokyo

Kaori guidava la mini spedita, affianco a sé la cliente: Nami Tamaki, ex amante di un boss della yakuza. La ragazza in questione aveva assistito ad un regolamento di conti tra il suo ex amante e un politico, spaventata, si era rivolta alla polizia. Fu messa sotto il programma di protezione testimoni, quella mattina sarebbe stata scortata fino in tribunale per testimoniare e infine sparire in qualche altro paese per ricominciare.

Facendo slalom tra le auto nel traffico, Kaori si sentì osservata, diede un occhio nello specchio retrovisore e notò un furgone nero con i vetri oscurati. Kaori sorrise tra sé e sé, pensò che quella gente era proprio dilettante se era riuscita lei ad individuarli. L’azione le piaceva più che mai, l’adrenalina che circolava nelle vene, il cuore che batteva nel petto come un tamburo, ma ciò che più era inquietante per lei era la calma e la freddezza con cui ormai agiva. Si fredda, perché non aveva niente da perdere, perché voleva vivere su quel filo del rasoio dove vita e morte si rincorrevano senza sosta e lei stava nel mezzo. Ecco perché continuava a sorridere a quello specchietto retrovisore.

- Nami allaccia la cintura di sicurezza.
- Che succede?
- Allaccia la cintura e abbassa la testa.

Nami fece ciò che Kaori le disse, abbassò la testa e controllò la cintura. Kaori ingranò la quarta e schiacciò più forte l’acceleratore, il furgoncino alle sue spalle fece lo stesso. Lo slalom continuò rapido nel traffico di Tokyo, improvvisamente Kaori frenò e fece velocemente inversione a U nel bel mezzo di un incrocio, una berlina cercò di frenare creando scompiglio, i clacson si fecero sentire, le proteste degli automobilisti erano tutte contro le mini, Kaori continuava a correre finché non svoltò in un vicolo. Il furgoncino nero, vedendo la mini rossa, seguì il suo stesso percorso, inversione a U e cerco di infilarsi nel vicolo.

Ma nel vicolo dovettero arrestare improvvisamente la loro corsa, un ragazza dai capelli rossi era nel bel mezzo della strada in piedi, quando improvvisamente la videro tirare fuori qualcosa dall’auto, i passeggeri sbarrarono gli occhi e cominciarono ad urlare.

- Fai retromarcia presto.
- Non posso andare più veloce di così.

L’autista del furgone nero ingranò la retro sudando freddo, i suoi compagni gli urlavano di fare più in fretta possibile, davanti a lui la ragazza dai capelli rossi aveva in mano un bazooka ed era pronta a sparare.

Kaori, imbracciando il suo fedele bazooka, caricò e mirò al furgone, il missile partì a tutta velocità, colpì il cofano motore del furgone che si ribaltò in mezzo alla strada.
Si rimise direttamente in auto e scortò Nami, urlante, fino in tribunale.

Mick era con Saeko sui gradini del tribunale di Tokyo, aspettavano impazienti Kaori. Mick e Kaori si erano divisi in modo da far credere che Nami fosse scortata da lui, ma arrivò incolume. Cercò di chiamare Kaori sul suo cellulare, ma invano, non rispondeva. Saeko e Mick erano agitati non vedendo la Mini arrivare.

- Sarà successo qualcosa?
- Non lo so Saeko, non lo so, continua a non rispondermi al cellulare.

Mick richiuse nuovamente il telefonino sibilando un “cazzo” tra i denti e riaccendendo l’ennesima sigaretta.

Un agente di polizia si avvicinò a Saeko.

- Ispettrice
- Dimmi
- Ci hanno appena avvertito che un furgone è stato appena fatto saltare con un colpo di bazooka, alcuni dei nostri agenti sono andati lì.
- Un bazooka? Altre auto coinvolte?
- Nessuna
- Continuate ad indagare e fatemi avere notizie al più presto.
- Si signore.

Il poliziotto si allontanò, Saeko guardò Mick, Mick sgranò gli occhi e riprese il telefonino in mano ricomponendo il numero di Kaori.
Il telefono continuò a squillare, ma improvvisamente un rumore di gomme fece girare Mick, Kaori sterzò e arrivò come una furia davanti al tribunale.

Scese come se niente fosse successo.

- Non potevo risponderti in quel momento Mick, Nami scendi ora, sei al sicuro
- Kaori è tutto apposto?
- Si Saeko, abbiamo avuto un piccolo imprevisto, ma abbiamo risolto, Nami sta bene.

Saeko portò dentro Nami, lasciando Mick e Kaori fuori dal tribunale.

- Kaori che diavolo è successo?
- Niente un furgone ci ha inseguite ma me ne sono liberata.
- Sei stata un’incosciente, potevi almeno avvisare e sarei arrivato.
- Mick è stato un gioco da ragazzi, roba da niente ti preoccupi troppo.
- No, Kaori, e che non mi preoccupo abbastanza.
- Sono viva e vegeta, Mick. Andiamo a casa ora.

Kaori voltò le spalle a Mick, rassegnato il biondo, la seguì in auto per andare verso casa.

Kaori aprì la porta di casa, lasciando Mick in garage. Di nuovo il buio e il silenzio l’avvolse, chiuse la porta e ci si appoggiò sopra sospirando. Guardò il salone di casa, il divano, il tavolino e i mobili. Chiuse gli occhi.

Flashback

Faceva caldo, troppo caldo. L’afa saliva dalla strada creando una forte cappa di calore. Kaori, con le buste della spesa, stava salendo affannata, aprì la porta.

- Si muore di caldo! Ryo vieni a darmi….

Kaori non fiatò più. Ryo era disteso sul divano solo in boxer. A pancia in su, aveva le braccia sopra la testa e dormiva sereno. Kaori, silenziosa, andò a posare le borse in cucina. Poi tornò verso di lui.
Si accovacciò vicino al divano e allungò la mano, con l’indice andò a toccarle il naso, poi passò alla bocca e al collo, Kaori ancora non credeva che quell’uomo che dormiva era suo e sorrise. La sua mano si infilò nell’incavo del collo e passò ad accarezzare i muscoli tesi e sudati dell’uomo. Si avvicinò con malizia al suo ombelico.

- Guarda qui che pancetta ha messo su lo sweeper. Devo metterlo a dieta.

Improvvisamente Ryo aprì un occhio.

- Donna, come osi denigrare questo corpo!

Ryo si tirò improvvisamente a sedere e circondò la vita di Kaori per portarla su di lui. E cominciò a farle il solletico.

- Me la pagherai virago, amaramente!
- Ahahahah no Ryo, ti prego!
- Smetterò solo quando mi dirai: “no stallone, il tuo corpo è perfetto”
- Ti prego Ryo smettila!

Ryo continuava a farle il solletico mentre Kaori si dimenava ridendo.

- Allora ti arrendi?
- Va bene,va bene: “stallone, il tuo corpo è perfetto, ma è MIO”
- Direi che potrebbe andare!

E Ryo smise di farle il solletico, la fece mettere sotto di lui inchiodandola tra lui il divano.

- Ammettilo, Ryo, stavi facendo finta di dormire per non aiutarmi.
- Mi conosci bene, io sono bravo in altre attività.

Lentamente, succhio la tenera pelle del suo collo e prese possesso delle sue labbra….
Fine Flashback

Kaori riaprì gli occhi nel buio, una lacrima scivolò sulla guancia ma l’asciugò in fretta e si diresse verso la terrazza.

Steve stava sbrigando le ultime questioni burocratiche alla dogana. Aveva appena toccato il suolo giapponese.
Aspettò l’arrivo del suo bagaglio al nastro trasportatore. Una hostess gli passò accanto e lui gli fece un occhiolino, la ragazza sorrise di rimando a quell’uomo vestito di un paio di jeans e una giacca in pelle con quell’aria misteriosa.

Steve recuperò il bagaglio e andò verso l’uscita dell’aeroporto di Narita. Lo sciame di persone che gli era attorno a tratti lo inquietava e a tratti lo incuriosiva, si domandò se era già stato in quel posto. Prima di uscire andò alla toilette, rinchiuso all’interno, aprì il doppio fondo della sua borsa e tirò fuori la sua Python per infilarla sotto la giacca. Prima di uscire si guardò allo specchio, come non faceva da tanto, la barba era abbastanza lunga ma ben curata sul suo viso, prima di partire aveva accorciato di poco i suoi capelli quel tanto che bastava. E poi si guardò negli occhi, i suoi occhi scuri come la notte, penetranti.
Improvvisamente un flash, lui con un orecchino da donna in mano, lungo e dorato, che stringeva tra le mani come un tesoro prezioso.

E poi l’immagine svanì velocemente come era venuta. Steve si riscosse da quel torpore e decise di uscire da lì. Un senso di calore lo avvolse, quell’orecchino doveva essere importante per lui; appena uscì dall’aeroporto, un lampo squarciò il cielo e cominciò a piovere.

Steve alzò la testa verso il cielo scuro di Tokyo, la pioggia gli bagnava il viso e nel profondo del suo essere sentì che si trovava nel posto giusto.

Intanto, Kaori, era sulla terrazza di casa, nel momento in cui il lampo squarciò il cielo un brivido la percosse, ma rimase lì mentre infuriava la tempesta sopra la città, la pioggia le bagnava il viso e percepì qualcosa nel suo cuore.

Qualcosa che presto avrebbe sconvolto di nuovo la sua vita.

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Capitolo 3
*** Terzo - La statua di Hachiko ***



Dove si trovava?
Sembrava un bosco.
La sua fedele pistola in mano.
Gli abiti logori.
Ma provava una gioia immensa.
Lei camminava verso di lui, non riusciva a vederle il viso. Un raggio di sole la copriva.
Ma lui era felice.
Si avvicinava, passo dopo passo, lui allungò la mano per afferrarla, per provare gioia in più.
Perché lo sapeva, tra le sue braccia, la sua felicità sarebbe stata completa.
Bramava ad ogni passo, guardava le sue gambe e quella gonna rosa che le arrivava sopra le ginocchia.
Poi lei si fermò improvvisamente. E gli sorrise. Il tepore di quel sorriso gli prese lo stomaco per irradiarsi in tutto il suo essere, fino ad arrivare al suo cuore. E sentì il suo cuore. Un battito, due battiti, tre battiti. Un cuore che pulsava e pulsava in fretta, come a volergli dire che era per quella creatura, che aveva davanti agli occhi, che lui pulsava così forte da far male.
Ecco, la sua voce.

"Adesso vorrei abbracciarti forte, pensi che si tratti dell’istinto di sopravvivenza della razza?"

Il suo sorriso, timido, impacciato, bellissimo.
E poi la nebbia l’avvolse, cercò di prenderle la mano, non voleva lasciarla andare.
Ma il suo corpo non obbediva, non si muoveva, sembrava paralizzato.
Non riusciva a fermarla, mentre lei pian piano scompariva nella nebbia, la paura si installò nel suo stomaco, non poteva perderla di nuovo.
Non voleva perderla di nuovo.
Il cuore batteva più forte, più forte tanto da sentirlo nelle tempie. Ma l’ultima cosa che vide era la sua mano risucchiata nella nebbia.
E poi il nulla.
***********************************************************************
Steve aprì gli occhi all’improvviso e si destò. Di nuovo quel sogno persecutore. Di nuovo quel senso di gioia immensa e poi paura angosciante. E lei. Lei che non riusciva a trattenere.

Si alzò in piedi cercando di riordinare le idee. Si, un buon caffè sarebbe stato l’ideale.
Cercò di far mente locale se in quell’appartamento avesse visto del caffè. Scese le scale e si ritrovò in soggiorno, si girò verso la cucina, con gesti automatici e sovrappensiero, si era preparato il caffè.
Portò il primo sorso alla gola, il liquido scuro gli attraversò la bocca, finalmente riuscì a ragionare più lucidamente. Si sedette sul divano del soggiorno, posò il caffè sul tavolino e tirò vicino a sé il pacchetto di sigarette e la busta con tutte le informazione che Baiko gli aveva fornito.

Quel grande bastardo aveva organizzato tutto.

Il suo appartamento si trovava al confine tra Shibuya e Shinjuku. La sera prima, dopo essere uscito dall’aeroporto, aveva preso un taxi indicando l’indirizzo che Baiko aveva lasciato nella busta, all’interno aveva trovato anche un mazzo di chiavi.
Il palazzo, di dieci piani, era notevolmente silenzioso nonostante si trovasse in un quartiere trafficato. Disposto su due piani, era dotato di tutti i comfort. Lenzuola pulite, una casa calda. Di certo migliore della tenda logora al Golden Triangle. Baiko ci teneva proprio a veder morto questo City Hunter per avergli dato tutto questo.

Tirò fuori il contenuto della busta. Da una lettura capì molto in fretta che su questo City Hunter c’era davvero molto poco. Tra una boccata di fumo e l’altra, Steve , mormorò tra sé e sé, che Baiko non gli aveva dato niente in mano. Davvero pochi indizi. Non c’era neanche una descrizione del tizio.

Cercò di fare un quadro generale di ciò che aveva in mano.
City Hunter operava a Tokyo dagli anni ottanta. Probabilmente collaborava con la polizia – e questa non era una buona cosa-, tendenzialmente tutti lo conoscevano di nome, ma chi sapeva non parlava e chi non sapeva credeva fosse una leggenda metropolitana.

A Steve la prima cosa che venne in mente fu pensare se questo City Hunter fosse solo oppure fosse un gruppo. Com’era possibile che un uomo solo potesse avere il controllo su tutta Tokyo?!

La zona che più controllava era Shinjuku Est, non molto lontano da dove lui abitava ora.

L’unica cosa intelligente che Baiko avesse fatto era di dargli il nome di un certo Haru Satou, suo ex collaboratore. Dalle poche parole di Baiko, lavorava per lui quando era a capo della Kyodo – kai, ed era stato lui ad informarlo di City Hunter. Haru Satou, nonostante la galera, nonostante fossero passati tanti anni, era rimasto fedele a Baiko, tant’è che appena saputo dell’intenzione del suo ex capo di tornare in città, si fece subito avanti per aiutarlo. Un criminale di vecchio stampo.

Steve perciò decise di dedicarsi alla ricerca di Haru quel giorno. Sicuramente poteva scoprire qualcosa in più.
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Shinjuku Est - casa Saeba/Makimura

La data sul calendario segnava 14 marzo.
Kaori diede lo sguardo al calendario appeso in cucina, strinse con forza la tazza del suo caffè. Marzo. Un mese carico di ricordi. Tra una decina di giorni sarebbero stati i loro compleanni. La rabbia la invase.

Lui aveva promesso di passarlo con lei. E non c’era. Non c’era.

Quel moto di rabbia forte si fece strada nel suo cervello, non facendo capire più nulla, si ritrovò a scagliare per terra la tazza del caffè. Si fece totalmente in pezzi e il liquido scuro si propagò sul pavimento. Kaori, furente, non si accorse neanche di essere scalza e si scheggiò il piede.

Tutto quel dolore non la lasciava un secondo, tanto che, a volte nella solitudine della sua casa, si ritrovava sommersa dai suoi pensieri dolorosi che le facevano perdere il contatto con la realtà, il dolore la rendeva inerme.

La rabbia, sentendo il dolore di quel taglio, cominciò a scemare, Kaori si accorse dell’affanno che le percorreva il torace, cercò di sedersi e di togliere via la scheggia dal piede.

Umibozu era uscito dal Cat’s Eye, come ogni martedì , alle 10 spaccate. Guidò la sua gip fino al palazzo bianco, casa di City Hunter.

Parcheggiò e disattivò il sistema d’allarme, salendo le scale sentì un forte odore di caffè. Kaori era sveglia.

Flashback
Due anni prima.

Non avevano nessuna notizia di Ryo da ben tre mesi.

Quella notte, Kaori a casa da sola, aveva subito un attacco, fortunatamente sventato. Ma il salotto era a pezzi, come del resto lo era Kaori.

Umibozu era accorso da segnalazione di Mick, che teneva sotto controllo la casa. Se non fosse stato per quel piantonamento, Kaori si sarebbe ritrovata in piena notte con una pistola puntata. Non perché lei non fosse in grado di proteggersi, ma il suo sistema nervoso e il suo corpo erano devastati e in quelle condizioni i suoi riflessi non erano pronti per nessun attacco.

Quella notte Umibozu sfondò la porta di casa Saeba, sentì il grilletto di una pistola caricarsi, ma con la velocità e l’intuito dato dalla sua cecità, riuscì a disarmare il midollo di turno. Niente di eccezionale. La nota invece che lo preoccupò davvero era sentire che Kaori non era spaventata ma completamente inerme e arrendevole. E questo non lo tollerava.

Miki offrì subito a Kaori di trasferirsi da loro, ma lei rifiutò con tutte le sue forze, dichiarando che non si sarebbe mossa da quella che era casa sua. Mick invece cercava in tutti i modi di consolarla, ma senza riuscire nel suo intento.

Così, Umibozu, disse poche parole.

- Domani verrò ad installare un sistema d’allarme. E comincerò ad allenarti in modo che tu sia preparata ad ogni evenienza.

Fece un cenno alla moglie e a Mick di andare fuori in modo da lasciarla sola. Sapeva di aver fatto la cosa giusta, Kaori aveva bisogno di aiuto, ma lui l’avrebbe fatto nell’unico modo che conosceva, insegnandole a difendere la sua vita.

Kaori aveva fatto cenno con la testa al gigante, capì che quello era la sua dimostrazione d’affetto.

La mattina dopo Umibozu, di buon ora, si era diretto da Kaori, prima di bussare alla porta, grazie al suo orecchio molto sensibile, aveva sentito un lamento, flebile ma lacerante. Kaori. Kaori che piangeva. E Umibozu non poteva sopportarlo, non poteva sopportare che quella donna dall’altra parte della porta stesse così male, quella donna che era sua allieva da anni, quella donna che le aveva fatto capire cosa stava perdendo se avesse lasciato Miki, quella donna che era riuscita a fare colla tra di loro per creare una famiglia.

Bussò alla porta, diede a Kaori il tempo di ricomporsi e da quel giorno, ogni martedì, Umibozu e Kaori si allenavano insieme.

Fine Flashback

Umbozu entrò in casa Saeba. Si accorse subito della difficoltà di Kaori, così, senza neanche salutare, prese la cassetta del pronto soccorso e si avvicinò a Kaori.

- Ti brucerà
- Non preoccuparti Falcon

Disinfettò il taglio e mise una garza sulla ferita di Kaori. La fece rimettere in piedi e aiutò a pulire.

- Grazie Falco.

Kaori posò la mano sul suo braccio, cosa che fece arrossire il gigante. Del resto, era il suo stile. Kaori fu riconoscente al suo mentore, anche se i modi non erano espliciti, due anni di allenamenti erano serviti per farle fare il suo lavoro come si deve e soprattutto sapeva che in quel modo, il suo gigante buono, cercava di aiutarla.

- Poligono?
- Si oggi poligono.

Sulle scale di quella palazzina bianca, nonostante il dolore, si poteva notare un legame chiamato amicizia tra un gigante buono e una ragazza dai capelli rossi.
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Shibuya era caotica, lo sciame che camminava per strada era immenso. Steve Lee si guardò attorno, persone, vive, che respiravano, che non combattevano, che continuavano lottando giorno per giorno con una vita normale, senza armi.

Donne bellissime che defilavano sotto i suoi occhi, curve mozzafiato, bionde e more. Steve Lee si compiacque per quello spettacolo. Di certo questa missione si stava rivelando decisamente piacevole soprattutto per i suoi bassi istinti.

Con i suoi occhiali da sole e il suo giubbino in pelle, Steve Lee, spiccava nella folla, era difficile non notarlo. La sua aria misteriosa, la camminata da animale predatore, sicura, potente, non poteva rimanere inosservata; i suoi capelli color ebano legati e quella barba curata su quella bocca carnosa lo facevano sembrare un cavallo non ancora domato, i muscoli che si intravedevano dai vestiti davano un senso di timore ma protezione allo stesso tempo e quelle spalle, larghe, ben definite, erano un invito esplicito ad appoggiarsi sopra e perdere la concezione della realtà per farsi rassicurare da quel calore, Steve Lee era tutto questo, tanto che le donne che lo guardavano, sia giovani che adulte, non riuscivano a non trattenere lo stupore di ritrovarsi davanti a questo esemplare d’uomo fuori dal comune.

Camminava ma sapeva bene dove dirigersi, nel dedalo di strade trafficato del quartiere di Shibuya, in mezzo ai “love hotel”, c’era un piccolo bar malfamato, il Close Club. In questa via stretta, dove neanche la luce del sole filtrava e dove la puzza delle fogne albergava, Haru Satou faceva da capo. Il Close Club era sede anche di smercio di stupefacenti sotto l’occhio vigile di Haru, insomma le vecchie abitudini non morivano mai.

Così, Steve, si ritrovò davanti alla porta di questa bettola. Bussò con la sua forte mano sulla porta, un uomo aprì una fessura.

- Chi sei?
- Cerco Haru, sono l’amico di Baiko.

L’uomo, dopo aver ascoltato quelle poche parole, chiuse lo spioncino. Steve attese qualche minuto, si appoggio al muro con una gamba, intanto diede un occhio alla sua pistola, e infine la porta si aprì.

Haru, con un completo grigio, si fece avanti, vide quella montagna di muscoli dell’uomo giovane. Si sistemò meglio la giacca e si fece più avanti. Voleva proprio conoscere da chi si fosse circondato Baiko.

Steve, con la coda dell’occhio, guardò il tipo tarchiato che gli si presentò davanti, calvo e sudato, avrà avuto più o meno 50 anni, si girò verso di lui, tolse i suoi occhiali da sole e li mise sopra la testa.

Improvvisamente Haru sbiancò di colpo. Steve lo scrutò a fondo in quegli occhietti da talpa e ci trovò della paura, sorrise beffardo di quell’omuncolo. Non aveva tempo da perdere e cominciò a parlare.

- Allora Haru, dimmi un po’ quello che sai di City Hunter.

Haru non rispose e cominciò ad indietreggiare, sudò copiosamente.

- Haru, non devi aver paura di me. Baiko deve averti detto che sarei venuto a trovarti.

Più Steve si faceva avanti, più Haru indietreggiava alla ricerca di una via di fuga.

- Haru è maleducazione non rispondere.

Haru Satou riuscì a raggiungere la porta del suo bar/bettola.

- Io… io … non so niente di City Hunter né di questo Baiko, risparmiami, credo ci sia stato un errore.
- Haru mi stai facendo innervosire.
- Ti prego lasciami stare, non conosco nessuno, lo giuro.

Haru fece una cosa che davanti a Steve Lee non si sarebbe potuto permettere di fare, tirò fuori la pistola e cominciò a sparare alla cieca. Steve Lee sentì la rabbia aumentare, ma, con astuta freddezza, tirò fuori la sua Python e puntò contro l’uomo facendo partire un colpo che andò a spezzargli la mano e gli fece cadere la pistola.

- Haru hai proprio sbagliato a puntarmi contro un’arma. Cosa racconterò a Baiko?
- Ti prego risparmiami non so nulla, nulla.

Haru teneva la mano dolorante e sanguinante, tremava come una foglia davanti a lui. Il terrore lo percorreva da testa a piedi. Poi vide Steve Lee che ripuntò di nuovo la sua pistola, Haru sentì il colpo partire, ma non sentì nessun tipo di dolore, allora la morte non era dolorosa? Si domandò l’uomo. Riaprì gli occhi e capendo che stava ancora respirando, fissò di nuovo gli occhi di Steve.

- Per questa volta è andata bene Haru, la prossima volta non sarò così buono.

E gli girò le spalle, lasciandolo per terra e paralizzato dalla paura.
Haru ringraziò tutti gli dei per essere ancora vivo, sapeva che contro di LUI non poteva nulla, decise di non immischiarsi più nella faccenda, avrebbe fatto meglio a starsene nella sua bettola malfamata senza immischiarsi tra Baiko e City Hunter. Come era possibile che sapesse già di Baiko? Haru decise che non si sarebbe più intromesso, avrebbe fatto solo l’ultimo favore al suo ex capo dicendogli che il suo uomo sicuramente era stato scoperto.
L’uomo, barcollante e sanguinante, si ritirò nella sua bettola infida sperando di non dover più incrociare quello sguardo nero, nero come solo la morte poteva avere.

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Kaori, dopo l’allenamento, decise di uscire di casa, aveva bisogno di vedere la luce del sole.

Forse, forse Shibuya le avrebbe fatto bene, pensò, i negozi, la gente, forse l’avrebbero distratta.

Prese il treno dalla stazione di Shinjuku e scese alla stazione di Shibuya, chiusa nel suo cappotto nero, si fece largo tra la gente e arrivò al grande incrocio.

Steve uscì dal viottolo, imprecando tra sé e sé, che aveva perso del tempo, si accese nervosamente una sigaretta e si incamminò verso il centro di Shibuya.

Kaori fece per attraversare l’incrocio per arrivare alla statua di Hachiko.

Steve stava facendo mentalmente un riepilogo delle informazioni che aveva per costruirsi un piano e per scovare City Hunter attraversando l’incrocio.

Kaori si fermò davanti alla statua, un sorriso malinconico le si presentò sul viso, ricordando Ryo e il suo scherzo idiota fatto a Falcon tanti anni fa. Si sedette sul muretto vicino alla statua.

Steve arrivò nella piazzetta, cercò di dimenticare il piccolo incidente avuto con Haru, quando guardò la statua di Hachiko.

Destino?
Fato?
Chi può dirlo.

Steve guardò la statua di questo cane che campeggiava nella piazza molto di sfuggita, ma improvvisamente il suo sguardo fu catturato da una donna dai capelli rossi.

Emanava una strana aura: tristezza, amore, dolore. Sembrava in un altro mondo, in un mondo a parte. Steve la guardò da dietro le sue lenti scure, guardava quella donna dalla pelle candida e i capelli a caschetto, avvolta in un cappotto nero, ma lo colpì l’espressione del suo viso. Triste. Non c’erano altre parole per spiegarlo. La vide chiudere gli occhi, come per cercare nei suoi ricordi, i momenti felici, come se potesse riafferrare per un solo istante qualcosa di perduto.

La vide respirare una, due, tre volte, seguì il movimento del suo petto.
Poi fece un respiro più profondo.

Lei riaprì gli occhi e andò via fino al grande incrocio.

E nella sua gola si formò una bolla, le voleva parlare, la voleva guardare, ma il suo corpo non voleva reagire mentre la guardava sparire tra la folla.

Nell’aria rimase il suo odore, quell’odore di donna, di pulito, di fresco, di talco. Un odore che si impossessò della mente di Steve. E che non avrebbe mai scordato.




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note:

la statua di Hachiko si trova davvero a Shibuya.
Da Wikipedia:
"Hachikō fu un cane di razza Akita, divenuto famoso per la sua fedeltà nei confronti del padrone, Hidesaburō Ueno. Dopo la morte di Ueno, il cane si recò ogni giorno, per quasi dieci anni, ad attenderlo, invano, alla stazione, in cui l'uomo prendeva il treno per recarsi al lavoro.

La vicenda ebbe un enorme riscontro nell'opinione pubblica dell'epoca e ben presto Hachikō divenne, in Giappone, un emblema di affetto e lealtà. Nel 1934, al fedele animale fu dedicata una statua e, negli anni, la sua storia divenne il soggetto di film e di alcuni libri."
Inoltre è segnalata nel manga nel capitolo "La bambina sull'altalena" famosissima in quanto il nostro Umi-chan, per colpa di Ryo, si fece trovare seduto sopra con una bambolina in mano!

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Capitolo 4
*** Quarto - Kabukicho ***


Scese la sera, le luci al neon della città fecero la loro comparsa più vivide che mai. Pubblicità di ogni tipo campeggiavano sui cartelloni, persone che correvano freneticamente, gente che guardava le vetrine, macchine che facevano chiasso con i loro clacson, qualche sirena in lontananza, qualche cane che abbaiava, uomini che abbordavano ragazze, risate. La notte di Tokyo si era accesa.

Steve decise di fare un salto al Kabukicho, il famoso quartiere a luci rosse della città, all’entrata, lo attendeva la famosa insegna al neon rossa. Sembrava una porta ai suoi occhi, una porta che lo avrebbe condotto verso luoghi sconosciuti, intrisi dell’odore del peccato. Alcol, sesso e droga. Un inferno piacevole. Camminò lento in mezzo al viale affollato, notava ogni cosa, ogni particolare, suoni, odori. Gli sembrava di essere in una giostra vorticante. Le donne vestite in modo osé, all’entrata dei locali, lo invitavano all’interno con la promessa di fargli toccare il cielo con un dito, ma continuò nel suo cammino nonostante quelle promesse peccaminose.

Un vagabondo chiedeva la carità ai lati della strada, seduto sopra il suo cartone, allungava la mano per chiedere l’elemosina.

- Fate la carità ad un povero vecchio, ragazzo.

Steve lo guardò e allungo qualche cent al vecchio per poi lasciarlo.

Il vagabondo Tetsu prese in mano le monete ringraziando col capo, non aveva visto bene in viso il ragazzo, ma vedendolo allontanarsi, guardandolo di spalle, gli sembrò di conoscerlo. Non perse però molto tempo, un altro straniero stava arrivando e doveva guadagnarsi i soldi per una bottiglia di liquore che lo avrebbe scaldato quella notte e continuò con la sua litania.

Steve fu attirato da un insegna :“Kiss Angel” e decise di entrarci. L’entrata era coperta da un drappeggio rosso, luci soffuse lo accolsero, scostò la tenda e il body guard all’ingresso, non prima di averlo squadrato a fondo, lo fece entrare. Superato l’uomo, Steve fu accolto da una cameriera vestita da coniglietta che mostrava tutte le sue curve in quel ridotto e stretto costume.

- Prego, da questa parte.

La ragazza si apprestò a farlo accomodare ad un tavolino.

- Cosa le porto da bere?
- Whisky, liscio.
- Ogni suo desiderio,signore, è un ordine.

La ragazza si leccò le labbra guardando Steve, sì, sarebbe stato il cliente ideale. Se ne andò ancheggiando per portare l’ordinazione al bar.

Mick Angel decise di andare nel suo locale preferito del Kabukicho, il “Kiss Angel”, non era una scelta a caso, quel posto era tra la top ten dei locali preferiti. Di classe, belle donne e buon whisky. Inoltre era ben conosciuto e ben voluto al locale, Mick e Ryo erano sempre i benvenuti.

Scostò anche lui il tendone rosso e subito fu accolto da una delle conigliette del locale che gli saltò in collo senza tante cerimonie.

- Mick, tesoro!
- Ciao bambola!
- Anche questa sera tutto solo? Quando convincerai il piccolo Ryo a fare ritorno tra noi?
- Eh eh Mei, lo sai, da quando gli hanno messo il laccio al collo, non gira più per locali.
- Mick, cattivone, è innamorato! Quale laccio al collo! Com’è fortunata la sua donna, che invidia…

Disse la provocante coniglietta con gli occhioni da cerbiatta.

Mick respirò a fondo, se la coniglietta davanti a lui, avesse saputo la verità, non avrebbe di certo invidiato la donna di Ryo. Ma non disse niente. In fondo, quella, era la scusa studiata e pianificata per non far sapere in giro della scomparsa di Ryo.

Flashback

Cat’s Eye - tre mesi dopo la scomparsa di Ryo

Sembrava che la tensione a Shinjuku stesse aumentando di minuto in minuto. Tutta la città sembrava sapere che City Hunter non ci fosse, piccole bande avevano preso il sopravvento creando tumulti per la zona, i negozianti e i proprietari dei locali del Kabukicho erano in fermento a causa della paura, se fosse stato vero che City Hunter era davvero scomparso, la guerra a Shinjuku sarebbe scoppiata presto, molto presto.

Mick stava discutendo con Umibozu sul da farsi, seduti ad un tavolino, cercavano di mettere su un piano per far tornare Shinjuku alla calma.

La porta del bar tintinnò, Miki fece il suo ingresso, accanto a sé una Kaori sciupata e provata, era la prima volta che metteva il piede fuori di casa. I due uomini, vedendo le donne, stroncarono di netto la discussione, non volevano creare preoccupazioni più del dovuto.

Kaori, mollemente, si sedette su sul suo sgabello, si girò e rivide lo sgabello dove era solito sedere Ryo, chiuse gli occhi per trattenere le lacrime, l’angoscia si rimpossessò nuovamente del suo stomaco, lasciandola senza respiro. Miki le posò una mano sulla spalla e fece in modo di farla sedere ad un tavolo.
Intanto il silenzio regnava nel locale, cosa dire? Cosa fare in quella situazione? Cosa dire a quella donna che aveva perso tutto? Cosa dire tra di loro per la perdita dell’amico più caro? Cosa pensare quando le soluzioni ovvie erano due? Scomparso o.. morto. No, quella parola non poteva essere pronunciata. Nessuno voleva davvero pensare che Ryo Saeba fosse morto, sembrava che il solo pronunciare quella parola accanto al nome di Ryo, fosse un’assurdità e che se qualcuno di loro l’ avesse pronunciata a voce alta, la possibilità che l’opzione fosse reale, sarebbe stata più concreta. No, la parola morte non poteva uscire dalle loro bocche.

Il vecchio e buon Tetsu camminava a testa bassa sulla Shinjuku – dori. La sua destinazione era il Cat’s Eye, di solito non si arrischiava ad arrivare lì, se avevano bisogno di lui sapevano dove trovarlo, ma la posta in gioco era troppo alta, il fermento che si respirava a Shinjuku era troppo potente per essere ignorato, perciò decise di andare alla fonte della faccenda, doveva sapere se la sua città era in pericolo. Ed eccolo il buon e vecchio Tetsu davanti al locale, aprì la porta e un’onda di malinconia e tristezza lo accolse. Davanti a lui quattro persone, quasi a lui sconosciute, non perché non sapeva chi fossero, ma perché sembrava davvero che il corso del destino li avesse cambiati, deformati.

- Buongiorno, Falcon, Mick
- Tetsu, cosa ci fai da queste parti?
- Sono venuto a vedere di persona, allora è proprio vero?
- Cosa Tetsu, di che parli?

Chiese Mick

- In città gira voce che City Hunter non esista più, dicono molte cose, che sia scappato, che sia scomparso addirittura ucciso, e la yakuza e in fermento per riappropriarsi la città.

Ecco, Tetsu aveva detto le parole che nessuno di loro aveva osato dire, la possibilità che lui fosse davvero morto.
La rabbia di Kaori cominciò ad instillarsi dentro di lei, d’istinto si alzò in piedi con furia, talmente tanta, che la tazzina andò per terra in frantumi.

- Tetsu dillo a tutti, spargi la voce, City Hunter è presente a Shinjuku. City Hunter non permetterà a nessuno e dico nessuno di prendere il controllo di questa città. Che i mafiosi si ricordino sempre con chi hanno a che fare, e che se non rispettano le regole, saranno calpestati. Dillo a tutti Tetsu: City Hunter è vivo.

Kaori disse quelle parole a voce alta, con una furia cieca e il respiro affannato nel petto. Tetsu inchinò la testa in segno di asserzione e uscì silenziosamente dal locale con la sicurezza che la città era ancora al sicuro.
Kaori si mise di fronte a Mick e Umibozu, qualcosa l’animava a reagire, doveva sapere, doveva capire.

- Ora mi direte che diavolo succede.

Mick guardò negli occhi Kaori, non avrebbe mai accettato di sentire alcuna menzogna.

- Kaori, la scomparsa di Ryo è girata tra gli informatori. La yakuza, i criminali non aspettavano altro, in questi tre mesi è successo di tutto. Le rapine e lo spaccio sono aumentati. Le bande sono aumentate.

Kaori assorbì la notizia, la sua città stava andando in rovina e non lo avrebbe permesso.

- Mio fratello e Ryo hanno protetto questa città e non permetterò che il loro lavoro sia stato vano, sarebbe la vera sconfitta, Ryo ha una missione da portare a termine, salvaguardare il benessere di Shinjuku, e dal momento che lui non c’è dobbiamo farlo noi, glielo dobbiamo.
- E se Ryo non tornasse?

La mano di Kaori partì a razzo sul viso di Mick, la realtà la bruciava più dello schiaffo dato all’amico.

- Non ti azzardare neanche a pensarlo. Lui tornerà Mick, me lo ha promesso, tornerà.

Mick abbassò lo sguardo.

- D’accordo Kaori, mettiamoci al lavoro.

Umibozu si alzò e con la sua stoica tranquillità, uscì dal locale, Miki gli corse dietro.

- Dove vai?
- Vado a sistemare un po’ di pivelli, quel deficiente mi dovrà un sacco di favori.

Miki guardò il marito sparire, intanto Mick e Kaori si stringevano la mano e suggellavano la promessa di ridare vita a City Hunter.

Fine Flashback

Da quel giorno Mick andava in giro per i locali a luci rosse di tanto in tanto, più per far vedere che nulla era cambiato, che City Hunter continuava a svolgere la sua attività. Fu messa in giro la voce che Ryo non andasse più per locali perché aveva una compagna, ma che comunque sapeva cosa succedeva in città. Nessuno faceva domande, non era il caso di mettersi contro City Hunter, e se questo era quello che si diceva su di lui, allora, anche se poteva destare qualche dubbio, era meglio crederci.

Mick si sedette al suo solito posto, ordinò un whisky liscio e virò lo sguardo verso il piccolo palco, una delle Kiss Angel stava per dare spettacolo.

Steve si guardò attorno, vide un uomo biondo, prestante, entrare nel locale. Ritenne fosse un turista, di certo non giapponese, poi notò una cameriera che gli si lanciò tra le braccia, pensò allora che l’uomo era conosciuto e questo destò la sua curiosità. L’osservò a lungo, i gesti, il modo di porsi gli ricordava qualcosa, la postura delle spalle, il modo in cui guardava e ispezionava il luogo gli ricordava molto il suo modo di fare, da professionista che si guarda attorno per assicurarsi del luogo in cui si trova. Poi notò il rigonfiamento sotto la giacca, senza alcun dubbio, anche se ben nascosta, portava una pistola.
Uno straniero, con modi da professionista e una pistola, in un locale nella zona malfamata della città, dava molto da pensare a Steve. Poi notò gli sguardi di riverenza che arrivavano da un uomo dietro il bancone del bar. Come se lo rispettasse e lo temesse. E questo lo mise subito in allerta. Ricordò che tra i documenti di Baiko c’era scritto che City Hunter fosse un donnaiolo, che passava molte delle sue serate al Kabukicho, non a caso quella sera era lì, e che teneva d’occhio anche i locali della zona, che i gestori si rifacessero a lui in caso di problemi. Forse era un buco nell’acqua o forse, nello stesso locale in cui si trovava, aveva davanti a sé il suo obiettivo. Decise di fare un tentativo, voleva scoprire chi fosse o almeno capire se era l’uomo che cercava.

Steve vide arrivare ancheggiando la coniglietta con il suo whisky, la ragazza lo posò sul suo tavolino e decise di mettersi a cavalcioni sul nuovo cliente. Steve decise di stare a questo giochino interessante. Mentre la coniglietta lo stringeva tra i suoi seni decise di approfittare per farle qualche domanda.

- Dolcezza da quanto tempo lavori qui?
- Qualche mese, ma quanto sei carino, fammi sentire i tuoi muscoli.

La ragazza cominciò a toccare il torace di Steve da sotto la camicia, si avvicinò con la bocca all’orecchio di Steve in modo soffice e soave.

- Qui sotto c’è molto con cui giocare.
- Se farai la brava bambolina.

La coniglietta rise soddisfatta alla possibilità di giocare con quell’uomo.

- Ma dimmi un po’ chi è quel tizio che è entrato ora, sembra molto conosciuto qui.
- Chi? Il biondino?
- Si
- Ah Angel… non so molto su di lui…

Steve porto la sua mano sul collo della ragazza per fargli una lenta carezza, poi avvicinò le sue labbra sul collo e cominciò a strofinare sopra la sua barba e a sospirarci sopra.

- Dimmi quello che sai tesoro

La ragazza venne scossa da un brivido caldo per tutto il corpo che la fece arcuare e strusciare di più su Steve ed emettere un piccolo gemito di insoddisfazione.

- Eh va bene, so che viene qui ogni tanto e che è amico del capo, fa l’investigatore privato per quello che ne so.
- Bene dolcezza, altro?
La ragazza scosse la testa lentamente mentre Steve leccò con la punta della lingua il solco dei seni della ragazza.
- Allora che ne dici, vuoi venire con me zuccherino?
- Più tardi dolcezza, più tardi. Ora rimani qui a farmi vedere come giochi con me.

Steve si dilettò con la coniglietta sul divanetto del Kiss Angel.

Mick, dopo un paio d’ore al Kiss Angel, decise che ne aveva abbastanza. Aveva ricevuto le informazioni di cui aveva bisogno sul giro di quei giorni nel quartiere, bevuto a sufficienza e guardato fin troppo. Tornare a casa era l’idea migliore. Si alzò dal suo tavolino e si sistemò la giacca, fece cenno al padrone del locale e uscì fuori.
Erano le tre e trenta del mattino, camminò lento nel grande viale ancora affollato nonostante l’ora. La brezza della notte lo avvolse, sembrava fosse tutt’uno con lui. La sua camminata era tranquilla e sicura, al suo passaggio sembrava che la gente gli facesse posto per farlo passare. Riuscì ad uscire dal Kabukicho e si inoltrò nella Shinjuku – dori per tornare verso casa.
Lasciatosi alle spalle il trambusto del quartiere a luci rossi, finalmente la strada sembrava calma, fin troppo calma, si fermò un paio di volte nel corso del tragitto, una volta per accendere una sigaretta e una volta per parlare con un barbone al lato della strada. Entrambe le volte Mick si sentiva osservato, si guardò attorno ma non vide nulla, proseguì per il suo cammino fino ad arrivare sotto casa. Volse lo sguardo verso la palazzina bianca, dove notò una debole luce che proveniva dalla finestra, spense la cicca della sigarette sotto al piede e si augurò che Kaori dormisse almeno qualche ora e salì le scale del suo palazzo.

Steve notò tutti gli spostamenti dell’uomo biondo, lo seguì cercando di non farsi notare, capì che l’altro lo aveva sentito, ma cercò in tutti di coprire i suoi spostamenti. Guardò l’uomo infilare le chiavi in un portone di un palazzo e poi volgere lo sguardo nella palazzina di fronte a lui, per poi sparire nell’androne buio.
Steve si sentì soddisfatto, forse aveva trovato da cosa partire per le sue indagini.
Poi, voltandosi verso lo stesso palazzo che l’uomo biondo aveva guardato, un battito del suo cuore sembrava aver fatto la capriola e poi tornare al suo posto.
Non diede molta importanza a quella strana sensazione. Decise di dare colpa alla stanchezze e che l’idea di tornare a casa non era così male, una buona notte di sonno non gli avrebbe fatto male, domani avrebbe cominciato le sue indagini.

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Capitolo 5
*** Quinto - Luna ***




I treni alla stazione di Shinjuku si susseguivano uno dopo l’altro, l’orario di punta era frenetico, spasmodico. Tutti che correvano e non si fermavano. Lei camminava adagio e tagliava la folla, il passo decisamente lento, sembrava immobile rispetto a chi le correva intorno. Poi si fermò davanti alla lavagna, non aveva smesso di andare, non avrebbe mai smesso.

- XYZ appuntamento al Sunrise Hotel ore 20, Masahiro Takeshi.

Kaori segnò tutto sulla sua agenda. Un nuovo incarico l’aspettava, un uomo. Chissà cosa l’aspettava, ma in fondo, gliene importava davvero qualcosa? No, voleva solo tenere la mente occupata. Punto.

Uscì dalla stazione, sempre con il suo passo fermo, non guardava davanti a sé, era distratta. Un uomo le urtò la spalla, le fece cadere l’agenda ma non si fermò, chiese velocemente scusa alla ragazza e scappò verso il treno. Kaori si abbassò a riprendere la sua agenda senza dare peso alla cosa.

Steve uscì dal treno a Shinjuku est, si incamminò nella folla, poi qualcosa catturò la sua attenzione, una donna china a terra, riusciva a vederne solo la schiena, poi i capelli rossi, e rimase fermo qualche secondo, finché non la vide rialzarsi e andare verso l’uscita. Non poteva sbagliarsi, era quella donna alla statua di Hackiko. Quella ragazza di cui aveva percepito il profumo e che non riusciva a togliersi dalla testa. Le gambe si misero in marcia senza controllo per andare verso di lei, ma lei camminava imperterrita, mancavano pochi passi, ma lei alzò una mano e un taxi si fermò per prenderla. Steve rimase fermo a guardare il taxi andare via, poteva parlarle, ma ancora quella bolla in gola non si scioglieva, non dava alito alla sua voce. Il suo istinto gridava solamente di prenderla e di possedere le sue labbra.
Scosse la testa Steve, che diavolo gli succedeva?! Cos’era questa immensa cazzata?!

Si voltò di spalle, qualcosa luccicava per terra, andò verso quel luccichio. Un proiettile, un proiettile per terra attaccato ad una catenina. Ma quel proiettile era per una Python 357 Magnum, la sua pistola. Lo rigirò tra le mani, c’era qualcun altro che usava la sua stessa pistola?! Impossibile. Nel guardare il bossolo, Steve, rimase pensieroso.

- Ragazzo, come mai fissi la lavagna?
- Cosa?

Un uomo anziano si fermò vicino a Steve e alla domanda, si riscosse dai suoi pensieri.

- Come mai fissa la lavagna, giovanotto? Non mi dica che è qui per la leggenda?
- Quale leggenda?
- Quella di City Hunter!
- City Hunter?
- Si, si dice che, se sei in difficoltà e hai bisogno di aiuto, basta scrivere le ultime tre lettere dell’alfabeto e City Hunter verrà in tuo aiuto.

Steve sorrise compiaciuto, allora non era molto lontano dal catturare la sua preda.

- Ma ragazzo, è solo una leggenda, non si sa se sia vero. Forse sei venuto qui invano.

E quel vecchietto, un po’ particolare, riprese il suo cammino senza dare modo a Steve di dire qualcosa. Così come era venuto, se ne andò zoppicando sul suo bastone.

Steve guardò la lavagna, c’era scritto XYZ. Le ultime tre lettere dell’alfabeto. Si la sua preda era vicina, molto vicina.
Steve si rigirò verso la parte dove il vecchietto era andato, ma non lo vide più, sparì in mezzo alla folla.
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Kaori comunicò il pomeriggio stesso a Mick del nuovo incarico. Sarebbero andati insieme all’incontro.

Così la ragazza cominciò a prepararsi per andare al Sunrise Hotel, indossò un vestito grigio di cotone, degli stivali e una sciarpa bianca. Mentre indossava il vestito guardò il suo corpo, un livido sulla gamba dovuto all’allenamento, non se ne curò più di tanto, e poi il neo sul suo inguine. Ryo era rimasto affascinato da quel neo. Era rimasto a guardarlo per qualche minuto, ricordava perfettamente le sue parole.

“Conosco ogni tua espressione, quando ti arrabbi, quando ridi. Le piccole lentiggini che hai sulle guance, le cicatrici che hai sul braccio e sulla spalla. Eppure non sapevo di questo tuo neo.”
“Mi hai fatto una radiografia?! E poi quando avresti potuto vederlo? Non ti ho mai fatto vedere niente di me di così intimo, almeno fino a qualche tempo fa.”
“Sì, giusto. Però è strano.”
“Cosa è strano?”
“Che ogni giorno io scopra qualcosa in più di te. Un particolare nuovo ogni giorno.”

Lei sorrise, lui continuò ad accarezzare quel neo con la punta di un dito assorto, come se fosse stata la scoperta della sua vita quel neo.

“Kaori, quante cose ancora dobbiamo scoprire insieme”
“Tante, Ryo, tante”
“Abbiamo tanto tempo per farlo,vero?”

Kaori notò nella voce di Ryo un’incrinatura, un’insicurezza, come se avesse bisogno di chiedere se quel tempo fosse davvero a loro disposizione.

“Tutto il tempo del mondo, io non ho nessuna intenzione di separarmi da te, dovrai tenermi per almeno il resto della tua vita e la tua vita sarà lunghissima, io non ho nessuna intenzione di perderti, chiaro?”

Ryo alzò lo sguardo e guardò Kaori nuda nel suo letto, mentre la studiava centimetro per centimetro, e gli aveva appena promesso che non si sarebbe mai separata da lui, per nessun motivo al mondo.
La guardò negli occhi e sentì il dolce calore che gli pervase ogni fibra del suo essere. Le sorrise per ringraziarla.

“Chiaro, Sugar. Niente da fare,donne di tutto il mondo, arrendetevi, lo stallone di Shinjuku ha chiuso i battenti. E’ innamorato di un virago.”

E un cuscino gli volò sulla testa.


Mick uscì dal portone di casa sua, vestito elegantemente, si infilò nel garage del palazzo di fronte, aprì la serranda, conoscendo il numero dell’impianto di sicurezza, e andò filato verso la mini. Attese pazientemente, appoggiato alla macchina, Kaori che scendesse. Sentì la forte porta metallica aprirsi e lei arrivò, le sembrò diversa, forse era il trucco, ma sembrava che un lieve bagliore avesse attraversato i suoi occhi. Kaori salutò Mick e si infilò in auto, mentre l’uomo diede gas all’auto, la serranda si chiuse alle loro spalle.

Una moto nera li seguì a debita distanza. Steve notò nella mini davanti a lui, che c’erano due persone, uno dei suoi dubbi furono dissipati, City Hunter non lavorava da solo probabilmente.

Ore venti, Sunrise Hotel

Mick e Kaori scesero dall’auto e diedero le chiavi al parcheggiatore. Steve, nascosto nell’ombra, guardò le due figure scendere, i suoi occhi si spalancarono. Quella donna, quella donna era la ragazza alla stazione, strinse in un pugno il proiettile che aveva portato con sé.

I due sweepers andarono al bar dell’albergo dove avevano appuntamento con Masahiro Takeshi. Kaori ricontrollò la sua borsa, aveva la sensazione di aver perso qualcosa. Mick la riscosse dai suoi pensieri chiedendole se fosse tutto apposto, gli fece cenno con la testa e chiesero al barista se conosceva l’uomo con cui avevano appuntamento, il barista indicò un uomo sui quarant’anni che sorseggiava un brandy, vestito di tutto punto, era da solo ad un tavolino.
Mick e Kaori si avvicinarono.

- Buonasera Signor Takeshi, siamo City Hunter, abbiamo ricevuto il suo invito.
Takeshi guardò le due persone davanti a lui, provava fiducia e tirò un sospiro di sollievo.
- Prego accomodatevi, ero molto in ansia. Non credevo che avreste risposto alla mia richiesta.
- Il mio nome è Kaori Makimura e lui è Mick Angel, mio socio in affari. Vuole spiegarci perché ha bisogno del nostro aiuto?
- Si certo, volete bere qualcosa intanto? Offro io, naturalmente.

Takeshi chiamò uno dei camerieri e fece portare dell’altro brandy per i suoi ospiti, quanto tutti ebbero il bicchiere in mano, cominciò la sua storia.

- Vedete io sono un ricercatore medico, lavoro per una campagna no profit, negli ultimi tre anni ho fatto ricerche per debellare il parassita della malaria che infesta principalmente i paesi sottosviluppati. Nei mesi scorsi sono riuscito a creare un vaccino di ultima generazione che, già sperimentato, potrà davvero curare questa malattia definitivamente.

L’uomo, dopo aver parlato della sua scoperta, si incupì.

- Non ho fatto i conti con le case farmaceutiche. La mia ricerca ovviamente ha suscitato molto interesse, all’inizio mi sono state fatte proposte molto remunerative, ma capite, se davvero vendessi questa cura, non avrebbe senso la mia ricerca. Io voglio che questo vaccino sia alla portata di tutti, soprattutto della gente povera.
- Comincio a capire Signor Takeshi, si è messo contro qualche impresa farmaceutica che vuole il suo vaccino, un scoperta del genere potrebbe fruttare un enorme giro di denaro.
- Ha capito bene Mr. Angel, ma non voglio arrendermi. La società no profit per cui svolgo queste ricerche, si è già messa in contatto con una casa farmaceutica americana che svilupperebbe il vaccino gratuitamente, ma la firma per il contratto avverrà tra quattro giorni.
- In poche parole ha bisogno di protezione, Signor Takeshi.
- Non è solo questo, Signorina Makimura, il problema e che ho già subito degli attentati, nulla di poco conto, hanno cercato di investirmi, si sono intrufolati in casa mia, per questo mi sono trasferito in albergo, ma credo non si fermeranno.
- Signor Takeshi, ha tutto con sé?
- Si certo.
- Bene da questa sera si trasferirà nella nostra sede, li potremmo proteggerla al meglio.
- E’ una buona idea?
- Deve fidarsi di noi, siamo i migliori.

Disse Mick.

- Bene è il caso di prendere le sue cose e di andare. E’ venuto con la sua auto?
- Si è nel garage dell’hotel, una mercedes SLK.
- Bene la porteremo con noi.
I tre si diressero verso la stanza del dottore, preparano i bagagli e riscesero nella hall.
- Mick prendi la nostra macchina e raggiungete casa, intanto io sbrigo le questioni burocratiche e vengo con la macchina del Signor Takeshi.
- Non sarebbe meglio fare il contrario, Kaori?
- No, con te è più al sicuro, non credi? E poi voglio proprio provare una macchina di quel genere.
- Agli ordini!

Mick e Takeshi andarono dal parcheggiatore, non si accorsero di un ombra che seguì attentamente le loro mosse, ma, quando Mick si diresse verso Shinjuku, l’ombra attese di nuovo.

Kaori sbrigò le ultime questioni in reception, poi si fece indicare dove trovava l’auto in questione, si diresse verso il parcheggio sotterraneo, ritrovò l’auto e ci si accomodò. Le piaceva l’abitacolo e l’auto sportiva, si sistemò per il meglio. Poi accese il motore e si diresse verso l’uscita.

Steve accese la sua moto seguendo la donna dai capelli rossi. Non sapeva perché non avesse seguito l’uomo, ma quella donna era una calamita.

Kaori si destreggiava nel traffico godendo appieno del motore dell’auto, correva sostenuta.

La moto di Steve gli stava dietro.

Un uomo, dal tetto di un palazzo, dopo aver controllato il suo gps, vide l’auto che stava controllando, sfrecciare sulla strada principale, preparò il suo fucile ad alta precisione, montò il mirino e puntò al finestrino del guidatore.

Kaori sorpassò un furgoncino.

L’uomo dal tetto, con precisione fece partire il colpo, che volò tra due palazzi in direzione di Kaori.

Steve, istintivamente, sentì l’aria di tensione, il suo corpo, non sapendo come, sentì quel proiettile e automaticamente estrasse la Python.

Il proiettile, ad altissima velocità, stava per terminare la sua corsa, ma il proiettile della Python sopraggiunse velocissimo, deviando la sua corsa. Uno dei due proiettili bucò la gomma anteriore dell’auto.

Kaori perse il controllo dell’auto, cercò istintivamente di frenare e sterzò bruscamente, l’auto fece un paio di testa coda andando a sbattere contro un lampione, il vetro dell’auto si ruppe, l’airbag scoppiò e Kaori si ritrovò incosciente dopo aver preso una bella botta, dalla sua fronte scivolò un rivolo di sangue.

Steve, vedendo l’accaduto, voleva defilarsi, non poteva farsi prendere dalla polizia.

Ma qualcosa in lui si ribellò. Scese dalla moto e si diresse verso l’auto. Quello che vide gli raggelò il sangue. La donna non si muoveva, gli occhi chiusi, il sangue sulla fronte.
In fretta, gli slacciò la cintura di sicurezza, le toccò il collo per cercarne i battiti, c’erano ed erano abbastanza regolari, respirava bene, era solo svenuta, constatarlo gli sciolse un po’ d’ansia che provava.
Prese in braccio la ragazza svenuta, averla tra le braccia gli creò un forte senso di appagamento, di pace.
Cosa gli stava succedendo? Perché quella donna gli faceva martellare forte il cuore tanto da farlo scoppiare?

Steve strinse più forte tra le braccia la donna, le guardava il viso, come se fosse di vitale importanza, strinse il suo piccolo corpo contro il suo, generando calore, i suoi occhi chiusi sembravano darle un sonno senza tempo, incantato. Gli guardò le labbra socchiuse da dove emise un piccolo sospiro.

Lei respirava, lei esisteva, esisteva tra le sue braccia. Un dolore alla testa lo colpì, sentì un forte fischio alle orecchie, si inginocchiò con lei tra le braccia sul marciapiede, senza lasciarla per un secondo, appoggiando la sua fronte contro il collo della donna, illuminati dalla luna.

Steve riaprì gli occhi, il respiro affannato. Posò un lieve bacio sulle labbra della donna addormentata nelle sue braccia. Si alzò e camminò lentamente.

Dopo quel bacio un solo sospiro uscì dalle labbra della donna addormentata…

- Ryo, amore mio….

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Capitolo 6
*** Sesto - Il proiettile ***



Due anni prima
Settembre stava finendo, il primo freddo era alle porte, le foglie cadevano dagli alberi, gialle e rosse, creando un’atmosfera, si autunnale, ma calda, suggestionando l’atmosfera.
Ryo camminava per Shinjuku, nella sua tranquillità, si dirigeva verso casa, il tramonto alle sue spalle. Un lieve sorriso campeggiava sul suo viso, impercettibile se lo si guardava distrattamente.
Nascosta nella sua tasca, stringeva il suo pegno, croce e delizia, ci aveva impiegato anni, ma ora ecco lì che premeva, che gli ricordava ciò che in fondo aveva sempre saputo: l’amava.
Inserì la chiave nella serratura, intorno a lui i rumori della città erano prepotenti, auto, sirene della polizia si lanciavano a tutto spiano, gente che parlava, le prime luci della sera si accendevano, ma, richiusa la porta alle sue spalle, la città non poteva più intromettersi nella sua vita, salì le scale lentamente, ogni passo, ogni respiro che faceva era un’ascesa verso il suo piccolo paradiso, verso il luogo che lo proteggeva dal male, anche da se stesso, verso la loro casa e mai questo nome era stato più vero. Casa, l’isola felice, dove il calore lo investiva senza chiedere permesso, dove lui poteva essere se stesso, con la sua moltitudine di difetti e pregi, dove i suoi silenzi erano accolti senza fare domande, dove se aveva bisogno di una rassicurazione il sorriso di lei lo avrebbe premiato.
Casa era Kaori.
Il salotto era in penombra, gli ultimi raggi di sole lo stavano scaldando, infine vide Kaori vicino alla finestra che gli sorrideva. Ryo si avvicinò a lei salutandola con un casto bacio sulle labbra e l’abbracciò.

“Ciao”
“Ciao”
“Tutto apposto?”
“Si certo. Vieni con me ora.”

Ryo si diresse verso le scale della terrazza, prendendo con sé una bottiglia di vino e due bicchieri, Kaori lo seguì senza dire una parola, ad un certo punto si fermò sulla scala allungando la mano verso di lei, Kaori la prese, quella scintilla si accese, lui era lì per proteggerla, o forse era il contrario, lei proteggeva Ryo, ma comunque il messaggio era chiaro: niente poteva separarli, solo insieme erano completi.
Arrivati in terrazza, Ryo posò la bottiglia e i bicchieri per terra, strinse Kaori tra le sue braccia. Cominciò a ballare un lento senza musica, stringendola per la vita.

“Cosa ci facciamo qui?”
“E’ semplice, balliamo.”

Continuò quel movimento accarezzando la schiena di Kaori, che lo stringeva di rimando facendosi cullare da lui.
Ryo appoggiò le sue labbra sulla fronte di Kaori in un bacio gentile, poi le prese il viso tra le mani, con una calda carezza, e la guardò negli occhi. Non era mai stata più bella ai suoi occhi, era felice, e sapere che era lui l’artefice della sua felicità lo faceva sentire vivo.
Kaori scrutò gli occhi di Ryo, il suo uomo sorrideva, i suoi occhi neri la stavano studiando, scandagliando, come ad imprimere quel momento nella sua memoria e non poté far altro che sorridergli, perché lui la doveva ricordare per sempre come in quel momento: con il cuore pieno di amore e di gioia, pieno di lui. Qualsiasi cosa fosse successa, lui doveva ricordarsi di lei in quel preciso istante.
Ryo, vedendo quel sorriso accendersi sulle labbra di Kaori, accarezzò il suo viso con il pollice, imprimendo per sempre il suo volto nella sua memoria.

Le labbra di Ryo toccarono finalmente quelle di Kaori, un bacio, un bacio che valeva più di tutto, come se l’ossigeno per l’esistenza di entrambi passasse solo attraverso quel bacio.
Un bacio per sconfiggere la morte che li circondava tutti i giorni.
Un bacio per onorare il loro amore.
Un bacio per onorare la loro vita, che mai era stata più viva e densa come in quel momento.
Si guardarono di nuovo negli occhi.

“Tornerò sempre a casa, tornerò sempre da te, Kaori. Ogni volta che mi vedi uscire da quella porta, voglio che tu ricordi che io tornerò sempre da te.”

Estrasse dalla scatola una catenina semplice, per ciondolo un proiettile della sua python, niente poteva rappresentarlo meglio.

“Questa è una promessa, quando lo guarderai, ritroverai me.”
Kaori spalancò gli occhi, il suo cuore batteva follemente nel suo petto.
“Dovrai sempre tornare da me, per me. Non rompere per nessun motivo questa promessa.”
“Non lo farò mai.”

Fece girare Kaori di spalle, con il viso rivolto verso Shinjuku, le allacciò la catenina al collo accarezzandola.
Davanti a lui la città per cui sopravviveva e, sempre davanti a lui, la donna per cui viveva.

“Averti qui con me è quello che ho sempre voluto.”
“Ti amo, Ryo”.

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Presente
Il mal di testa era prepotente, si sentiva confusa, ricordava a sprazzi quello che era successo. La gomma che si bucava e lei che perdeva il controllo dell’auto, infine il buio.
Ancora con gli occhi chiusi, Kaori sapeva di essere su un letto, possibilmente era in ospedale, non sapeva da quanto tempo era lì.
Riuscì ad aprire a fatica gli occhi, al braccio una flebo attaccata, qualche ammaccatura e poi si portò la mano sulla fronte fasciata, si decisamente aveva preso proprio una bella botta. Toccò il campanello per chiamare un’infermiera, la quale si recò subito nella sua stanza.

- Signorina vedo che si è svegliata.
- Si, grazie. Da quanto tempo sono qui?
- Oh è stata portata qui stanotte, sono solo le dieci del mattino, solo qualche ora. Le sue condizioni sono buone, solo che la teniamo sotto osservazione per il trauma cranico.
- Ah capisco, quando potrò uscire?
- Domani mattina se gli esami saranno nella norma e se passerà la notte tranquilla.

Kaori si alzò in piedi, cercando di cercare almeno la sua borsa, sarebbe stato il caso di avvertire Mick, che sicuramente stava impazzendo non trovandola, di lì a poco, come minimo, si sarebbe trovata i servizi segreti giapponesi mandati da Mick a cercarla!
Un capogiro la sorprese che la costrinse a risedersi.

- Signorina, non si agiti, mi dica di cosa ha bisogno.
- Ecco vorrei avere la mia borsa, forse l’hanno presa, dovrei chiamare i miei amici a dirgli che sto bene.
- Ah certo abbiamo noi i suoi effetti personali, infatti abbiamo trovato sulla sua agenda il numero di casa, abbiamo telefonato ma non risponde nessuno.
- Nessuno può rispondere.

Quelle ultime parole di Kaori erano soffocate, nessuno, se non lei, poteva rispondere in quella casa vuota.
L’infermiera le allungò la borsa e il cellulare. Kaori compose il numero di Mick, aspettandosi una grossa lavata di capo.

- Ciao Mick, sono Kaori.
- Che diavolo è successo? Perché il tuo telefono era spento? Dove sei? Con chi sei? Sei ferita? Stai male?
- Paparino, ti tranquillizzi? Sto bene, ho avuto un piccolo incidente e sono in ospedale, ma sto bene.
- Tranquillo un corno! Avevo già avvisato Saeko della tua scomparsa e mezza polizia è in giro a cercarti chissà dove! Ma aspetta, hai detto ospedale? Kazue! Perché non abbiamo chiamato gli ospedali!
- Paparino hai pensato che mi ero cacciata nei guai e l’ospedale era l’ultimo posto dove potessi trovarmi?! Certo che hai fiducia cieca in me!
- Non puoi capire che spavento mi sono preso! Accidenti! Ma stiamo arrivando, non muoverti da lì!
- Ho capito, stai tranquillo non mi muovo. Avverti tu gli altri, non agitarti.

E la comunicazione si interruppe senza un saluto da parte dell’americano, Kaori pensò che era davvero arrabbiato, di certo non poteva biasimarlo, dopo tutto con il lavoro che facevano era normale. Di certo sarebbe stato un bravo papino premuroso, chissà se si sarebbe deciso a sposare Kazue e creare una famiglia?!
Ma ancora Mick non aveva avanzato nessuna ipotesi in quel senso, in fondo sapeva il perché, lui si sentiva un po’ in colpa nei suoi riguardi, come se lui non avesse il diritto di rendere, sia lui che Kazue, felici, come meritavano, perché lei era sola.

Sola.
Sola.
Sola.

Quella parola rimbombava nella testa. Poi si ricordò improvvisamente cosa le mancasse: il suo ciondolo. La sera prima non lo aveva addosso, lo cercò con agitazione nella sua borsa, facendo uscire di tutto ma senza trovarlo, una punta di panico le prese lo stomaco, quello era il loro legame indissolubile, non se la sarebbe perdonata se lo avesse perso.

L’infermiera, mentre rifaceva il letto, la vide girovagare cercando qualcosa.

- Le serve qualcosa?
- Ehm si effettivamente non trovo una cosa personale, un ciondolo particolare, lo porto sempre con me non vorrei averlo perso, è molto importante.
- Oh ma si certo, glielo messo nel cassetto del comodino.

L’infermiera aprì subito il cassetto e prese la catenina dandola tra le mani di Kaori; vedendo il suo gioiello prezioso scivolargli nelle mani, tirò un sospiro di sollievo e gli occhi le si inumidirono.

- Vedo che ci tiene molto, è un regalo del suo fidanzato?

Kaori annuì stringendo sul cuore il bossolo, ora non era più sola.

- Che strano ciondolo però, il suo fidanzato non se ne intende di gusti femminili.
- E’ rustico, ma vale più di mille anelli.
- Lo vedo!

Kaori riguardò la scritta incisa sopra il bossolo:
“C.H. Insieme.”

Un’unica parola, nel suo stile, sempre troppo spiccio e di poche parole, ma a che servivano quando c’era racchiuso tutto il necessario?!
No, lui lo aveva promesso, lui in qualche modo sarebbe tornato a casa da lei, una piccola speranza, dopo tanto tempo, si riaccese nel suo animo quella mattina.

- Mi scusi infermiera.
- Mi dica
- Chi mi ha portato qui all’ospedale? L’ambulanza?
- Ah no, la mia collega mi ha detto che l’ha portata un uomo qui.
- Un uomo?
- Si, alto e moro, muscoloso e aveva la barba. So tutti questi particolari perché la mia collega mi ha detto che era un uomo molto affascinante.

Kaori rimase sorpresa da quella descrizione, poi si disse che era sicuramente una coincidenza, era una descrizione decisamente sommaria.

- Ah si infatti il ciondolo lo ha lasciato lui, dicendo di darglielo immediatamente perché sicuramente lo avrebbe cercato. Si è molto curato di questa cosa.

Kaori spalancò gli occhi, come era possibile che un estraneo si prendesse cura di una cosa del genere?

- Non ha lasciato un nome o un numero di telefono? Vorrei ringraziarlo.
- No, non ha lasciato niente, dicendo che sicuramente vi sareste incontrati presto.
- Che peccato.
- La lascio riposare.
- Grazie mille.

Kaori rimuginò su quelle parole dette dall’infermiera, una strana inquietudine si impossessò di lei, non poté farne a meno, però non sentì il pericolo, forse perché l’aveva salvata? Ma si distrasse, uno strano rumore si propagò per il corridoio, sembrava la cavalleria, e Kaori sapeva che tra poco quella cavalleria avrebbe invaso la sua stanza.
Infatti, nel momento in cui la porta si aprì una voce femminile riecheggiò sopra tutte.

- Kaori non fare mai più una cosa del genere!

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Casa Saeba – Makimura

Un’ombra si scrutava intorno , era stato facile entrare nonostante il sistema d’allarme, bastò digitare 2809, ovviamente si era premurato di non essere visto. Aveva aspettato pazientemente che il ragazzo biondo del palazzo di fronte uscisse e si allontanasse per entrare dentro quella casa. Lo aveva visto schizzare sulla sua auto con un gruppo di persone che erano agitate.

Appena superato il sistema d’allarme, per prima cosa, si diresse nel sotterraneo, li trovò il poligono, accese le luci e sembrava un posto usato e frequentato di recente, tutto in ordine e pulito. Poi notò una sagoma di cartone con due fori, uno sulla testa e un altro al petto. Non male.

Chiuse la porta e si diresse verso l’appartamento del sesto piano. Aprendo la porta la luce del sole lo invase illuminando tutto intorno a lui, perfettamente in ordine, ma così poco vivo quell’appartamento, svoltò in cucina notando che lo stesso ordine certosino era anche lì.

Lasciò la cucina sfiorando non curante il tavolo, per tornare di nuovo in soggiorno, si avvicinò al mobile bar e si versò un bicchiere di scotch che bevve a piccoli sorsi, gli serviva per schiarirsi le idee dopo la notte insonne, con il bicchiere in mano girò ancora fino ad arrivare alle camere, andò verso l’ultima dove un odore di talco era più forte, spalancando la porta trovò la stanza al buio, il letto disfatto, una maglietta da donna buttata su una sedia, una maglietta rossa da uomo su un cuscino, e poi due cornici con delle foto sul comodino.
Prendendo la foto tra le mani, con intenzione, l’ombra, accarezzò il viso della donna di quella foto sorridente, non poté far altro che sorridere di rimando.
Rifece il percorso al contrario, lasciando il bicchiere nel lavabo, e richiuse la porta alle sue spalle.
Steve Lee lasciò la casa soddisfatto, sapendo di essere vicino al suo obiettivo, facendosi inghiottire dal traffico di Tokyo.

Sul comodino, nascosto dalla foto di Ryo e Kaori, brillava un proiettile. Un proiettile di una Python 357 Magnum, lasciato lì forse per essere trovato.

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Capitolo 7
*** Settimo - Colpe e discolpe ***


Tokyo
Saeko ingranò la terza della sua porche, non voleva correre, ma di certo non voleva rimanere in auto a così stretto contatto con Kaori, non perché non volesse, ma quel silenzio pieno di detti e non detti era pesante, troppo. Si era offerta lei volontaria per riportarla a casa dall’ospedale, Mick era impegnato nella protezione del ricercatore e lei era libera nel suo turno di riposo. Si chiedeva cosa la sua mente stava cercando di fare mettendola in quella situazione, lei si sentiva in colpa, ma andare di fronte alla persona per cui si sentiva in colpa e senza che qualcuno facesse da intermediario, bè era da masochisti. Era andata per farsi del male? Per guardare gli occhi di Kaori che, nonostante tutto, non provava risentimento nei suoi confronti? E’ questo la stremava ancora di più: Kaori non ce l’aveva minimamente con lei, perciò il fatto che Kaori non la facesse sentire in colpa la faceva sentire ancora più in colpa.
Maledetta mente umana
Tamburellava le dita sul volante, mentre il traffico le costringeva in quell’abitacolo, le labbra serrate e contratte, nessuna parola fuggiva. Kaori, girata verso il finestrino della porsche, era completamente abbandonata sul sedile, sembrava persa nei suoi pensieri, Saeko la guardava di sottecchi ogni tanto, di certo il corpo era nell’auto, ma la sua mente era altrove, lontanissima.
Arrivati a Shinjuku, Saeko accompagnò Kaori fin dentro casa, più che altro voleva assicurarsi che tutto fosse apposto, visto le ultime scoperte.
Kaori si apprestò a preparare del caffè per entrambe e invitò la poliziotta ad accomodarsi. Con il caffè tra le mani, Kaori parlò per prima.

- Allora quante probabilità ci sono che il mio incidente non sia stato un incidente?
- Lo avevi già capito?
- La ruota di un auto come quella non si fora così facilmente, soprattutto creando quello sbandamento.
- Un fucile ad alta precisione, indirizzato all’auto, solo che è molto strana la traiettoria. Come se…
- Se fosse stato deviato?! Stavi per dire questo?
- Si
- Sai se qualcuno ha visto qualcosa?
- No, purtroppo nessuno ha visto niente.

Kaori si alzò di scatto e cominciò a vagare per la stanza persa tra i suoi pensieri. Si ricordò ciò che le disse l’infermiera sull’uomo bruno che l’aveva portata in ospedale senza lasciare traccia.
Perché quell’uomo l’aveva salvata? E perché non riusciva a farne parola con Saeko? Il suo istinto le diceva di tenere nascosto il passaggio del suo salvatore di quella notte.
Kaori si allontanò verso la cucina per prendere altro caffè a Saeko, notò subito il bicchiere vuoto nel lavabo, sicura che lei non lo avesse lasciato, ma continuò a parlare, non facendo caso a quel particolare.

Il silenzio arrivò tra le due donne, c’era qualcosa nell’aria da dire, ma sembrava che nessuno volesse proferire parola, Kaori versò il caffè caldo nella tazza dell’ispettrice. Vedendo il liquido caldo scendere, Kaori si sentì spinta, come se quel liquido che aveva dentro di sé si stesse facendo breccia nella diga del suo mutismo, così tutto d’un fiato…

- Avrei voluto prendere il primo volo per la Thailandia e cercarlo ovunque finché non lo avessi trovato.
Kaori tirò fuori quelle parole senza guardarla negli occhi.
- Però non sono mai partita, non perché non lo avessi voluto, no, per paura. Paura che se lui tornasse da un momento all’altro non mi troverebbe ad aspettarlo. Paura che se fossi andata lì non lo avrei mai trovato e sarei ancora lì in mezzo alla Thailandia a cercarlo.

Saeko si voltò con gli occhi sbarrati verso di lei. Kaori si girò verso la finestra contemplando la sua città.

- E poi come potevo abbandonare Shinjuku? Tutto quello che abbiamo costruito è qui. Tutto il nostro mondo è qui. Non potevo abbandonarlo.
- Ogni giorno, ogni maledetto giorno io non posso far altro che sentirmi in colpa, se io non avessi scoperto la base in Thailandia, se non avessi detto niente allora tu e lui sareste ancora insieme.
- Non devi sentirti in colpa, Saeko.
- No, cazzo, Kaori, no. Come puoi non darmi colpe? Come hai fatto a perdonarmi? Io non posso perdonarmi per farti passare quello che passo io tutti i giorni, tutte le notti. Cazzo, dove diavolo ho messo le sigarette?

Saeko muoveva spasmodicamente le mani nella sua borsa alla ricerca di qualcosa, non tanto per la voglia di fumare, ma per impedire al serpente strisciante della colpa di insediarsi in lei, il nervosismo la faceva agitare, quel confronto era pesante.

Kaori, dal canto suo, invece era tranquilla. Guardava Saeko agitarsi come un’anguilla, certo a volte avrebbe voluto urlargli che era tutta colpa sua. Ma che colpa poteva dargli? No, Ryo poteva rifiutarsi e non partire. Aprì un cassetto del soggiorno ed estrasse il pacchetto con l’accendino, ne prese una e l’accese e poi la passò a Saeko.

- Credi davvero che non sarebbe partito? Credi davvero che se non glielo avessi detto lui sarebbe rimasto con le mani in mano? Saeko, lo avrebbe scoperto da solo e sarebbe partito comunque. Lui non si sarebbe fermato. Smettila di sentirti in colpa, smettila di addossarti una pena inutile.
- Kaori…
- E’ la verità Saeko. Il suo destino lo avrebbe portato lì in qualunque caso. Non si sarebbe mai perdonato se non fosse partito. La “Polvere degli Angeli” era e sarà sempre il suo tormento, voleva sconfiggere il suo demone per sempre. Con Kaibara si era perdonato, certo. Ma se quella merda girava ancora, lui doveva per forza bruciarla, non avrebbe permesso a nessuno di provare quello che ha provato lui.
- E’ un cretino, lui e il suo senso della giustizia del cazzo. Detto da una poliziotta fa ancora più ridere.
- Glielo ripetuto almeno una volta al giorno che era un cretino negli ultimi dieci anni.
Il silenzio si installò tra loro, finalmente un silenzio rappacificatore avvolse le due donne.
- Posso piangere e urlare quanto voglio, Saeko, ma in fondo al mio cuore io so che è vivo. E’ da qualche parte e tornerà da me. Se fosse morto lo avrei sentito e ti assicuro che sarei morta anche io.

Fissò il suo sguardo sulla poliziotta, uno sguardo determinato.

******************************************************************************
L’odore della muffa e del chiuso gli salì al naso prepotente, quel posto era davvero una fogna, pieno di macerie. Il suo passo era lento e calmo, sapeva bene dove stava andando e chi stava cercando: Black Panther. Lui aveva sparato all’auto di Takeshi, il vecchio Tetsu, grazie alla sua prodigiosa rete di informatori, glielo aveva confermato, certe cose non passavano inosservate a Shinjuku, soprattutto se colpito era City Hunter.
Stava attento a non fare il minimo rumore, diventando tutt’uno con il silenzio circostante.

Black Panther, al riparo nel suo rifugio in quel lugubre edificio, era steso su un divano logoro, i suoi sensi comunque all’erta, stava pianificando come portare a termine la sua missione: per cinquanta mila dollari doveva fare fuori il ricercatore per la Yoshimoto corporate. Doveva essere un lavoro facile e invece c’era stato quel piccolo intoppo, ma avrebbe rimediato la sera stessa, la pecca era City Hunter, ma si disse che era un ostacolo scavalcabile.

- Black Panther da quanto tempo.

Black Panther si alzò di scatto, cercando la sua pistola, ma una canna fredda gli si piantò sulla fronte.

- Non peggiorare di più la cosa.

La voce ferma, gelida, sibilò nelle orecchie del killer, scrutò quei due occhi che promettevano ciò che la bocca diceva, un passo ed era morto.

- Vedi Black Panther, non sei mai stato tanto furbo, la tua firma era ovunque, è stato facile scovarti.
- Io.. Io non so di che parli.
- Niente giri di parole, so già di Yoshimoto. Ma oggi sono buono, vai sul primo volo internazionale e sparisci dalla mia vista.

Black Panther sembrava soppesare le parole dell’uomo davanti a lui. Sembrava, ma fece la mossa sbagliata, cercò di afferrare la pistola sul tavolino lì vicino, ma la pistola dell’altro fu più veloce e fece saltare il tavolino per aria.

- Decisione sbagliata.

Black Panther sudò freddo, il panico si impossessò del suo corpo facendolo sragionare e cercando la fuga, facendosi piccolo a terra, implorava di essere risparmiato. L’altro si avvicinava pacatamente passo passo, manifestando la sua aura omicida, Black Panther aveva i minuti contati, ormai a terra, strisciando come un verme, si ritrovò contro il muro.

- Abbi pietà, ti prego.
- E tu, ne hai di pietà? In quanti te l’hanno chiesta?
- Non lo farò mai più, lo…. giuro… lasciami andare.

La pistola si avvicinava sempre più alla sua tempia, il freddo metallo gli toccava la pelle, la fine sembrava vicina, il corpo era un fremito, lo stomaco stava per ribellarsi, sentiva il sudore freddo colargli per la schiena, gli occhi della morte lo stavano guardando attraverso quell’uomo, sentiva, percepiva la fredda morte, gli occhi fuori dalle orbite.
BANG!
Una parola soltanto.
Black Panther si accasciò svenuto con la bava alla bocca.

- Che idiota, è svenuto per la paura, se ti avessi sparato davvero avresti sofferto di meno.

Legò l’uomo e lo trascinò con sé sapendo dove portarlo.
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Collocò il mirino sul fucile ad alta precisione, guardando all’interno, si fece un’idea della zona attorno a sé. Una villa bianca a due piani, due guardie del corpo all’entrata, altre due nel retro e sicuramente altre all’interno, comunicavano tra di loro tramite auricolari, presto il suo obiettivo si sarebbe affacciato al balcone centrale del secondo piano: Yoshimoto.
Ed eccolo inquadrato, l’uomo era basso, tarchiato con i capelli impomatati, il classico tizio che si è fatto i soldi sul sangue degli altri ma che sembrava lindo e pulito nel suo doppiopetto di sartoria italiana. Yoshimoto si era seduto e si era fatto portare una tazza di thé, uno dei suoi tirapiedi glielo stava servendo nella sua tazza di finissima di porcellana, improvvisamente, sempre dal suo mirino, vide che un altro uomo si avvicinava a Yoshimoto porgendogli il telefono, prese il telefono in mano e ad ogni secondo che passava sembrava sempre più adirato, anche se da lontano, si poteva notare tutta la furia che aveva contro il suo interlocutore, chiuse bruscamente la comunicazione sbattendo un pugno sul tavolo, il telefono squillò di nuovo nella villa Yoshimoto.

- Pronto?
- Yoshimoto, sei per caso arrabbiato?
- Chi parla?
- Devi fare attenzione, alla tua età potrebbe venirti un ictus o addirittura un infarto, a giudicare dal tuo pallore forse ci sei vicino.

Yoshimoto si alzò in piedi col telefono in mano, pallido, cominciò a guardarsi attorno.

- Chi diavolo sei?
- Uno che ti fa visita, non sei contento? Ahi ahi… sei sempre più bianco, sarà il caso che slacci quella cravatta.

Il proiettile partì a razzo, sfiorò il collo di Yoshimoto facendo a brandelli la cravatta, il vecchio si accasciò sulla sedia tremante.

- Respira a fondo vedrai che andrà meglio e poi quella cravatta era terribile.
- Dimmi chi sei?
- Eppure avresti già dovuto capirlo.
- Ci….City Hunter.
- Eh bravo Yoshimoto, bell’intuito.

Dopo aver detto il nome del suo interlocutore, Yoshimoto cercò di fare cenno ai suoi uomini e provò soprattutto a ripararsi dentro casa, peccato che un altro proiettile sfiorò il piattino della sua tazza.

- No no, Yoshimoto, non è così che si fa, adesso ascoltami bene, te lo ripeterò solo una volta: prova ad avvicinarti ancora a Takeshi e ti verrò di nuovo a trovare, ma questa volta non sbaglierò bersaglio. Chiaro? Ah ed evita di mandare altri tirapiedi se vuoi salva la pelle.
- Maledetto bastardo, quel figlio di puttana di Black Panther lo avevo già pagato e lo hai fatto sparire dalla circolazione.

L’uomo, da dietro il fucile, inarcò il sopracciglio sorpreso, ma la sua voce non trasalì.

- Yoshimoto non è questo il linguaggio adatto ad un gentiluomo.

Un nuovo colpo partì in direzione della villa, questa volta facendo slacciare le braghe di Yoshimoto, lasciandolo in mutande sul bancone davanti ai suoi uomini.

- Ecco, nudo come un verme sei più a tuo agio e più vicino ai tuoi simili. Ah Yoshimoto questo è un avvertimento, perciò occhio a come ti muovi.

L’uomo chiuse la comunicazione vedendo Yoshimoto bianco cadaverico e in mutande agitarsi alla ricerca di ricomporsi. Se ne andò schiacciando il mozzicone della sua sigaretta sapendo di aver chiuso la questione nel suo stile.

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Golden Triangle - Thailandia
Baiko era adirato, furioso per la precisione, era passata una settimana da quando Steve era partito e l’unica notizia ricevuta era: “City Hunter è sulle tue tracce”. Punto. Nient’altro. Che voleva dire? Che Steve era già stato fuori? Che se avrebbe messo piede a Tokyo sarebbe stata la sua fine? No, questo il suo orgoglio non poteva sopportarlo. Urlò ordini a destra e a manca, sbattendo i pugni sul tavolo, si stava preparando. Baiko sarebbe sbarcato a Tokyo entro tre giorni e avrebbe fatto fuori lui City Hunter, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua.

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Capitolo 8
*** Ottavo - Un passo indietro ***


Questo capitolo l'ho scritto in piena notte e di getto, avrei potuto modificarlo in mille modi (e magari correggere quegli errori di grammatica!) ma alla fine, rileggendolo ho deciso di lasciarlo così, non voglio cambiare una virgola, perché l'emozione del momento in cui l'ho scritta non è modificabile e mi ha portato a questo! Devo dire la verità ha emozionato anche me, avevo questa cosa in testa da un pò ma non trovavo il modo di tirarla fuori, finalmente stanotte è arrivato (l'insonnia che brutti scherzi che fa!)! Un bacione a tutte!!!

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Golden Triangle – Due anni prima

Il sudore gli era incollato sulla pelle, lo sporco della giungla, della battaglia otturava ogni suo poro, la tuta mimetica era logora, aveva lasciato armi e corpi per strada, ma ormai era finita. Finalmente il demone della sua vita sconfitto: la “polvere degli angeli”, nessuno avrebbe potuto più riprodurla.

Steve Lee era un ex commilitone di Kaibara, era riuscito a rubare la formula chimica della “polvere degli angeli” e aveva cominciato a produrla in quell’angolo sperduto della Thailandia; appena scoperto, Ryo era partito. Non poteva lasciare che quel pazzo prendesse il posto di Shin, suo padre era andato da lui per essere fermato, lo avevo affrontato per farsi salvare, per fare in modo che quella droga non distruggesse più nessuno non solo attraverso l’assunzione, ma anche attraverso l’avidità e il potere che dava vendendola. E allora era lì a buttare e bruciare quella nuova base, era ormai mesi che aveva cercato di infiltrarsi e di distruggere tutto, finalmente ci era riuscito. Steve Lee e tutto il suo plotone sterminato, l’edificio in pezzi, gli abitanti del villaggio, che raffinavano la droga, liberi.
Tutto era andato a buon fine, ora poteva tornare finalmente a casa da Kaori. Quel nome, solo pensato, era una boccata d’ossigeno dopo essere stato troppo tempo sommerso, il balsamo sul suo cuore per ammorbidirlo. Quei tre mesi erano stati duri lontano da casa, non tanto per la missione, ma per la mancanza di lei. Lei non era una necessità, perché era abituato a cavarsela da solo, a vivere in bianco o nero, ma tra il bianco e il nero c’era la scala dei colori, delle sfumature, di quelle piccole cose che fanno la differenza, questo era lei: la differenza, il colore che da energia e toglieva il nero dalla sua vita.

Camminava lento tra le macerie della scia di guerra che aveva lasciato dietro di lui, con la convinzione che presto tutto questo sarebbe stato archiviato, il suo demone distrutto, presto sarebbe stato di nuovo nel caldo che la sua donna sapeva donare, avrebbe dimenticato il sangue di quei giorni sulle labbra rosse di lei, avrebbe dimenticato la stanchezza delle battaglie tra le lenzuola bianche dove lei lo avrebbe accolto, avrebbe dimenticato gli occhi sbarrati e senza una briciola di umanità di quegli uomini sottomessi dalla droga per gli occhi di lei, così pieni di vita e di speranza, di luce, due pietre che erano impresse nella sua memoria, avrebbe sostituito le urla del dolore che animavano il campo di battaglia con i gemiti che lei aveva nell’amore, perché lei era bella, soprattutto mentre faceva l’amore, così appassionata, con la voglia di scoprire, di cercare, con malizia, innocenza, tutte quelle notti lontano da lei ricordava perfettamente l’espressione del suo volto nel momento massimo del piacere, la bocca socchiusa, quel profondo sospiro che partiva dal fondo della sua gola, gli occhi chiusi, le sue mani su di lui, in un punto qualsiasi del suo corpo, per trasmettergli il contatto del suo piacere. Lei avrebbe guarito le sue ferite.

Quando ormai tutto era finito e il fumo grigio sovrastava la giungla, un rumore turbò i suoi sensi, un pianto, una voce piccola ma forte, un bambino che piangeva. Quel pianto, nonostante fosse flebile, era un colpo alla sua anima, e cominciò a correre per tornare indietro sui suoi passi, sapeva di chi era quella voce: Poo Chai.
Poo Chai era l’unico bambino che gironzolava nella zona, magrissimo, con un caschetto di capelli neri scompigliati e gli occhi enormi , scuri, non quelli di un bambino ma quello sguardo di chi ha visto troppo sangue nella sua giovane vita; il giorno che lo aveva incontrato per la prima volta, Ryo, in quello sguardo ci aveva rivisto il suo, si era specchiato, avrebbe voluto fare qualcosa per lui, ma aveva le mani legate in quel momento, nel periodo della sua copertura si affiancava spesso a Poo Chai, senza parlare troppo, ma con qualche carezza su quel caschetto, lui indicava con il suo ditino la natura attorno a loro e Ryo gli spiegava a cosa serviva ad una pianta o quale bacca era velenosa, sua madre lavorava nel villaggio adibito a città della droga, il piccolo Poo Chai parlava davvero poco ma ti squadrava da capo a piedi, capiva chi eri con quello sguardo liquido di bambino cresciuto troppo in fretta.

Si fece spazio tra le macerie, Ryo si chiedeva perché lui fosse ancora lì, cosa era successo a sua madre? Perché non lo aveva portato con sé? Cominciò a gridare il nome del piccolo, addentrandosi nello scantinato del piccolo bunker che Steve Lee si era costruito, di lì a poco una bomba sarebbe scoppiata spazzando quell’inferno.
Ed eccolo Poo Chai, rannicchiato su se stesso mentre piangeva disperato vicino al corpo di sua madre, ecco perché era ancora lì.

00:52

- Poo Chai, forza vieni piccolo, forza.

Ryo cercò di prendere Poo Chai tra le braccia, cercando di staccarlo dal corpo morto della madre, il bambino faceva un po’ di resistenza.

00:39

Ryo correva su per la prima rampa di scale, il bambino che piangeva attaccato al suo collo.

- Vedrai Poo Chai, ce la faremo.

00:25

L’uscita era davanti a loro, i passi della corsa di Ryo risuonavano nella stanza. Un uomo, ferito, comparse davanti a loro con la pistola in mano, fece fuoco su di loro.

00:16

Ryo cercò di proteggere il piccolo Poo Chai dal colpo di pistola, buttandosi per terra e prendendo il colpo di pistola che gli sfiorò il braccio. Tirò fuori la sua pistola e colpì l’uomo, un colpo secco in mezzo alla fronte.

00:07

Ryo fece scendere Poo Chai, lo prese per mano, l’uscita davanti a loro, la salvezza. Il braccio cominciava a pulsare.

00:03 – 00:02 – 00:01 – 00:00

Lo scoppio

Erano fuori, pochi secondi e la bomba scoppiò, la detonazione li fece sobbalzare, il fuoco divorava ciò che rimaneva del villaggio, Ryo, nel contraccolpo della detonazione, cercò di coprire con il suo corpo il bambino. Il corpo rotolò nella vegetazione alta davanti a loro. Le fiamme colpirono la sua schiena creandogli una forte ustione, ferito cercò di rialzarsi ma non ce la fece, si voltò verso Poo Chai.

- Corri, corri più forte che puoi.

Spinse il bambino e lui, dopo essersi guardato negli occhi un’ultima volta, corse più forte che poteva.

Ryo vide la schiena del piccolo correre, sorrise, ce l’aveva fatta.

Un nuovo scoppio, le fiamme erano arrivate fino al magazzino della raffineria, gli elementi chimici scoppiarono mandando in pezzi il magazzino, facendo volare lamiere da tutte le parti, il destino fu crudele, Ryo accasciato di spalle mentre vedeva fuggire Poo Chai, fu raggiunto da un calcinaccio che gli colpì la tempia.
In quel momento il viso di Kaori arrivò ai suoi occhi come il ricordo più prezioso della sua vita, l’ovale più caro al suo cuore, il momento in cui l’abbracciava e in cui si sentiva completo, l’odore del suo collo così suo, il caldo tocco della sua mano anticamera del paradiso, il sapore delle sue labbra dolce come il vino più buono.
Sentiva come se la sua vita stesse scivolando via dal suo corpo, il suo ultimo pensiero a lei.

Tornerò da te, in qualche modo, tornerò, amore mio. Sopravvivrò.

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Capitolo 9
*** Nono - Profumo ***


Mollemente, Kaori, si fece cadere sul letto al buio, un forte mal di testa la tormentava nuovamente. Si rannicchiò in posizione fetale abbracciando la maglietta rossa, sembrava non fosse mai andato via, il suo profumo sembrava ancora aleggiare nell’aria, come se fosse passato di lì da qualche ora. Riusciva perfino ad immaginarlo mentre si aggirava per la stanza e spargeva i vestiti a destra e a sinistra, creando la sua tipica confusione. Si strinse quella maglia su di lei, provando quel senso di appartenenza che era loro, come se una linea sottile li legasse indissolubilmente, un filo che non si sarebbe mai spezzato. Si voltò verso la loro foto senza prenderla tra le mani, continuando a stringere quella maglia.

>>Ho paura, ho il terrore che tu non torni. E’ come se vivessi in un limbo, dove stessi scontando una pena, perché? Perché, Ryo? Capisci che devi tornare? Puoi lasciarmi così? Qui, sola, senza uno scopo. Sai, ora capisco tanti tuoi comportamenti, tanti tuoi silenzi. Alle volte, là fuori, ho voglia di abbracciarla la morte per non sentire più questo vuoto, il vuoto della tua assenza. Solo che non posso, in fondo la tua assenza mi è necessaria, per far rimanere intatta la speranza che tu torni, torni a darmi tutto quello che mi è indispensabile, te. Inesorabilmente te. Tu sei la mia famiglia, il mio amico, il mio amante, il mio socio, il mio compagno. Ryo, non ti permetterò di lasciarmi qui, così. Devi sentirmi. Ovunque tu sia, devi sentirmi, perché me lo hai detto anche tu, noi possiamo essere lontani miliardi di kilometri , ma qualcosa ci terrà per sempre uniti. Ti prego, Ryo, ascoltami in questo momento. Ricordati di me.>>
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Sorseggiando una birra, Steve, guardava fuori dal balcone del suo appartamento di Shibuya. Le luci di quella città, veloci, mutevoli, rimescolavano i suoi pensieri, i suoi occhi seguivano vagamente i movimenti della vita che brulicava, Tokyo era brillante, era caotica, sgorgava da lei un’infinita di vita, ogni strada sembrava animata, vivere di vita propria. E quell’infinita di luci, poteva tenere spenta la luce del suo appartamento, quelle da fuori lo illuminavano ampliamente; i suoi occhi abituati alla giungla, buia e silenziosa, riuscivano a distinguere istintivamente tutto ciò che lo circondava.

Solo che gli mancava qualcosa. Una lieve punta di amarezza si era instillata nel petto, sentiva che mancava qualcosa, forse, presto, avrebbe trovato le sue risposte. Essere un uomo senza nome e senza età, alle volte, creava in lui un certo tormento, come un’insicurezza, un vuoto da colmare. Improvvisamente si ritrovò a pensare a quella donna, quella donna con quel profumo, ricordava perfettamente quell’odore, sembrava che si fosse insidiato nel suo profondo, era rinvigorente, ossessivo, quasi un gancio nel petto. Un sorriso arrivo a solleticare le sue labbra, dandosi del coglione, sorseggiò ancora il suo alcolico ambrato.

Improvvisamente qualcosa mutò in lui, il suo senso del pericolo lo rimise subito in allerta, qualcuno stava per fargli visita.
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Baiko era sbarcato a Tokyo portando con sé solo un uomo fidato, un tale Matt. Arrivato in città aveva cercato immediatamente di riprendere contatto con quella realtà, quella città che gli aveva voltato le spalle, vedendola scorgere dalla sua stanza d’albergo a cinque stelle, il sentimento di vendetta rimontò in lui. Doveva farla pagare a chi gli aveva voltato le spalle, a chi lo aveva costretto ad andare via da lì per rifugiarsi in quella merda di giungla, lontana dal mondo, lontana anni luce dal suo modo di essere.

Sì, il suo intento era di riprendersi quella città, yakuza o non yakuza, polizia o non polizia, City Hunter o non City Hunter. Il suo obiettivo primario era proprio lo sweeper, questo strano giustiziere che incuteva paura a tutti quanti, ma non a lui, il suo orgoglio di vecchio boss glielo imponeva, nessuno poteva fargli paura. Neanche un giustiziere da strapazzo, una cosa che gli fece storcere il naso era non avere notizie di Steve, quell’uomo, che considerava uno dei più forti e determinati, sembrava scomparso, nessuna notizia di lui, a questo punto si poteva aspettare anche di trovarlo in qualche vicolo con un foro nella fronte, poco male, era solo una pedina, gli serviva per arrivare ad uccidere questo fantomatico City Hunter, avrebbe fatto da sé se fosse stato necessario, perciò decise di andare con Matt all’appartamento di Shibuya. Magari Steve aveva comunque lasciato qualcosa, qualche indizio per raggiungere quest’uomo invisibile.

Prima di arrivare a Shibuya, Baiko, decise di andare a trovare il suo vecchio e fedelissimo Haru, giusto per capire se Steve era passato e se poteva dargli informazioni riguardo City Hunter. Ma nel vicolo buio e squallido,dove si trovava la bisca clandestina di Haru, non c’era nessuno, solo un barbone che cercava riparo. Scortato da Matt, Baiko cominciò a fare qualche domanda al barbone.

- Tu dimmi, che fine ha fatto Haru?
- Haru chi?

Baiko fece cenno a Matt, che prese il povero uomo per la collottola e lo sollevò in aria come se fosse stato una piuma.

- Te lo ripeterò solo una volta, Haru, il gestore di questo posto, dove si trova?
- Se ne sono andati qualche giorno fa, non so niente, so che City Hunter è passato e da allora non c’è più nessuno.

Baiko cominciò a fumare nero, il suo uomo anche lui sparito sempre dietro l’ombra di City Hunter, lo avrebbe preso e sterminato, non sapeva contro chi si stava mettendo. Baiko guardò ancora Matt, l’uomo lasciò andare il barbone che si accasciò ansimante contro il muro. Senza battere ciglio, mentre il povero barbone raccattava la sua roba per scappare, Matt sparò un colpo con la sua pistola, uccidendo il povero uomo.

- Così City Hunter capirà che i giochi sono aperti.

Lasciando il vicolo buio, Baiko, si fece portare da Matt, verso l’appartamento di Shibuya.
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Mick, fischiettando, andò verso il Cat’s Eye, doveva recuperare il suo cliente e soprattutto dirgli che la questione era ormai chiusa, Yamamoto non avrebbe più intralciato la sua ricerca e la sua firma sul contratto con la casa farmaceutica, si era divertito un mondo a spaventare Yamamoto per telefono.

Aprendo la porta del bar, ritrovò in un angolo il Dottore che guardava stupito il gigante Falcon mentre faceva le pulizie.

- Dottor Takeshi, domani mattina possiamo andare con tranquillità a firmare il contratto, Yamamoto non le darà più fastidio.
- Signor Angel, davvero?! Posso stare al sicuro?
- Si, certo. Glielo avevo detto: siamo i migliori.

Mick, dopo l’incidente di Kaori, aveva deciso di prendere la situazione in mano, sicuramente quel proiettile indirizzato all’auto che guidava la sua socia, era di un professionista, sapeva che se sarebbe andato direttamente alla fonte, ovvero chi aveva commissionato il lavoro, il killer ingaggiato si sarebbe dileguato, perciò era andato alla villa di Yamamoto, lasciando Takeshi alle cure di Miki e Falcon, non poteva essere in mani più sicure e, sapendo che Kaori era protetta da Saeko, il lavoro era stato davvero semplice, ma la sua classe era rimasta intatta, come sempre del resto.

Falcon fece segno a Mick chiedendogli di seguirlo nel retro bottega senza dire una parola. L’americano seguì il gigante che lo portò nei sotterranei del bar e, accendendo la luce dello scantinato, si ritrovò davanti agli occhi un uomo appeso a testa in giù, imbavagliato e soprattutto terrorizzato: Black Panther.

Mick si rivolse verso Falcon

- E questo chi è?!
- Black Panther, ha sparato lui alla macchina del dottore. Mi ha confermato di essere stato assoldato da Yamamoto.

L’americano guardò sgranando gli occhi Falcon

- Razza di scimmione patentato, mi hai fatto fare il lavoraccio sporco da Yamamoto, mentre tu sapevi chi era il killer? E non mi hai detto niente? Puah! Lo sapevo io, sempre a fare i lavori peggiori.

Mick, non ascoltando nient’altro e continuando a borbottare, lasciò Falcon lì nello scantinato, senza dargli modo di spiegare cosa fosse accaduto, come era arrivato lì quel salame.

Risalendo in superficie e rientrando nel bar, lasciando il povero Black Panther legato come un sempre come un salame, ritrovò Mick seduto sullo sgabello, mentre una Saeko trafelata entrava al Cat’s Eye.

- Ragazzi abbiamo un problema, qualcuno è sulle tracce di City Hunter: vuole sfidarlo.
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Baiko mandò avanti Matt sulla rampa di scale per arrivare all’ultimo piano dell’appartamento che aveva dato a Steve.

Steve, dal canto suo, accartocciò la lattina di birra, aveva sentito i suoi “ospiti” arrivare e gli avrebbe dato una degna accoglienza.

Matt, pistola spianata, fece irruzione nell’appartamento, aprendo la porta lo trovò vuoto, ma non si accorse che alle spalle, Steve, gli stava sorridendo, e, senza fare rumore, gli puntò la pistola alla nuca.

- Matt, non ti hanno insegnato a bussare? E poi ti fai fregare sempre come un pivello.

Matt digrignò i denti, maledizione, lo aveva ancora fregato. Tra lui e Steve, sin dalla Thailandia, non correva buon sangue, purtroppo doveva riconoscere che quel bastardo di Steve era maledettamente bravo, più di lui. Ma in Thailandia, spesso, erano venuti alle mani, Steve lo sfidava ogni due per tre con quel sorriso di chi la sa lunga, di chi sa di essere superiore e questo proprio non gli andava giù.

Baiko fece la sua entrata, constatando che tutto era tranquillo e sorprendendosi di trovare Steve vivo.

- Baiko, che bella sorpresa.
- Steve vedo che sei vivo.
- Se per questo anche tu e continui a portarti dietro il tuo gorilla da strapazzo.

Matt incassò l’insulto digrignando i denti.

Baiko entrò nell’appartamento superando i due uomini, si accomodò.

- Non offri da bere ai tuoi ospiti, Steve?
- Là c’è il mini – bar, fai da te.

Steve lasciò la pistola e andò a sedersi, Baiko fece segno a Matt di andare a prendere da bere, cosa che fece malvolentieri.

- Allora Steve, non abbiamo ricevuto tue notizie, e Haru è sparito.
- Haru è un povero coglione, ti accerchi di gente buona a nulla, quando sono andato non ho cavato un ragno dal buco.

Steve strappò dalle mani la bottiglia a Matt, servendosi da bere. Baiko sapeva che era un gesto di sfida anche nei suoi confronti, non riconosceva la sua autorità, lo sapeva bene, ma non era importante ora, doveva solo sapere se poteva eliminare City Hunter, a Steve avrebbe pensato poi.

- Allora che mi sai dire.
- Che puoi cominciare a preparare i fuochi d’artificio. Manda il tuo scagnozzo alla stazione di Shinjuku, uscita Est, digli di scrivere “XYZ – sfida al molo 47 domenica alle 23”. Arriverà.

Baiko sorrise mesto, bene, tutto era quasi giunto alla fine.

Gli occhi di Steve scintillarono guardando il liquido ambrato nel suo bicchiere.

Presto, tutto quanto, sarebbe stato servito su un piatto d’argento.

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Capitolo 10
*** Decimo - Vita, morte e destino in preparazione ***


Saeko, quel pomeriggio, correva nuovamente con la sua porsche tra le vie di Tokyo, in mano poche notizie di un suo informatore, City Hunter stava per essere sfidato.
Si destreggiò nel traffico, non sapeva perché, ma aveva il sentore che qualcosa sarebbe successo in quella sfida, il serpente strisciante della paura la metteva in allarme, e lei del suo istinto si fidava ciecamente. Stava cercando di dirle qualcosa, ma cosa esattamente?

La porta del Cat’s Eye era a pochi passi, ma sembrava lontanissima, doveva trovare il modo di dare a qualcuno prova di quello che sentiva, il rumore dei tacchi batteva sul marciapiede a ritmo di marcia, a ritmo della sua ansia, finalmente la mano spingeva l’entrata del Cat’s Eye, il classico campanello ad annunciare l’arrivo di un nuovo ospite.

Tutto d’un fiato, come se quel peso le schiacciasse il petto, tirò fuori quelle poche parole.

- Ragazzi, abbiamo un problema, qualcuno è sulle tracce di City Hunter: vuole sfidarlo.

Ecco, finalmente lo aveva detto.
Mick, dal canto suo, si girò verso la poliziotta interdetto vedendola entrare come una furia senza aver nemmeno salutato.
Umibozu stava seguendo l’americano, cercando quanto meno di dargli una spiegazione sul fatto che Black Panther stesse passando un piacevole soggiorno nella sua cantina, ma le parole di Saeko, con quella intonazione di voce , lo fecero mettere in allerta, non si sbagliava, in quell’incrinatura della voce di Saeko c’era qualcosa che non andava.

- Saeko puoi spiegarti meglio, tesoro?

Mick, vedendo la poliziotta ancora in piedi, le fece segno di accomodarsi vicino a lui per capire meglio cosa stesse succedendo.
Saeko accavallò le gambe nel suo stile per accomodarsi meglio, tanto per un riflesso condizionato che per cercare di sedurre qualcuno, Falcon , dal canto suo e silenziosamente, passò una tazza di caffè fumante aspettando le parole della poliziotta.

- Circa vent’anni fa mio padre, all’epoca ancora ispettore di polizia, smontò una banda di yakuza: la Kyodo – kai. A capo c’era un certo Baiko Miura, che all’epoca era riuscito a fuggire. Dalle nostre informazioni, qualche giorno fa, è tornato a Tokyo, da informatori fidati, abbiamo scoperto che vuole riprendersi la città come vent’anni fa, ma qualcuno lo ha avvertito dell’esistenza di City Hunter, e sa che è la pedina da eliminare per la sua conquista.
- Saeko, forse ti stai preoccupando troppo, non credi?
- No, c’è qualcosa di strano, c’è già stato un morto, un poveraccio ucciso a sangue freddo in un vicolo di Shibuya, il messaggio era chiaramente per City Hunter.
- Saeko, sarà il solito idiota.
- Io comunque starei in allerta, appena so come e dove, vi faccio sapere.

Saeko cominciò a tamburella lare le dita sul tavolo in preda ai suoi pensieri, Mick la osservava, come per arrivare a capire il perché di tanta apprensione.

- Senti Mick, facciamo in modo che Kaori non sappia nulla.
- Perché?
- Non è meglio lasciarla fuori? E’ il caso che te ne occupi tu con Falcon, voi ve la caverete di certo.
- Non è una cattiva idea, una sfida, per quanto Kaori sia preparata, è sempre pesante, soprattutto per le sue condizioni, non si è ancora ripresa del tutto dall’incidente.

Non era questo quello che Mick voleva dire. Il pensiero fisso era: “e se lei si arrendesse? E se lei sentisse il dolce richiamo della morte come salvatrice delle sue pene?”. Ecco a questo in verità pensava. Allora meglio tenerla all’oscuro. Rivolse il suo sguardo su Umibozu che asserì con un breve cenno della testa, il suo pensiero trovò concorde il gigante.

- Si ce ne occuperemo io e Falcon. E non ne faremo parola con Kaori.
- Bene, mi sento più sollevata, mi raccomando allora: bocca cucita.

Miki, dopo aver ascoltato tutta la conversazione, decise di prendere la parola.

- Siete sicuri che sia una buona idea? Anche io temo per la sicurezza di Kaori, ma nasconderle una cosa del genere non la metterebbe più a rischio?Oltre, ovviamente, a farla arrabbiare, forse è il caso di parlarne con lei, se le spiegaste le vostre ragioni sarebbe d’accordo. In fondo, ha più diritto lei su City Hunter che noi, non credete?

Era pur vero anche questo. Lei era City Hunter, non loro. Conoscendo anche la testardaggine della rossa, però, Mick si rimise a pensare. Dirle qualcosa con il rischio di perdere perfino la sua vita o non dirle nulla con il rischio di perdere la sua fiducia? Un vero e proprio rompicapo. Ora capiva Ryo, non doveva essere stato per niente semplice, in fondo Kazue lo aspettava a casa, certo trepidante, ma al sicuro in casa, mentre Kaori era lì sul campo di battaglia, ad affrontare lo spettro della morte. Ryo aveva avuto un grande coraggio ad accettarla o forse era un fottuto incosciente o, ancora, egoista a tal punto che per salvare lei e se stesso averla accanto era l’unica soluzione. Quanti anni si era torturato con questi interrogativi lui? Intanto il loro rapporto era diventato solido, e forse la soluzione al dilemma era più semplice del previsto. Quell’amore e quel rapporto che loro avevano costruito incoscientemente li aveva fatti avvicinare a tal punto che erano ormai una cosa sola. Per quanto incredibile potesse essere, anche in quel mondo infame in cui loro vivevano, esisteva questa forza e Ryo e Kaori ne erano la prova.
E nonostante questi due anni, quell’amore perdurava, anche se come un eco lontano.

__________________________________________

“XYZ – sfida al molo 47 domenica alle 23”.

Quelle parole scorrevano negli occhi di Kaori, bianche sulla lavagna verde, poche parole scritte per una sentenza. Una sfida. Lei contro la morte, lei contro sé stessa, lei per City Hunter: la sua vita, la sua missione, lo scopo per cui combattere.

Kaori cancellò immediatamente il messaggio, non voleva che nessuno si intromettesse, sentiva quella sfida sua, solamente sua, come se ne dipendesse le sorti del suo destino, gli sembrava una stronzata, ma era quella la sensazione che provava. Non voleva dirlo ai suo compagni, voleva uscirne da sola questa volta, sentiva il bisogno di sentire che, forse, lei era in grado di difendere City Hunter, perché lei, anche se sola, era City Hunter. Nessuno doveva entrare in questa faccenda. Il destino quella sera avrebbe fatto il suo gioco: vita o morte.
******
Le ombre comprimevano la città, le prime luci della sera facevano capolino. Quella sera il cielo si oscurava di secondo in secondo, un temporale si sarebbe scatenato sulla città. Steve guardava fuori dal suo balcone l’incontro della città con quel temporale, il primo lampo squarciò il cielo, gli metteva malinconia, gli sembrava di aver vissuto questa malinconia, come se in una vita passata, in una notte di temporale come questa, avesse perso qualcosa. Cacciò quel pensiero e rientrò nell’appartamento. Mancavano un paio d’ore alle 23 e presto sarebbe stato faccia a faccia con City Hunter.
*******

Kaori accese la luce della stanza del poligono, accarezzò quel tavolino dove lui preferiva posizionarsi per scaricare la sua magnum, dove lui aveva fatto l’amore con lei una volta, dicendole che lei era perfetta per fare l’amore anche in uno scantinato impolverato, dicendole che non aveva importanza dove facevano l’amore perché essere dentro di lei era il paradiso, il suo porto sicuro, il mondo in cui perdersi.
Sentì un tuono, si stava per abbattere sulla città un temporale. Prese le armi che con cura ripuliva, e, dopo averne fatto incetta, ritornò in camera.
******

Steve, dopo essersi infilato un paio di pantaloni neri, si guardò allo specchio, passò la sua mano sulla barba incolta e sui capelli ondulati che arrivavano sul suo collo, intanto prese la camicia e la indossò con calma, senza fretta, sentendo il tessuto che si stringeva su di lui. E poi eccola lì, quella catenina che non aveva mai lasciato, quell’anello che portava con lui sempre, gli sembrava un rito sacro indossarlo, si sentiva rassicurato da quell’oggetto, come se fosse un prolungamento del suo essere verso qualcun altro.
******

Kaori indossò la sua tuta da combattimento, in quante battaglie l’aveva accompagnata in tutti questi anni? Tante, da Silver Fox a Kaibara, ogni centimetro di quell’indumento racchiudeva una storia e ne raccontava un’altra. Allacciò i lembi della camicia, e con lentezza sistemò il proiettile di Ryo sul suo collo, non poteva lasciarlo neanche volendo, parte di lei, del suo cuore, di tutto il suo essere. Prese tra le mani la foto di suo fratello, sorridendogli, cercando di guardarlo come per salutarlo, del resto lo faceva sempre, tutti i giorni. E poi arrivò a quella foto di loro due, la prese tra le mani come un tesoro, guardò gli occhi di Ryo, socchiusi perché rideva di gusto abbracciato a lei, e vide la felicità. Quel pugno arrivò a stringergli lo stomaco. La felicità perduta due anni fa e dispersa in una giungla sconosciuta, lui provava la stessa cosa? Sentiva quella mancanza opprimente da toglierti il fiato come la sentiva lei? Cacciò indietro quel pensiero, doveva concentrarsi, la battaglia stava per iniziare.
Riposò la foto sul comodino, urtò qualcosa con la cornice che scivolò a terra, un altro lampo illuminò la stanza buia, e vide illuminarsi un proiettile, il proiettile della python. Prendendo tra le mani lo guardò come se lo vedesse la prima volta, era certa che non lo aveva messo lei, era un segno? Lo posò vicino alla foto di lei con Ryo, promettendosi che al ritorno dal molo avrebbe fatto in modo di scoprire come ci fosse finito lì dentro.
Scese le scale di corsa, in garage prese la mini e andò verso la sua battaglia.
*******

Steve prese la sua pistola, mise la sicura e la rimirò, splendeva. Poi la mise nella fondina che aveva sulle spalle, indossò la giacca di pelle e uscì a piedi, il freddo della notte e le prime gocce di pioggia lo bagnavano, non se ne curò poi molto, il suo obiettivo era il molo, concentrato sulla sua sfida, concentrato su quello che il fato gli aveva riservato: morte o vita. Sorrise beffardo, quante volte si era ritrovato in quella situazione?

Il destino, questa volta, aveva in serbo per lui un tiro mancino o sarebbe stato dalla sua parte?

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Capitolo 11
*** Undicesimo - Molo 47 ***


Quattro suoni prolungati si percuotevano per tutto il porto, una nave stava salpando, erano le 22 di quella domenica sera, la sera della sfida. Contro chi ancora non lo sapeva Kaori, ma in fondo, che importava?
Con la mini posteggiata di fronte al mare, appoggiò le mani sul volante e fissò intensamente quella distesa blu, il mare che si confondeva con il cielo della sera e le luci del porto in lontananza. Era tanto tempo che non andava in quella zona della città, e forse era un segno del destino che lei fosse arrivata in quel molo, forse quel numero era propizio o sfortunato.

Due anni prima

Avevano appena finito di festeggiare la fine di un incarico in un ristorante, ora Ryo e Kaori passeggiavano vicino al porto, mano nella mano, Kaori di quel piccolo contatto era felice, lui si avvicinava pian piano a lei, un piccolo passo alla volta, e quel piccolo dettaglio, lui che le stringeva la mano, era uno di quei gesti che Ryo imparava giorno dopo giorno ad apprezzare. Non gli era mai capitato di prendere una donna così per mano solo per una passeggiata, nel silenzio della notte.
Il porto, nonostante non fosse un posto affidabile, era magico, tutte quelle piccole luci in lontananza, quella brezza che li sfiorava e il rumore del mare che si infrangeva contro le navi sembrava davvero un posto incantato.

Ryo si sporse in avanti per guardare meglio verso l’orizzonte, Kaori gli stava accanto in silenzio, quel silenzio avvolgente, sereno, quel silenzio che esprimeva tutto senza bisogno di dire parole. Stare accanto l’uno all’altra in quel modo era il segno evidente che, insieme, avevano raggiunto uno stato di grazia per la quale, se separati, era impossibile ricreare.

Guardando quella distesa blu, Ryo, si sentiva sereno. Strattonò la mano di Kaori per farla avvicinare a sé e accoglierla tra le sue braccia, era la prima volta che l’abbracciava così apertamente davanti a tutti, anche se in quel porto erano soli, Kaori sentì la forza dell’uomo che la trascinava su di lui, per appoggiarsi con una mano sul suo petto e sentirsi preda di quell’emozione da prima volta, quella in cui il calore dei corpi è un misto di passione e di beatitudine, dove il cuore batte improvvisamente più veloce e le gote si arrossano, il sangue corre veloce e quasi le gambe cedono per la vertigine di quella vicinanza, per quell’odore della sua pelle così calda e virile che sembra avvolgerti, e ti ritrovi come una quindicenne alla prima cotta, nonostante ormai erano settimane che condivideva con lui lo stesso letto.

Quel rossore improvviso sulle guance di Kaori colpì Ryo, possibile che lei si emozionasse per quelle piccole cose? Sì, possibile, perché anche lui, nonostante potesse dimostrare il contrario, sentiva quel formicolio, quella sensazione di appartenenza che non aveva mai provato prima se non con lei. Trovare il coraggio di abbracciarla, di racchiuderla in lui, di sentire l’odore della sua pelle così vicino, di farle sentire che era completamente parte di lui, gli creava decisamente una sensazione piacevole, più che piacevole era emozionante. Mentre respirava nello stesso fiato di lei, le sue mani raggiunsero il collo di Kaori, la sua pelle calda, viva, lo emozionarono più di ogni altra cosa. Il mondo gli sembrava un posto migliore con lei tra le braccia. Guardava il mare mentre le sue dita sfioravano il collo di Kaori in una carezza gentile.

- Ti ricordi quando siamo venuti qui l’altra volta?

Kaori sentì la voce di Ryo e lo guardò con occhi spalancati

- Quale altra volta?

Ryo la guardò con un sorriso divertito e la fissò negli occhi alzando un sopracciglio come uno che la sa lunga. Kaori si irrigidì un istante, certo lei ci era già stata lì con lui, ma sotto le mentite spoglie di una Cenerentola misteriosa, Kaori non gli aveva mai confessato di quella notte e credeva che lui non se la ricordasse. E quel sorriso furbo di Ryo le dipanò ogni mistero: lui sapeva! Arrossì e Ryo si lasciò andare ad una risata in piena regola.

- Tu, brutto bugiardo, lo sapevi! E quando lo hai scoperto?

Ryo le sfiorò il naso guardandola divertito.

- Sciocca, dal primo momento che ti ho vista! Come potevo non riconoscerti? Conosco il rumore dei tuoi passi, l’odore della tua pelle, ogni tuo sguardo, ogni tuo respiro.
- Ma ero travestita!
- Riconosco sempre ciò che mi appartiene

Kaori arrossì ancora di più, si sentiva sia in imbarazzo e, perché no, provava anche una certa irritazione.

- E perché non mi hai detto nulla? Mi ha fatto fare la figura dell’imbecille!

Ryo le cinse la vita e la guardò ancora negli occhi, lei cercava di sfuggire il suo sguardo, ancora in imbarazzo, ma lui le prese il mento delicatamente e le sorrise.

- E’ stato un momento speciale, sapevo che eri tu, non volevo deluderci, volevo vivere con te quel momento come se fossimo un uomo e una donna che escono insieme per la prima volta, che si divertano insieme senza badare al domani. Volevo stringerti come un uomo normale senza prenderti in giro.

Kaori sapeva che gli stava dicendo la verità, lo sapeva anche lei, avevano avuto lo stesso pensiero quella volta: far finta di essere altre persone per poter vivere un momento senza guardarsi le spalle. Però la sua curiosità era impellente e, senza alcuna malizia, gli porse la fatidica domanda.

- Allora perché non mi hai baciato?

Ryo si sporse in avanti col viso fino a sfiorarle il naso col suo.

- Sei la solita impicciona, e poi sempre al mokkori vai a pensare, sei diventata una maniaca.
- Io cosa sono????? Guarda che stai giocando col fuoco Ryo Saeba, il futon da appendere alla finestra è sempre pronto!

Ma non ce la fece a rimanere seria per più di due secondi, e rise davanti a quegli occhi neri come la notte. Fece finta di mettere il broncio e Ryo le rispose.

- E va bene impicciona. Non ti ho baciata per un semplice motivo: io volevo baciare Kaori e non una Cenerentola. Quando abbiamo ballato insieme quella sera, nel momento in cui ti ho stretto, io sapevo che stringevo te, ma stavamo interpretando una parte. Tu Cenerentola e io il più figo dei principi azzurri!
- Il solito megalomane! Pff
- Silenzio donna! Se ti avessi baciato, il giorno dopo di quella serata, del nostro primo bacio, non sarebbe rimasto niente perché saremmo tornati ad essere noi stessi e non era giusto. E allora ho preferito lasciarti andare così, in quel momento pensai che se mai ti avessi baciato volevo farlo per le persone che siamo ora, da Ryo e Kaori e non da un principe azzurro qualsiasi.

Kaori sorrise teneramente, sì, non era il principe azzurro, era il suo uomo e non lo avrebbe cambiato per nulla al mondo.

- Perché mi hai portato proprio qui al porto?
- A dir la verità ti ho portato, come questa sera, proprio a questo molo, il 47. Vedi, quando sono arrivato dall’America Latina, in nave, la prima volta che misi piede a Tokyo fu proprio in questo molo. E allora volevo portarti qui, forse sono sbarcato in questa città per arrivare in qualche modo a te. Volevo far vedere al mare che,
portandomi qui anni fa, mi ha dato te.

Gli occhi di Kaori si allargarono, commossi.
Ryo le accarezzò le braccia per riscaldarla dal lieve vento che si era alzato.

- Non hai la giacca, forse è meglio rientrare
- No, aspetta ancora un momento.

Un fischio prolungato risuonò nel porto, una nave che salpava, la mezzanotte era arrivata.
Kaori si alzò in punta di piedi e avvicinò il suo viso a quello di Ryo e soffiò sulle sue labbra.

- Non sai che quando ci si bacia bisogna chiudere gli occhi?
- Non è la prima volta che lo sento dire…

La baciò al chiaro di luna, nel molo 47, dove la sua vita era cambiata, non una ma ben due volte. E sapere che lui aveva messo il piede in quel molo per arrivare a lei gli riempì il cuore di una felicità senza nome.

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Mick era inquieto e nervoso, camminava nel salotto di casa in preda ad una smania febbrile, Kaori era sparita da quella mattina senza dir nulla se non un “ho bisogno di stare da sola”. Aveva provato ad andare da lei a casa, ma non c’era. E né lui, né Saeko, né Umibozu avevano avuto dettagli su questo Baiko e quando questa sfida sarebbe dovuta cominciare. Saperla ignara del pericolo lo rendeva ancora più nervoso, forse avrebbe abbassato la guardia e l’avrebbero catturata. Il suo passo era ancora incerto e frettoloso.
Kazue lo guardava mentre girovagava nel salotto, non sapeva come calmarlo, lui si versò un bicchiere di scotch e si passò la mano nei capelli.

- Mick dovresti calmarti.
- Non ce la faccio, Kazue, c’è qualcosa che non mi quadra in questa storia, è stata troppo sfuggente.
- Vedrai che avrà voluto allontanarsi dalla città un paio di giorni.
- No, non ha portato nulla con sé.
- Sì, ma se sapesse qualcosa avrebbe fatto man bassa in armeria.
- Ho provato a controllarla ma è chiusa e la chiave l’ha solo Kaori, ho provato a forzarla ma non c’è niente da fare.
- Mick sei impazzito? Hai provato a forzare l’armeria? Santo cielo! Kaori non ha bisogno di una balia!
- Non capisci Kazue, cosa faccio se le succede qualcosa?

Kazue di fronte a quella frase sgranò gli occhi, in fondo al suo cuore sapeva che Mick non poteva dimenticare Kaori. Lei sapeva che Mick l’amava, e anche bene, ma sapeva anche che lui si sentiva in debito con lei, lei era riuscita a salvarlo dalla grinfie di Kaibara, ricordandogli il loro legame, ricordandogli che qualcosa li allacciava come un filo, e quel filo, alle volte, soprattutto in questi due anni, si era fortificato. No, non avrebbe mai perso Mick, lui le sarebbe rimasto accanto, il loro amore era forte, ma quella piccola paura non sarebbe mai svanita, e in questo caso quella paura le fece palpitare il cuore più velocemente, serrando le labbra, Kazue guardò negli occhi Mick per cercare delle conferme.

Mick capì dal silenzio di Kazue che aveva detto qualcosa di sbagliato. La guardo con le labbra tese e si avvicinò immediatamente a lei accarezzandole il viso.

- Scusami Kazue e che perdo la testa. Sono nervoso.

Kazue non si accontentò di quelle scuse e chiuse gli occhi.

- Mick, mi fai male alle volte, tu mi metti a confronto con lei e perdo a mani basse.

Fu questa volta Mick a sgranare i suoi occhi celesti.

- Io tengo a Kaori, molto, è la donna che mi ha cambiato, che mi ha salvato, le sarò eternamente grato. Ma il giorno che tu hai aperto la porta della mia stanza quando ero ricoverato, che mi hai curato e che soprattutto mi hai sorriso, ho capito che con te potevo ricominciare. Che tu saresti stata la donna giusta per me, che volevo vedere quel sorriso ogni volta che aprivo la porta di casa. Ho scelto te il giorno in cui tu mi hai sorriso nel momento più duro della mia vita. Il tuo sorriso mi avrebbe sempre riportato a casa.

Mick si avvicinò ancora di più a Kazue, la strinse tra le sue braccia, per farle capire con i gesti che il loro amore era forte, era vivo.
E Kazue si arrese al calore del loro abbraccio, Kaori sarebbe stata sempre presente in una parte del suo cuore, come primo amore, ma lei era la donna a cui svelava tutto il suo essere, senza aver paura di essere giudicato, perché il loro amore era reale.

Il telefono di Mick squillò.

- Pronto?
- Sono io, li abbiamo trovati, molo 47.
- D’accordo, ci vediamo lì scimmione.

Mick prese la sua pistola e indossò la sua giacca, si rivolse verso Kazue e le sorrise.

- Quando torno mi aspetterai?
- Come sempre.
- Sorridimi quando torno.

E chiuse la porta di casa sapendo che la sua donna lo aspettava a casa.

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Capitolo 12
*** Dodicesimo - Ad un passo ***


Il silenzio sembrava surreale, guardingo. Quella tensione che si respirava nell’aria era tagliente, quasi un macigno. Ogni lieve fruscio destava i due uomini che ispezionavano il molo.
Umibozu mise tutti i suoi sensi in allerta. Difatti strattonò il suo compagno prendendolo dalla cravatta e facendolo cadere col sedere a terra, Mick si mise a massaggiare il suo didietro mandando fulmini e saette in direzione del gigante.

- Ouch, maledetto polipo!
- Yankee ringrazia, ti ho appena salvato la vita! Sei un idiota! Guarda davanti a te!

Mick guardò davanti a sé, un piccolo filo di nylon, quasi invisibile, venne illuminato, davvero un ottimo lavoro, se non fosse stato per Umibozu a quest’ora sarebbe stato un americano a pezzetti!

- Come hai fatto ad accorgertene?
- Riconosco il lavoro dei miei allievi.

Mick guardò Umibozu e il gigante annuì, sì, l’unica allieva di Umibozu era lei: Kaori.
Mick si fece scappare un “dannazione” tra i denti, come aveva fatto a scoprirlo? E ora dove era? Dovevano assolutamente salvarla.

- Stai calmo, come vedi si è organizzata e anche bene. Ha perimetrato la zona.
- Cioè?
- Se arrivasse qualcuno dall’esterno non riuscirebbe a passare per arrivare all’interno di quell’edificio e se le cose per lei si dovessero mettere male riuscirebbe a scappare e ad incastrarli nelle trappole. E’ stata brava.

Mick sapeva che Kaori era migliorata nel corso degli anni ma qui aveva ragionato da vera professionista coprendosi le spalle. Ne aveva davvero fatti di progressi, lui stesso, se non fosse stato per Umibozu, sarebbe caduto nella sua trappola.

- Ora che facciamo?
- Andiamo lì e vediamo che succede, seguimi yankee da strapazzo.

I due uomini, furtivamente, camminarono per arrivare vicino al capannone.
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Kaori aveva appena finito di sistemare le ultime trappole, aveva capito fin da subito che chi la voleva sfidare si trovava in quel capannone, allora si era preparata, mancavano una manciata di minuti alle 23 di quella domenica. Stava ricontrollando la sua Lawman MK III e tutte le sua armi, bombe a mano, la mitraglietta e i proiettili, il suo piccolo lanciarazzi e qualche fumogeno, giusto per creare l’atmosfera. Del resto lei non era un tipo silenzioso e voleva fare un’entrata scenica e nel suo stile.

Intanto una sirena in lontananza segnò l’orario, erano le 23 esatte.

Con una calma stoica, Kaori, salì in auto, accese e ingranò la prima, in quei cinquecento metri che la dividevano dal capannone raggiunse una modesta velocità, tirò fuori con un braccio il suo lanciarazzi e un missile volò in diretta sull’entrata creando un gran trambusto e tanto fumo. Kaori non interruppe la sua corsa, entrò nel capannone sterzando bruscamente e frenando d’improvviso.

Un’ombra nascosta da alcune casse sorrise vedendo l’entrata dell’auto.

Kaori impugnò la sua pistola scendendo dall’auto ma tenendosi sempre al riparo, davanti a lei un uomo dai capelli scuri, alto e ben piazzato, in tuta mimetica, non si decideva a muoversi.

- Allora sei tu che hai deciso di sfidare City Hunter, chi diavolo sei?

La spavalderia della donna non fece piegare Matt che continuò a fissarla.

- Sei qui per farmi perdere tempo? O volevi solo guardarmi?

L’immobilità dell’uomo di fronte a lei la innervosiva, forse era il suo modo per farle perdere le staffe, il respiro di Kaori si fece più profondo, qualcosa in tutta quella storia la disturbava. Guardava quello che doveva essere il suo sfidante, eppure sentiva che non era lui il problema, quel brivido che provava sul collo glielo confermava.

- Senti tutto muscoli e senza cervello, hai intenzione di batterti o me ne vado a casa? Per colpa tua non ho neanche cenato.

Matt continuò persistente nella sua immobilità. Improvvisamente si sentì un battito di mani provenire da dietro l’uomo fermo. Baiko fece la sua entrata da grande yakuza come si sentiva, sigaro in bocca e un vestito di buona fattura, applaudendo.

- Eccoci qui, allora questa bella signorina è il famoso City Hunter. Che piacevole sorpresa, tutto mi aspettavo, tranne che una bella donna.
- Ah ecco dietro gli scimmioni immobili c’è sempre il domatore. Dovevo immaginarlo.
- Perdoni Matt, non è uno di buone maniere, soprattutto con le donne. Sa, non ne vede una da molto tempo, chissà ,possibilmente, potrebbe anche piacergli.
- Prima deve vedere se riuscirà a mettermi un dito addosso, e di certo uno stoccafisso come quello non è per niente il mio tipo.
- Certo che lei non è una che se le tiene, vero? Mi piace.
- Lei non mi piace per niente, con chi ho lo sgradevole onore?
- Ah giusto non mi sono presentato, Baiko Miura, per servirla.

Kaori provava un certo senso di disgusto guardando Baiko, no, non gli piaceva per niente.

- Signorina City Hunter, in verità avrei una proposta da farle. Io sto per riconquistare questa città, il vero ostacolo è lei. Però possiamo raggiungere un accordo, si unisca a me e avrà ricchezze e potere.

La risata di Kaori risuonò nel capannone.

- Lei è un uomo divertente, lo sa? Una proposta interessante, e di cosa si occupa?
- Semplice: polvere bianca dalla Thailandia.
- Ah ecco, ci mancava un altro stupido spacciatore per Tokyo.
- Lei mi sembra una donna intelligente ma la sua parlantina non lo dimostra, parlando in questa maniera.

Baiko guardò Kaori che abbassò l’arma, sempre tenendola in mano, sembrava stesse abbassando la guardia, ma lei cominciò a fissarlo in una strana maniera, quel modo di fare, quella arroganza, gli ricordava qualcuno di sua conoscenza.

- Vede, Baiko, posso chiamarla così, vero?! Io vivo in questa città da sempre, in tanti mi hanno fatto tante offerte, dalla yakuza alla triade cinese, non si domanda perché ancora City Hunter sia un ostacolo per chi vuole mettere piede a Tokyo?!

Il sorriso strafottente di Kaori fece ribollire il sangue a Baiko. Quella donna si stava prendendo gioco di lui e questo proprio non lo sopportava.

- A quanto vedo rifiuta la mia offerta.
- Che deduzione Sherlock.
- In fondo mi dispiace rovinare un bel faccino come il suo.

Baiko fece scocchiare le dita, si sentirono diversi boati all’esterno del capannone. Kaori fece un sorriso sghembo, Baiko guardò la ragazza dai capelli rossi con gli occhi sbarrati.

- E secondo te io, qui da sola, non mi sono preoccupata di mettermi al riparo? I tuoi uomini lì fuori si staranno sicuramente divertendo con le mie trappole.
- Maledetta stronza. Matt falla fuori.

L’uomo in tuta mimetica cominciò a tirare fuori la pistola e a puntare verso Kaori.

- Oh vedo che cominciamo a divertirci.

Kaori cominciò a correre verso delle casse di legno che si trovavano alla sua destra, Matt, pistola alla mano, sparò contro la donna, senza colpirla.
Kaori rispose al fuoco, il suo avversario, abituato alla vita difficile della giungla, schivava i suoi colpi, cercando anche lui rifugio dietro a delle enormi casse.
Il caricatore di Kaori era vuoto, cambiò arma e utilizzò la sua mitraglietta, il suo piano era delineato e preciso, cercava di girare in tondo nel capannone per arrivare a Baiko, avendo in mano lui, il suo scagnozzo si sarebbe arreso.

Altri colpi di pistola volarono in quel capannone, la mistura della polvere da sparo, del sudore, dei fiati, si mescolava in quell’improvvisato campo di battaglia.
I colpi d’arma non avevano decretato il vincitore, ma Kaori improvvisamente si ritrovò in una posizione di svantaggio, aveva un solo colpo in canna. Uno solo. Chi colpire? Lo scagnozzo o il capo? Decise di tentare il tutto per tutto.

- Ok Baiko, mi arrendo.

Kaori avanzò fuori dal suo nascondiglio. Matt avanzò di rimando con la pistola spianata pronto a colpire, tutto si svolse in una manciata di secondi. Kaori sganciò una delle sue bombe fumogene, quella rotolò per terra destando l’attenzione di Matt che si era fatto avanti, la bomba fumogena scoppiò creando il suo diversivo. Baiko e Matti furono sopraffatti dal fumo.
Kaori cercò di prendere la mira in quella coltre di fumo, doveva colpire Baiko, in un modo o nell’altro. Il colpo partì ad alta velocità, intanto che il suo sparo partì, nella sua gola si fece spazio un urlo, un forte dolore l’aveva sorpresa al braccio. Intanto Baiko si ritrovò nella stessa situazione di Kaori, il proiettile lo colpì di striscio.

Matt, sentendo l’urlo della donna, nonostante il fumo, la individuò e corse contro di lei sfoderandole un pugno che la colpì nello stomaco, Kaori si riversò a terra, toccandosi lo stomaco per il dolore, ma non demorse, sferrò fuori uno dei suo coltelli e lo lanciò verso l’uomo sfreggiandogli il viso. Matt, sentendosi ferito nell’orgoglio, tirò Kaori in piedi trascinandola per la collottola, pronto nuovamente a colpirla.

Le puntò la pistola alla fronte, Kaori percepì il metallo freddo della pistola sulla sua pelle, un brivido la percosse, forse era arrivata la sua fine, chiuse gli occhi pensando che una morte migliore non poteva avere: sul campo di battaglia. Il suo unico rimpianto era di non aver salutato il suo unico amore: Ryo.

Un colpo di pistola vibrò nell’aria, la camicia di Kaori si imbrattò di sangue e lei cadde a terra sulle ginocchia.

L’uomo di fronte a sé crollò anche lui, con un colpo in fronte.

- Stai bene, Kaori?
- Mick!

Mick corse verso Kaori e l’aiutò a rialzarsi, contento di vederla sana e salva.

Baiko cominciò a veder nero, il suo uomo era stato fatto fuori e vedeva avanzare un uomo biondo insieme alla ragazza, ma non gliela avrebbe data vinta. Tirò fuori la sua pistola e mirò contro di loro.

- Non mi avrete, maledetti.
- E lui chi sarebbe, Kaori?
- Il tizio che ha combinato tutto questo caos.

Baiko non tollerò il modo in cui lo sbeffeggiavano così cominciò a sparare, ma colpì a vuoto.

- E così ad essere City Hunter siete in due, mi hai ingannato.

Continuò a tenere sotto tiro i due davanti a lui.

Lui avanzò, andando incontro alle tre persone che animavano l’ultima scena di questa battaglia, ma lui avrebbe decretato la fine.

- Esatto, City Hunter è formato da un uomo e una donna.

Il cuore di Kaori improvvisamente accelerò i suoi battiti.

Quella voce.
Quella voce profonda, roca.

Quell’aura.
Quell’aura magnetica, potente, che avrebbe riconosciuto tra milioni di persone.

Si girò di scatto, incrociando quegli occhi, mentre il respiro le si mozzò in gola.
Non poteva credere ai suoi occhi, Lui era davanti a lei.
Ryo era davanti a lei dopo tutto quel tempo

… e le puntava contro la sua python.

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Capitolo 13
*** Tredicesimo - Vincitori e vinti ***


Uscì dal suo nascondiglio, con passi fermi e regolari, assisteva all’ultimo atto dello spettacolo. Impugnando la sua fedele arma, il suo corpo, il suo istinto, seguirono, come in un automatismo, tutti i gesti rituali della battaglia: i sensi in allerta, lo sguardo acceso, la camminata sicura, predatrice, la sua mano sull’impugnatura della sua arma, il contatto con il metallo freddo. Era un guerriero.

Guardava, guardava quello che in teoria doveva essere il suo capo, ma che lo considerava meno del tacco della sua scarpa, e guardava la donna, quella donna che si toccava il braccio ferito da un proiettile vagante, con lo sguardo fiero e deciso nonostante la stancante battaglia.

Era dietro di loro, era il momento della sua scena che decretava la fine della battaglia.

- Esatto, City Hunter è formato da un uomo e una donna.
- Steve! Falli fuori! Immediatamente!

Baiko strepitò sudando copiosamente, guardando l’uomo con in mano la pistola che era uscito di soppiatto fregando i suoi nemici. Il suo asso nella manica, tutto finalmente cominciava a girare a suo favore, niente lo avrebbe più fermato.

- Steve…

Kaori sussurrò quel nome lentamente, tra le sue labbra sembrava un soffio, guardava quell’uomo, come se fosse irreale, come se fosse una chimera, eppure era lì davanti a lei. Il respiro sconnesso, gli occhi larghi, il cuore che pulsava forte nelle tempie, tutto era successo in pochi secondi. Lui era lì di fronte a lei. Non era un allucinazione, vero? Si girò verso Mick per chiedere conferma e quando vide il suo compagno bianco, come se avesse visto un fantasma, allora si disse che davvero ciò che vedeva di fronte a lei era reale. Cercò di muoversi, di fare un passo verso di lui, di toccarlo, di percepire il fiato del suo respiro. Non sentiva niente, neanche gli strepiti di quel tizio dietro di lei, tutto era ovattato. Però le sue stupide gambe non si muovevano, incollate al suolo, pesanti. Sentiva solo il rumore del suo respiro affannoso, e rimaneva incollata a quello sguardo.

Poi la sua mente registrò qualcosa. Un rumore. Quel rumore tanto familiare, tanto rassicurante, nonostante non fosse quello il suo scopo.

Il giro del tamburo della pistola.

Occhi negli occhi.
Respiri all’unisono.
inspirare, espirare. Inspirare, espirare.
L’aria elettrica, una sfida tagliente.

- Steve, tu sei Steve.

Kaori aveva pronunciato quel nome di nuovo, scandendolo in maniera chiara, mentre la sua mano afferrava d’impulso la pistola di Mick.

- Kaori, cosa stai facendo?

Mick era imbambolato, Kaori gli aveva praticamente strappato la pistola dalle mani per puntarla contro Ryo.
Ryo era lì di fronte a loro, che diavolo stavano facendo? Chi cazzo era questo Steve?

- Kaori, cosa diavolo fai?

Questa volta aveva urlato verso Kaori, mentre lei faceva girare il tamburo della pistola.

- Mick, levati, non è affar tuo.
- Kaori, smettila, lui è…
- Lui è Steve. E’ con lui che devo sfidarmi, fatti da parte, ora.

Kaori era irremovibile, una strana calma si era impadronita di lei, non staccava gli occhi dallo sguardo dell’uomo di fronte a lei, quegli occhi neri e profondi, imperscrutabili, duri. Uno sguardo tagliente.
Fece un passo verso di lui, le mani si alzarono all’unisono, al rallentatore.
L’uno contro l’altra.
Pistola contro pistola.
Respiro contro respiro.
Occhi contro occhi.
Aura contro aura.
Steve contro Kaori.
Ryo contro Kaori.

Kaori sentì quel respiro attraversagli il naso, scendere nella gola e arrivare ai polmoni, per poi fare il giro contrario, in un gesto involontario, si portò la mano al collo, mentre teneva sotto tiro l’uomo davanti a sé, cercando il suo proiettile, il suo talismano, sentendolo tra le dita si sentiva protetta.

Steve continuò a fissare la donna, la donna che aveva tirato fuori da quell’auto, la donna che aveva seguito a rotta di collo, la donna di cui il profumo lo stregava come pochi, tutto in lei lo richiamava. Quello sguardo duro, quel viso serio, quel suo sollevarsi del petto per far entrare il respiro.

Baiko assisteva a quella scena eccitato, sapeva che il suo uomo non avrebbe fallito. Era ad un passo dalla conquista, sì, tutto quanto sarebbe caduto tra le sue mani, come una volta, lui sarebbe di nuovo stato il primo, e cominciò a ridere soddisfatto.

Mick guardò la scena davanti a lui, come erano arrivati a quel punto? Quando era successo? Doveva fermarli. Doveva.
Ma l’ultimo sguardo di Kaori lo fece rimanere sul posto.

Kaori prese il suo proiettile fece scivolare la catenina dal suo collo e lo prese tra le dita. Lo lanciò per aria, il proiettile volò in mezzo a loro, sembrava ci mettesse una vita a cadere, avrebbe scandito il tempo, appena il proiettile avesse toccato il suolo, la loro sfida sarebbe cominciata.
Il rumore del metallo che toccò il suolo risuonò per tutto il capannone.

Gli spari partirono quasi all’unisono, Mick trattenne il fiato, i proiettili viaggiarono alla velocità della luce, il rumore degli spari si propagarono e coprirono il rumore di un tuono.

Infine, il rumore di un proiettile che attraversò la carne decretò la fine.

Kaori cadde sulle ginocchia, facendo scendere il braccio, con cui teneva la pistola, lungo il fianco.
Cercò aria, aria che le arrivasse ai polmoni, ma il suo stupido torace non ne voleva sapere. I suoi occhi si svuotarono, come se la stanchezza degli ultimi due anni si presentasse improvvisamente in quel momento, facendole dolere tutto il suo corpo ormai esausto.

Lui si toccò la guancia, una nuova cicatrice, una battaglia conclusa, toccò quel rivolo di sangue e poi si guardò le dita, sentendo il liquido vitale attraverso il suo tatto.

Mosse i primi passi lentamente, dapprima prese la catenina della donna, poi si portò di fronte a lei, immobile.

Baiko smise di ridere, improvvisamente.
Smise di ridere nel momento stesso in cui un proiettile gli trafisse il cuore, facendolo accasciare per terra in un lago di sangue. La fine della battaglia fu la sua morte.

- Kaori

Era lei, era Kaori, la donna che sognava tutte le notti, che il suo cuore reclamava anche quando la sua mente non la ricordava. Quella notte, la notte in cui l’aveva salvata dall’incidente, improvvisamente la sua mente aveva ricordato tutto, quando aveva toccato le sue labbra con le sue, tutto quanto tornò al suo posto, sapeva chi era, sapeva per chi viveva. E l’avrebbe protetta a costo della sua vita, da Black Panther, che aveva stanato, a Baiko, che voleva ucciderla. Quella era la sua missione, e non avrebbe per niente al mondo spezzato la sua promessa.
Ryo soffiò quel nome quando si inginocchiò di fronte a lei e cercò di accarezzarle il viso, non gli sembrava vero, era impossibile, eppure stava per carezzarle il volto dopo tanto tempo, doveva riaverla al più presto tra le braccia, doveva stringerla, farle capire che lui era tornato, che lei lo aveva richiamato a sé. Per la prima volta ebbe paura che lei non fosse reale, ma nel momento stesso in cui lui le sfiorò il viso, una lacrima di
Kaori solcò la sua guancia, finendo sulle sue dita, e il mondo sembrò che riprendesse il suo corso, sentì il calore della sua pelle solo attraverso le dita, ma gli sembravano che bruciassero e che finalmente anche lui emanasse il calore della vita, tanto fragile quanto forte e desiderato.

Il tocco della sua mano sulla sua guancia, lieve e vitale. Allora era vero. Era lui. Anche con quella barba, anche con quei capelli più lunghi del solito. Il suo istinto le aveva detto cosa fare nel momento in cui lui le puntò la pistola: doveva fidarsi di lui. E lei lo aveva fatto, aveva sparato a vuoto, gli aveva solo sfiorato il viso, e inesorabilmente aveva avuto fiducia in lui.
Ora era lì in ginocchio con lei, due anni di patimenti, di dolore, ed era lui. L’aria riprese a circolare nel momento del suo tocco, la lacrima sfuggì tra le sue ciglia per andarsi a posare sulle sue dita, si sentiva stanca e svuotata, e anche arrabbiata, l’ira le montò improvvisamente, perché dopo tutto le sue emozioni erano confuse, quel miscuglio le pulsava nel petto. Si alzò improvvisamente e mentre lui faceva lo stesso, un sonoro schiaffo lo colpì sul viso e scappò fuori dal capannone.

Il temporale investiva Tokyo, la pioggia le cadeva copiosa tra i capelli, sui vestiti e finalmente riuscì ad urlare tutto il suo dolore, liberandosene. Le lacrime cominciarono a mischiarsi con la pioggia e rialzò la testa verso il cielo per sentire quell’acqua che le bagnava il viso, sentiva finalmente quell’acqua sul viso, i suoi sensi, appena avevano incrociato lo sguardo di Ryo, avevano ripreso a vivere. Rise e pianse, rise e pianse sotto la pioggia, finché due braccia non l’avvolsero e lei si poté abbandonare come non le accadeva da tempo.
Ryo la strinse, zuppa di pioggia, mentre le pieghe del viso di lei si aprirono in un sorriso, il sorriso tanto amato.
Le accarezzò i capelli, che si appiccicavano sul volto bagnato, guardandola come mai aveva fatto prima, imprimendo in quella carezza la sua appartenenza a lei.

- Sei un bastardo.

Gli sussurrò sottovoce.

- Anche io ti amo, Sugar.

Le loro labbra finalmente si toccarono, l’emozione di ritrovarsi fu indescrivibile, in quel momento anche le loro anime, che tanto si cercarono, si stavano ritrovando.
La fiamma delle loro vite riprese a bruciare, nel mol 47.


Continua....

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Capitolo 14
*** Quattordicesimo - Così uguale, così diverso. ***



Erano tornati a casa in silenzio, dopo un pugno e una stretta amichevole di Mick, e un cenno di saluto di Umibozu.

Le aveva aperto la portiera dell’auto e l’aveva fatta entrare, si era premurato di farla accomodare delicatamente e aveva chiuso correndo dal lato del guidatore per non lasciarla, entrando le aveva allacciato la cintura di sicurezza e, ancora senza parlarle, le aveva preso la mano.
Non poteva lasciarla, per nessun motivo, scrutando dentro di sé sapeva benissimo che aveva paura, paura che lei svanisse da un momento all’altro.

Guidava lento, evitando movimenti bruschi dell’auto, guidava lento e non la perdeva mai d’occhio.

Kaori appoggiò la testa sulla sua spalla e lui respirò a fondo l’odore dei suoi capelli, il calore del suo corpo sul suo, poteva contare addirittura i battiti del cuore di Kaori, accelerati, come del resto i suoi. Non vedeva l’ora di essere a casa, di poterla stringere più forte.

Un semaforo rosso gli fece frenare la sua corsa, quella sera non si sarebbe perdonato se avesse sbagliato qualcosa, anche superare un semaforo rosso poteva interrompere il loro momento causando chissà quale catastrofe, rompendo quel momento delicato, cosa faceva la paura e l’emozione! Allora si godette anche quel momento: la guardò appoggiata alla sua spalla e le sfiorò il viso delicatamente, non dormiva Kaori, aveva solo chiuso gli occhi, la strinse ancora più a sé e sfiorò la sua fronte con le labbra. No, niente al mondo poteva rovinare quel momento.

Guardava gli occhi della sua compagna, aggrappata a lui, era stanca, il suo cuore ebbe un moto di tenerezza, quante ne aveva dovute superare in quel periodo da sola?

Ecco davanti ai loro occhi il palazzo bianco, scesero e i loro corpi si cercarono immediatamente, accollandosi l’uno all’altra come una calamita. Lui digitò il codice del sistema d’allarme – 2809 – Kaori lo guardò e allora capì: il bicchiere nel lavello, il proiettile in camera, era lui. Lui era passato nella loro casa.

- Come lo hai indovinato?
- E’ il giorno in cui ti ho dato il ciondolo. Ventotto settembre.

Kaori gli sorrise leggermente e gli accarezzò la spalla. Ryo gli aveva lasciato dei piccoli indizi della sua presenza, inconsciamente li aveva colti tutti, per questo si era fidato di lui in quel capannone. Lentamente, salirono le scale fino al loro appartamento, ancorandosi sempre di più, la più grande e dura guerra combattuta era finita, dovevano aggrapparsi l’uno all’altro per realizzare che fossero salvi.
Ryo aprì la porta dell’appartamento del sesto piano, la casa era buia, ma mai era stata più bella. Accese la luce del soggiorno e tutto prese un altro colore, era già cambiato: da quel colore giallo desolato in qualcosa di più caldo che vedevano insieme, tutto era mutato da quando si erano ricongiunti.

Fece sedere Kaori sul divano, doveva medicarle il braccio che si era ferita, e andò velocemente a prendere disinfettante, cotone e bende. Si mosse come se non si fosse mai allontanato da casa, questo lo rassicurò, tutto era cambiato ma si poteva aggiustare, perché in fondo quello che davvero contava e che lei sorridesse e che lui sorridesse con lei.

Kaori appoggiò la schiena sul divano, pian piano i suoi muscoli si stavano rilassando, sentì il suo collo e le sue spalle lasciarsi andare e si portò un braccio sugli occhi con fare stanco, più che altro se lo posò sugli occhi in modo da fermare quelle lacrime di gioia e di liberazione che volevano uscire.

- Dobbiamo medicare il braccio, Kaori.
- Si.

Parlarono a fior di labbra, per il timore di rovinare tutto, Kaori cominciò a slacciare la camicia, ma lui immediatamente fermò le sue mani per baciarne i palmi, voleva prendersi cura di lei. Ryo le slegò il nodo della camicia e con calma gliela levò di dosso, Kaori mosse il collo per sciogliere i nodi di tensione, Ryo le sfiorò il naso e lei riaprì gli occhi, lui sorrideva, sorrideva con un calore indescrivibile, le sembrava un piccolo miracolo.

Sfiorandole le braccia, Ryo, la liberò dalla maglietta attillata della tuta, le posò delicatamente un bacio sulla guancia, quasi tremando per l’emozione, Kaori ,mentre lei gli accarezzò i capelli, sentì la barba di lui che le pungeva la pelle.
Piano le passò il cotone imbevuto sulla ferita guardandola, mentre una piccola smorfia si presentò sul viso delicato di lei, provò dispiacere nel causarle quella piccola sofferenza, e, per rimediare, di nuovo le sue labbra fecero capolino vicino alla ferita, ma non gli bastava, dopo averle fasciato il braccio, sentiva che doveva darle ancora sollievo, allora le sue labbra erano medicina per dolori più profondi, toccandole la vecchia cicatrice sulla spalla che lei si era fatta da bambina, andando verso quei piccoli calli di cui le sue mani erano tempestate a causa della pistola, percorrendo ogni piccolo solco, ogni piccolo centimetro che raccontavano i piccoli tormenti della sua donna.

Le tolse gli stivali uno ad uno, toccandole i piedi esili e posandoli per terra delicatamente, la trattava come fosse di cristallo, come se da un momento all’altro lei potesse rompersi, le slacciò anche i pantaloni della tuta aderente per farli scivolare via, liberandola dalla prigionia dei vestiti.

Mentre lei era seduta sul divano, Ryo le carezzo con le labbra anche le ferite delle gambe, cicatrici, lividi, piccole abrasioni, sicuramente anche dovute alla sfida di prima, soprattutto quella sbucciatura sul suo ginocchio. La studiò centimetro per centimetro, sfiorandola con le sue dita, con il suo sguardo, con la sua bocca, lentamente, aveva il bisogno di assaporarla, di viverla, si fermò sul livido della coscia ormai viola, la guardò quasi spaventato.

- Allenamenti

Kaori cercò di rassicurarlo, sentendo ancora le sue labbra, quell’impronta carnosa, sulla sua pelle. Stava cercando di ricongiungersi a lei, dando sollievo alle sue cicatrici, sentendo il tremore con cui la toccava, il volto deciso e anche timoroso, la studiava, la confortava.

Erano in una bolla ovattata, lui in ginocchio in mezzo alle sue gambe e lei seduta che accoglieva e ripuliva ogni momento vissuto lontano da lui. Non fremevano, volevano tempo, volevano riconoscersi, scomporre ciò che erano stati in quei due anni e ricomporli per tornare ad essere un’unica entità.

Ryo circondò la sua vita, baciandole l’ombelico, annusando l’odore della sua pancia, come se il mondo si concentrasse tutta lì, tutta sulla sua pelle rosa e tesa, appoggiò la testa sulle sue gambe, sdraiandosi su di lei, e stringendola più che poteva.

- Sono a casa, Kaori, sono a casa.

Il corpo di Kaori sobbalzò in un singhiozzo, quelle parole sussurrate furono la breccia per far scendere le sue lacrime, si curvò su Ryo, accarezzandogli la schiena, i capelli, ogni porzione di lui che gli offriva, quella sua lacrima scese sulla guancia di Ryo e ci scivolò sopra, era una sostituta, perché Ryo avrebbe voluto farsi fuggire una lacrima per averla ritrovata e riaverla presa, ma quelle stupide lacrime non uscivano e allora lei gli aveva fatto quel dono, quella goccia sulla sua guancia lo fece emozionare, quanta gioia e tormento racchiuso in quella lacrima, la toccò con le dita e poi si alzò andando ad incontrare gli occhi della sua amata.
Raccolse nuovamente quelle lacrime, con le dita, con la bocca, tenendole la nuca ferma con le mani e la sua bocca poi si posò nuovamente su quella di Kaori, per mescolarsi ancora più in lei, per farla tornare sotto la sua pelle, nel suo sangue.

Fecero l’amore lentamente in quel soggiorno, assaggiandosi, respirandosi, morendo e rinascendo insieme, le loro mani si congiungevano, le loro membra ritrovavano ristoro, la pelle rabbrividiva ad ogni movimento, gli occhi si cercavano per imprimere ogni momento, per farlo loro. Indissolubilmente.
Tutto il mondo continuava nella sua folle corsa, mentre loro riafferravano il tempo perduto.

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Capitolo 15
*** Quindicesimo - Il destino ***


Il fango gli arrivava fino alle ginocchia, sporco e sudato non smetteva di correre. La corsa era talmente forte che l’aria bruciava nei suoi polmoni di bambino, il respiro affannato, il cuore tamburellante, ma niente lo avrebbe fermato. Andava avanti, doveva perseguire il suo obiettivo, non poteva fermarsi anche se il fiato gli mancava, anche se le gambe gli facevano male. Ma improvvisamente la sua corsa fu fermata, il suo avversario riuscì comunque a metterlo a terra.
Il sapore della sconfitta gli passò sulla lingua, ed era un sapore amaro. Col viso sporco in quella zolla di terra fangosa, i suoi occhi si assottigliarono chiusi, le sue labbra si corrucciarono, il suo pensiero più imminente fu la paura di essere rifiutato perché erano riuscito a buttarlo giù a terra per di più nel fango e nello sporco. Non lo avrebbero più accettato per questo?

Improvvisamente una mano fece capolino davanti ai suoi occhi per aiutarlo a rialzarsi, poteva fidarsi di quella mano? Di certo era abituato a cavarsela da solo, quella mano poteva essere infida, poteva ingannarlo, ecco a cosa pensava Poo Chai.

Poi si voltò e incontrò due occhi blu, quegli occhi erano caldi, emanavano affetto e implicitamente gli dicevano di fidarsi, allora Poo Chai, seguendo il messaggio degli occhi blu, decise di afferrare quella mano che lo aiutò a tirarsi su da terra. Miki vedendo la scena sorrise, esultando dentro di sé. Di rimando Poo Chai mostrò un sorriso bucato, il suo incisivo da latte era caduto due settimane fa, e presto sarebbe arrivato un nuovo dente, ed era comunque il sorriso più dolce che avesse mai visto in tutta la sua vita.

Poo Chai si pulì il viso sporco con la manica della maglietta blu, senza in effetti riuscirci appieno perché anche la maglia era sporca, ma nei suoi otto anni di bambino andava bene lo stesso. Riprese a correre nel campo da calcio della scuola correndo dietro al pallone.

Flashback

Pioveva a dirotto fuori quella sera, Miki stava finendo di pulire il locale, improvvisamente sentì suonare il campanello d’entrata del bar, si voltò e vide suo marito, Ryo e Kaori zuppi d’acqua. Erano da due settimane nella giungla thailandese e finalmente erano rientrati dalla loro missione, quei due anni di tempesta, lo sapeva bene Miki, si erano finalmente conclusi. I loro visi erano stanchi e tirati ma sereni.

Poi guardò meglio e vide tra le braccia di Umibozu una massa informe, nascosta da una coperta. Da quella coperta un paio di occhi scuri fecero capolino. Incrociandosi per la prima volta, gli occhi castani e gli occhi blu, si studiarono, lei da dietro il bancone e lui dalla sua coperta che lo riparava dalle intemperie. Un tuono fece scuotere il corpo di Poo Chai che si aggrappò con una mano alla sua coperta e l’altra alla giacca di Umibozu che si era fatto rosso in viso, il buon gigante, però, ruppe la sua timidezza e posò cautamente la sua grossa mano sulla testa del piccolo che ospitava tra le sue braccia.

- E’ solo un tuono, non devi aver paura.

Miki andò direttamente vicino a suo marito, sorridendo caldamente a quella scena che poteva rappresentare il suo futuro, infatti una strana sensazione invase tutte le sue membra, dandole una calorosa gioia.
Si avvicinò a quel bambino cercando di scoprirne almeno il viso.

- Che ne dici di un buon latte caldo e di qualche biscotto? Vedrai, ti riscalderai immediatamente.

Poo Chai sentì il calore delle dita di Miki sulla sua guancia un po’ scarnita, e, timidamente, scosse la testa in maniera positiva, quella risposta lo ripagò di un sorriso luminoso, solcato da una lacrima che scese dagli occhi blu della ex mercenaria. Quello che lei non si aspettava e che avrebbe ricevuto una carezza, Poo Chai, vedendo quella lacrima scendere dagli occhi della donna, allungo le sue dita raccogliendole dal suo viso.

- Perché piangi? Sei triste?
- No, sono molto felice.

Miki capì immediatamente che quella fu la prima lacrima di gioia che versava da madre.


Poo Chai diede la mano a Miki e camminarono verso il Cat’s Eye, chiacchierando delle piccole cose, i compagni di classe, il pallone che gli piaceva tantissimo, le future partite.

- Verrai anche alle altre partire?
- Certo Poo Chai! Verrò a fare il tifo per te sempre!
- Ma anche lui?
- Sì, certo che verrà Falcon! Questa volta non ha potuto perché il bar era aperto e Kasumi è in ferie, ma dalla prossima volta senz’altro! E ovviamente hanno detto che vogliono venire anche Kaori, Ryo e gli altri! Avrai un tifo sfegatato!

Poo Chai guardò Miki pensieroso, tutti sarebbero venuti a vederlo e qualcosa gli frullo nella testa.

- E se perdiamo come oggi?

Miki si inginocchio all’altezza di Poo Chai per guardarlo meglio negli occhi, capendo che il bambino aveva paura di deluderli.

- Non importa, noi siamo fieri di te!

Poo Chai scosse la testa positivamente e, senza lasciare la mano di Miki, entrò al Cat’s Eye.

- Siamo tornati, Falcon!
- Ben rientrati! Come è andata?

Miki cominciò entusiasta a raccontare tutta la partita senza lasciare il minimo particolare, esultava e mimava le prodezze di Poo Chai.

- Peccato che abbiano perso, ma sono stati fantastici!

Poo Chai si sedette al bancone, arrossendo anche un po’ sommerso da tutti quei complimenti, aspettò che Umibozu finì di preparare la sua merenda, versando del latte nel suo bicchiere. Umibozu glielo porse e poi gli diede dei biscotti.

- Allora bevi tutto il tuo latte, così crescerai forte, campione!

Accompagnò quella frase scompigliando il capo del suo ometto, Miki li guardò e il suo cuore si riempì di allegria e felicità, corse incontro ai suoi due uomini, stringendoli a sé e dando baci a chi gli capitasse a tiro tra i due, questo portò Umibozu a diventare rosso scarlatto e suscitò le risa di sua moglie e di Poo Chai.

- Mamma, papà è sempre più rosso!
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Gli spari riecheggiavano nel poligono, uno dopo l’altro, forti, assordanti.
Si sciolse i nervi del collo toccandoli con la mano per distendersi, lui si alzò prontamente e si piantò dietro le sue spalle, le sue dita si mossero caute per aiutarla a scioglierle i nervi. Kaori sobbalzò al contatto, non si era minimamente accorta dell’arrivo di Ryo, concentrata come era a sparare.

- Scusami, ti ho spaventata.
- Non preoccuparti, è tutto apposto.

Ryo accosto le labbra alla spalla nuda di Kaori, lasciandole un bacio.

- Non è tutto apposto, sei tesa. E’ per ieri?

Kaori strinse le labbra fino a farle diventare una linea sottile, si era tesa per quello che era successo il giorno precedente. L’ombra dell’ansia che le sovrastava lo stomaco non si era minimamente calmata, anzi le dava anche un pizzico di nausea.

- E’ andato tutto bene Sugar. Cerca di rilassarti.
- E che, non lo so, se tu non fossi stato lì, credo che le cose sarebbero andate diversamente, come se.. come se insomma si sia modificato il mio destino.

Guardò verso il basso, con aria pensierosa.
Ripensò a quel momento.
Una bambina che attraversa la strada e il furgoncino non riesce a frenare, lei che lascia l’ombrello e che corre per spingere via la bambina. La luce dei fari che la sovrasta, la sensazione che la sua vita stia per terminare travolta, il suo cuore che smette di battere, che il mondo si stia per fermare definitivamente.
Che non vedrà mai più Ryo. Ed è questo che le fa più paura.

Improvvisamente un cambio di marcia, come se qualcuno avesse cancellato ciò che le sarebbe potuto succedere e lo avesse riscritto.
Uno sparo, lo stridere del furgone e il botto.
Kaori per terra. Viva.

Ryo era con lei mentre erano andati a ritirare gli abiti per il loro matrimonio, aveva deciso di accompagnarla perché pioveva a dirotto e non gli andava per nulla di lasciarla sola, visto il temporale.
Aveva gettato immediatamente l’abito a terra e aveva sparato seguendo il suo istinto primordiale di proteggerla. E quando aveva visto che lei era ancora distesa a terra, era corso da lei con la paura dell’inevitabile, urlando il suo nome. La prese immediatamente tra le braccia, mentre la pioggia cadeva fitta.

- Stai bene, vero?
- Sì, credo di sì.

Ryo la strinse ancora di più, si sentì improvvisamente più sollevato. Averla così vicino, mentre si bagnavano a causa della pioggia, ma le sorrideva, fu la migliore medicina per farlo riprendere dallo spavento.

- Mi spiace per il tuo abito, ma si potrà rimediare.

Gli occhi di Kaori non riuscirono a trattenere una lacrima.

- Non importa del vestito, mi basta essere viva e stare accanto a te.


Ryo la vide perso nei suoi pensieri, così decise di prenderla di petto. Anche lui si era sentito strano, ma la dea fortuna o chi li proteggeva, aveva fatto in modo che lui fosse nel posto giusto al momento giusto. Questo contava, non aveva spazio per i sé e per i ma, non dopo tutto quello che avevano superato. Ed era ben deciso a farlo capire anche a lei. La voltò prendendole il viso tra le mani.

- Io non permetterò che ti succeda qualcosa, mai. Tu devi vivere, per me, con me, Kaori. Il nostro destino è questo e se qualcuno si permetterà solo a modificarlo dovrà vedersela con me.

Nel ventre di Kaori, mentre lo guardava negli occhi, si mosse qualcosa che la fece trasalire, il cuore si mise a battere forte, perdendosi negli occhi scuri di Ryo, dove scintillava il suo amore per lei.

Nessuno poteva mettersi tra loro, mai.

Finalmente la tensione svanì, ringraziò chi la proteggeva di avergli permesso di condividere la sua vita con Ryo, allora lo abbracciò affondando nel suo petto.

- Non è che stai facendo tutte queste storie perché non vuoi più sposarmi domani?!
- Cosa?
- No, Kaori, se è così dimmelo, lì fuori c’è uno sciame di donne che non vedono l’ora che io ritorni in azione!

Ryo accompagnò la sua frase puntando il dito versa la porta sorridendo in modalità pervertito.

- Imbecille! Ti consiglio di presentarti domani all’altare se no ti inseguirò per mezzo mondo e ti assicuro che non avrai scampo.
- Prima devi riuscire a prendermi.

Ryo si staccò dalle braccia di Kaori e cominciò a correre sulla rampa di scale che portavano al loro appartamento. Kaori lo seguì correndo fino a raggiungerlo nell’appartamento e cercò di braccarlo saltandogli addosso, ruzzolarono per terra ridendo l’uno tra le braccia dell’altro.

- Preso, sweeper!
- Non ho scampo, e poi devo darti ancora una cosa perciò non posso tirarmi indietro.
- Cosa mi devi dare?
- Domani!
- Dimmelo! Dai!
- Curiosona lo saprai domani!

Ryo si portò la mano sul petto, sentendo la catenina che custodiva l’anello. Quell’anello lo aveva scelto per lei prima di partire per la Thailandia, lo aveva portato con sé come amuleto, per ricordargli chi l’aspettava a casa, sapendo che con quell’anello l’avrebbe sposata e avrebbe dichiarato al mondo che lei era l’amore della sua vita.
Mentre continuavano a rimanere per terra avvinghiati, come se quello fosse il posto più comodo del mondo, un nuovo brivido scosse Kaori che le partì dalla pancia, come quello di prima, e non si spiegò il perché ma la rendeva felice, quello strano calore sembrava rigenerarla, sembrava confortarla. E chiuse gli occhi respirando l’odore di Ryo, fonte vitale.

Shan In

Come un soffio leggero, un piccola brezza estiva, quel nome riecheggiò in un sussurro. Ryo e Kaori si guardarono all’unisono, sgranando gli occhi, eppure lo avevano sentito entrambi, non era stato un sogno.
Ryo guardò Kaori, accarezzandole i capelli dolcemente, allungando la mano sul suo ventre, in qualche modo, una parte di lui, ora sapeva.

- Shan In.

Sussurrò quel nome anche lui, sapendo che avrebbe ricordato quel nome per sempre.


FINE
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Eccoci qui. E’ finita! E mi dispiace…
Remind Me nasce frutto di un pensiero notturno, all’inizio era una storia che nasceva tristemente e tristemente doveva finire. Avevo pensato a miliardi di finali tristi, ma ad ogni capitolo che scrivevo sentivo come se Kaori mi prendesse a martellate e mi dicesse di non pensarci nemmeno a scrivere qualcosa di triste. Ryo e Kaori in ogni parola che scrivevo si sono rincorsi e volevano riavvicinarsi il più in fretta possibile e io ho lottato con le unghie e con i denti per andare avanti almeno con la storia o molto probabilmente ormai la psichiatria è sempre più vicina!
Il rovesciamento del finale, in un finale bello e felice, è stato a dir poco istintivo, e visto che il finale era buono ho deciso di riscrivere quel brutto inizio di Angel Heart e cambiarlo a mio piacere, come se avessi preso io a martellate Hojo per farglielo sistemare, lasciando comunque che Shan In entrasse nel modo più bello possibile, trovo Shan In un personaggio molto affascinante, nonostante la situazione, è figlia di Ryo e Kaori, senza alcuna ombra di dubbio.
E poi avevo ancora in ballo Poo Chai! No, proprio lasciare Poo Chai in difficoltà non si poteva fare. Per chi non lo sa Poo Chai è tratto dal drama City Hunter, ricordo che Lee Yoon Sung dice al padre che lui voleva una vita normale, non voleva essere ciò che era ora, lasciarlo a Ryo e Kaori significava farlo comunque interagire con City Hunter, non vedo Ryo e Kaori lontano dal mestiere di sweeper, e non corrispondeva al desiderio di Poo Chai bambino dal mio punto di vista. Miki e Umi mi sono sembrati più idonei, il cat’s eye, le cure di Miki, che lo capisce meglio di chiunque altro in quanto anche lei cresciuta nella guerriglia, e Umibozu che lo proteggerà da qualsiasi cosa dandogli comunque quell’affetto che solo Umi-chan sa dare, erano perfetti ai miei occhi!
Ryo e Kaori sarebbero stati allo stesso modo giusti per lui, però era giusto toglierlo in qualche modo da City Hunter e lasciargli creare una sua nuova storia.

Ho avuto paura che la storia non piacesse, che avessi scritto qualcosa di improbabile e forse fuori dai canoni. Per essere giunta alla fine devo immensamente ringraziarvi, per tutti i commenti, per aver sentito le emozioni di questa storia. Mi sento lusingata e onorata! Perciò grazie grazie grazie, siete state il supporto e la spinta di questa avventura!

Poi vorrei anche dirvi……
Trascinata per un braccio, Titinina viene portata via.
- Ma hai finito di rompere???? Come sei pesante…. Sempre a fare BLA BLA BLA…
- Ryoooooooo! Ogni volta non mi lasci finire!
- No, tu te la stai menando e annoi la gente! Smettila di fare l’autrice pazza e datti all’ippica!

Titinina tira un pestone sul piede di Ryo, mentre il suddetto frigna come una femminuccia!

- Ormai mi hai trascinato via almeno offrimi una sigaretta.
- Anche? Dopo che mi hai fatto perdere la memoria e tutto quel tràn tràn devo anche offrirti da fumare?
- Certo! Hai visto che ti ho fatto fare? E come eri figo? Soprattutto quando camminavi a Shibuya…
- Si, certo intanto pensavi a quello lì! A Cha Seung Won!
- Ops….
(E’ vero per descrivere Ryo in Shibuya ho pensato al mio fidanzato immaginario, Cha Seung Won , attore coreano, di cui sono follemente innamorata :Q__ cercatelo in google immagini e vedete che pezzo d’uomo è!)
- Tsk
- Ammettilo, sei geloso!
- Io?! Di quello là poi??? Puah figuriamoci!
- Che poi tu hai Kaori!
- Ecco dalla padella alla brace…. Il mezz’uomo…
- Ma falla finita, sempre a lamentarti….

Ryo si gratta il mento e guarda Shinjuku, lo sa benissimo anche lui, senza Kaori non ci sa stare….

- E poi devo dirti una cosa all’orecchio vieni vieni

Titinina tira Ryo verso il basso e gli parla all’orecchio, facendolo diventare tutto rosso!

Niente di preoccupante… Gli ho solo detto che…….
Forse ve lo dirò nella prossima ff!!!! ^___________^ Titinina

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