Odissea urbana

di Miss Fayriteil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


1.

 
 
Jane Thaisis era una giovane donna, australiana di trentaquattro anni. Ciò che in lei colpiva immediatamente erano i suoi occhi: verde smeraldo ed incredibilmente penetranti. Era una donna piccola e minuta, ma nessuno se ne accorgeva, quando si trovava ad avere a che fare con lei.
  Aveva sempre vissuto a Sidney, prima con i suoi genitori ed il fratello minore, Michael ed ora anche con il marito ed i loro sei figli. James Cox, che Jane aveva sposato circa sei anni prima, non era di molto più vecchio di lei e secondo quello che Jane stessa diceva, un uomo sempre molto desiderato nel suo quartiere, fin da quando non erano altro che due ragazzini di undici e quattordici anni.
  I ragazzi, invece, ai quali abbiamo fatto soltanto un accenno in precedenza, erano sei e li presentiamo qui di seguito. Nicholas, da tutti soprannominato Nicky, era il primogenito ed aveva undici anni; la seconda era Claudia di dieci anni. In seguito c’erano David e Karen, rispettivamente di nove ed otto anni; quindi Jason che aveva sette anni ed infine Julia, che con i suoi sei anni compiuti da poco, rimaneva ancora la piccola di casa, anche se in fondo non era più così piccola.
  Ciò che quella numerosa famiglia aveva di inconsueto era proprio la situazione dei bambini. Infatti, solamente due di loro, vale a dire Jason e Julia, i più piccoli, erano figli di entrambi i genitori; al contrario gli altri quattro, alcuni anni fa adottati da James, erano nati da altrettanti uomini, sparsi in giro per la città.
  Come fece Jane a finire in questa situazione? Qui, durante l’inverno australiano di dodici anni fa, inizia la nostra storia…
 
A quel tempo Jane Thaisis era una giovane studentessa di ventidue anni, ancora ingenua e poco esperta del mondo: sarebbe maturata di colpo quella stessa notte.
  È appunto una fredda sera di giugno, quella in cui comincia quest’avventura.
  Jane, in quel momento, stava attraversando velocemente la stazione insieme a sua madre, per riprendere l’auto e tornare finalmente a casa dopo una breve passeggiata in centro. La stazione in quel periodo godeva di una brutta, anzi pessima fama, perché si diceva fosse stato il teatro di tantissime sparizioni, forse rapimenti, di giovani donne, ad opera di un misterioso bandito.
  Successe tutto quanto all’improvviso, quasi che la sorte avesse deciso di accontentare quelle dicerie, vere o inventate che fossero. Quando le due donne avevano quasi raggiunto la loro macchina, qualcuno spuntò dall’oscurità e Jane sentì una mano afferrarle il braccio e stringerlo fin quasi a spezzarglielo, poi un’altra che le serrò la bocca, impedendole di respirare, quindi un forte dolore alla tempia destra e… più nulla. Venne infine trascinata insieme alla madre in una strana catapecchia non troppo lontana dalla stazione, dove si risvegliò circa un’ora dopo.
  Jane aprì lentamente gli occhi, ma, sentendosi ancora abbastanza stordita, decise quasi subito di richiuderli. La testa, poi, le pulsava dolorosamente. Alcuni istanti più tardi, la ragazza ritenne di essersi ormai ripresa abbastanza, da alzarsi in piedi ed affrontare la situazione, e così fece, scrollando la sua lunga e riccioluta chioma, rosso fiammante, come se volesse togliere la polvere che la ricopriva.
  Quando alla fine Jane si sentì di nuovo perfettamente in grado di fronteggiare qualunque tipo di pericolo le si fosse parato davanti da quel momento in poi, cominciò a studiare con estrema attenzione il luogo in cui si trovava. Era una stanza molto buia e coperta di polvere; le riuscì di distinguere un paio di sedie ed un tavolo, leggermente illuminati da qualcosa di non meglio definito, forse una vecchia lampada a petrolio, ma tutto il resto era immerso nell’ombra.
  «Jane…» sentì ad un tratto. Sorpresa, la ragazza si guardò attorno, per trovare la fonte della voce e finalmente vide sua madre, appoggiata ad una parete con l’aria sconvolta, ma senza ferite, almeno non visibili. Jane pensò che sua madre, in fondo, stava molto meglio di lei, ma ovviamente la ragazza non se la sarebbe mai presa con sua madre per un motivo di quel genere.
  Sorrise sollevata e le si avvicinò. La donna la strinse forte tra le braccia e le sussurrò in un orecchio: «Grazie al Cielo, stai bene, Jane. Oh, credevo… credevo quasi che non ti saresti risvegliata mai più».
  Jane, cercando di apparire molto più tranquilla, di quanto in realtà non fosse, rispose: «Mamma, non ti preoccupare. Ora sto bene e poi ci sei tu con me. Non ci succederà niente, vedrai». Poi riprese ad osservare la stanza e si rese conto, con sua enorme sorpresa, di conoscerla molto bene: era la stessa baracca dove andava sempre, da ragazzina insieme ai suoi amici, per scommessa. L’avevano battezzata, per ovvi motivi evidentemente, la Casa Nera. Ora, però, era notevolmente più in ordine di quanto non fosse nel periodo in cui ci veniva lei, e inoltre era abitata, anche se non si riusciva a capire con molta precisione da chi.
  Stava ancora cercando di assorbire lo stupore di ritrovarsi in quella stamberga, dopo dieci anni e con un bernoccolo sulla testa quando, proprio in quel momento, e prima che potesse in qualche modo rendersene conto, si ritrovò seduta su una vecchia sedia di legno scheggiata e con i polsi legati allo schienale. Voltandosi si rese conto che anche a sua madre era stato riservato lo stesso trattamento. Guardando nuovamente di fronte a sé, sobbalzò. Si ritrovò all’improvviso una orribile faccia barbuta, sulla quale i freddi occhi azzurri risaltavano spaventosamente, piazzata a due soli centimetri dal suo naso. Questo viso, dato che nella penombra la ragazza riusciva a vedere solo quello, si rialzò parlando con voce rauca e profonda: «Bene, bene, ma che bel bottino. Due signorine straordinariamente graziose. Per piacere, ragazzi, ammiratele!»
  Il proprietario dell’orribile faccia barbuta era un uomo tarchiato che teneva in mano una grossa pistola nera: probabilmente il capo era lui. Jane osservò lui e i suoi scagnozzi: erano cinque uomini grossi e muscolosi che le fissavano con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. La ragazza li studiò per alcuni lunghi istanti, rendendosi conto di non provare, inspiegabilmente, alcuna paura, ma soltanto rabbia e odio, verso quei banditi che tenevano ingiustamente prigioniere lei e sua madre.
  Con un coraggio che non era ancora consapevole di possedere, e che in realtà proveniva dal suo subconscio, che aveva deciso di rifiutarsi di sottostare a quella prigionia, sentì la propria voce esclamare, aspra ed intrisa di veleno: «Chi siete e che cosa volete da noi?»
  Nonostante tutta la sua buona volontà, non sortì precisamente l’effetto desiderato. Quattro degli uomini, infatti, scoppiarono a ridere ed uno di loro le fece addirittura il verso. «Ma sentitela, “chi siete e che cosa volete da noi”. Che bambina coraggiosa!» commentò, con un’altra fragorosa risata. Il capo, invece, era sempre rimasto in silenzio, come se stesse aspettando gli sviluppi, prima di intervenire personalmente.
  L’uomo che aveva appena preso in giro Jane, sembrava il più giovane ed innocente del gruppo; era anche molto attraente, nonostante l’espressione crudele che gli deformava il volto. E se Jane non fosse stata così occupata a detestarlo con tutte le sue forze (nessuno, infatti, era mai riuscito a prenderla in giro chiamandola bambina, senza poi pagarne dolorosamente le conseguenze), forse si sarebbe accorta che il suo cuore, che dopotutto non riusciva ad ignorare, batteva forte mostrandole un sentimento completamente diverso da quello che lei provava in quel momento.
  Nello stesso preciso istante il capo, che d’ora in poi chiameremo con lo pseudonimo di Number One (il nome vero resterà sempre ignoto), ruggì: «Silenzio!»
  Improvvisamente nella stanza non si sentì più volare una mosca. Number One si mise a scrutare torvo ciascuno dei presenti, come per assicurarsi che nessuno l’avrebbe più interrotto. Poi si rivolse al suo secondo e disse: «Bene, credo di essere quasi arrivato ad una conclusione» sogghignò palesemente divertito. «Ma prima di tutto devo rivolgere qualche semplice domanda alle nostre due carissime prigioniere. Non è niente di preoccupante, una pura formalità».
  Jane e sua madre si guardarono, in preda all’angoscia più tremenda: dai loro sguardi si capiva che invece c’era da preoccuparsi, eccome. Poi Number One si rivolse improvvisamente alla signora Thaisis ed abbaiò: «Tu, quanti anni hai?» La donna lo guardò, totalmente allibita; ma che razza di domanda era? Poi riuscì a fatica a ricomporre la propria espressione e si costrinse a rispondere sdegnosamente.
  «Buon uomo, penso che lei dovrebbe proprio saperlo. Non si chiede mai, e dico mai l’età ad una signora».
  Jane, che non la pensava esattamente come lei, sussurrò: «Mamma, se-se fossi in te, risponderei». Sua madre aveva appena aperto bocca per rispondere a tono, quando Number One, come Jane si aspettava, appoggiò delicatamente la grossa pistola sulla fronte della donna. La ragazza notò in quel momento che Number One aveva un piccolo anello d’oro appeso all’orecchio destro.
  «Ti ho chiesto» ripeté il bandito con voce bassa e minacciosa, «quanti anni hai. Guarda che questa pistola è carica».
  La signora Thaisis si arrese. Deglutì spaventata, poi rispose, con un filo di voce: «Ehm… ecco ho… quarantasei anni».
  «Così va meglio, molto meglio» disse Number One, soddisfatto, poi lui e i suoi uomini si guardarono l’uno con l’altro, come se in fondo si aspettassero una risposta del genere e poi cominciarono a confabulare tra loro a bassa voce. Jane sentì chiaramente uno degli uomini, con una grossa cicatrice che gli attraversava il naso, borbottare: «Naaah, è troppo vecchia. Togliamocela dai piedi. Ci teniamo solo la ragazza». Il capo annuì poi si rivolse di nuovo alle due prigioniere e ringhiò, rivolto alla signora Thaisis: «I miei uomini ed io abbiamo pensato che non sapremmo che farcene di te, quindi abbiamo decisa» le due prigioniere trattennero rumorosamente il respiro, «che puoi andartene».
  Le due donne si guardarono esterrefatte: la libertà era proprio l’ultima cosa che si sarebbero potute aspettare di ricevere! La signora Thaisis, senza osar credere alla propria fortuna, lasciò che Number One la liberasse e si alzò in piedi, poi fece segno a sua figlia di fare altrettanto.
  Jane obbedì, non troppo convinta: lei avrebbe sicuramente voluto andarsene insieme alla madre, ma aveva il vago presentimento che non l’avrebbero lasciata andare via troppo facilmente. Infatti aveva appena finito di liberarsi i polsi di nascosto e si era alzata in piedi anche lei, quando il secondo di Number One intervenne dicendo: «No, no, aspettate un attimo. Forse non siamo stati sufficientemente chiari. Abbiamo detto che soltanto tu puoi andartene, donna. Tua figlia resta qui con noi, dobbiamo farle “alcune domande”, hai capito?»
  La signora Thaisis guardò la figlia con un’espressione mista di angoscia e qualcosa che poteva essere senso di colpa. Le due si abbracciarono in silenzio, piangendo, mentre Number One attendeva con impazienza che la donna se ne andasse. Alla fine la signora Thaisis uscì dalla casetta, sempre molto riluttante a lasciare sua figlia sola insieme con quei cinque banditi. Decise che non se ne sarebbe andata via subito, ma che sarebbe rimasta a spiare da una finestra quello che sarebbe successo all’interno da un momento all’altro e nel caso sarebbe corsa immediatamente in aiuto della figlia. Purtroppo, per lei, però, Number One la scoprì all’istante.
  Andò alla finestra e la spalancò, il viso irsuto deformato dalla rabbia, abbaiando: «Sparisci, donna! Muoviti, ti ho detto che devi andartene! Non costringermi a cambiare idea sulla tua sorte!»
  La povera donna, terrorizzata, obbedì istantaneamente e scappò via. Number One marciò di nuovo al centro della stanza. Ora Jane si trovava completamente sola in mezzo ai suoi rapitori; li fissò uno ad uno, con il cuore in gola, aspettandosi tutto il peggio possibile. Quelle alcune domande di cui avevano parlato, suonavano come alcune domande molto pericolose. Decise di sottoporsi in silenzio all’interrogatorio.
  «Molto bene», disse ad un tratto Number One. «Per prima cosa devo chiederti quanti anni hai. Quindi se sarò soddisfatto della tua risposta potremo procedere».
  “È proprio fissato con l’età” pensò Jane, assolutamente perplessa, “chissà perché”.
  Mentre stava ancora decidendo che cosa rispondere, dato che non voleva dire la verità, Number One all’improvviso aggiunse: «Oh, a proposito, se hai più di venticinque anni non sei la benvenuta». Questo era perfetto per Jane, che, dopo un veloce calcolo mentale, decise finalmente che cosa avrebbe risposto e disse: «Be’, mi dispiace per voi in questo caso, perché io ho giusto ventisei anni».
  Però, non si sa in che modo, Number One capì che lei aveva mentito; forse aveva notato un riflesso colpevole nei suoi occhi, chissà, fatto sta che le disse: «No, no, tu stai mentendo e le persone che mentono a Number One possono finire molto, molto male. Avanti, ti do un’ultima possibilità, quanti anni hai? Rispondi e vedi di dire la verità questa volta, mi raccomando».
La ragazza si arrese alla minaccia e, con voce tremante, disse: «D’accordo, hai ragione, ho mentito. In… in realtà ho ventidue anni».
  A questa risposta, il bandito sogghignò: «Oh, è perfetto. Direi che hai proprio l’età giusta per me! Sono molto soddisfatto. Quindi…» finse di riflettere, poi aggiunse, «Penso… sì, si può fare. Ho deciso: ci sposeremo la prossima settimana».
  La ragazza ci mise alcuni istanti, per comprendere la terribile verità di quelle parole. Dopodiché balbettò faticosamente, con voce strozzata: «Come… com’è che hai detto? Noi… noi due ci…»
  «Sposeremo, esatto» confermò Number One, guardandola con un ghigno da lupo mannaro. «La prossima settimana. E dopo sposati tu, tesoro, mi darai un erede che sarà meglio per te che sia maschio o saranno guai seri! Hai capito?»
  Jane era talmente terrorizzata al pensiero di come si presentava il suo futuro, che non si rendeva neanche conto di quanto in realtà fosse insensata l’ultima frase di Number One e mormorò stupidamente: «Sì… sì, ho capito. D’accordo, dovrà essere maschio. Ho capito».
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2.
 
 
I giorni passarono velocemente senza eventi degni di nota, ad eccezione di un corso accelerato di taglio e cucito, organizzato e diretto con passione dalla governante Charlotte e, come aveva promesso Number One, una settimana dopo l’arrivo di Jane, loro due si sposarono. Anche negli anni seguenti Jane si rese conto di ricordare pochissimo del giorno del suo matrimonio, quando invece, secondo tradizione, dovrebbe essere il più bello della propria vita.
  Jane aveva avuto la fortuna di non essere mai stata ad un funerale nella sua vita, nessuno dei suoi familiari era ancora passato a miglior vita, ma aveva il forte sospetto che il suo matrimonio fosse stato poco meno deprimente di una cerimonia funebre.
  Si erano spostati in una piccola città di provincia per celebrare il rito, che probabilmente non era nemmeno legittimo, e alla fine ritornarono subito a Sidney. Lì si svolse il pranzo che fu veramente breve e senza la benché minima traccia di festa. Non c’erano nemmeno degli ospiti, se si vuole escludere la banda di Number One al gran completo e la loro governante Charlotte, già citata prima e che aveva anche il compito di fare da cuoca. L’unica persona che forse si poteva considerare invitata era un’amica di Number One che lui, in un atto di immensa, quanto inaspettata generosità, aveva concesso a Jane come sua testimone di nozze.
  Fin dal giorno seguente la vita di Jane divenne, al contrario di come potrebbe sembrare ai più, molto noiosa. Infatti verrebbe soprattutto da pensare che, vivendo sotto lo stesso tetto di un gruppo di banditi per ventiquattro ore al giorno, la ragazza si sentisse costantemente in pericolo o magari anche solo coinvolta nelle loro disoneste faccende, quali che fossero.
  Per quanto riguarda, invece, il suo pensiero personale sulle numerose rapine della banda, Jane imparò molto in fretta a fare in modo di ignorare la dolorosa fitta di senso di colpa che le stringeva lo stomaco in una terribile morsa tutte le volte che ci pensava. In ogni caso, pensava, non avrebbe potuto fare assolutamente niente per fermarli. Neanche se le fosse stato in qualche modo possibile. Non si trattava di un totale, assoluto disinteresse, ma semplicemente di opportuno buonsenso.
  Trascorreva le sue giornate per lo più cercando programmi almeno interessanti alla TV, andando a zonzo nei dintorni o chiacchierando con la cuoca, cosa che, oltre ad essere un piacevole passatempo, le forniva moltissime informazioni utili su colui che, purtroppo, era appena diventato suo marito. Charlotte, lavorando per lui da venticinque anni, sapeva tutto quello che si può sapere riguardo ad una persona. Nel caso specifico di Number One riguardo ad un malvivente.
  Un giorno, verso la metà di settembre, all’incirca, Jane si trovava in cucina a chiacchierare con Charlotte mentre questa cucinava, come suo solito.
  La cuoca era una signora sui sessant’anni, furba e allegra. Aveva però la bizzarra abitudine di chiamare Jane “signora” e di darle del lei. A Jane questo dava un leggero fastidio, poiché lei aveva più o meno un terzo dell’età di Charlotte e non si sentiva assolutamente importante, ma, grazie ai suoi sforzi quotidiani, la donna stava ormai perdendo il vizio. Quella mattina, ad esempio, Jane era entrata in cucina, come ogni volta con i capelli fiammanti tutti in disordine, sbadigliando e trascinando i piedi. Quando aveva salutato la cuoca, si era sentita rispondere: «Buongiorno, signora… ehm, volevo dire, Jane. Ha dormito bene?»
  «Sì, Charlotte» era stata la risposta, leggermente esasperata, di Jane. «Ma non eravamo d’accordo che ci dessimo del tu?»
  «Già, hai ragione. Scusami, me n’ero dimenticata».
Quella mattina Charlotte decise di raccontarle la storia di Number One. Mise per un attimo da parte il suo lavoro, si sedette al tavolo di fronte a Jane e le disse: «Mi è venuto in mente che tu ormai vivi qui e, volente o nolente, devi accettarlo. Perciò ho pensato che sia giusto che tu sappia com’è iniziata la carriera di Number One. E poi, magari, questa storia potrebbe anche interessarti. Ad ogni modo, lui ha iniziato a farsi chiamare così dall’età di diciotto anni. Era fuggito da casa e si era trasferito a Melbourne. Lì ha iniziato a… come si può dire? A lavorare commettendo piccoli furti e qualche rapina occasionale.
  «Tutto questo ce lo ha raccontato due anni dopo, all’età di vent’anni, quando è ritornato qui a Sidney, anche se non ancora in questa casa, ma in un posto dall’altra parte della città. A questo punto ha iniziato il suo vero mestiere, quello di cui sei rimasta vittima anche tu. La banda era già al completo, allora, c’ero anch’io.
  «Oh, no, aspetta un attimo» aggiunse all’improvviso. «La banda non era ancora completa. Mancava Jack l’Araldo, la sua spia, che è il più giovane ed è arrivato soltanto quattro anni fa».
  Jane ascoltava rapita. Pendeva letteralmente dalle labbra di Charlotte e quando la donna s’interruppe, ripiombò bruscamente nella realtà. Ad un tratto, si rese conto che la bocca le pendeva aperta in un’espressione assolutamente idiota. Si affrettò quindi a richiuderla, ma poi la riaprì quasi subito, per dire: «Ma, non ha mai rivelato a nessuno il suo vero nome, mio marito?»
  Charlotte non rispose subito. Allora Jane la chiamò, esitante: «Ehm… Charlotte? Ci sei? Tutto bene?» La donna la fissava, infatti, da alcuni istanti, ma senza in realtà vederla. Sentendo la voce di Jane, parve uscire da una fantasticheria.
  «Scusa, ero soprapensiero. Comunque… no. Almeno, non mi sembra. Sì, l’ho conosciuto come Number One e tale è rimasto, per me, ma anche per tutti gli altri» disse. Jane annuì in silenzio, poi chiese ancora: «E… quando vi siete trasferiti qua? Mi hai detto che prima abitavate dall’altra parte della città».
  Charlotte si voltò lentamente verso di lei e rispose: «Sì, hai ragione, non siamo venuti subito qua. Ormai dovremmo esserci da circa dieci anni, in ogni caso. Be’, sì» proseguì, parlando più a se stessa che a Jane, «calcolando che Rick adesso ha otto anni e lui è stato l’unico dei ragazzi ad essere nato qui…»
  Jane non aveva nessuna idea di chi fosse questo Rick e moriva dalla voglia di saperne di più, ma per qualche ragione, sentiva che era meglio non chiedere. Aveva, infatti, la stranissima sensazione che presto, molto presto, l’avrebbe scoperto a sue spese. E non le sarebbe piaciuto per niente.
  Per farla breve, Charlotte sapeva qualsiasi cosa riguardo Number One: dal suo numero di scarpe al totale di rapimenti e rapine che aveva compiuto. Era una fonte inesauribile di informazioni.
  Trascorrendo in questo modo le giornate, il tempo passava senza che nessuno se ne accorgesse. Infatti, anche se sarebbe potuto sembrare strano, Jane era ormai in quella casa da quasi tre mesi. Per la verità, se non fosse stato per Number One, la vita in quella casupola, per Jane, non sarebbe stata neanche tanto male. Era stata piacevole fino ad alcuni giorni prima, quando Number One aveva iniziato a chiederle insistentemente che dormissero insieme, cosa che lei aveva sempre rifiutato. E che continuava imperterrita a rifiutare.
  Per la verità, Jane avrebbe dovuto dormire insieme a Number One. Il fatto è che in quella casa c’erano quattro stanze da letto. Escludendo la più grande dove dormivano i ragazzi della banda e la più piccola, per la cuoca Charlotte, ne restavano due. Nella prima dormiva solo Number One, ma lì, in teoria, avrebbe dovuto dormire anche Jane, mentre la seconda, che sempre secondo gli ingegnosi progetti di Number One sarebbe dovuta rimanere vuota, in realtà era occupata sua moglie. Lui non le aveva mai spiegato il motivo, però era anche vero che la ragazza non si era mai presa il disturbo di chiederglielo.
  Jane fu capace di non cedere alle infinite richieste del marito per più di due settimane, ma alla fine lui riuscì a costringerla, e per Jane non ci fu più via di scampo. L’unica nota positiva in tutta questa brutta faccenda fu che Jane ottenne di dividere la stanza con Number One per un mese, e un mese soltanto. Quando lei glielo chiese, lui rispose: «D’accordo, per me va bene. Tanto, per la fine del periodo dovrei avere in ogni caso quello che mi occorre». E con una risata cattiva se n’era andato, probabilmente per discutere con i ragazzi della banda gli ultimi dettagli del loro piano per il colpo di quella notte, alla Banca Centrale di Sidney.
  Jane, una volta rimasta sola, si vide confermato il sospetto che durante quelle quattro settimane in cui avrebbe dovuto dividere il letto con Number One, non le sarebbe successo niente di buono. E ricordando una delle prime frasi che lui le aveva detto la sera che si erano conosciuti, credeva anche di sapere di cosa si trattasse. Sperava solo che passassero in fretta e decise di ignorare il profondo senso di nausea che l’assalì all’improvviso. “È solo un mese” disse a se stessa. “Quattro misere settimane. Riuscirò a sopravvivere. Devo sopravvivere”. Con questa nuova determinazione la ragazza si alzò dal divano e tornò nella sua stanza.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


3.
 
 
Quel mese da incubo per Jane, alla fine arrivò e lei, vedendosi confermati i suoi sospetti, decise di subirlo con fredda rassegnazione.
  Alla fine del periodo, fu esclusivamente a causa di un grosso numero di costrizioni e minacce, se Jane si ritrovò, con suo profondo orrore, incinta. Iniziò a sospettarlo verso la fine di ottobre, vale a dire più o meno due settimane essere rientrata in possesso della sua stanza, ma quando lo scoprì rimase davvero terrorizzata. Il motivo era evidente: con quel bambino si sarebbe legata per sempre a Number One, che lei lo volesse o no. E ovviamente lei non voleva. Aveva perso. Anche se non l’avesse detto a Number One, cosa che, tra l’altro, aveva tutte le intenzioni di fare, era impossibile che lui non lo venisse a sapere. Entro qualche mese la cosa sarebbe diventata evidente e lui ne sarebbe stato indubbiamente felice e chissà cos’avrebbe fatto.
  Quello che l’angosciava di più in quel momento, non era tanto che fine avrebbe fatto lei in quella casa, una volta nato il bambino, ma piuttosto che fine avrebbe suo figlio, se lei non se ne fosse andata da lì in breve tempo.
  Questo angosciante pensiero le era venuto un giorno di quelli, dopo aver chiacchierato con Charlotte. Jane, come spesso faceva, le aveva esposto i suoi timori e le sue preoccupazioni e Charlotte le aveva risposto, per la centesima volta, forse, di non preoccuparsi.
  A queste parole, la povera Jane, con una specie di strillo isterico, era sbottata: «Come diavolo faccio a non preoccuparmi?! Ti rendi conto che se mio figlio sarà maschio me lo toglierà appena nato per allevarlo come vuole lui, mentre se sarà una bambina…» ebbe un brivido e continuò, «non ci voglio nemmeno pensare. E questo lo so per certo che lo farà, me lo hai detto tu!»
  A questo punto, Charlotte si voltò a guardare Jane, che aveva il viso rosso e stravolto dalla rabbia e dalla tensione. Si sedette accanto a lei sul divano e le disse pazientemente: «Vedi, Jane, tu non sei certo la prima a finire nelle grinfie di Number One, anche se credo proprio che questo tu lo sappia». Jane annuì; certo che lo sapeva. Era da prima della sua nascita che circolavano le notizie delle sparizioni di svariate donne, tutte ad opera di Number One.
  «Sì, be’, l’immaginavo» continuò la donna. «Quello di cui forse tu non sei a conoscenza è il numero delle ragazze che in questi venticinque anni hanno avuto la tua stessa sorte. A dirti la verità, nemmeno io conosco il numero preciso, ma posso assicurarti che ne ho viste passare più di cinquanta nei miei cinque lustri di carriera» Annuì con gravità, notando lo sguardo sbalordito di Jane.
  «E non è tutto» aggiunse addolorata, «nessuna di queste poverette, tranne quattro per la verità, è riuscita a sopravvivere per più di una settimana dal rapimento. La maggior parte di loro si è tolta la vita in un estremo gesto disperato».
  «È orribile» mormorò Jane, sconvolta.
  «Hai ragione, non è bello quello che ti sto raccontando, ti capisco, ma è la verità e tu hai il diritto ed il dovere di conoscerla».
  Jane fissò Charlotte in silenzio per alcuni istanti, poi chiese: «Che cosa successe, invece, alle altre quattro ragazze? Quelle che riuscirono poi a sopravvivere, intendo». Era molto interessata, nonostante quella storia non le piacesse per niente.
  Charlotte le rispose, soppesando le parole: «Be’, diciamo che è successo loro, né più né meno quello che è successo a te. Number One le ha obbligate a sposarsi con lui e ad un certo punto della loro permanenza qui, hanno scoperto di aspettare un bambino. Purtroppo due di queste ragazze hanno avuto una bambina, cosa del tutto inaccettabile per Number One. Lui ha un’opinione molto medievale di noi donne. Ci considera dei semplici oggetti, utili solo per dargli dei figli. Quindi non sapeva che farsene delle sue figlie e credo, e spero, che le abbia lasciate fuori di qualche casa, nelle mani di qualche persona civile.
  «Per quanto riguarda le due che hanno avuto un maschio, invece, c’è da dire che purtroppo non hanno mai visto crescere i loro figli nel modo giusto. Infatti, Number One li tolse alle loro madri per allevarli fin da neonati a modo suo e…»
  «E allora vedi che avevo ragione io?» la interruppe Jane, furente. «Non posso stare tranquilla in ogni caso! Se sarà una bambina se ne libererà all’istante e io non potrò neanche sapere se sarà viva o morta, mentre se sarà un maschio, è molto probabile che io diventi madre di un delinquente, così come ne sono già la moglie!»
  Charlotte la fissò, quasi severamente e poi le disse: «Sì, Jane, hai ragione tu, ma non m’interrompere».
  «Mi dispiace» mormorò Jane, cercando di apparire mortificata.
  «Non è vero che ti dispiace, ma non importa. Non sono qua per giudicare» ribatté Charlotte tranquillamente. Dopo alcuni secondi riprese: «Dunque, stavo dicendo che li ha cresciuti a modo suo e quando hanno compiuto sei anni li ha mandati a studiare in una specie di istituto fatto apposta per quelli come loro. Vale a dire per i figli di ladri e quant’altro. Almeno credo.
  «Il più piccolo dei suoi figli si chiama Richard, ma tutti lo chiamano Rick. Ha otto anni e vive là per circa dieci mesi l’anno e torna qui solo in estate per trascorrere le vacanze, e il Natale, insieme a suo padre. L’altro figlio maschio di Number One si chiama Michael, detto Mike, ha diciotto anni e ha già finito la scuola. Immagino che ora viva per conto suo».
  Jane, a quelle parole, esclamò, praticamente impietrita dallo stupore: «Il figlio maggiore di Number One si chiama come mio fratello e ha solo un anno in meno di lui! Credi che possa essere un segno?» Charlotte rispose: «Non saprei proprio. Be’, può essere benissimo che ci sia un senso in questo fatto. Comunque, cosa stavo dicendo? Ah, sì, per quanto riguarda le due ragazze, invece, so pochissimo, anzi, direi niente, a parte le età approssimative. La più piccola credo che abbia tredici anni, mentre l’altra dovrebbe essere di un anno più grande di te».
  Jane era sempre più indignata nel sentire quante persone insieme suo marito riusciva a far soffrire, e quando Charlotte arrivò a parlare della sua quasi-coetanea, ebbe una specie di spasmo involontario. “Avrei potuto benissimo essere io”, pensò con orrore.
  Ad un certo punto domandò: «Ma, non hanno mai tentato di fuggire?»
  «Chi, le ragazze?» domandò Charlotte. Jane annuì.
  «Certo che hanno tentato di fuggire» rispose la donna, come se la cosa fosse ovvia. «Me le ricordo bene. Tutte con il proprio bambino, o la propria bambina, in braccio che si arrampicavano fuori da una finestra, che ingenue. Number One le ha scoperte, naturalmente, anche se non ho idea di come abbia reagito. Di sicuro non bene» proseguì pensierosa. «Ma non credo che le abbia uccise, non ti preoccupare» aggiunse in fretta, notando lo sguardo agghiacciato di Jane.
  Lei e Charlotte si fissarono a lungo, la ragazza dalla folta chioma rossa e la donna dai capelli corti e color ferro. Jane mormorò: «Voglio andarmene di qui, Charlotte. Il più presto possibile». La cuoca la fissò con uno strano sorriso di complicità e disse: «Sai, Jane, sono quasi convinta che tu riuscirai a fuggire da qua».
  «Davvero?» esclamò Jane, con gli occhi sbarrati. «E come posso fare?»
  «Be’, immagino, che ti serva solo un buon piano e, soprattutto, un piccolo… aiuto». Jane la guardava senza capire. «Che cosa intendi dire, Charlotte?» le chiese.
  «Esattamente quello che ho detto» le rispose la cuoca con un sorrisetto misterioso e poi se ne tornò in cucina, lasciando Jane sola, a riflettere sulla profondità del discorso appena concluso. Si rese conto che all’inizio voleva che suo figlio fosse maschio, perché almeno avrebbe potuto continuare a vederlo. Però, dopo quello che le aveva detto Charlotte, aveva capito che in fondo non era importante, perché tanto sarebbe fuggita comunque e Number One non sarebbe mai venuto a sapere di niente.
  Sì, decise, si sarebbe fatta aiutare sicuramente da qualcuno nella fuga. Già, ma da chi? Chi avrebbe avuto il coraggio di tradire Number One, per aiutare la sua ennesima moglie ribelle, che voleva riconquistare la libertà ed oltre a questo aveva tutte le carte in regola per riuscirci? La ragazza rifletté e improvvisamente, incredibilmente, la prima persona che le venne in mente fu Jack l’Araldo, la spia di Number One. Per capirci, il ragazzo che l’aveva presa in giro la sua prima sera lì. Charlotte aveva accennato al discorso di un’ipotetica fuga e a lei era venuto in mente… Si paralizzò a mezz’aria, nell’atto di alzarsi dal divano. La prima sera c’era ancora sua madre. Chiuse gli occhi e cercò di figurarsi il suo viso nella mente, ma si rese conto di non riuscirci: non se la ricordava più. Le venne da piangere. Che razza di persona era diventata se riusciva ad essere capace di dimenticarsi di sua madre in soli cinque mesi?  Si riscosse. Non aveva tempo di perdersi in sentimentalismi, al momento. I suoi due problemi principali in quel momento erano la fuga e come trovare il modo di convincere Jack l’Araldo ad aiutarla ad attuare il suo piano, sempre che gliene venisse in mente uno, beninteso.
  Quindi, dal giorno seguente si mise a lavorare solo su quello: un soddisfacente piano di fuga. Dopo lunghe riflessioni ed interminabili colloqui con Charlotte, grazie ai quali riuscì a scoprire che tutte le sue colleghe avevano tentato di scappare di giorno, probabilmente con il pensiero che Number One non le avrebbe scoperte, dato che viveva di notte, Jane riuscì ad avere un piano adatto alla sua situazione. Era veramente molto semplice e tuttavia piuttosto geniale. L’idea, in realtà, era né più né meno la stessa delle altre quattro ragazze, in altre parole la classica fuga dalla finestra. La sua aveva però una differenza. Aveva deciso che, per non commettere il loro stesso errore, sarebbe fuggita durante la notte, quando normalmente Number One non era in casa ed era quindi più difficile che la scoprisse.
  Per quanto riguarda, invece, l’idea di farsi aiutare da Jack le era venuta dopo essersi resa conto che il ragazzo in realtà non era cattivo, ma solo imprigionato in qualcosa troppo grande per lui. Parlando con Charlotte, aveva inoltre cominciato a sospettare, da un po’ di tempo, di essersene innamorata, ma, forse per timore che Number One lo scoprisse, non aveva mai avuto il coraggio di confessarlo, nemmeno a se stessa. La parte più difficile del piano, era proprio convincere Jack ad aiutare Jane, perché la ragazza non aveva il permesso di parlare con i ragazzi della banda, al di fuori di Number One, ovviamente, e aveva quindi dovuto chiedere a Charlotte di farlo al posto suo. La donna doveva chiedere alla spia di trovare una scusa per restare a casa quella notte, ma senza fargli capire il motivo. Con gran sorpresa di Jane, il giovane accettò subito, senza esitare. Non perse nemmeno tempo ed energie per chiedere inutilmente per quale ragione lui fosse tanto importante. Jane e Charlotte non volevano che fosse un segreto, ma in quel momento c’era Number One in casa.
  Quella notte la sorte volse a loro favore: in casa non c’era nessuno, tranne i due ragazzi e, naturalmente, Charlotte. Ora quindi a Jane non restava altro che parlare con Jack, per cercare di indurlo ad accettare di aiutarla nell’attuare il suo eccezionale piano di fuga. Questa poteva essere la parte più difficile del loro piano.
  L’una di notte era passata da un pezzo, quando Jane uscì dalla sua stanza e, in punta di piedi (non voleva svegliare Charlotte), si diresse in quella di Jack. Il ragazzo era già in piedi: Jane riusciva a vedere vagamente il suo profilo stagliato contro la finestra, illuminata dalla luce della luna.
  «Jack!» lo chiamò piano, nel buio. Lo vide sedersi sul proprio letto ed accendere l’abat-jour sul comodino. Lei chiuse la porta e si fece strada tra gli altri tre letti e raggiunse quello di Jack, dove si sedette. Il ragazzo si voltò verso di lei.
  « Qual è il tuo problema?» le domandò, senza giri di parole. «Di sicuro hai un problema, altrimenti non ti saresti azzardata a chiedermi di restare in casa con una scusa, sapendo quali rischi corro, anzi, corriamo entrambi, se Number One dovesse venirlo a sapere». Nella sua voce c’era una lieve nota di rimprovero, che però non provocò alcun effetto su Jane. Lei lo guardò intensamente con i suoi penetranti occhi verdi, poi sorrise dolcemente. «Be’, sì, d’accordo. Cioè in realtà non è proprio un problema, il mio, è solo… ho bisogno del tuo aiuto».
  Jack la fissò sbigottito: di tutte le risposte insensate che si era aspettato di ricevere, questa era certamente la più assurda. Chiese quindi a Jane: «E per quale oscuro motivo avresti bisogno del mio aiuto, scusa?»
  «È molto semplice» rispose questa. «Mi servi per aiutarmi ad attuare il mio fantastico piano di fuga che utilizzerò dopo la nascita del bambino: non ho la minima intenzione di restare qua oltre quella data. Non voglio che mio figlio faccia la stessa fine dei suoi fratelli o, peggio ancora, delle due sorelle, Jack, non è possibile».
  «Ti prego aiutami» disse alla fine, con tono implorante, «sei l’unico che può farlo». Rifletté. «Be’, a parte Charlotte e lei non può aiutarmi da sola». Il ragazzo rimase a lungo immobile e in silenzio, riflettendo. Alla fine non rispose, ma annuì.
  Jane, incredula, lanciò un acuto strillo di gioia, gli saltò al collo e iniziò a baciarlo ovunque, sulle guance, sulla fronte, sul naso… Alla fine tornò ad un comportamento più dignitoso staccandosi da Jack e rimettendosi in piedi come una persona normale. «Oh, grazie, grazie, grazie!» gridò entusiasta. «Sei unico Jack! Sei un vero amico! Non so cosa avrei fatto senza di te!»
  I due ragazzi tornarono a sedersi sul letto e a quel punto Jane, in un momento di inaspettata imprudenza, diede sfogo ai suoi sentimenti turbinanti, afferrando Jack per le spalle e dandogli un bacio lungo e appassionato. Jack, con aria sbalordita, se la tolse di dosso con una scrollata di spalle.
  «Ehi, ma che cosa ti salta in mente, si può sapere?» le disse infuriato. Jane si rese conto di arrossire, ma non si pentì di quello che aveva appena fatto.
  «Jack, io mi sono innamorata di te, ne sono sicura» disse piano. «Capisci, non è che credo sia un bene e quando ci penso cerco di dirmi che non è vero, che tu sei soltanto un amico per me, ma sarebbe come ingannare il mio cuore, Jack e questo… questo non è… giusto».
  Il ragazzo la fissò a lungo, poi disse: «Jane, senti, quello che mi hai detto è molto importante e ora ti confesserò che anche io mi sono innamorato di te dal primo momento che ti ho vista, anche se non potevo fartelo capire. Spero comunque, che tu capisca che avere una relazione clandestina con me è davvero pericoloso, soprattutto noto l’elemento che sei stata costretta a sposare».
  «Oh, ma Jack…» cominciò Jane, ma lui l’interruppe, alzando la voce.
  «Per cui dobbiamo stare solo molto attenti a non far scoprire niente a nessuno. Naturalmente, Charlotte può e deve sapere di questa cosa».
  Jane, straordinariamente felice, gli gettò le braccia al collo, sospirando. «Oh, Jack, meno male che qui ci sei tu».
  La ragazza, rendendosi conto solo in quel momento di ciò che le stava accadendo, pensò eccitata: “Wow, ho l’amante. Sto tradendo mio marito con un altro uomo! Mi sembra di essere in un film! È una cosa fantastica!”
  «E senti» continuò il ragazzo, «mi dispiace di averti spinto via così prima, quando mi hai baciato, ma non saprei come dire, mi hai spaventato».
  Jane si scusò, poi gli chiese: «Perché hai deciso di aiutarmi, in ogni caso? Voglio dire» aggiunse con un mezzo sorriso, «non dovresti essere un mio nemico?»
  Ancora una volta Jack rimase in silenzio a lungo, senza sorridere, riflettendo, come per decidere in che modo dirle la verità.
  «Vedi» disse alla fine, soppesando le parole. «Ho deciso di aiutarti perché, in tutta sincerità, non vedevo l’ora di fare qualcosa, qualsiasi cosa, contro Number One.
  «No, aspetta» continuò, alzando la voce perché Jane era sul punto di interromperlo. «Non sto mentendo e non sono impazzito. Sarà bene che tu sappia che io ho cambiato idea su questa vita, dall’ultima volta in cui ho rischiato di essere arrestato. Stavo semplicemente cercando l’occasione giusta, così, quando sei arrivata tu, ho visto riaccendersi la speranza di potermi salvare».
  «Wow» commentò Jane alla fine. «Così mi fai arrossire, però. E poi, non credevo che avresti potuto cambiare idea così in fretta. Voglio dire, da quello che mi ha detto Charlotte, non è molto che sei qua».
  «No, infatti» mormorò lui. «Ma torniamo a noi. Mi stavi parlando di questo tuo geniale piano di fuga. Che cosa avresti intenzione di fare?»
  Jane ci pensò sopra un attimo, poi disse: «Vediamo, innanzitutto, direi di aspettare fino alla nascita del bambino, anche perché altrimenti non saprei proprio dove andare… Certo, anche con un neonato è complicato fuggire, ma a questo si può rimediare più facilmente.
  «Ora, diciamo che ad essere sincera, il mio piano non ha proprio niente di geniale. È solo la classica fuga dalla finestra. L’unica particolarità, rispetto alle altre quattro ragazze che mi hanno preceduto, è che l’evasione avverrà di notte, in modo che Number One e gli altri tre non la scoprano, dato che probabilmente saranno fuori. E ovviamente il tuo aiuto è più che apprezzato, tutto qui». Quando lei smise di parlare, Jack la guardò strano, ma non disse niente.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


4.
 
 
Il giorno seguente, Jane era al suo solito posto sul divano del soggiorno, come ogni volta intenta a chiacchierare con Charlotte.
  «Che bello» disse in quel momento, lo sguardo sognante, perso nel vuoto, «è iniziato dicembre, finalmente. Sai, sento già nell’aria il profumo dell’estate, ma anche del Natale, ed è assolutamente fantastico. Io adoro dicembre» concluse con un sospiro. Charlotte si voltò a guardarla con un sorriso quasi ironico.
  «Non voglio fare la guastafeste, credimi, ma ti posso assicurare che fra qualche settimana non sarai più così felice. Tu vivi qui da poco, anche se dovessi già esserne a conoscenza, ma sappi che fra meno di un mese, manca così poco Santo Cielo, Rick verrà qua, per tentare qualsiasi cosa pur di rovinarci le vacanze, accidenti a lui».
  Era vero, Jane in quei giorni, con la mente tutta presa dalla neonata relazione segreta con Jack, dal suo bambino e dalla fuga, se n’era completamente dimenticata. Da quel momento, una sorta di quieto terrore la invadeva, ogni volta che pensava al fatto che fosse ormai arrivato dicembre.
  Passarono velocemente molti giorni ed altrettante settimane ed ecco che, all’inizio della seconda settimana di dicembre, alle dieci del mattino, Rick si presentò sulla porta di casa. Se ne stava lì in piedi sulla soglia, con una valigia e uno zaino. Jane, dal divano, gli lanciò uno sguardo diffidente; era piuttosto alto per avere solo otto anni ed aveva la stessa espressione da delinquente del padre. A Jane si gelò improvvisamente lo stomaco: anche suo figlio sarebbe assomigliato così tanto a Number One? La ragazza guardò meglio il ragazzino: i lunghi boccoli scuri gli nascondevano gli occhi castani ed il viso era tutto coperto di lentiggini.
  Rick entrò in casa senza degnare di un’occhiata i presenti, ma mollando i suoi bagagli davanti a Charlotte e Number One entrò subito dietro di lui, un gran sorriso stampato in faccia. Gettò a Charlotte un’occhiata che equivaleva a dire: «Vai a sistemare le valigie di mio figlio in quest’istante».
  Rick si diresse verso la zona delle stanze da letto e Jane, in quel momento, capì perché la stanza dove dormiva lei sarebbe dovuta restare vuota. Il bambino, infatti, fece per entrarvi, ma si bloccò sulla porta, mentre un’espressione di orrore e profondo disgusto prendeva forma sul suo viso, pallido e allungato. Dando alla propria voce un tono volutamente disperato, gridò: «Papà!»
  Number One corse in aiuto immediatamente, al grido del figlio.
  «Che c’è, figliolo?» gli chiese, ancora ansimante. Rick lo guardò arrabbiato.
  «C’è che la mia stanza è occupata. E da quel che posso vedere è occupata» la sua espressione si fece, se possibile, ancora più disgustata, «da una femmina». Era chiaro che, per quanto riguardava il gentil sesso, Rick la pensava esattamente come suo padre. Quest’ultimo, disperato, lanciò a Jane uno sguardo feroce, poi si rivolse nuovamente al ragazzino. «Sì, certo, Rick. Jane ha fatto una cosa veramente molto cattiva, però lei non aveva idea del fatto che questa stanza fosse tua altrimenti non l’avrebbe mai occupata. E ad ogni modo ora lei verrà qua e libererà la tua stanza, seduta stante. Vero, Jane? Moglie!»
  Pronunciò l’ultima parola quasi urlando, così che ebbe lo stesso effetto di un ordine minaccioso, ma lei non si lasciò affatto spaventare. In quei sei mesi si era abituata a qualsiasi cosa, oltre che a qualunque tipo di minaccia, quindi si avvicinò ai due, un sorriso falso stampato sulla faccia.
  «Sì, cosa c’è? Mi hai chiamata, per caso, marito adorato?»
  «Smettila di prendermi in giro, donna. Hai sentito che cosa ha detto il ragazzo» abbaiò Number One, «come vedi, non è contento. Quindi porta via tutta la tua roba da qui! Ora! Avanti, muoviti, marsh!»
  Jane entrò nella stanza, borbottando: «Va bene, va bene, adesso la svuoto questa stanza, non ti scaldare così». Arrivò anche Charlotte con in mano i bagagli di Rick e decise di approfittarne per darle una mano. Per più di un’ora, le due lavorarono instancabilmente, liberando ogni centimetro quadrato della stanza dagli averi di Jane e ammucchiandoli momentaneamente in un angolo del corridoio. A lavoro ultimato, la ragazza fissò a lungo le sue scarpe, i suoi vestiti, ma soprattutto le sue preziosissime riviste di moda, sinceramente preoccupata.
  «E ora, dove metto tutte queste cose?» Si chiese ad alta voce, con il tono piagnucoloso di una bambina viziata e capricciosa. «In camera tua sicuramente no. Non ci pensare neanche per un momento!» disse a Number One in tono fermo, anticipando qualunque sua proposta.
  «Se mi posso permettere» suggerì timidamente, Charlotte, «quel guardaroba che c’è in soggiorno, non è molto grande, però forse potrebbe esserti utile». La ragazza ci pensò un attimo, poi fissò la donna, raggiante e disse, tutta esaltata: «Ehi, è un’idea! Penso che trasferirò lì tutte le mie cose. Anzi, credo proprio che mi trasferirò del tutto in soggiorno. Il divano sembra essere molto comodo, anche come letto e poi avrei sempre la televisione a portata di mano!» E così fece.
  Alcune settimane più tardi, giusto qualche giorno dopo Capodanno, Jane si stava godendo un romantico film alla televisione, mentre sgranocchiava pop corn al caramello, quando Rick entrò nella stanza. Il ragazzino si buttò a sedere sul divano, afferrò il telecomando e spense il televisore.
  «Ehi, Richard» esclamò Jane, arrabbiata. Era l’unica in casa ad avere il permesso di chiamarlo col suo vero nome. Si era dimostrata così ostinata che perfino Number One, per la prima volta in vita sua, non aveva potuto far altro che cedere. «Hai appena interrotto il mio momento di relax! E poi quella era la parte migliore del film! Perché diamine hai spento?»
  «Così» rispose lui, con un’impertinente scrollata di spalle. Poi Rick cambiò improvvisamente espressione; il viso gli si rabbuiò e disse con aria imbronciata: «Perché sei venuta a disturbare la quiete di casa nostra, donna? Nessuno te lo ha chiesto e poi io qui non ti ci voglio».
  Jane rimase a bocca aperta per l’indignazione: di tutte le sciocchezze che quella piccola peste poteva sputar fuori, questa era senz’ombra di dubbio la peggiore. Si costrinse a fissare lo schermo vuoto del televisore e mormorò: «Figurati io».
  Rick strinse sospettoso gli occhi scuri. «Che cosa hai detto?» le chiese.
  Jane rispose, cercando di controllare la voce: «Che nemmeno io sono contenta di rimanere qua».
  Poi si voltò decisa verso di lui. «Senti, ragazzino, mettiamo in chiaro una cosa. Non ho scelto io di venire qua, va bene? Non l’ ho chiesto io». Proseguì con la voce tremante e in rapido aumento di volume: «È stato tuo padre, sì ragazzo, il tuo caro paparino, che mi ha rapita quasi sette mesi fa, mi ha imprigionata qui e mi ha messa incinta e tutto il resto!» Si rese conto di avere gli occhi offuscati dalle lacrime e se li asciugò con rabbia. Rick era rimasto ammutolito di fronte a quello sfogo.
  Abbassando lo sguardo, mormorò: «Ho soltanto otto anni, in fondo. Che ne posso sapere, io, di com’è la realtà?»
  «Sai, Richard» gli disse Jane. «È proprio per questo che te lo dico ora. Hai solo otto anni e sei ancora abbastanza giovane da decidere da che parte stare». Il discorso s’interruppe lì, all’improvviso: Jane temeva di aver già detto troppo e voleva evitare di finire su un terreno pericoloso.
  Dal giorno seguente, Jane poté in ogni caso notare, con una certa soddisfazione che, nonostante Rick fosse quello di sempre, con lei era notevolmente più gentile. Se ne rese conto anche Charlotte.
  Tre giorni dopo la chiacchierata tra Jane e Rick, lei chiese alla ragazza: «Si può sapere cosa diavolo hai fatto a Rick? Lo conosco da quando è nato e non l’ho mai visto così gentile con nessuno, nemmeno con Number One».
  «Abbiamo parlato» rispose Jane semplicemente. Charlotte la fissò, ammirata.
  Quello stesso pomeriggio, Rick andò in soggiorno e sedette sul divano per parlare ancora con Jane.
  Viene spontaneo, a questo punto, chiedersi cosa ne pensasse Number One di questa novità. Niente, non gli importava, fintantoché avesse continuato a pensare che Jane non aveva un’influenza negativa sul ragazzino.
  Rick si voltò a guardare Jane e lei, in quel momento, non vide l’espressione da mezzo criminale che lo caratterizzava, ma lo sguardo di un bambino, come quello che avevano tanti altri ragazzini della sua età.
  «Senti, Jane» cominciò lentamente, «riguardo quello che hai detto l’altro giorno su mio padre, stavo pensando che probabilmente hai ragione, ma che in ogni caso io non voglio che tu stia qui. Voglio che tu te ne vada, portandoti dietro anche il moccioso urlante che hai in pancia, che quando sarà nato diventerà solo un altro peso inutile».
  Jane cercò di ignorare il modo in cui il ragazzino aveva appena apostrofato il suo bambino non ancora nato e gli chiese: «Richard, posso farti una confessione?» e lui annuì. «Neanch’io sono troppo contenta di avere un bambino ora, in queste condizioni, se proprio lo vuoi sapere. Però questo non conta, non penso neanche al fatto “Tenerlo o no”. Quello che importa veramente è che se saremo fortunati, tu il bambino non lo vedrai mai. Adesso è gennaio, non è vero? Perciò, tu il mese prossimo te ne torni a scuola e lui, o lei, nascerà in luglio, dopodiché, io me ne andrò per sempre». Fece una pausa, poi sorpresa da un’inquietudine inaspettata, aggiunse: «Ehi, io te l’ho detta questa cosa, d’accordo, però tu acqua in bocca, mi raccomando, in particolare con tuo padre».
  «E perché dovrei?» chiese diffidente il ragazzino.
  «Perché» gli spiegò Jane paziente, cercando di controllare l’impulso di prenderlo per la gola, «se tu ti azzardi a cantare, caro il mio Richard, ci andiamo di mezzo io, tu, Jack e Charlotte» disse, facendo sfoggio di alcuni termini specifici del linguaggio del marito, che aveva appena imparato. «E per quanto mi riguarda, la cosa non ti farebbe piacere». Rick rimase abbastanza stupito, sapendo quante persone fossero coinvolte nella faccenda, ma poi, ignorando la velata minaccia di Jane, annuì e disse solennemente: «D’accordo, sarò muto come un pesce. Te lo prometto». Jane sorrise e annuì, molto soddisfatta.
  Un paio di giorni dopo, Jane era al suo solito posto in soggiorno. In quel momento, chiuse gli occhi, con aria ispirata e si appoggiò una mano sulla pancia.
  «Lo senti? No, ovviamente non puoi sentirlo, però sarebbe bello se potessi» disse a Charlotte. «Si muove, ed è una bellissima sensazione, sentirlo. Oh, accidenti, mi ha appena dato un calcio! Non trovi che sia una cosa assolutamente fantastica?»
  La cuoca la guardò sorridendo e le rispose: «Sì, cara, penso che sia veramente fantastico. Non vedi proprio l’ora che nasca, eh?»
  «Già, infatti» riprese Jane, sorridendo. «Anche perché, una volta nato il bambino, io potrò finalmente andarmene da qui».
  Le due donne rimasero in silenzio per un po’, poi Jane, colta da una preoccupazione improvvisa, informò Charlotte: «Mercoledì ho parlato di nuovo con Richard. Gli ho detto tutto a proposito dell’ evasione, ma poi gli ho anche fatto promettere di tenere la bocca chiusa. Secondo te ho fatto bene o non c’è comunque da fidarsi?» Raccontò brevemente a Charlotte cosa era successo e la donna la studiò per alcuni minuti prima di risponderle. «Non avresti dovuto, sai com’è suo padre e com’è lui, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro. È molto difficile che non parli, ma forse, se gli hai spiegato che ci andrebbe di mezzo anche Jack, ripeto forse, potrebbe stare zitto davvero. So con certezza che Rick tiene molto a quel ragazzo».
  «Speriamo bene» mormorò Jane dubbiosa. Si era profondamente pentita di ciò che aveva fatto, ma, come aveva giustamente detto anche Charlotte, ormai era troppo tardi per tornare indietro.
  Fortunatamente, Rick mantenne la promessa fatta a Jane, comportandosi come se non sapesse assolutamente niente di quella storia. Ciò sorprese molto tutti ciò che erano a conoscenza della vicenda, vale a dire, Jane, Jack (che era stato anche lui messo al corrente del fatto) e Charlotte. Finalmente, un giorno abbastanza all’inizio di marzo, alle sette di mattina, Rick e Number One partirono perché il bambino doveva tornare a scuola, per l’inizio del nuovo trimestre.
  Jane si svegliò circa due ore e mezza dopo la loro partenza. Aprì gli occhi, ancora assonnata e notò subito tre cose: la stanza era completamente illuminata dalla dolce luce autunnale, si era formato un grosso mucchio di foglie secche sotto la finestra, rimasta aperta, ma soprattutto Rick non c’era più! La ragazza si mise seduta di scatto, all’improvviso completamente sveglia. Si alzò dal divano, lo risistemò per il giorno e si vestì lentamente. Quando tutto fu finalmente sistemato, Jane si trascinò in cucina per fare colazione. Charlotte era china sul fornello e le dava le spalle, ma non appena la sentì entrare, si voltò sorridendo.
  «Buongiorno, Jane» la salutò.
  «’Gio-gio-giorno, Charlotte» rispose la ragazza, senza riuscire a soffocare un grosso sbadiglio. Si preparò la colazione, sedette al tavolo ed iniziò a mangiare. Intanto chiacchierava con Charlotte. Addentò una grossa fetta di pane tostato con sopra burro di arachidi e marmellata di fragole e disse, a bocca piena: «Ma quindi, Richard, se n’è andato, alla fine?»
  «Sì, stamattina alle sette» rispose la cuoca. «Tu stavi ancora dormendo, immagino. E non parlare con la bocca piena!» aggiunse severamente.
  «Già, scusa» mormorò Jane, deglutendo. «Comunque sì, esatto, stavo ancora dormendo. Perché sono partiti così presto, comunque? Oh, e Number One non è ancora tornato, vero?» aggiunse speranzosa.
  «No, ma sarà qui per l’ora di pranzo, credo. Sono partiti così presto perché per arrivare a quella scuola ci vogliono almeno tre ore di viaggio e Rick deve essere là entro mezzogiorno, perciò prima partivano, meglio era». Jane annuì in silenzio.
  Bevve l’ultimo sorso di caffèlatte non zuccherato, poi si alzò e andò a mettere ciò che aveva utilizzato per la colazione nella lavastoviglie, dopodiché si stiracchiò e disse: «Bene, penso che uscirò per un po’, adesso».
  «D’accordo» rispose Charlotte, «ma cerca di non metterci troppo. Devi essere qui prima del ritorno di Number One, sai che lui non vede di buon occhio il fatto che tu esca. E poi sarebbe bene anche che mi aiutassi con il pranzo. Mi piace che tu ti renda utile in casa e non te ne stia sempre incollata a quella maledetta televisione». Jane annuì, sbuffando un po’, a dire la verità e presa la borsa, uscì da casa. Fece una lunga passeggiata nei dintorni e dopo un po’ che camminava, si fermò per riprendere fiato (infatti, la gravidanza cominciava ad affaticarla), ma anche per pensare che, nemmeno lei sapeva il vero motivo, ma da quando era stata rapita, nelle sue frequenti uscite, non aveva mai avuto il coraggio di tornare nel parcheggio della stazione, là dove tutto era iniziato, ormai otto mesi prima.
  Rimase fuori per circa due ore, ma poi dovette affrettarsi a rientrare perché era quasi ora di pranzo e anche perché Number One stava per tornare. Come promesso, dette una mano a Charlotte con il pranzo mentre aspettavano Number One. Quando lui arrivò, poco più tardi, Jane notò subito che aveva un’espressione molto triste e, stupita, ne chiese il motivo a Charlotte. La donna le rispose sussurrando che era la partenza di suo figlio ad abbatterlo così.
  «Accidenti» commentò Jane stupita, a bassa voce. «Gli vuole davvero molto bene».
  «Sì, però in fondo fra più o meno un paio di giorni gli passerà» osservò Charlotte. «Fa sempre così. Vedrai se non ho ragione».
  Passarono un paio di mesi e con l’avvicinarsi della Pasqua, Jane cominciò nuovamente a preoccuparsi perché temeva un possibile ritorno di Rick, prima che Charlotte le spiegasse che il ragazzino tornava a casa solo durante le vacanze estive e per tutto il resto dell’anno, gli studenti restavano nel collegio.
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


5.
 
 
Verso la fine di aprile, iniziò a fare molto freddo e a piovere parecchio, tanto che un giorno Jane, svegliandosi, aveva guardato fuori della finestra e aveva esclamato, sorpresa: «Oggi non sembra nemmeno di essere in Australia, accidenti!»
  Con l’arrivo di maggio le cose non migliorarono, anzi, semmai il freddo e il brutto tempo aumentarono, così che Jane usciva molto di rado, solo per sbrigare qualche commissione assolutamente necessaria. Per il resto del tempo se ne stava rintanata in casa, a guardare la televisione e ad ingozzarsi di ciambelle. C’è da dire che anche per il peso della gravidanza così avanzata, era molto più affaticata rispetto a prima.
  Le visite notturne a Jack erano a questo punto diventate un’abitudine quasi quotidiana. I due ragazzi, infatti, si incontravano ogni volta che potevano e, anche se la realtà era ben diversa, il motivo ufficiale restava quello di rifinire gli ultimissimi dettagli del loro piano di fuga. Questa scusa per la verità, non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione se, per disgrazia, Number One li avesse scoperti insieme. Charlotte non faceva che ripeterlo.
  «Avete fatto un bel baccano, stanotte, tu e Jack» disse una mattina Charlotte a Jane, quando questa era seduta in cucina a fare colazione. Il suo tono era noncurante, ma la ragazza arrossì violentemente fino alle radici dei capelli fiammanti e non disse nulla, ma soffocò il suo imbarazzo sulle uova al bacon che aveva davanti. Dopo qualche istante arrischiò una domanda, sperando di suonare disinvolta, ma senza molto successo: «Ci hai sentiti per davvero?»
  Il fatto era che la notte prima, Number One e i suoi ragazzi non erano usciti, quindi lei e Jack si erano potuti incontrare. Charlotte sorrise ironica e rispose: «No, siete stati abbastanza bravi, in realtà. Vi ho sentito solo perché ero sveglia di mio».
  Fece una pausa poi aggiunse: «Quello che devi capire, Jane, è che io approvo in un certo senso la vostra relazione. Però credo che sia abbastanza rischioso essere così poco discreti con Number One, che dopotutto resta sempre tuo marito, ricorda, così a portata d’orecchio. E poi tieni sempre in mente che sei incinta».
  «Lo so, Charlotte» rispose Jane con un sorrisetto, mentre sparecchiava il tavolo. Prese una fetta di una torta al caramello dalla tortiera e cominciò a mangiarla. Poi aggiunse: «Ma ho solo ventitré anni, e per la prima volta in vita mia sono veramente innamorata. Sai, non mi era mai successo prima d’ora. Avrò diritto ad un po’ di divertimento, no? E poi Jack ha detto che non gli importa, anche se sono incinta. Vorrei tanto che il bambino fosse suo» disse con un sospiro. Poi aggiunse: «Ah e un’altra cosa. Number One non è veramente mio marito. Cioè, io questa cosa la vivo come se lui per me fosse uno sconosciuto con il quale, per un puro caso e certo non per colpa mia, mi è capitato di essere sposata».
  Charlotte scoppiò a ridere divertita e disse a Jane che dopotutto lei le raccomandava solo di stare un po’ più attenta. Inoltre lei poteva anche continuare a non considerare Number One suo marito, ma questo fatto era innegabile. Che a lei piacesse o meno.
  Jane, con espressione contrariata, disse: «Certo, hai ragione, però adesso penso anche che quando fuggirò da qui, poi non vedrò Jack mai più. Ovviamente è meglio così, me ne rendo conto, ma io non voglio lasciarlo». Per finire tirò su col naso in modo teatrale e sbuffò sonoramente.
  Charlotte le mise gentilmente un braccio intorno alle spalle. «Andiamo, Jane, non devi farne una tragedia. In fondo gli puoi sempre proporre di venire con te, no?»
  «No, gliel’ho già chiesto» borbottò Jane, risentita, sedendosi sul divano. «Lui mi ha assicurato che gli piacerebbe, ma che non si può fare perché già Number One si infurierà quando scoprirà che sua moglie, vale a dire io, è scappata, se poi dovesse perdere anche la spia…» lasciò la frase in sospeso, ma era chiarissimo che a lei delle reazioni di Number One, non importava un bel niente.
  «Be’, non ti devi in ogni caso preoccupare» riprese Charlotte. «Una volta che sarai fuori di qua, potrai trovare qualcun altro, se proprio ti sentirai disperata. Là fuori è pieno di uomini che cercano una bella ragazza come te, fidati». Jane annuì riluttante e fece un sorriso coraggioso.
  Finì di mangiare quella enorme fetta di torta e pochi secondi dopo, giusto il tempo per leccarsi via il caramello appiccicoso dalle dita, si alzò per andare a prendere una barretta di cioccolato ripieno alla crema nel frigorifero. Charlotte la fissò con aria severa. «Dovresti smetterla di continuare a mangiare tutte queste porcherie, Jane. Lo so che sfoghi tutti i tuoi problemi sul cibo e forse ti potrei anche capire, ma tu dovresti cercare di capire che tutto questo non fa bene a te e men che meno al tuo bambino. Inoltre, se ingrassi troppo adesso, in gravidanza, sarà molto difficile che tu riesca a ritrovare la tua vecchia forma smagliante, ragazza mia, a meno che…»
  «A meno che?...» le fece eco Jane,improvvisamente preoccupata.
  «A meno che,  una volta nato il bambino, non inizi una dieta ferrea dove è vietato ogni tipo di dolce!» Detto questo se ne andò in un’altra stanza, lasciando Jane molto più terrorizzata di quanto non lo fosse mai stata, al pensiero di Number One che scopriva la sua fuga o, peggio ancora, la sua relazione adulterina con Jack.
  Finalmente, dopo nove mesi d’attesa, la notte del quindici di luglio, Jane e Jack corsero all’ospedale, servendosi di un’auto che Number One aveva rubato tempo prima, e che ora se ne stava innocentemente parcheggiata nella stazione. Alle dieci della mattina successiva, alla fine, venne al mondo Nicholas, che Jane nello stesso istante, amò più della propria vita.
  Nei tre giorni in cui rimase in ospedale, Jane ricevette solo le visite di Jack e Charlotte, che l’aiutò anche a scegliere il nome per il piccolo. Number One, invece, non andò mai a trovarla, dal momento che questo era in cima alla sua lunghissima lista delle “Cose da evitare”.
  La cosa non infastidì per niente Jane, anzi, si può dire che la rallegrò discretamente: aveva per l’appunto deciso che, nei pochi giorni che avrebbe ancora trascorso in quella casa, lei non avrebbe mai mostrato suo figlio a Number One. “Anzi” pensò, “sarebbe meglio che non venga proprio a sapere della sua esistenza”.
  Una volta tornata nella baracca, Jane si rese a malapena conto di averlo fatto: la vita per lei era notevolmente migliorata. Sentiva di vivere in una sorta di dimensione parallela, molto felice e rilassata, dove esistevano solo lei e il suo piccolo Nicholas. Non lo lasciava mai, tranne che a volte durante la notte e quando andava in bagno. Ma erano situazione molto rare.
  Non ascoltava più nemmeno Charlotte e l’unico che riuscisse a farla tornare, ma solo per qualche minuto, con i piedi per terra, era Jack quando la costringeva a concentrarsi sugli ultimi dettagli del loro piano di fuga.
 
Il momento tanto atteso giunse all’una di notte del ventisei luglio, quando Nicholas aveva circa dieci giorni. Jane era nella stanza di Jack insieme al ragazzo, che era inaspettatamente riuscito a trovare una scusa per restare in casa anche quella notte. Attesero con il fiato sospeso, che anche l’ultimo degli uomini uscisse, brontolando e sbuffando, ma non ebbero il coraggio di rilassarsi finché non sentirono le loro risate sguaiate allontanarsi fino a scomparire.
  A quel punto, Jane prese da sotto il letto di Jack uno zaino, che conteneva tutti i suoi averi e si calò il più silenziosamente possibile fuori della finestra. Nicholas, in quel momento, era sul letto di uno degli altri ragazzi, addormentato, così Jack lo prese tra le braccia e lo passò a Jane, che fece per alzarsi, quando un ruggito di rabbia, che proveniva da un’altra stanza, fece trasalire tutti e due.
  «Jane!» urlò la voce, così deformata dalla rabbia che diventava difficile riconoscerla. «Ma si può sapere dove diamine ti sei cacciata, maledizione!»
  Era Number One! Doveva essere rientrato in casa senza che Jane e Jack se ne fossero accorti. Probabilmente aveva il sospetto che Jane avesse progettato di fare esattamente quello che stava facendo. I due giovani si guardarono, pallidi come morti e Jane sussurrò, terrorizzata: «Oh mio Dio, nasconditi Jack! Nasconditi!»
  Lui obbedì immediatamente e corse nel suo letto, dove si infilò sotto le coperte, fingendo di dormire. Jane invece si abbassò oltre il livello del davanzale, appena un secondo prima che Number One facesse irruzione nella stanza. Jane lo osservò attentamente, dal suo nascondiglio. Lei e Jack lo sentirono borbottare ancora fra i denti, mentre, ignorando totalmente Jack, cercava la moglie nella stanza, poi finalmente, dopo alcuni secondi che a loro parvero interminabili, se ne andò.
  Aspettarono ancora qualche istante, giusto per essere più sicuri, quindi Jane si alzò in piedi e Jack uscì silenziosamente da sotto le coperte del suo letto, dicendo, a bassa voce: «Vai ora, Jane. Non sei ancora al sicuro, Number One potrebbe tornare da un momento all’altro. Vai». Jane lo abbracciò stretto e gli mormorò in un orecchio: «Grazie, Jack, tu mi hai salvata, anzi ci hai salvati, me il mio bambino, non lo dimenticherò mai, non ti dimenticherò mai e…» ma un bacio di Jack, il più bello che non le avesse mai dato fino a quel momento, la mise a tacere.
  «Addio, Jane» mormorò. La ragazza a quel punto s’incamminò verso la stazione. Si voltò una sola volta per fare un cenno di saluto a Jack, l’ultimo che potesse fargli.
  Riprese ad avanzare, senza fare troppo caso a dove stava andando. I suoi piedi prendevano automaticamente la strada giusta. Sembrava che si sentissero ansiosi quanto la loro padrona di riconquistare finalmente la libertà. In quel momento camminava piuttosto velocemente: il pensiero che qualcuno, magari Number One, la stesse seguendo, le opprimeva la mente e il cuore. Finalmente arrivò nel parcheggio della stazione, dove non metteva piede da più di un anno, ormai e proprio in quel momento Nicholas decise che per quella notte era stato abbastanza disturbato nel suo sonno, quindi si svegliò, piangendo disperatamente.
  Jane sobbalzò dalla sorpresa e, angosciata, cercò di calmarlo, sedendosi sulla prima panchina che vide per essere più comoda. Doveva fare in fretta, prima che i suoi sonori vagiti attirassero l’attenzione di troppi ficcanaso. Esclamò, preoccupata: «Oh, Nicholas, tesoro, mi dispiace averti svegliato. Non piangere, piccolino, ti prego!»
  Lo cullò a lungo e quando infine si riaddormentò, lei si alzò dalla panchina di pietra su cui si era seduta, pensando a dove poteva passare la notte. In condizioni normali avrebbe cercato senz’alcun dubbio un albergo, ma poi pensò che la sua situazione attuale era piuttosto critica e di punto in bianco, decise di cercare una famiglia disposta ad ospitarla. Non aveva mai fatto una cosa del genere, prima d’ora e pensandoci bene le sembrava anche un’azione piuttosto stupida, ma “A mali estremi, estremi rimedi”, pensò sconfortata e proseguì per le strade poco illuminate del centro.
  Dopo alcuni minuti che camminava notò una casa che, a differenza delle altre, aveva ancora delle luci accese a pianterreno. La ragazza si stupì: dopotutto era molto tardi. Tenendo in braccio suo figlio, si avvicinò con circospezione al cancelletto di legno che dava sulla strada e lo superò, percorrendo il vialetto lastricato. Immaginò di poterlo fare. Il cancello non era chiuso con un chiavistello o cose del genere, Jane l’aveva aperto senza alcun problema. Inoltre se voleva bussare o suonare un campanello, doveva per forza entrare. Sul cancello non c’era traccia di un citofono. Si avvicinò alla porta e, dopo aver respirato profondamente un paio di volte per calmarsi, bussò timidamente.
  Mentre aspettava cominciò a soffiare un vento forte e freddissimo e Jane rimase lì per alcuni secondi battendo i denti infreddolita e proteggendo suo figlio con il proprio corpo. Dopo un po’ sentì qualcuno armeggiare con una chiave nella serratura. Alla fine la porta si aprì, rivelando una donna alta con in viso un’espressione gentile, sebbene parecchio sorpresa.
  «Sì? Scusa… posso aiutarti?»
  «Io credo di sì, signora» rispose Jane senza alcuna esitazione, muovendo con discrezione un passo in avanti. «Lo so che non mi crederà, signora, ma se lei si ricorda io sono quella ragazza che l’anno scorso venne rapita alla stazione».
  La donna si mise una mano sulla bocca con espressione spaventata e quando la riabbassò, disse: «No, ti credo invece. Non avrei mai potuto pensare che… be’, almeno tu sei sopravvissuta, giusto?»
  «Sì, ma signora, io sono fuggita da là» riprese Jane, «e non mi sento al sicuro. Vede questo bambino? È mio figlio ed ha solo dieci giorni. La prego, non ho idea di dove andare». Si accorse che gli occhi le si erano riempiti di lacrime e se li asciugò, senza farsi notare dalla donna.
  Quando rialzò la testa, la donna sorrise e le disse: «Vieni, entra. Accomodati, hai l’aria di chi ne ha passate tante. A proposito, non mi sono ancora presentata. Mi chiamo Mary, Mary Stevens». Allungò una mano affusolata che Jane strinse, sentendosi un po’ rincuorata. Le due donne superarono l’ingresso e Jane si trovò in una stanza ampia ed accogliente. Iniziò a sentirsi al sicuro e si congratulò più volte con se stessa, per aver scelto un posto probabilmente adatto alla sua situazione.
  «Siediti pure, non c’è problema» la invitò la signora Stevens, prendendole lo zaino e contemporaneamente indicando il divano con una mano. La ragazza sedette, un po’ confusa da tutta la disponibilità e la gentilezza che quella donna aveva mostrato nei suoi confronti, una sconosciuta che bussava alla porta di casa sua alle due di notte.
  «Grazie… per tutto quel che sta facendo per me, anzi per noi» mormorò impacciata. La donna sorrise e mosse la mano in un gesto vago. «Ma se non ho ancora fatto niente! Mi sento in dovere di ospitare una donna sola e in difficoltà, soprattutto se è una madre. E poi» aggiunse con fare misterioso, «ho un figlio che dovrebbe avere circa la tua età. Tu quanti anni hai?»
  «Ventitré» rispose Jane. Poi la ragazza si rese conto che la signora Stevens non sapeva ancora il suo nome, così riprese: «E mi chiamo Jane. Thaisis. Così lo sa».
  «Grazie per avermelo detto… Jane. Ora che ci penso, è molto probabile che il tuo nome lo sapessi già». Si strinse nelle spalle. «In ogni caso, se hai ventitré anni, hai solo un anno in meno di Eric. Ora vado a chiamarlo, così vi presentate. Sono sicura che è ancora davanti a quel maledetto computer». Jane sorrise divertita e Mary Stevens scomparve su per le scale.
  Ricomparve alcuni minuti dopo, seguita da un ragazzo alto. Era molto avvenente, con lunghi capelli scuri e Jane decise che sarebbe stata disposta a rimanere in quella casa anche per sempre. Il ragazzo le tese una mano. «Piacere di conoscerti».
  Jane ricambiò la stretta, sorridendo debolmente e senza riuscire a dire alcunché. Dopo che si furono presentati, la signora Stevens mostrò a Jane la sua stanza, dove Jane si sistemò con tutte le proprie cose. Si accorse che la donna le aveva procurato anche qualcosa simile ad una culla di fortuna per Nicholas. Jane avrebbe voluto commuoversi, ma era troppo stanca perfino per quello.
  Nei giorni che seguirono, i due giovani scoprirono di avere un feeling molto particolare. Jane, per la verità, si era innamorata di Eric già la prima sera in cui si erano conosciuti, mentre al ragazzo bastarono altri due giorni per poter dire la stessa cosa con sicurezza. La signora Stevens si era accorta dei sentimenti tra suo figlio e Jane, quindi per evitare qualche “incidente”, come definiva lei una gravidanza indesiderata, raccomandò ai due ragazzi di non estendere il loro rapporto oltre una bella amicizia. Inutile affermare che le sue parole entravano loro da un orecchio e uscivano dall’altro. I due ragazzi erano troppo giovani ed irragionevoli per stare ad ascoltare i suoi discorsi preoccupati. Presto, però, si sarebbero pentiti di non averla ascoltata, ma ormai sarebbe stato troppo tardi.
 
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


6.
 
 
La vita trascorreva, così, tranquilla, Jane finalmente si sentiva al sicuro come non lo era da più di un anno. Gli Stevens erano molto gentili con lei, e la facevano sentire veramente a suo agio. In questo modo passarono un mese, due mesi, tre mesi, senza che nessuno se ne accorgesse. Le giornate scorrevano con serenità, Jane ed Eric spesso uscivano insieme, come se fossero una vera coppia, anzi facevano quasi ogni cosa insieme. Ogni tanto passeggiavano nei dintorni del quartiere di Eric, il quale presentò a Jane anche alcuni dei suoi amici e la ragazza ricordò a lungo anche le piacevolissime serate, trascorse in una splendida atmosfera familiare. Era da più di un anno che non aveva modo di sentirsi tranquilla e non spaventata in una casa che non era la sua o di qualche altro suo familiare.
  Nonostante tutto quanto sembrasse perfetto, Jane era assolutamente sicura che quell’idillio non sarebbe durato ancora per molto tempo. Le sembrava che le cose, per lei, fossero cambiate troppo in fretta e troppo in positivo, per fidarsene completamente. Aveva imparato abbastanza della vita, ormai. Ed in effetti era nel giusto. Un giorno verso la metà di ottobre, infatti, la ragazza in base ad una serie di elementi, iniziò a sospettare una gravidanza.
  Rimase abbastanza scioccata dalla rivelazione, anche soltanto della possibilità di un fatto del genere e, una volta che si fu ripresa, cominciò a ragionare su quello che avrebbe dovuto fare. Nonostante lui c’entrasse sicuramente, non volle parlarne subito ad Eric, almeno fino a quando non fosse stata sicura che i suoi sospetti fossero fondati. Voleva evitare che il ragazzo si preoccupasse, magari senza motivo. Decise in seguito che a Eric non l’avrebbe detto in privato, ma gliel’avrebbe detto quando l’avesse detto anche al resto della famiglia. Non sapeva perché, ma sentiva che non sarebbe stata una buona idea dirlo prima a lui.
  La cosa che la preoccupava maggiormente oltre a tutto, più che il fatto in sé, era l’età di Nicholas: in fondo aveva soltanto tre mesi. Trovava che il suo bambino fosse ancora troppo piccolo, perché potesse affacciarsi in lei anche solo l’idea di avere un secondo figlio. Non aveva ancora finito di abituarsi a Nicholas, non poteva proprio averne un altro, in quel momento. Avrebbe voluto aspettare almeno un paio d’anni, se non anche di più, prima di affrontare quel passo.
  Invece purtroppo, Jane scoprì che le sue perplessità erano fondate e per di più anche esatte. Una volta superato il trauma della scoperta, decise quindi di annunciarlo alla famiglia, cosa che fece una sera, dopo cena. Una volta che la signora Stevens ebbe sparecchiato ed ebbe anche pulito la cucina, tornarono tutti e quattro in soggiorno. La ragazza consigliò ai tre Stevens di sedersi sul divano, mentre lei stessa prese posto in una poltrona di fronte a loro. Per alcuni secondi non fece altro che star lì a guardarli uno ad uno, senza avere una minima idea da dove avrebbe dovuto cominciare.
  Alla fine prese il coraggio a due mani e disse: «Dovrei farvi una specie di…» si schiarì nervosamente la voce, «annuncio».
  Fece una pausa, fissandoli di nuovo.
  «Va bene, Jane» replicò con calma il signor Stevens. «Siamo tutt’orecchi. Parla pure, ti ascoltiamo».
  La ragazza li studiò una terza volta tutti e tre ed infine, odiandosi per quanto avrebbe detto, riprese: «Ehm, dicevo, devo comunicarvi una cosa molto importante. È che non so… ecco… da dove cominciare. Il punto è che l’ho saputo solo due giorni fa, ma lo sospettavo già da un paio di settimane. Be’, insomma, ho scoperto di essere» si strinse le mani in grembo e chiuse gli occhi, «incinta».
  Un silenzio pietrificato accolse le sue parole e Jane a quel punto decise di riaprire gli occhi. Eric aveva un’espressione profondamente sconvolta e carica di sensi di colpa, il signor Stevens fissava Jane con uno sguardo vacuo, mentre la signora Stevens era semplicemente esterrefatta.
  «Ma, ragazzi, non ci posso credere» esclamò, lo sguardo che correva dal figlio a Jane. «Pensavo che avrei potuto fidarmi di voi. Credevo davvero che foste abbastanza maturi da badare anche a questo tipo di problemi».
  Jane abbassò la testa: non si era mai vergognata tanto in vita sua. Perché, si disse, perché era stata tanto sciocca da non ascoltare Mary Stevens? In fondo le era già capitato, sapeva che sarebbe potuto succedere, avrebbe dovuto pensarci. Ma ormai era troppo tardi per rimproverarsi, concluse tra sé. Con la voce leggermente tremante e senza avere il coraggio di guardare gli altri negli occhi, disse: «Mi dispiace davvero tantissimo. Vi chiedo umilmente perdono. Che cosa penserete mai di me, in questo momento? Voglio dire, voi avete ospitato me e mio figlio per tre mesi in casa vostra, senza conoscermi, in fondo, e questo… questo è il mio modo di ripagarvi. Sono veramente una stupida».
  Jane alzò lentamente la testa dopo la sua umile confessione, sperando in un intervento di Mary Stevens, che le diceva di non preoccuparsi e che non era affatto una stupida, che però non venne. Le rispose invece, un po’ a sorpresa, Eric che disse: «Be’, se è per questo, allora, un po’ è anche colpa mia. Anzi è molto colpa mia». Fece una pausa fissando la madre. «Senti, mamma, lo so che abbiamo sbagliato a non obbedirti, ma so anche che alla nostra età avresti fatto esattamente lo stesso. Del resto, sono cose che possono succedere quando si è giovani come noi. Quindi… be’ ecco, non so che ne pensa Jane, ma io sono d’accordo nel separarci, anche a malincuore, se  questo è ciò che vuoi».
  Jane lo guardò senza capire. Separarci? Quindi lei avrebbe dovuto andarsene. La ragazza era perplessa. Insomma, Eric aveva appena detto che cose come quella potevano succedere a chiunque e quindi non era il caso di preoccuparsene troppo, poi, subito dopo, affermava l’esatto contrario.
  «Cioè, intendi dire che io devo andarmene di qui? Ora, in queste condizioni?» chiese, con una lieve nota isterica nella voce. Era una cosa inconcepibile.
  La signora Stevens dopo alcuni secondi, le disse: «Sì, Jane. So che questo non è assolutamente un momento semplice per te, ma, per favore, cerca un attimo di essere ragionevole. Sarebbe molto complicato per noi tenerti. Mi capisci, vero? Sto dicendo che sarebbe poco riguardevole. È meglio per tutti, fidati, davvero».
  Riguardevole? Ma come diavolo parlava quella donna? Jane era ancora totalmente sconvolta, impietrita. Dentro di sé sentiva una gran voglia di urlare e scagliarsi contro quella donna ipocrita, che dopo averla ospitata per tante settimane, le voltava ora le spalle in un momento tanto delicato. Invece non reagì e si limitò ad annuire.
  «Bene, davvero ripeto, mi dispiace moltissimo mandarti via così, adesso, sappi che non lo facciamo a cuor leggero, ma ti assicuro che prima vai, meglio è».
  La ragazza annuì ancora una volta e disse con voce inespressiva: «Allora, d’accordo. Stavo pensando che potrei partire lunedì. Fra due giorni, intendo. Per voi va bene?» E i tre Stevens le dissero che andava bene così.
  Quindi il lunedì mattina seguente Jane, con il suo fedele zaino in una mano e con Nicholas addormentato in un comodo marsupio appena comprato, disse addio ad Eric ed alla sua famiglia con le lacrime agli occhi.
  «Bene, be’, è stato bello trascorrere questo periodo insieme con te» disse ad Eric. «Può darsi che un giorno ci rivedremo, forse, se deciderò di farti conoscere tuo figlio… anzi, tua figlia».
  «Come fai a sapere che è una femmina? È ancora troppo presto per saperlo, giusto?» le chiese, con non poca sorpresa, Eric. Non poteva definirsi un esperto in questo genere di cose, ma sapeva benissimo che per scoprire il sesso di un nascituro bisognava aspettare circa quattro o cinque mesi.
  «Oh, non lo so, istinto materno, immagino» gli rispose lei alzando le spalle e con queste parole se ne andò, affranta. Non poteva certo immaginare che, invece, quella sarebbe stata l’ultima volta in tutta la sua vita che vedeva sia lui sia la sua famiglia. E la cosa non le sarebbe dispiaciuta poi molto, in futuro.
  Da quel giorno, sfortunatamente, la ragazza si trovò ad incominciare una dura ed assolutamente inaspettata, vita da vagabonda. Per molte settimane non riuscì più a trovare famiglie che la ospitassero, nemmeno per pochi giorni e così normalmente trascorreva le notti in quello che probabilmente era l’albergo più squallido non solo di Sidney, ma di tutta l’Australia. Era un edificio di un brutto cemento grigiastro, a due piani, con le stanze piccole, quasi senza finestre e che sapevano di muffa. La prima volta che vi era entrata la ricordava ancora perfettamente. L’ingresso era grande più o meno come metà della sua stanza di quando stava dagli Stevens ed il banco della reception era un normalissimo tavolo, anche un po’ traballante. Si era avvicinata all’uomo dietro il banco e gli aveva chiesto una stanza singola, possibilmente la più economica che avevano. Gli aveva detto: «Non importa se è piccola, io non so dove andare e sono praticamente senza soldi. Voglio solo un posto dove dormire». L’uomo le aveva allungato una piccola chiave arrugginita e le aveva chiesto: «Quanto si ferma signorina? Solo per stanotte?» Jane aveva riflettuto per un po’, poi aveva chiesto di nuovo: «Quanto costa per tutta la settimana? Credo proprio che dovrò fermarmi qua per un bel po’». L’uomo fece un veloce calcolo con una vecchia calcolatrice e le disse: «Questa che le ho dato è la più economica. Tutta la settimana costa... cinquanta dollari. Deve pagare adesso». L’uomo allungò la mano in attesa e Jane prese il suo portafoglio rendendosi conto con sgomento che cinquanta dollari costituivano tutto quello che aveva. Ora le restavano solo trenta centesimi. “Accidenti, domani dovrò cercarmi urgentemente un lavoro. Intanto, però, così sono a posto per tutta la settimana per quanto riguarda la notte”. Dopodiché ringraziò l’uomo e se ne andò nella sua stanza. Giunse in un corridoio dove si affacciavano quattordici porte malconce con i numeri scritti in vernice tutta scrostata. Di fronte a lei c’erano delle scale rovinate che probabilmente portavano al piano superiore: nessuna traccia di un ascensore naturalmente. A quel punto la ragazza guardò il numero della sua stanza e vide che l’uomo le aveva assegnato la stanza numero 13. “Ecco, ti pareva” pensò. “Come se qui le cose non andassero già abbastanza male”. Non sapeva ancora che per i mesi a venire quella sarebbe stata più o meno la sua casa. Aprì la porta e si trovò davanti una stanzetta, anzi più che altro una tana di topo, con un lettino ammuffito, un tavolo scheggiato e una sedia tutta scrostata. “Ma del resto” pensò afflitta, “cosa pensavo di aspettarmi da una stanza a poco più di sette dollari a notte? Di sicuro non una suite imperiale.” Decise di andare subito a letto, solo che non sapeva dove mettere Nicholas a dormire. Alla fine decise di tenerselo accanto nel letto, ma di coprirlo con una coperta che si era portata da casa Stevens e che per fortuna era abbastanza grande da avvolgerlo completamente, dalla testa ai piedi. Non credeva che fosse il massimo per un bambino così piccolo come lui di stare a diretto contatto con tutta quella sporcizia.
  Jane, infatti, essendo sostanzialmente al verde, non aveva potuto trovare niente di meglio, purtroppo. La mattina seguente, era entrata nella sala da pranzo, ma l’odore disgustoso l’aveva costretta ad indietreggiare bruscamente per non vomitare. Preferiva non sapere nemmeno cosa avessero cucinato. Si era detta che avrebbe saltato la colazione quel giorno e sarebbe andata a cercarsi un lavoro seduta stante. Ormai, comunque, non si riconosceva più: durante il giorno, mangiava nei posti peggiori, quelli più economici, così malmessi che non vi entravano nemmeno i cani e se per caso occorrevano a lei o a Nicholas degli abiti nuovi, perché ormai quelli vecchi erano così rovinati che non assomigliavano più nemmeno a dei vestiti, era costretta a rovistare nei grossi container alla discarica comunale. Lei quel periodo non l’avrebbe mai più scordato. Per poter guadagnare qualcosa, quel minimo per poter pagare la stanza e comprarsi qualcosa da mangiare, si era fatta assumere dal padrone dell’albergo come cameriera nelle stanze. La paga era piuttosto misera, ma Jane non si lamentava: lavorare le faceva bene, perché la aiutava anche a dimenticare le sue disavventure. L’unico problema fu che, una volta arrivato maggio, Jane fu costretta a smettere di lavorare come cameriera a causa della sua gravidanza troppo avanzata, così il padrone mosso a pietà dalla sua situazione, la mise alla reception per registrare i nomi dei pochissimi ospiti dell’albergo. Nicholas, mentre sua madre lavorava, era affidato ad una delle cameriere più anziane, che non vedeva l’ora di fare qualsiasi cosa pur di spezzare la sua noiosa routine ed aveva accettato con gioia anche questo lavoro improvvisato come baby-sitter.
  Perciò, per farla breve, per quasi nove mesi Jane visse in questa maniera, con un bambino molto piccolo da allevare, in modo dignitoso, per quanto le fosse possibile, nella sua difficile condizione e un altro che non era ancora nato, e che già era probabilmente destinato ad un’esistenza terribile. Qualche volta si chiedeva cosa le sarebbe potuto capitare di peggio, ma poi si rispondeva subito che, dopotutto, preferiva non saperlo proprio.
  Poi, nei primi giorni di luglio, Jane riprese i suoi tentativi, di trovare una famiglia disposta ad ospitarla. L’unica che la accolse, più o meno calorosamente, era composta dai genitori, della tipica specie “Simpatici-e-affidabili” e dai due figlioli, Samuel ed Heather, due ragazzini rispettivamente di otto ed undici anni.
  Questa famiglia era veramente gentile, così che Jane approfittò della loro disponibilità per circa tre settimane, durante le quali avvenne anche la nascita del suo secondo figlio. Il signor Barrow, così si chiamava il padrone di casa, si offrì volontario per accompagnarla in ospedale quando lei dovette partorire. 
  Questa volta, come effettivamente Jane aveva previsto, era una bambina. La ragazza, dato che lì per lì non sapeva che nome dare a sua figlia, rammentando improvvisamente le sue, per quanto molto remote, origini fiorentine, decise di chiamarla con un nome italiano: Claudia. Negli anni a venire, Jane avrebbe dovuto insegnare a diverse persone a pronunciare correttamente il nome: si pronunciava all’italiana, non all’inglese, il dittongo au si pronunciava com’era scritto, non come una o. Ma c’erano comunque persone che si ostinavano a pronunciarlo all’inglese.
  In ogni caso, questa nuova arrivata era nata, casualmente, due giorni dopo Nicholas a cui Jane e i due bambini, che si erano molto affezionati al piccolo, organizzarono una piccola, ma allegra festa nel giorno del suo primo compleanno.
  Alcuni giorni dopo la nascita di Claudia, la ragazza, ringraziando sentitamente la gentile famigliola che l’aveva ospitata, ritenne opportuno togliere il disturbo, e così fece, nonostante le numerose ed appassionate proteste di Samuel ed Heather. I due bambini non volevano che lei se ne andasse, perché in quel caso, naturalmente si sarebbe portata via anche Nicholas.
  Maledicendo il destino per la pessima piega che aveva fatto prendere alla sua vita, Jane ricominciò la difficile vita dell’anno prima, credendo di far bene, ma si pentì subito della sua scelta, non appena si rese conto di quanto diventava problematico con due bambini molto piccoli come Nicholas e Claudia. Quando li guardava dormire, durante la notte, nella loro piccola e umida camera d’albergo, a Jane si stringeva il cuore al pensiero di non poter offrire loro niente di più dignitoso.
  Lei avrebbe voluto portarli in un posto migliore, ed invece dovevano accontentarsi di quella baracca ignobile e malsana. Jane ogni tanto si fermava sorpresa a pensare a se stessa e alla sua vita e a quanto essa fosse cambiata in soli due anni. Prima che succedesse tutto questo era una ragazza normalissima come ne esistono tante altre, che sognava un giorno di poter finire il college, di laurearsi in lettere e trovare anche un buon lavoro, mentre ora faticava a trovare qualcosa da mangiare giorno per giorno, figurarsi pensare ad un albergo quasi di lusso.
  Ma ora, più di qualunque cosa, anche più del miglior albergo che non avesse mai visto, più ancora della famiglia più disponibile che esistesse al mondo, Jane Thaisis voleva tornare a casa sua. In quelle cinque settimane vissute per la strada che avevano seguito la nascita di Claudia, ma anche prima, quando lei ancora non c’era, Jane aveva provato più volte ad andare a casa sua, ma senza riuscirci. Complice una serie di fattori, tra i quali anche quello non indifferente dell’essersi molto allontanata dal centro e l’essere quasi uscita addirittura dal distretto urbano di Sidney, si era dimenticata tutto, perfino la via in cui abitava. Non credeva che fosse una cosa molto positiva, ma non poteva farci niente: aveva degli altri pensieri in testa, forse ancora più importanti di quello.
  Lei, solitamente, preferiva pensare alla sicurezza dei suoi figli, invece di fantasticare, perché ormai solo di questo si trattava, sulle comodità di una casa. Ma quella sera, la ragazza, seduta sullo scomodo letto della sua solita stanza numero 13, mentre i suoi bambini dormivano tranquilli, cullati dalla pioggia che picchiava leggera e monotona sulle piccole e sporche finestre, aveva stranamente trovato una vecchia fotografia di sua madre in fondo al suo fedele zaino. Se ne stava lì, come pietrificata e l’ammirava e solo in quel momento si rese perfettamente conto del tremendo vuoto che aveva dentro, con una delle persone più importanti della sua vita così lontana da lei. Non riuscì a fare a meno di chiedersi se sarebbe riuscita a vederla ancora una volta. Uno shock del genere era troppo anche per una ragazza forte come lei. Due grosse lacrime sgorgarono all’improvviso dai suoi occhi verde chiaro e le scesero lentamente lungo le guance.
  Lei non tentò neppure di fermare il pianto irrefrenabile che si sentiva esplodere nel petto, e di lì a pochi secondi singhiozzava disperatamente, sdraiata sul letto, le lacrime calde e salate che le finivano in bocca e nel naso ed inzuppavano il cuscino. In quel momento si sentiva soltanto una bambina sperduta, che aveva ancora bisogno della mamma per andare avanti, nonostante, ormai, avesse a sua volta dei figli da proteggere e da crescere. Per molti minuti non riuscì a calmarsi. Non appena riusciva a smettere di piangere, ecco che sopraggiungeva un pensiero, magari anche sciocco, che la faceva ricominciare immediatamente.
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


7.
 
 
Quella notte dormì molto male, si svegliò dopo poche ore di sonno e decise di lasciare per l’ennesima volta l’albergo, per cercare qualche famiglia bendisposta e caritatevole che la ospitasse. Diede quindi le dimissioni dal suo lavoro di cameriera un’altra volta, consegnò la chiave della sua stanza al padrone e se ne andò. I tentativi che fece nei giorni seguenti furono davvero inutili: nessuno, infatti, era disposto a prendere in casa propria una giovane sconosciuta con in più due figli piccoli a carico.
  Per giorni e giorni, Jane si vide chiudere in faccia decine di porte, da altrettanti padroni di casa più o meno contrariati. Ad esempio una volta, aveva bussato alla porta di una villetta e le aveva aperto un uomo sulla settantina dall’aria molto seccata, come se Jane avesse appena interrotto qualcosa di estremamente importante. La ragazza aveva appena iniziato a dire: «Salve signore… Ehm, mi chiamo Jane Thaisis, sono in fuga e ho due figli, mi chiedevo se…» ma prima che avesse potuto finire la frase, l’uomo con una smorfia antipatica le sbatté la porta in faccia. Jane riuscì stranamente a mantenere il controllo, trattenendosi con molta fatica dal tempestare di pugni la porta. Quindi se ne rimase per qualche secondo sulla soglia, sbattendo lentamente gli occhi e poi se ne andò, tranquillamente, così come era venuta.
  Lei non si arrese e, finalmente, quando Claudia aveva quasi due mesi, riuscì a farsi ospitare di nuovo. Questa famiglia di cognome si chiamava Carter ed era composta da madre, padre e figliolo quindicenne, un ragazzino di nome William, detto Will. Lui era un ragazzo carino di aspetto, anche se non tanto di modi, ma era così giovane che Jane lo mise immediatamente sullo stesso livello di Samuel e Heather, i due bambini dai quali la ragazza era stata ospite prima della nascita di Claudia. Quella sera stessa avrebbe scoperto quanto si era sbagliata. I signori Carter, in ogni caso, si mostrarono molto gentili e lei decise che sarebbe rimasta in quella casa per un bel po’. Sentiva il bisogno di quel po’ di sicurezza e stabilità che le mancavano da circa due mesi e quella casa sembrava fare proprio al caso suo, nonostante non fosse quel che si dice accogliente. A metterla però in allarme su ciò che la aspettava, fu la gentile e disponibile signora Carter, che quando erano nel soggiorno le disse: «Mi sembra scontato dirti che tu sei la benvenuta per tutto il tempo che vuoi qui da noi. Non preoccuparti di recare disturbo, perché noi siamo contenti se c’è la possibilità di spezzare la routine in qualche modo. E poi, i tuoi bambini sono davvero adorabili, anche se sono così piccoli e ci fa davvero molto piacere avervi in casa tutti e tre. C’è... solo un piccolo problema».
  «Che tipo di problema?» chiese con una leggera ansia Jane, che ne aveva abbastanza di problemi, piccoli o grandi che fossero.
  «No, non è niente di preoccupante, in realtà. È solo che mio figlio William a volte può essere un po’… diciamo… prepotente. Non dovrebbe darti alcun fastidio, però almeno io ti ho avvisata». Dopodiché la donna sorrise leggermente in segno di scusa e sparì imbarazzata in un’altra stanza.
  Quel giorno lei rimase molto con i bambini e passò gran parte del tempo chiusa nella stanza che la signora Carter le aveva assegnato per tutta la durata del suo soggiorno, per cercare di evitare lo sguardo di William; non capiva il motivo, ma non le piaceva, la preoccupava. Forse però, in fondo, la sua preoccupazione era causata anche da ciò che la signora Carter le aveva detto di lui.
  Quella sera, verso le undici, Jane era nella sua stanza e si stava preparando ad andare a letto. Si era appena infilata sotto le coperte, quando sentì la porta aprirsi e chiudersi, poi vide William entrare nella stanza. Decise di fare finta di niente, ma avvertiva in ogni caso lo sguardo del ragazzo trapassarle la schiena. Lo sentiva muoversi nella stanza e si accorse che si avvicinò più volte al suo letto e a quello dei due bambini, ma si costrinse a continuare ad ignorarlo, finché non sentì un soffio d’aria fredda sul collo. In quel momento decise di cambiare atteggiamento e bofonchiò, la faccia ancora affondata nel cuscino: «Will ti spiacerebbe molto chiudere la finestra, per piacere? Sto cercando di dormire».
  Lui non rispose, ma siccome lo spiffero c’era ancora, Jane comprese che la finestra non era chiusa, perciò ripeté: «Will chiudi quella dannata finestra, ti ho detto. Sono molto stanca, ho una certa voglia di dormire. Fammi questo favore, sii bravo, dai». Niente, ancora nessuna risposta. E quella fastidiosa aria fredda c’era ancora.
  A questo punto Jane, stufa, decise di intervenire con più determinazione. Perciò si mise seduta e si voltò, pronta ad alzarsi subito se fosse stato necessario, sbottando: «Accidenti, William, ti ho detto che…»
  Le parole le morirono in gola. Il suo sguardo andò dal lettino vuoto accanto al suo, dove avrebbero dovuto stare i suoi bambini, alla grande finestra, che naturalmente era aperta, davanti alla quale c’era William, voltato di spalle, rispetto a lei. Rimase pietrificata dove si trovava, ma soltanto per un piccolissimo secondo. Poi lanciò un urlo, così penetrante e terribile che avrebbe ghiacciato il sangue di chiunque nelle vene; ma William doveva essere più forte, perché voltò semplicemente la testa di circa centottanta gradi e si limitò a lanciarle uno sguardo sprezzante.
  Jane balzò in piedi e gli si avvicinò di corsa, con il cuore che le batteva in gola e con un’espressione assolutamente folle negli occhi smeraldini.
  «William, ma che cosa diavolo stai facendo? Sei diventato matto?!» strillò terrorizzata. «Rimettili dentro, subito! Cosa hai intenzione di fargli? Niente di male, suppongo. Dovrai vedertela con me, in caso contrario».
  Il ragazzo invece di obbedire o almeno rispondere, sporse un po’ più in fuori le braccia. Con le mani teneva saldamente Nicholas e Claudia per il colletto della tutina: stava minacciando di farli cadere fuori, nel cortile interno del condominio.
  «Non ti piacerebbe, non è vero?» le chiese lui con voce tremendamente calma, voltandosi finalmente a guardarla. «Vedere i tuoi due figli che si sfracellano al suolo dopo una bella caduta di almeno tre metri? Anzi forse sono addirittura quattro, non riesco a capire bene, c’è troppo buio».
  Jane impallidì di colpo e si sentì improvvisamente svenire. Dovette fare un grosso sforzo per riuscire a resistere e si aggrappò appena in tempo al davanzale della finestra. Capì subito che quel ragazzino stravagante e scontroso aveva intenzioni serie. Non stava affatto scherzando. Era pericoloso, non era il caso di farlo arrabbiare. «Ma certo che non mi piacerebbe, che domande» disse con voce ragionevole, tentando di inserire un po’ di buonsenso nella loro conversazione. «Si può sapere cosa diamine ti è saltato in mente, William?»
  In quel momento, Claudia scoppiò a piangere. Quando la sentì, Jane perse quel poco di autocontrollo che ancora le era rimasto. Si avventò ruggendo su William e tentò di afferrare i suoi bambini, ma lui si spostò in modo da impedirglielo.
  Il ragazzo, sempre con quel sorrisetto beffardo stampato in viso, le disse: «D’accordo, facciamo un patto. Diciamo che se tu accetti la ragionevole proposta che sto per farti i tuoi mocciosi, non si fanno niente, li rimetto nel loro lettino e non ne parliamo più. In caso contrario…» si concesse una piccola, malvagia pausa,  «in caso contrario, puoi dir loro addio».
  Jane si ritrovò con il cuore che le martellava furiosamente nelle orecchie, era assolutamente terrorizzata. «Accetto, accetto qualunque cosa. Chiedimi pure tutto quello che vuoi, ma non fare del male ai miei bambini!» rispose la ragazza, sempre più disperata. Lei stava implorando quel ragazzino, di questo si rendeva conto e notò la stranezza della situazione anche in un momento come quello.
  «Molto bene, allora» riprese William. «Quello che ora ti proporrò, mia cara Jane, è di fare insieme a me quello che, diciamo, ti ha permesso di avere questi due bei bambini. Per dirla con parole più garbate. Probabilmente ti sembrerà una richiesta strana, ma io vorrei comunque sapere qual è la tua risposta».
  Jane riprese il controllo della situazione, grazie all’assurdità della frase di William. Nonostante fosse molto più alto di lei, William restava un quindicenne sotto tutti gli aspetti. Scoppiò in una stridula risata priva di allegria. In realtà era ovvio che avrebbe accettato, ma la situazione era troppo pazzesca, per lei. «La mia risposta? Vuoi sapere la mia risposta ad una domanda così idiota? No, ovviamente! Ma chi ti credi di essere? Sei solamente un ragazzino. Io ho quasi dieci anni più di te, non so se ti rendi conto di questo piccolo dettaglio».
  William non rispose subito. Diede un’occhiata al cortile in basso, che si vedeva a stento nell’oscurità. Poi la guardò e disse: «Certo che è una bella altezza. Potrebbero farsi molto male. E me ne rendo conto perfettamente. So benissimo che tu sei un’adulta e io solo un ragazzo, ma che importa? Nessuno lo verrebbe a sapere, neanche i miei genitori. Hai tempo fino al tre, per assicurarmi che accetti. Dopodiché, se dici di no… Adieu, mocciosi. Uno... due…» Jane si morse le labbra in preda all’angoscia, poi fissò i suoi figli con gli occhi fuori delle orbite, il tutto in circa mezza frazione di secondo, ed urlò:«D’accordo, accetto. Ma adesso rimettili a dormire, per piacere». Non aveva pensato al fatto che, se avesse detto di no, anche se per finta, lui avrebbe potuto farli cadere per davvero.
  William, con aria estremamente soddisfatta, obbedì. «Come promesso, proposta accettata, mocciosi sani e salvi». E rimise Nicholas e Claudia, ancora in lacrime e terrorizzati, nel loro lettino.
  Jane però non era soddisfatta. Per niente. Anzi, adesso era ancora più preoccupata. Lui non aveva ancora fissato una data e la ragazza, nei giorni successivi, si trovò a sperare con tutto il cuore che se ne fosse dimenticato. Si era trovata costretta ad accettare la proposta di William, ma non ne era affatto contenta. Dal giorno seguente questi pensieri divennero un’ossessione bruciante. Non permise al ragazzino di entrare ancora nella sua camera, dove ormai passava la maggior parte del tempo, a riflettere e maledire il destino per la sua sfortuna. Si rese conto che in quel periodo, passava molto tempo a preoccuparsi del destino, del fatto che la vita fosse già comunque scritta e cose del genere. Quest’idea non le piaceva per niente. Un giorno si ritrovò a pensare “Ancora un po’ e mi metterò a credere anche agli oroscopi”. La sola idea la ripugnava. Il pensiero di non dare peso alle chiacchiere degli astrologi era sempre stato un po’ il suo vanto. Non poteva mandarlo in fumo, così semplicemente.
  Purtroppo per lei, William non si era per niente dimenticato della sua decisione e quando finalmente il ragazzino le comunicò il giorno, Jane la visse come una condanna all’ergastolo. Per alcuni spaventosi attimi, le sembrò di essere tornata nella baracca di Number One, dove era stata costretta a stare in ansia ogni giorno per qualsiasi cosa. In realtà non fu così tremendo, William non era certo come il suo ormai ex-marito, ma lei non riuscì a trovarlo piacevole, neanche per un momento. L’unico lato positivo della situazione, fu che William, a differenza di Number One, si accontentò di una volta sola.
  Anche a Jane quell’unica notte bastò, non certo in senso psicologico, ma per qualcosa di cui lei non aveva per niente voglia. Infatti, com’era prevedibile, a questo punto della storia, dopo dieci giorni la ragazza scoprì di essere incinta per la terza volta in due anni. Quella volta non se ne sorprese più di tanto, le era successo già due volte prima di quello, però cadde nella disperazione più nera. Non poteva proprio avere un terzo figlio quando non si era ancora abituata ai primi due!
  Da una parte si sentiva in dovere di dirlo ai genitori di William, ma dall’altra non ne aveva il coraggio, poiché temeva che avrebbero reagito come quelli di Eric Stevens. Non credeva che avrebbe potuto sopportare di essere cacciata da casa ancora una volta. Sarebbe stato destabilizzante per il suo amor proprio. E poi non le sarebbe sembrato onesto, lei in questo caso si sentiva la vittima, non la colpevole.
  Fortunatamente loro due furono molto comprensivi e senza che lei dicesse nulla, capirono che la colpa era del figlio e sua soltanto. Anzi, si sorpresero molto per il fatto che lei non avesse voluto parlare di ciò che le aveva fatto William. Ovviamente le assicurarono che poteva stare da loro quanto voleva, senza alcun problema e che William l’avrebbe pagata per quanto era successo; la misero in questo modo, ma nonostante tutto lei rispose che preferiva andarsene il prima possibile, anche perché non voleva vivere sotto lo stesso tetto di William, più del necessario.
  I signori Carter si mostrarono d’accordo con lei, ma espressero comunque il loro dispiacere per la sua decisione, così drastica ed anche improvvisa. Anche a Jane dispiaceva molto di essere arrivata a quella conclusione, ma alla fine era l’idea migliore che potesse avere nella sua situazione attuale. I due coniugi le diedero ragione e si mostrarono molto disponibili, ma la pregarono di farsi viva ogniqualvolta avesse avuto bisogno di qualcosa. La ragazza li ringraziò molto per la loro gentilezza e disse: «D’accordo, grazie. Mi farò sentire, se mi renderò conto di aver bisogno di parlare con degli amici».
  William, invece, ebbe la faccia tosta di non sentirsi minimamente mortificato dell’accaduto e per questo, anche, Jane arrivò ad odiarlo. Non aveva mai avuto occasione di odiare qualcuno prima d’ora, per sua fortuna e non era sicura di come si sarebbe sentita. Di certo non si sarebbe aspettata che l’odio portasse a desiderare per l’altro una morte lenta e molto dolorosa.
  Nonostante tutto, non partì subito, rimase in casa loro ancora per una settimana, all'incirca. I momenti nella sua giornata-tipo che apprezzava maggiormente erano quelli in cui William non c’era, perché era a scuola oppure in giro con i suoi amici. Alla fine, un giorno a metà settembre, Jane si preparò a lasciare per sempre quella casa bizzarra e quel ragazzino terribile.
  Inutile dire che dal giorno successivo, Jane riprese la vecchia vita e ricominciò a dormire nel brutto hotel, esattamente come nei due anni precedenti. Questa volta, però, rispetto alle altre andò molto peggio. Era completamente al verde e l’unico lavoro che le riuscì di trovare era come cameriera in un’osteria poco raccomandabile della zona che lei ormai bazzicava da circa tre anni. Nell’albergo c’era già una ragazza nuova che faceva da cameriera, perciò Jane si era ritrovata disoccupata dal suo solito lavoro. Quello che doveva svolgere adesso, invece, era un lavoro rischioso per diversi motivi e veramente mal pagato.
  Un giorno di quelli, per esempio, quando lei si era avvicinata ad uno dei vecchi tavoli nella sala da pranzo per togliere i piatti sporchi, uno degli avventori lì seduti, un uomo di circa trent’anni con la barba e i capelli molto unti e disordinati, tentò di strapparle di dosso la T-shirt per “deliziarsi delle splendide visioni delle sue grazie”. Così disse l’uomo e, se non fosse stato per il padrone del locale, che gliela tolse dalle mani appena in tempo, Jane probabilmente si sarebbe ritrovata con un altro figlio contro ogni sua volontà, se non fosse che era già incinta, oppure non avrebbe più avuto nessuna occasione di vedere i suoi figli. La paura per il suo lavoro non le passò per molto tempo, e inoltre, doveva accontentarsi di uno stipendio realmente da fame per mantenere sé e i suoi due bambini. Il padrone non era uno schiavista cattivo, ma era semplicemente povero in canna pure lui e per poter vivere decentemente, doveva fare molta economia sui salari dei suoi dipendenti, cioè Jane e altri due giovani. C’era però un lato positivo, in tutto questo: dato che a lei nell’osteria era toccato il lavoro più pesante e rischioso, il padrone aveva deciso di offrirle tutti i pasti.
  Ma questo era solo un piccolo miglioramento. Infatti Jane, nonostante tutti i suoi tentativi ed il suo inguaribile ottimismo, non riuscì neanche nella sua attività preferita: trovare qualcuno disposto ad ospitare una ragazza di venticinque anni, incinta di otto mesi e con due figli piccoli. A volte credeva di avere già sfruttato tutte le famiglie esistenti e che fossero ormai una specie in via di estinzione e perciò molto rara da trovare. Bisognava essere davvero molto fortunati per scovarne una.
  Nella sua ricerca era instancabile e, a dire la verità, quasi maniacale. Non si arrendeva mai, nemmeno quando, all’inizio di giugno, si rese conto di essere in una situazione assolutamente disperata, abbandonata in quel modo, per strada, con un figlio ormai sul punto di venire al mondo. Lei era fatta così, del resto. Non faceva parte del suo carattere, gettare la spugna. Si fermava di fronte ad ogni casa che, almeno in apparenza, era abitata e tentava di persuadere gli abitanti in questione ad ospitarla per qualche giorno. Stranamente, quando lei mostrava i suoi figli per tentare di intenerire chiunque le avesse aperto, quelli diventavano ancora più ostili e le chiudevano la porta in faccia, prima ancora che finisse di parlare.
  Nonostante il suo carattere e a causa della poca collaborazione mostrata dalle persone, Jane ormai provava  una profonda avversione nei confronti della maggior parte del genere umano. “Perché in fondo” pensava adirata un giorno, mentre se ne andava rumorosamente da una casa dove era stata appena rifiutata, “io cerco solo un po’ di aiuto per far nascere il mio bambino”.
  Jane aveva anche pensato più volte di andare in ospedale, che in fondo sarebbe stata la cosa più ovvia da fare, ma il più vicino, lì in città, era a circa trenta chilometri, senza contare quelli fuori dalla città vera e propria, che erano anche più lontani. Lei non aveva altri mezzi che le sue gambe, era quasi completamente senza soldi, era incinta di nove mesi ed aveva due bambini di quasi undici mesi e circa due anni da portarsi sempre dietro. Fare anche solo pochi chilometri in quelle condizioni era assolutamente impensabile.
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


8.
 
 
David nacque in mezzo ad un prato, all’aria aperta. Quel giorno, il cinque di giugno, Jane stava passeggiando in un parco piccolo insieme ai suoi bambini, quando improvvisamente si rese conto che il suo terzo figlio sarebbe nato in quel preciso  momento. Fu uno shock terribile, la ragazza sentì che per lo spavento iniziavano a tremarle le ginocchia e dovette sedersi sulla prima panchina che trovò. Fu presa dal panico, per un po’ non seppe cosa fare. Dopo un minuto, però, si diede una manata sulla fronte: “Certo che sono proprio un’idiota” si disse. “Ho con me un cellulare e posso chiamare l’ambulanza per farmi venire a prendere!”. Lo tirò fuori dalla tasca, ma si accorse che purtroppo aveva la batteria totalmente scarica e in più era completamente a secco di soldi. “Ma possibile che non me ne vada mai bene una?” pensò avvilita, fissando con odio l’inutile aggeggio.
  In quel momento, però, la fortuna decise finalmente di guardare dalla sua parte e praticamente dal nulla, fece la sua comparsa una donna che era proprio un’ostetrica dell’ospedale lì vicino, che in quel momento stava finalmente tornando a casa, una volta finito il suo turno di lavoro. Era appena scesa dall’autobus e stava andando a recuperare la sua auto, parcheggiata a qualche metro dalla fermata.
  Quando vide quella ragazza semisdraiata su una panchina e che sembrava sul punto di partorire, mancò poco che cadesse a terra per lo spavento. Nonostante lo shock, però, riuscì a conservare una discreta lucidità. Non perse del tempo prezioso per stare lì a chiedersi perché mai una donna in quelle condizioni non si trovasse nel luogo dal quale era appena venuta via, ma cominciò a riflettere, cercando di rimanere completamente tranquilla e ragionevole. Quella donna aveva bisogno di lei, punto e basta. Non poteva permettersi il lusso di perdere la testa.
  Si rese subito conto del fatto che non avrebbero fatto in tempo ad andare a casa sua, né tantomeno all’ospedale, che era ancora più lontano, quindi si preparò a far nascere quel bambino in mezzo ad un prato. Si disse “Questo è un giorno da segnare sul calendario! Credo proprio che sarà la prima ed ultima volta nella mia intera vita che avrò l’occasione di far nascere un neonato nell’erba”. Cominciò quindi a farsi strada nel parco, tra passanti di tutte le età, diversi ciclisti ed alcuni ragazzini che correvano a velocità folle sugli skateboard e sui pattini a rotelle.
  Nel frattempo intorno a Jane si era assiepata un’ampia folla di gente, qualcuno che voleva aiutare, qualcun altro che faceva domande e altri che volevano solamente ficcare il naso. Jane non se ne rendeva nemmeno conto, stava lì ad occhi chiusi e ad ansimare. Nicholas e Claudia si guardavano intorno, spaventati. Non capivano che cosa fosse successo alla loro mamma, ma volevano solo che lei si riprendesse. Nicholas avvicinò il visetto al ventre di Jane e disse, nel vocabolario ancora incerto, di un bambino due anni: «Ehi, fatellino, dove sei? Vieni fuoli a giocae?» Sua madre sorrise e lo accarezzò sulla testa, pur continuando a tenere gli occhi chiusi.
  Anche la dottoressa sorrise intenerita, quando vide quella scena poi, tornata nel suo elemento, affrettò il passo ed arrivò alla panchina, dove sedette accanto alla ragazza e una volta che si fu sistemata lì, cominciò a tirare fuori dalla sua borsa i ferri del mestiere. Non si accorse subito, ma dopo alcuni secondi, di tutta quella gente riunita intorno a loro due, quando per puro caso alzò per un attimo lo sguardo. Si vide improvvisamente circondata da una moltitudine di persone, che non lasciava alla povera Jane nemmeno un filo d’aria da respirare.
  Ordinò seccata a tutti i curiosi di sparire immediatamente, sbottando che a momenti avrebbe dovuto far partorire una donna, un’operazione estremamente delicata e che aveva bisogno di molta concentrazione. Poi domandò ad una signora che invece era rimasta in zona, chiedendo se poteva dare una mano, di prendere in custodia Nicholas e Claudia, per il momento, e di distrarli in qualche maniera. Non credeva che fosse l’ideale per dei bambini così piccoli, vedere una cosa di quel genere. I due bambini non protestarono per nulla, quando dovettero andar via con quella sconosciuta, anzi ridevano come dei matti ed inoltre Claudia le chiese subito di essere presa in braccio. La donna sorrise ed obbedì. La signora pensò che quei due bambini erano davvero adorabili ed era proprio un peccato che fossero costretti a vivere in quel modo. Tuttavia, se non altro, una mamma ce l’avevano.
  Di nuovo nel prato. «Bene, signorina» disse infine l’ostetrica, rivolta a Jane. «Può stare tranquilla, adesso, ho mandato via tutti. Mi dica, le si sono già rotte le acque?» Jane ansimò rumorosamente e mormorò a fatica: «Sì…sì».
  «Bene, questo semplifica di molto le operazioni. Faremo sicuramente più in fretta». commentò l’ostetrica, con aria pensierosa. «Non si preoccupi, andrà tutto bene. È il terzo figlio per lei, vero signorina?» Jane annuì, con aria sofferente.
  La dottoressa quindi ribatté: «Ah, ecco, allora avevo capito giusto. Be’, se è il terzo dovrebbe già essere abituata, no? Di sicuro è più abituata di me, io ho avuto solo una gravidanza». Continuava a parlare ininterrottamente, facendo del suo meglio per cercare di distrarre Jane dalla difficoltà del momento e la ragazza, che aveva capito ed approvava le sue intenzioni, ascoltava con gratitudine, senza dire nulla.
  «Scusi, signorina, come si chiama? Oh, e posso darle del tu? Parlarle così mi sembra troppo innaturale». Jane rispose: «Mi chiamo Jane Thaisis. Sì, può darmi del tu, anzi deve farlo, stavo giusto per chiederglielo».
  La dottoressa fece per chiedere a Jane, se per caso fosse quella Jane Thaisis, l’ultima vittima di Number One poi, pensando che non fosse il momento adatto, ci ripensò. Perciò annuì, poi disse: «Bene, Jane, prima di tutto sdraiati nell’erba. Bravissima. Ora tu dovrai ascoltare con estrema attenzione tutto quello che ti dirò di fare, d’accordo?» Jane annuì ancora una volta. Non aveva molta voglia di parlare. Era assolutamente sicura che, se avesse detto anche solo una parola più di quelle strettamente necessarie, avrebbe sicuramente vomitato.
  Grazie all’aiuto della dottoressa Brooks, così disse di chiamarsi l’ostetrica, un paio d’ore dopo il bambino era nato. Era un maschio, questa volta e purtroppo assomigliava molto a suo padre, William, che Jane stava cercando con tutte le sue forze, di dimenticare il più in fretta possibile. In quel momento pensò, colpita da un’osservazione, che l’aveva sorpresa soltanto in quel momento “William è diventato padre a quindici anni. Magari sarebbe contento di venirlo a sapere. No, be’, probabilmente non lo sarebbe. Io non lo sarei, se fossi al suo posto. Be’, quel gli è successo gli sta bene. È stato solo un perfetto idiota!”
  Decise di non rimuginare più su di lui e invece si mise ad ammirare il suo bambino e, a questo punto una lacrima solitaria le scese lungo una guancia. «Mi dispiace, David» mormorò. Il nome per il neonato le era venuto naturalmente in quel momento, senza bisogno di stare a pensarci. Sapeva per una specie di istinto che suo figlio si sarebbe dovuto chiamare solo così e in nessun altro modo.
  Circa dieci minuti più tardi arrivarono Nicholas e Claudia, accompagnati dalla donna che li aveva tenuti d’occhio durante quelle due ore. Erano contenti, avevano giocato a lungo, si vedeva bene, erano anche tutti sudati, nonostante l’aria di giugno fosse piuttosto pungente. Jane ringraziò molto la donna, vedendoli così felici e volle pagarla per il disturbo, con quel poco che aveva, ma l’altra rifiutò dicendosi quasi offesa. «Non mi permetterei mai» disse, «di chiederti dei soldi per una cosa che in fondo ho fatto con piacere. Soprattutto sapendo cosa ti è successo». Jane, a queste parole sorrise commossa, poi chiamò i suoi bambini per far loro salutare il fratellino appena arrivato.
  Alcuni minuti dopo, si era ripresa abbastanza e si era alzata in piedi, così la signora Brooks, che aveva ardentemente pregato la ragazza di darle del tu, le annunciò a sorpresa che l’avrebbe invitata a casa sua. Jane, a quelle parole quasi si mise a saltare dalla contentezza: per la prima volta era riuscita a farsi ospitare senza nemmeno doversi umiliare a chiederlo di persona.
  La donna abitava in un grosso condominio in periferia e mentre ci arrivavano, quando erano in automobile, disse a Jane di avere in casa anche un figlio che aveva più o meno la sua età; Jane s’illuminò. Circa mezz’ora più tardi, uscirono dall’ascensore ed entrarono nell’appartamento. La dottoressa esclamò, rivolta al piano di sopra: «Ehi, di casa, non c’è nessuno? Ho portato un’ospite! Anzi, degli ospiti». Da sopra una voce maschile e un po’ seccata, rispose: «Sì, mamma, arrivo». Passarono alcuni minuti, in cui Jane e la dottoressa Brooks non poterono fare nient’altro che stare lì a guardarsi e ad aspettare che comparisse qualcuno.
  Alla fine, quando l’attesa cominciava a diventare piuttosto imbarazzante, arrivò giù dalle scale un ragazzo dai capelli biondi e ricciuti che si avvicinò a Jane e le tese la mano. «Ciao, chiunque-tu-sia, io sono Ronald, ma tutti mi chiamano Ron. Piacere di conoscerti» disse il ragazzo, in tono allegro.
  «Ciao, ragazzo Ronald. Io mi chiamo Jane» si presentò lei con lo stesso tono, riuscendo a mantenere un notevole autocontrollo, molto più di quanto non ne avesse dimostrato di fronte a Eric Stevens. «Piacere mio». Aspettò che la dottoressa sparisse in un’altra stanza, prima di chiedere al giovane, piuttosto aggressivamente: «Non sei uno squilibrato, vero? Non mi violenterai mai, giusto? I tuoi genitori non mi volteranno le spalle, se dovessi restare incinta di te, com’è praticamente sicuro che succederà? E non appenderai i miei tre figli fuori della finestra, come minaccia, non è vero? Sono la cosa più importante che ho».
  Ron sorrise, un sorriso perfetto. «Certo che no! Ma da quale pianeta arrivi? Non penserei mai a niente di tutto questo! Ma come ti vengono certe idee insensate?»
  Lei lo guardò con aria truce e rispose, tagliente: «Non sono “idee insensate” che mi sono fatta io» disse, mimando delle virgolette nell’aria con le dita, «ma tutto quello che ho dovuto subire rispettivamente dal mio sequestratore, dai genitori del padre di mia figlia Claudia, che si chiama Eric Stevens e perfino, anche se so che sembra incredibile, da un piccolo pervertito di quindici anni, William Carter si chiama, del quale sono rimasta incinta per la terza volta!» elencò, contando i vari uomini sulle dita, per dare enfasi al suo discorso, sicuramente deciso e, se proprio vogliamo, anche un po’ delirante, magari.
  Il sorriso di Ron si spense all’improvviso. Il ragazzo sembrava sinceramente dispiaciuto. «Accidenti, scusa, non ne avevo idea… non avrei dovuto dirlo, mi dispiace tanto». Poi sogghignò: «Davvero sei rimasta incinta di un ragazzino? Cioè, ti è successo veramente? E come fai ad essere sicura che resterai incinta di me? Sei appena arrivata, ancora non ci conosciamo».
  «Sì, mi è successo per davvero» ribatté Jane, con aria indispettita. «E non c’è proprio niente da ridere! Quanto a come faccio ad essere sicura che avrò un figlio da te, c’è solo una risposta a questa domanda. È perché ormai mi conosco fin troppo bene, Ronald. È questo il motivo».
A questo punto, bisogna chiarire un dettaglio cruciale per il proseguimento della nostra storia. Nonostante tutto quello che era stata costretta a sopportare a causa loro, a Jane era rimasta una grande passione per gli uomini, e Ronald Brooks le piaceva particolarmente. Questo si rivelò un grosso e difficile problema.
  Quella sera a Jane fu presentato anche il padre di Ron: un tipo simpatico che si chiamava Benjamin e che le disse di chiamarlo Ben; la ragazza, poi, venne anche a sapere che la signora Brooks si chiamava Ellen. Jane poco dopo seppe di essere entrata in una casa di medici: Ellen era un’ostetrica, mentre Ben faceva lo psichiatra. Ron, invece, studiava per diventare dentista.
  Alcuni giorni dopo, quando Jane era già diventata un’abitante fissa di quella casa, praticamente era parte della famiglia, lei e Ron erano insieme nella stanza di lui e stavano chiacchierando animatamente. Ad un certo punto si sentì bussare alla porta e quando Ron ebbe detto: «Avanti», Ellen mise dentro la testa e disse: «Benjamin ed io questa sera dobbiamo uscire, ragazzi. Divertitevi, ma mi raccomando, non fate sciocchezze. Voglio sperare che tu capisca a cosa mi riferisco, Jane, basta una volta, ormai credo che dovresti saperlo. Non credete che non mi sia ancora accorta di quello che c’è fra voi due. Non ho assolutamente niente in contrario, ma voglio solo sperare che tu abbia conquistato un po’ di buonsenso, adesso, con tutto quello che ti è successo. Per favore, non combinate nessun disastro di nessun genere. Con questo intendo anche che voglio trovare la casa in perfetto ordine per quando torniamo».
  Ron la guardò un po’ accigliato e un po’ esasperato. «Mamma, per favore, non siamo più bambini. Ormai siamo capaci di badare a noi stessi». Ellen rispose che non ne era poi così sicura e se ne andò.
  Rimasti soli, i due ragazzi ordinarono una pizza, guardarono un film comico, poi tornarono nella stanza di Ron. Jane, a questo punto, gli disse: «Ron, so perfettamente quello che vuoi fare, ed è ciò che né io, né tua madre vogliamo. Voglio dire, almeno non anche stasera. Abbiamo altri giorni utili. Lei ha ragione, Ron, davvero, stiamo qua, dai piuttosto facciamo una festa scatenata, invitiamo un po’ di tuoi amici e ci ubriachiamo! Tanto i bambini ormai dormono già da un bel pezzo! Non li svegliano più neanche le cannonate. A chi non piace una cosa del genere?»
  «Sì, certo, e chi li sente i miei dopo, se tornano e trovano la casa devastata, con noi che non ci reggiamo più in piedi. Hai sentito mia madre, vuole trovare la casa in ordine per quando tornano. Avanti, che t’importa, stasera ci divertiamo veramente. Non ti piace il rischio?»
  «Il rischio?» esclamò Jane, con voce leggermente tremante. «Non so se te ne rendi conto, Ronald Brooks, ma io, a soli venticinque anni, ho tre figli. Tre, avuti in due anni. A quanto pare sono eccessivamente fertile e tu hai anche il coraggio di venire a chiedermi se non mi piace il rischio?»
  La discussione andò avanti ancora per circa mezz’ora, forse di più e si fece sempre più infuocata, ma alla fine Ron ebbe la meglio e riuscì a convincere una Jane sempre molto riluttante. Jane nei giorni seguenti si ritrovò spesso a pregare di non restare incinta, anche se in teoria non avrebbe dovuto preoccuparsi, perché era passato poco tempo dalla nascita di David; ma probabilmente lassù non ci sentivano, perché lei due settimane più tardi, verso fine giugno, si ritrovò a dover fronteggiare una quarta gravidanza quando il suo figlio più piccolo non aveva che tre settimane.
  Si sarebbe messa a piangere per la rabbia, ma ciò che la agitava di più era il pensiero di non essere normale. Chi aveva mai sentito parlare di due fratelli nati a nove mesi di distanza uno dall’altro? Seppe che David aveva compiuto tre settimane proprio in uno di quei giorni. Grazie ad un quotidiano che aveva portato a casa Ben, scoprì che quel giorno era il 26 giugno 2000.
  Nonostante avesse preso la decisione di mostrare nervi d’acciaio a tutti, non poté fare a meno di infuriarsi con Ron. Ci fu una grande litigata tra i due giovani che lasciò tutti scossi e che riecheggiò ancora per molti giorni dopo tra le pareti di casa, dovuta soprattutto al forte stress che Jane aveva accumulato in tutti quegli anni. La scena era più o meno questa: Jane e Ron che si urlavano addosso furibondi e rossi in volto, divisi soltanto dal tavolo del soggiorno. La ragazza accusò Ron di averla convinta a fare una cosa che lei preferiva evitare, almeno quella sera, quindi era tutta colpa sua se lei era rimasta incinta. Però il ragazzo ribadì che lei, in fondo, s’era lasciata convincere con una certa facilità.
  Andò a finire che i due non si parlarono per diversi giorni. Entrambi sentivano terribilmente la mancanza dell’altro, ma erano troppo testardi ed orgogliosi per riuscire ad ammetterlo. Ellen continuava a ripetere che erano entrambi dei bambini a tenersi il broncio a quel modo, invece di comportarsi da adulti e chiarirsi.
  Dopo una decina di giorni, Jane riuscì infine ad accettare la nuova gravidanza, la cui improvvisa ed inattesa comparsa era infatti la causa principale di tutto ciò che era successo, e decise perciò di fare pace con Ron. Il ragazzo, a differenza di William Carter, riconobbe con onestà comunque la sua parte di colpa in tutto l’accaduto e Jane gliene fu veramente grata.
 
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


9.
 
 
Rimase da loro per tutto il periodo, che per lei fu uno dei più felici di tutta la sua vita. Ad un certo punto, all’inizio della seconda metà di luglio, ci furono anche il secondo compleanno di Nicholas ed il primo di Claudia. Fecero una festa unica per entrambi i bambini, che fu davvero molto divertente. Per la prima volta dopo molto tempo, Jane si sentiva veramente al sicuro. Ron la accompagnava dappertutto con la sua automobile, anche quando doveva andare in ospedale per le varie visite di controllo. Un giorno di quelli, mentre erano in macchina sulla via di casa, Jane gli disse: «Sai, Ron, devi ritenerti fortunato, rispetto ai padri degli altri miei tre figli».
  «Ah, sì?» le chiese lui, senza togliere gli occhi, mascherati dagli scuri occhiali da sole, di dosso dalla strada. «E perché mai?»
  «Perché tu sarai l’unico a veder nascere tuo figlio e a poterlo conoscere. Gli altri non hanno potuto, Number One perché gliel’ho impedito io, è una storia molto lunga e complicata, e gli altri due neanche perché me ne sono andata da casa loro, non appena ho scoperto di essere in attesa».
  «Wow», commentò Ron, con aria pensierosa. «Allora è un grande onore, davvero». Anche quel giorno, come succedeva sempre, quando arrivarono a casa, Ellen aveva chiesto a Jane se aveva saputo se il bambino era maschio o femmina. Jane aveva risposto, come tutte le volte, di no, perché riteneva di non averne bisogno. Infatti, sospettava già che fosse una bambina.
  Dai Brooks, Jane si sentiva bene, era tranquilla e per la prima volta aveva trovato una famiglia veramente normale, senza genitori ipocriti o quindicenni pazzi. Quando Jane aveva annunciato loro di essere rimasta incinta di Ron, Ellen aveva semplicemente scosso la testa e con un sorriso ironico, aveva detto: «Cosa vi avevo detto, ragazzi? Non avete voluto darmi ascolto, tanto peggio per voi. Non importa, Jane, non ti preoccupare affatto. Ovviamente sei la benvenuta per tutto il tempo che vuoi e se t’interessa un consiglio spassionato da parte di qualcuno che se ne intende, rimani qui almeno fino a dopo che è nato il bambino. Sarebbe meglio sia per te che per lui, sareste molto più riposati. Poi, se senti di preferire così, puoi decidere di rimanere anche per più tempo».
  Insomma, la trattavano giustamente e un giorno Ben Brooks la aiutò anche a ricordarsi il nome della via dove abitavano i suoi genitori, partendo dal nome di suo padre, Anthony Thaisis. Fece una lunga ricerca su Internet, ma alla fine lo trovò e diede a Jane un biglietto con scritto sopra l’indirizzo. La ragazza si vergognò di se stessa per essersene dimenticata, ma Ben le disse: «Non fartene una colpa. Ne hai passate davvero tante in tutti questi anni. Hai avuto troppi traumi in poco tempo, è abbastanza comprensibile. Avevi ben altro per la testa, immagino. Puoi fidarti di ciò che ti dico, ho avuto diversi pazienti che avevano dei casi molto simili al tuo».
  Per Jane fu come rinascere un’altra volta, come cominciare una vita del tutto nuova, una vita che era finita con il rapimento. Sentiva che poteva aver trovato sicuramente una nuova famiglia, ma non avrebbe mai, neanche osato pensare di abbandonare la sua. Passarono diversi mesi, in cui la vita di Jane e dei suoi figli si stabilizzò sempre di più. Jane scoprì anche che Ron compiva ventisei anni in ottobre, così decise di organizzargli una festa a sorpresa, invitando alcuni amici del ragazzo e che ora conosceva bene anche lei. Non avrebbe più voluto andarsene, ma d’altra parte era perfettamente consapevole di non poter restare lì in eterno.
  Una sera di novembre disse ad Ellen: «So quello che mi avete detto, a proposito di restare qui. In questo momento io mi trovo in una posizione molto difficile, perché naturalmente rimarrei qui più che volentieri anche per una decina d’anni, ma allo stesso tempo ho paura di disturbare e di crearvi qualche fastidio, perché dopotutto io ho invaso casa vostra con i miei tre figli, che tra poco saranno quattro».
  «Non pensarci neanche per un momento, Jane» rispose Ellen, in tono deciso. «Tu non disturbi per niente. Veramente, sei la benvenuta qui per tutto il tempo che desideri, non angosciarti senza motivo. Non hai assolutamente invaso casa nostra. Noi adoriamo i tuoi figli e adoriamo anche te».
  Ma nonostante tutto, Jane sapeva che entro qualche mese se ne sarebbe andata.
  La Vigilia di Natale, verso le dieci di mattina, i tre Brooks più Jane erano in cucina a fare colazione tutti insieme. Ad un certo punto si sentì suonare il campanello ed Ellen andò ad aprire. Dopo un istante di silenzio la donna strillò: «Wendy! Tesoro, non ci posso credere, che bello vederti! Ma che cosa ci fai qui?»
  Ellen rientrò in cucina,seguita da una ragazza dai capelli biondi e ricci, che assomigliava molto ad Ellen. La donna esclamò, rivolta al marito e al figlio: «Guardate chi è venuta a trovarci!» Ron si alzò immediatamente da tavola e corse ad abbracciare la ragazza. Il ragazzo esclamò:«Wendy, oh mio Dio, quanto sono felice di vederti! Mi sei mancata tantissimo». Jane per un terribile istante, credette che quella fosse la ragazza di Ron e si sentì incredibilmente fuori posto. Insomma, lei era un’estranea che oltre tutto aspettava un figlio da lui. Ma no, così non funzionava. La ragazza assomigliava ad Ellen e la donna non l’aveva accolta come la fidanzata del figlio, ma… come una figlia.
  Ben notò la sua reazione e la rassicurò: «Jane, non preoccuparti. Quella ragazza è nostra figlia, sorella gemella di Ron. Non è la sua fidanzata, se era questo a preoccuparti». Jane rispose, cercando di suonare disinvolta: «Ma io non ho mai pensato che quella fosse la sua fidanzata». Ben la fissò con le sopracciglia inarcate e lei ammise: «D’accordo, si hai ragione, l’ho pensato. Ma poi ho anche pensato che potesse essere una figlia. E perché non l’ho mai vista prima d’ora?»
  «Vedi» rispose Ben, «lei studia in un’università ad Adelaide, quindi non viene molto spesso a casa. Sono contento, però, che abbia deciso di festeggiare il Natale con noi». A quel punto Ron ed Ellen si sedettero di nuovo a tavola e la ragazza li imitò. In quel momento si accorse di Jane ed incuriosita le chiese: «E tu chi sei?»
  «Oh, hai ragione!» esclamò Ellen, come ricordandosi solo in quel momento che anche Jane era lì. «Gwendolyn, questa è Jane, una ragazza che stiamo ospitando. Vive con noi da qualche tempo. Jane, lei è mia figlia Gwendolyn».
  Terminata la colazione, Gwendolyn andò nella sua stanza, che Jane aveva sempre visto vuota e chiese a Jane di seguirla. Si chiusero in camera e la ragazza chiese subito a Jane: «Ti prego, fammi un favore, okay? Non chiamarmi mai Gwendolyn, finché sono qui. Odio quel nome con tutta me stessa. E nemmeno Wendy. Quello è il soprannome che mi danno solo i miei. Chiamami Gwen».
  «D’accordo» rispose Jane. Poi la ragazza volle spiegare a Gwen la sua situazione. Così aggiunse: «Senti, volevo spiegarti un paio di cose. Come vedi sono incinta, è difficile non notarlo. Sono incinta di tuo fratello, ma non si può dire che stiamo insieme. È stato un incidente e così i tuoi hanno deciso di ospitarmi finché non nascerà la bambina. Per spiegarti il casino in cui sono dentro ti dirò che ho altri tre figli. Il più grande ha due anni e mezzo, la seconda uno e mezzo e il terzo quasi sette mesi». Gwen la fissò per un po’, poi commentò: «Wow. Accidenti. Ma aspetta, tu sei quella ragazza che nel ’97…»
  «è stata rapita? Sì sono io. Il mio primo figlio l’ho avuto dal mio rapitore e gli altri due da altri due uomini. È una storia complicata, lo so». Jane era contenta che fosse arrivata Gwen. Era da molto tempo, da quando era stata rapita, che non aveva contatti con ragazze della sua età. Le era mancato avere un’amica.
   Quell’anno Jane si godette davvero il Natale, per la prima volta dopo molto tempo. Finalmente non lo trascorse nella sudicia sala da pranzo dell’albergo dove aveva dovuto passare troppe notti negli ultimi anni, a mangiare porridge andato a male e tacchino bruciacchiato e poteva anche permettersi di vedere la casa addobbata.
  Anche nel periodo in cui aveva vissuto da Number One, non aveva potuto festeggiare adeguatamente il Natale. Nel vocabolario del suo ex-marito, quella parola non esisteva o, almeno, non come la intendeva la gente comune. Per lui Natale significava, generalmente, andare a procurarsi dei regali, senza però chiedere il permesso ai proprietari. Invece, quel 25 dicembre, lei e i due gemelli andarono in spiaggia, mentre i signori Brooks decisero che sarebbero rimasti in casa a tenere d’occhio i suoi bambini.
  Si divertirono veramente molto quel giorno; si erano portati da mangiare in quantità industriale e per tutto il pomeriggio, giocarono a beach-volley e a calcio sulla spiaggia e nuotarono a lungo nell’oceano, in particolare Ron.
  Jane guardò Gwen. «Sai» le disse, mentre erano entrambe sdraiate ad abbronzarsi, «era da un sacco di tempo che non mi sentivo così».
  «Così, come?» le chiese mormorando l’amica, girandosi pigramente a guardarla con l’occhio sinistro mezzo aperto.
  «Libera» le rispose Jane, posandosi una mano sul ventre. «Libera da tutte le preoccupazioni e tutti i problemi, come una qualsiasi ragazza della mia età». Nonostante tutto, però, si rese conto di non essere più una normale ragazza di venticinque anni, dopotutto ormai era una mamma, e fu ben felice di tornare a casa, più tardi, e riabbracciare i suoi tre rampolli.
  Per la festa, quella sera, invitarono diversi parenti, alcuni dei quali ormai anche Jane conosceva, anche se solo di vista. Lei, quando li vide tutti lì riuniti intorno al tavolo, cominciò a sentirsi davvero a disagio, in fondo restava ancora un’estranea, ma gli altri le impedirono categoricamente di separarsi da loro e, per convincerla a restare, le mostrarono anche dei regali per lei ed i bambini. Allora la ragazza, per non essere da meno, annunciò di avere anche lei dei regali per i gemelli ed i genitori, oltre che per i suoi figli. Fu in ogni caso una festa piacevole e Jane non ebbe molte altre occasioni per sentirsi in imbarazzo.
  Gwen ripartì alcuni giorni dopo Capodanno, dicendo a Jane, al momento dei saluti: «Spero con tutto il cuore di rivederti ancora qui al mio ritorno, verso Pasqua». L’altra l’abbracciò e le rispose: «Vedremo, Gwen. Vedremo. Tutto è possibile».
  Un paio di mesi dopo, verso la metà di marzo, venne al mondo Karen. Il nome lo scelse insieme a Ron. Non fu del tutto sorpresa quando seppe che era una bambina. Come disse anche ai medici, aveva come l’impressione che, se per caso avesse avuto altri figli, cosa di cui dubitava seriamente, si sarebbero sempre alternati, prima un maschio e poi una femmina. Quando tornò dall’ospedale, un paio di giorni più tardi, le sembrò ragionevole andarsene, in fondo era rimasta in quella casa per più di nove mesi, ma aveva fatto i suoi conti senza la padrona di casa.
  Ellen, infatti, le disse: «Che t’importa a questo punto, Jane? Rimani qui fino al compleanno di David. Ormai tre mesi in più cosa cambiano? Giorno più giorno meno. Arrotonda e completa un anno, ci scommetto che tu non aspettavi altro da circa tre anni» E Jane, suo malgrado, ma senza rimpianti, accettò.
 
Passarono i giorni e le settimane e la ragazza non sapeva perché, ma si sentiva sempre più a disagio, nel rimanere là così a lungo e, allo stesso tempo, non se la sentiva di andarsene ed affrontare di nuovo la strada. Quei tre mesi li trascorse combattuta tra queste due sensazioni. Per Pasqua, aspettavano anche la visita di Gwen, che però disse di non poter venire. Jane ne fu molto delusa, ma ripromise a se stessa che, prima di partire, avrebbe fatto di tutto per rivedere ancora l’amica.
  Jane non sapeva proprio cosa fare. Doveva ammettere di essere stata molto felice lì, per la prima volta dopo tre anni, aveva avuto un tetto sopra la testa per tutto un anno: non aveva dovuto sopportare il caldo torrido di gennaio, o il clima rigido di luglio e agosto. D’altra parte, in quei mesi, le pareva di aver rubato tempo e denaro alla famiglia Brooks, e questo fatto non le piaceva per niente.
  Jane compiva gli anni nel mese di maggio, quindi Ron pensò bene di ricambiare il favore della festa a sorpresa, per il suo compleanno. Jane non era quel tipo di persona che si commuove facilmente, ma quel giorno le fu veramente difficile non mettersi a piangere per la gioia e l’emozione.
  L’arrivo di giugno, infine, la trovò divisa tra il sollievo e la preoccupazione. Organizzò una festa di compleanno per David e, ricordandosi che non vedeva Gwen da gennaio, nonostante fosse dovuta tornare per Pasqua, ebbe la splendida idea di invitare anche lei, mantenendo così fede alla promessa che si era fatta.
Le due amiche furono molto felici di rivedersi e Jane trovò sempre più difficile l’idea di andarsene. Ma ormai l’aveva deciso e così, circa una settimana più tardi, partì. Si separò in lacrime da tutta la famiglia, era molto triste di lasciarli, ma quando voltò le spalle alla casa, si rese conto di quello che stava succedendo: stava per tornare a casa, entro poche settimane avrebbe rivisto i suoi genitori e suo fratello, dopo quattro anni da quando era stata rapita. A questo pensiero, inaspettatamente sorrise e s’incamminò, tenendo d’occhio di tanto in tanto la mappa di Sidney che le aveva consegnato Ben Brooks. “Sto per tornare a casa”, pensò. “Non riesco ancora a crederci, torno a casa mia”.
  Dopo questo episodio, per un altro mese completo, riprese la stessa vita di alcuni anni prima, solo che ora era ancora più difficile perché aveva quattro bambini al seguito, mentre prima non ne aveva mai avuti più di due.
  Dopo alcune ore che camminava, Jane si trovò davanti ad un edificio, per lei, terribilmente familiare: era l’albergo nel quale, per così tante notti si era trovata costretta a rinchiudere se stessa e i suoi piccoli. Ormai stava per calare la sera, perciò Jane decise che avrebbe affittato una stanza lì, per l’ultima volta in vita sua. Quando la vide entrare, il padrone, dietro il banco della reception, le disse, sorridendo: «Ah, salve, signorina Thaisis! È passato un bel po’ di tempo, dall’ultima volta che l’abbiamo vista da queste parti! La tribù si è allargata, vedo».
  Lei gli aveva risposto, una punta di gelo nella voce: «È vero, sono stata lontana tanto tempo da qui. Mi sono successe un sacco di cose in questo periodo, molte più di quante lei possa immaginare». Detto questo aveva afferrato la chiave, gli aveva voltato le spalle ed era sparita di sopra. La ragazza non era per niente fiera della propria reazione, ma in sua difesa, c’è da dire che quell’uomo non le era mai stato particolarmente simpatico. Trovava che avesse un non so che di viscido e finto.
  La stanza, dopo di quella che aveva avuto a casa Brooks, le parve estremamente umida e scura e il letto piccolo e scomodo. I bambini dormirono, David insieme a lei nell’unico letto della stanza, mentre Nicholas e Claudia si sistemarono in un altro lettino provvisorio e, per quanto riguarda Karen, lei rimase nella sua carrozzina. Jane pensò che la sua piccolina, in fondo, era la più comoda di tutti. Dormì pochissimo e molto male, e il mattino dopo, lasciate le chiavi alla reception se ne andò in tutta fretta, decisa a mettere quanta più distanza possibile tra lei e l’albergo.
  In quel momento camminava e pensava al fatto che era vero, quello che le aveva detto il padrone dell’hotel, era stata in giro tre anni, che in ogni caso non sono pochi, ma per tutto quel che le era successo, sembrava che ne fossero passati almeno dieci. Era immersa nei propri pensieri e quando Nicholas, che trotterellava qualche passo avanti a lei, la chiamò, sembrò risvegliarsi.
  «Mamma?» disse il bambino, con la sua vocina.
  «Mmmm?» rispose lei, con aria distratta.
  «Dove andiamo?» le chiese ancora lui.
  «Non ne ho idea, tesoro. In teoria nella casa dove abitavo prima, ma non so se ne sarò in grado». A quelle parole, sentì la manina di Claudia muoversi nella sua e lei gliela strinse più forte. Karen dormiva in una carrozzina, che le avevano regalato Ellen e Ben Brooks per Natale e Nicholas vi camminava accanto. David un po’ camminava e un po’ stava in piedi sul carrellino posto dietro di essa e Claudia, infine, camminava dandole la mano.
 
Durante quelle settimane, dormirono in posti ogni volta diversi perché ormai Jane aveva deciso di farla finita con il vecchio albergo e poi, con suo gran sollievo evidentemente, erano abbastanza lontani da lì. Comunque non è che i nuovi alberghi in cui andavano a dormire, brillassero per pulizia e servizi. Anzi, erano tutti piuttosto squallidi, anche se non allo stesso livello dell’altro, dove Jane aveva dovuto abituarsi a dormire per forza. Anche la cucina non era delle migliori, ma in fondo Jane pensava che quello fosse l’ultimo dei suoi problemi.
  I soldi scarseggiavano sempre e Jane era costretta ad economizzare su tutto. Anche per prendere dei vestiti nuovi, ricorreva al già citato metodo dei cassoni alla discarica. C’è da dire, però, che la ragazza prendeva lì gli abiti, anche perché la scelta era pressoché infinita, quanto a modelli e taglie. Inoltre lo stato dei vestiti era generalmente molto buono e neanche poi così di rado erano addirittura in condizioni eccellenti. Nella lavanderia dell’albergo li metteva in lavatrice, poi li stirava velocemente, così erano subito pronti da indossare. Oltretutto, Jane in questo modo educava i suoi figli al risparmio ed anche ad accontentarsi di ciò che avevano. Non si può dire che i suoi bambini fossero viziati, questo di sicuro. Anche perché riuscire a viziare allo stesso modo quattro bambini, sarebbe stata un’impresa da record.
 
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


10.
 
 
Una sera, all’inizio di luglio, mentre andavano verso la stazione, Jane e i suoi figli si ritrovarono davanti all’improvviso, la casa di Eric Stevens. Le tende al primo piano erano tirate e le luci accese. Jane indovinò che quello fosse il soggiorno, e ad un certo punto le parve di vedere muoversi all’interno la sagoma scura della signora Stevens.
  La ragazza voltò con decisione le spalle alla villetta e proseguì, camminando appena più veloce di prima. Nicholas scorrazzava lì vicino, con lo sguardo preoccupato di sua madre costantemente sulla nuca, mentre Claudia stava attaccata alla carrozzina di Karen, che in quel momento non stava dormendo, ma guardava il cielo, che diventava sempre più scuro, con i suoi grandi occhi luminosi. David era al suo solito posto, dietro, sul carrellino.
  La vista di casa Stevens, diede però a Jane un forte senso di sollievo, perché sapeva di essere ormai molto vicina alla stazione e, infatti, poco dopo, ci si ritrovò. Quel posto era il suo unico punto di riferimento per ritrovare finalmente la via del ritorno. Avrebbe voluto mettersi a piangere per la felicità per aver raggiunto almeno quel traguardo, ma miracolosamente riuscì a trattenersi. Si chiese più volte anche lei come fosse riuscita a resistere, nonostante non si può dire che piangesse spesso.
  Erano quasi le dieci di sera e Jane, nonostante non vedesse l’ora di tornare a casa, pensò che ci voleva troppo ad andarci a piedi, del resto in auto ci avrebbe impiegato più di un’ora e poi i bambini erano stanchi morti, perciò decise di trovare un albergo o qualcosa di simile dove passare la notte. Si guardò intorno, poi si avvicinò decisa ad un ragazzo che stava seduto su di una panchina a fumare una sigaretta. Si schiarì la voce e lui alzò gli occhi, con aria interrogativa.
  «Ehm… scusa» esordì.
  «Sì, dimmi pure» le rispose il ragazzo. Jane lo fissò. «Ecco, mi chiedevo se tu sapresti dirmi dove posso trovare un albergo poco costoso, qua».
  Il ragazzo annuì, si alzò e, con voce leggermente rauca, le spiegò in fretta la strada, poi si risedette di schianto.
  «Grazie mille» rispose Jane. Lui le fece un cenno con la testa e lei se ne andò, trascinandosi dietro i bambini. L’albergo non era neanche tanto male, non era certo l’Hotel Plaza, ma almeno era molto più dignitoso degli altri, che al confronto sembravano piuttosto gabbie per uccelli. Rendendosi conto che i soldi che aveva con séprecedenteccolo per mangiare come gli altri duen paio di omogeneizzati. le sarebbero stati sufficienti soltanto per una camera singola, chiese alla padrona se poteva prestare qualche lavoretto, magari anche solo in cucina, tanto per guadagnarsi il necessario per mangiare qualcosa il giorno dopo. La donna acconsentì con una certa soddisfazione e la mise a lavare i piatti della cena precedente.
  Il mattino seguente si svegliò, per la prima volta dopo settimane, dopo un sonno ristoratore. Ringraziata sentitamente la padrona dell’albergo, si misero di nuovo in cammino, Jane con il cuore che scoppiava dalla gioia. Alla prima tabaccheria che trovò, comprò un biglietto dell’autobus, che li avrebbe portati vicino a casa sua. Fortunatamente per lei i bambini erano ancora abbastanza piccoli, così lei poteva approfittare dell’offerta di farli salire gratis sull’autobus.
  Era quasi ora di pranzo quando scesero dall’autobus, quindi Jane andò in un bar e comprò un paio di hamburger per il pranzo suo e dei due bambini più grandi, poi diede da mangiare anche a Karen. L’unica che in quel periodo non aveva mai problemi per il cibo era proprio lei, dato che ai suoi pasti ci pensava sua madre da sola. Poi Jane pensò anche al pranzo di David, che era ancora troppo piccolo per mangiare come gli altri due, così andò in un supermercato lì vicino per acquistare un paio di omogeneizzati. Si sentiva un po’ in colpa per tutto il cibo spazzatura che mangiavano in quei giorni, ma Jane stessa ammetteva che era molto più comodo mangiare così. Hamburger e patatine si potevano comprare e portare in giro.
 Terminato il pranzo disse, ai tre più in grado di capirla: «Bambini, ora stiamo andando alla mia vecchia casa, siamo quasi arrivati ormai. Conoscerete i vostri nonni, i miei genitori. E forse anche vostro zio, mio fratello Michael».  Loro la guardavano, tutti incuriositi, tranne Karen che si era addormentata placidamente nella sua carrozzina, come se per loro tre sembrasse impossibile l’idea di qualcun altro in famiglia, oltre alla mamma. Ma ormai cominciava ad essere piuttosto tardi, Jane lo disse, dovevano muoversi o non sarebbero mai arrivati a casa.
  In quella, ripresero a camminare, fino ad un’altra tabaccheria. Mentre andavano verso la fermata dell’autobus, per Jane ci furono alcuni secondi di puro panico. Ad un certo punto, Claudia si staccò da Jane e si mise a camminare da sola sul marciapiede.
  «Claudia, vieni qui» la chiamò Jane, con voce ferma. La bimba non l’ascoltò e scese sulla strada. In quel momento un’auto spuntò dalla curva.
  «Claudia! Oh, mio Dio! Claudia! Qualcuno salvi mia figlia!» gridò Jane, pallida come uno straccio ed assolutamente terrorizzata. Scattò in avanti come un automa, ma era ostacolata dagli altri bambini e dalla carrozzina di Karen. Rimase lì, impotente, a guardare l’inevitabile ed imminente fine della sua secondogenita.
  In quel preciso momento, però, un uomo si lanciò dal marciapiede ed abbrancò Claudia all’altezza della vita, quasi nello stesso momento in cui l’auto passava sfrecciando. Alcuni passanti, lì sul marciapiede, applaudirono a quel salvataggio eroico. Dopodiché l’uomo, ancora ansante, depose la bambina, terrorizzata e in lacrime, davanti a Jane che gli disse, con la voce rotta dal sollievo:«Grazie, grazie, le sarò eternamente grata. Vede ne ho altri tre, non potevo mollarli così, sono troppo piccoli. Per fortuna che c’era lei».
  Nonostante la consolazione nel vederla sana e salva, Jane non poté fare a meno di arrabbiarsi con sua figlia. Le aveva disobbedito e si era messa in pericolo. La ragazza sperava solo che, con lo spavento che sua figlia si era presa, anche gli altri tre bambini avessero imparato la lezione.
 Alla fine arrivarono nel suo quartiere nel tardo pomeriggio, dopo un altro movimentato, ma divertentissimo viaggio in autobus. Indubbiamente Jane ad andare in autobus con i suoi figli, si divertiva sempre tantissimo, erano assolutamente adorabili! In momenti come quello, la ragazza pensava che la ricompensa per l’avere avuto quattro figli in quelle situazioni, era enorme. Niente poteva ripagare l’immensa gioia che quei quattro esserini le davano ogni santo giorno.
  Per acquistare quell’unico biglietto che le era servito sull’autobus (i bambini, naturalmente, non pagavano), aveva usato gli ultimissimi soldi che le erano rimasti. In quel momento era completamente a secco. Però, nel momento in cui arrivò, seppe immediatamente che quello era il suo quartiere. Riconosceva tutto, le case, le strade, perfino gli alberi! Vide una sua vecchia vicina, le corse incontro e l’abbracciò, al settimo cielo nel vedere chiunque le ricordasse la sua vita passata, quella prima del rapimento. La donna la spinse via, con aria assolutamente esterrefatta. «Scusa, ti conosco per caso?» le chiese, con la voce fredda e tagliente come un rasoio.
  «Secondo me sì, signora» le rispose Jane, un po’ sorpresa ed anche ferita dall’accoglienza men che tiepida. «Abita due case dopo la mia, al 20, o mi sbaglio?»
  L’altra era sempre più perplessa, ogni istante che passava. «No, non sbagli per niente. Ma non capisco come tu faccia a saperlo. Abito qui da sempre e non credo di averti mai visto da queste parti».
  «Ma come?» Jane era delusa. «Sono stata via solo quattro anni e tutti si sono già dimenticati di me? Signora, sono Jane, Jane Thaisis. Sono quella che è stata rapita, per l’appunto, quattro anni fa!»
  Gli occhi della donna s’illuminarono. «Allora sei proprio tu? A guardarti meglio, mi sembrava… Sei cambiata tantissimo, sei diventata una donna! Non so se ti avrei mai riconosciuta, se non me l’avessi detto. Ormai ti davamo tutti per spacciata, come sarà felice tua madre, non ha più avuto pace da quella sera, poverina. Era fuori di sé per la disperazione. Jane, menomale che sei tornata. Non hai idea di quanto abbiamo sentito la tua mancanza qui, in tutti questi anni. Sono proprio felice di vederti».
  «Grazie, signora. È molto gentile, quello che mi ha detto, davvero. Adesso vado a casa, non vedo l’ora. È tanto che non vedo i miei genitori, voglio anche che conoscano i miei quattro figlioletti».
  La donna guardò i quattro bambini e fece un sorrisetto ironico. «Non sei proprio stata con le mani in mano, per tutto questo tempo, vedo».
  «Incidenti, signora, purtroppo» le bisbigliò Jane in un orecchio, afflitta.
  «Come? Incidenti? Tutti e quattro?! Oh, come mi dispiace!» esclamò la donna.
  Jane, a quel punto rispose, con una scrollata di spalle: «Cosa vuole, sono cose che capitano». Detto questo, la ragazza salutò la sua vicina e se ne andò.
  Si diresse senza esitare verso il numero 22, come se negli ultimi anni non avesse aspettato altro. Alzando lo sguardo, per la prima volta in vita sua, fece caso al numero civico di casa sua. “È uguale alla età che avevo quando sono stata rapita. Forse era una premonizione… Mah, non so, forse sto diventando troppo fatalista”.
  Mentre si avvicinava al cancello, si trovò la strada sbarrata da un giovane alto. Aveva i capelli scuri e corti e, nonostante la barba folta e ben curata, Jane lo riconobbe all’istante. «Jimmy?!» lo chiamò con voce esterrefatta, come se non riuscisse a credere ai propri occhi.
  Lui si voltò ed esclamò sorpreso: «Janet! Non ci posso credere, sei proprio tu? È una vita che non ci vediamo!» Si abbracciarono felici di rincontrarsi, amici per la pelle come lo erano stati da ragazzini. James, perché questo era il suo vero nome, spiegò a Jane di essere stato negli Stati Uniti durante gli ultimi otto anni, per motivi di studio e di essere tornato giusto cinque mesi prima. Mentre chiacchieravano dei vecchi tempi, James chiese a Jane: «Che cosa ti è successo in tutti questi anni? È molto che non ho tue notizie. Sono curioso, dai racconta».
  E Jane raccontò. Cominciò con un breve resoconto dei pochi anni prima del rapimento, poi, dopo una breve pausa, disse: «Jimmy, ti ricordi della Casa Nera? Quel posto vicino alla stazione dove andavamo sempre da piccoli?»
  «Certo, che me la ricordo. Come potrei dimenticarmela? Un momento, ma perché me lo stai chiedendo?» Jane riprese quindi a raccontare di come si fosse ritrovata all’improvviso in quella catapecchia, quattro anni prima, e tutta la storia che noi conosciamo già alla perfezione. Quando ebbe finito si rese conto che James la stava fissando con gli occhi sbarrati dalla sorpresa.
  «Che c’è, James Cox? Sembra che tu abbia visto un fantasma» gli chiese la ragazza, ridacchiando. James non smise di fissarla. «Io lo sapevo! Sapevo che eri sparita! Avevo sentito più di una volta, quando ero ancora in California, la notizia di una ragazza, che era stata rapita in Australia, ma non avevo mai capito il nome! Non avrei mai potuto credere che… è incredibile Janet!»
  «Be’, eccomi qui, in carne ed ossa» sorrise Jane, accennando un inchino. «Adesso devo andare, però. Vado a casa, dai miei genitori, è tanto che non li vedo, voglio vedere se stanno bene, cose di questo genere. Ciao, Jimmy, ci sentiremo ancora, è stato molto bello rivederti».
  Si separarono e Jane, avvicinatasi al cancello, lo poté finalmente varcare, dopo anni in cui aveva atteso solo quel fatidico momento. Percorrere il vialetto lastricato era sempre stata una cosa normale per lei, faceva parte della sua quotidianità, ma ora le dava una sensazione strana. Quando fu davanti alla porta d’ingresso, si rese conto di essere molto preoccupata. E se per caso i suoi non abitavano più in quella casa? Se all’improvviso scopriva che suo padre si era completamente dimenticato di lei?
  “Be’, c’è da dire che non è mai stato poi così presente, nella mia vita” pensò con molto buonsenso. Respirò a fondo, strinse una mano sulla carrozzina di Karen, suonò il campanello ed aspettò, con evidente impazienza. Dopo alcuni istanti, sentì qualcuno armeggiare con una chiave, nella serratura e la porta si aprì.
  Davanti a lei, leggermente invecchiata, ma sempre con la solita espressione, c’era sua madre, che in quella notte maledetta era stata tanto fortunata da riuscire a salvarsi e tornare così a casa. La donna la fissò a lungo, sbalordita, poi balbettò: «Jane… Oh mio Dio, sei… sei proprio tu?»
  «Mamma…» disse Jane, con la voce rotta dall’emozione e poco dopo si stavano abbracciando, in lacrime. Dopo molti secondi riuscirono a sciogliersi dall’abbraccio e ad entrare in casa. Quest’ultima non era cambiata di una virgola e questo fatto a Jane parve molto strano, forse perché era la prima cosa veramente familiare ai suoi occhi, dopo quattro anni di odissea nella città. La ragazza spinse dentro la carrozzina di Karen e, seguita dagli altri tre bambini, sedette sul divano, accanto alla madre.
  «Adesso, però, devi raccontarmi tutto, Jane» le chiese la donna. «Come e quando sei fuggita da quella casa? Cos’è successo mentre eri là dentro e anche mentre sei stata via? E tutti questi bambini, da dove arrivano? Non sto dicendo che non mi faccia piacere averli in casa, però… Non ho fatto altro che cercarti, in tutti questi anni. Ho fatto setacciare tutta la città dalle squadre di ricerca più esperte! Jane, tesoro, dov’eri finita?» I suoi occhi luccicavano dalle lacrime ed aveva la voce rotta dall’emozione.
  Ad un tratto la signora Thaisis si alzò dal divano ed andò a prendere un paio di giornali che risalivano, il primo a quattro anni prima e il secondo al mese passato. Tornata al suo posto, rivolse lo sguardo alla figlia e le disse: «Guarda. Ho conservato questi due numeri del nostro quotidiano. Ci sono due articoli che parlano di te. Giusto per farti capire che cosa intendevo dire».
  Jane, incuriosita, le prese dalle mani quello meno recente. Il titolo diceva:
22enne sparita alla stazione nella notte di sabato.
  Sotto il titolo, Jane lesse soltanto la prima frase: Una giovane di 22 anni è diventata la cinquantatreesima vittima del bandito Number One, nell’arco degli ultimi venticinque anni. La ragazza fissò il giornale senza vederlo, pensando stupita “Accidenti, cinquantadue solo prima di me, allora Charlotte aveva ragione”. Fu molto strano leggere di se stessa su un giornale, che non poteva ancora sapere come sarebbero andate le cose quando invece lei era lì, viva e vegeta a poterlo raccontare.
Dopo di che Jane dette un’occhiata anche al secondo quotidiano, il cui titolo recitava: Proseguono invano le ricerche della giovane sparita nel 1997.
Anche qui, Jane senza soffermarsi sull’intero articolo, lesse la prima frase sotto il titolo, che diceva: Nonostante le ricerche della ragazza scomparsa alla stazione esattamente quattro anni fa, proseguano senza esito, la madre dichiara: «Noi non perdiamo ancora la speranza. Io sono sicura che mia figlia è ancora viva da qualche parte, e prima che ce ne accorgiamo lei tornerà». Fu ancora più strano leggere quell’articolo, perché era soltanto del mese prima e ancora non si conoscevano gli ultimi sviluppi. Molte cose erano cambiate in quelle settimane. Pensò che in fondo fino a non molto tempo prima, nemmeno lei sapeva se sarebbe mai ritornata a casa, un giorno o l’altro.
  «Mamma, è stato veramente terribile» disse, a questo punto Jane, fissando la madre e posando sul divano i due quotidiani. «Sono riuscita a fuggire soltanto per miracolo dalla casa di Number One, perché mi ha aiutato la sua spia, il ragazzo carino che mi ha preso in giro la prima sera, non so se ti ricordi. In quell’occasione lui» indicò Nicholas, «c’era già, perché infatti l’ho avuto da Number One, anche se avrei preferito che non fosse successo. O meglio avrei voluto averlo, ma non da lui, è questo il punto in realtà. 
  «Dopo la fuga sono stata in giro per tre anni, in una zona bruttissima della città, oltre a tutto. Durante tutto questo periodo, mi sono fatta ospitare da tre famiglie diverse, per questo sono nati gli altri bambini.
  «Cioè, in realtà le famiglie sono state quattro» si corresse subito Jane, «ma di una di queste ho approfittato solo nel periodo in cui è nata Claudia. Ogni volta che non riuscivo a farmi ospitare dormivo in un albergo orribile. Ed è meglio che non ti dica neanche in quali posti sono stata costretta a lavorare, più di una volta». Sua madre annuì e fece per rispondere, ma in quel momento qualcuno la chiamò. «Pat, chi c’è lì con te?» Jane, ebbe un tuffo al cuore, riconoscendo la voce di suo padre. Sua madre sorrise. «Vieni di qua Chris, così puoi vederlo da te chi è arrivato».
  L’uomo entrò nella stanza e rimase come pietrificato. Subito dopo urlò: «Jane, ragazza mia, sei tornata, finalmente! A quanto vedo, sei in ottima forma e non sei neanche da sola! Vieni qua, ragazza mia, vieni qua e abbraccia il tuo vecchio!» Jane gli corse incontro e lo abbracciò forte, come faceva da bambina, quando era lui ad arrivare a casa di sera, dopo il lavoro.
  «Papà… papà…» seguitava a ripetere meccanicamente, come se non fosse capace di dire altro, le lacrime che le scorrevano ininterrottamente sul viso. Suo padre la stringeva forte, protettivo, facendola sentire ancora un po’ bambina. Adesso capiva che era assolutamente impossibile che suo padre si fosse dimenticato di lei e si rimproverò duramente per averlo anche solo pensato. Sembrava incapace di staccarsi da lui. Alla fine sua madre riuscì a scioglierla dolcemente dall’abbraccio e la spinse nuovamente sul divano.
  Si chinò per prendere in braccio David e riprese: «Quindi, se non vado errato, questi quattro marmocchi sono i nostri nipotini?» Jane annuì, asciugandosi ancora gli occhi e tirando su col naso. In quel momento, Nicholas le chiese: «Mamma, perché piangi? Sei triste? Io no». E lei gli rispose: «No, Nicky, neanch’io sono triste, tesoro, tutto il contrario. Sono felice di essere tornata a casa e di essere qui con voi». A questo punto, il bambino scoppiò a ridere felice, la abbracciò forte all’altezza della vita e le stampò un grosso bacio sulla guancia. 
 Dopodiché, Jane sorrise tentando di frenare altre lacrime, si tirò Claudia sulle ginocchia e cominciò a raccontare. Raccontò tutta la storia, senza tralasciare nessun dettaglio, dura e crudele, esattamente come c’è stata presentata. I signori Thaisis si fissavano, sempre più increduli, di fronte a quanto udivano uscire dalla bocca della figlia. Quando lei ebbe finito, loro due rimasero per alcuni istanti senza parlare, troppo sconcertati per riuscire spiccicare qualche parola.
  «Tesoro, ma non posso credere che in quattro anni ti siano capitate tutte queste cose!» esclamò sua madre poco dopo, senza fiato e ancora sconvolta. Suo padre era semplicemente senza parole, esterrefatto.
  «Insomma, voglio dire» riprese sua madre, indignata, «questi Stevens sono stati veramente orribili con te, non avrebbero dovuto comportarsi così! Per non parlare poi di quel ragazzino, Walter, o come-diavolo-si-chiama, un comportamento davvero, davvero spaventoso». Jane li stava a sentire, soddisfatta che qualcuno finalmente si fosse deciso a prendere anche le sue difese.
  Jane quella sera, mentre cenavano, chiese ai genitori, avendo notato l’assenza del fratello minore: «Ma Michael dov’è? Non cena a casa, stasera?»
  Loro due si guardarono confusi, poi suo padre parve comprendere e le disse: «Oh, certo, tu non lo puoi sapere. Michael si è sposato l’anno scorso, con Ginevra, non so se te la ricordi e ora hanno anche un bambino, Matthew, che ha la stessa età di Karen. Forse ha un paio di settimane meno di lei, mi sembra».
  Jane non se l’aspettava proprio. Mickey, il suo fratellino sposato e pure padre! Quella notizia aveva dell’incredibile! Decise di punto in bianco che doveva andarli assolutamente a trovare, subito il giorno successivo, per rivedere suo fratello e Ginevra, ora sua cognata, dopo tutti quegli anni. Inoltre voleva conoscere il nipotino e farlo conoscere anche ai suoi figli. Chiese ai suoi genitori dove abitasse il fratello e loro le spiegarono la strada per arrivarci, era una zona vicina al loro quartiere.
 
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


11.
 
 
L’indomani Jane andò a casa di Michael. Si era portata dietro solo Karen, perché in fondo era la figlia meno impegnativa e con tutti e quattro sarebbe stata una missione impossibile. Il quartiere era piacevole e molto tranquillo, pieno di alberi, prati e con un grande parco, proprio vicino a casa di Michael: le piacque subito. Trovò facilmente la casa del fratello e si avvicinò tenendo in braccio Karen. Non si era portata dietro la carrozzina perché non ne avrebbe avuto bisogno: aveva fatto il tragitto in automobile e la bambina in quel caso era legata nel suo seggiolino. 
  Superò il cancello di legno della villetta di Michael e suonò il campanello. Dopo alcuni secondi, la porta si spalancò: di fronte a Jane, con un bambino piccolo e dalla pelle color caffellatte in braccio, c’era Ginevra. Non era cambiata proprio per niente, alta e nera esattamente come la ricordava. Vederla, riportò di colpo Jane indietro nel tempo, quando erano ancora due ragazzine e Ginevra, più giovane ed inesperta di lei, che le chiedeva consigli su come doveva comportarsi con Michael, che lei allora definiva piuttosto orgogliosamente il suo ragazzo.
  La pelle scura, invece, diceva molto sulle origini di Ginevra: i suoi nonni materni, infatti, erano aborigeni della tribù Aranda, però sua madre aveva sposato un inglese, quindi, in effetti, la ragazza era aborigena solo per metà. Nonostante ciò le tradizioni nella sua famiglia si erano mantenute vive e rispettate da tutti. Jane era assolutamente sicura che sua cognata avrebbe fatto lo stesso anche con il marito ed il figlio. “Se la conosco bene, farà davvero così”.
  Le due ragazze si salutarono, strillando di gioia. Erano sempre andate perfettamente d’accordo loro due, e Ginevra dopo aver fatto accomodare Jane in casa e aver deposto Matthew nella culla di vimini parcheggiata in mezzo al soggiorno, disse: «Jane, sapessi come sono contenta di vederti. Proprio non me l’aspettavo e ormai eri via da tanto di quel tempo che, sapendo quello che ti era successo, avevo perso le speranze che tornassi viva. Mike non c’è adesso, è uscito poco fa per fare delle commissioni veloci per noi e Matthew, però dovrebbe essere di ritorno fra circa mezz’ora. Se hai tempo, perché non ti fermi ad aspettarlo? In fondo anche lui non lo vedi da tanto ed è pur sempre tuo fratello, no?»
  Jane ci pensò un attimo. Ma sì, perché no? Dopotutto avrebbe dovuto soltanto avvisare la madre, che sarebbe tornata più tardi per il pranzo. Lo disse a Ginevra, che le lasciò usare il telefono e poi sedettero di nuovo insieme sul divano ad aspettare Michael. Per ingannare il tempo, Jane decise di farsi raccontare gli ultimi pettegolezzi e le novità e Ginevra, naturalmente non si fece pregare.
  Una ventina di minuti più tardi sentirono qualcuno armeggiare con la porta. Quando questa si aprì, Jane alzò lo sguardo e vide che era finalmente arrivato suo fratello. Si alzò di scatto e gli andò incontro. Gli gettò le braccia al collo e urlò: «Mickey, come sono felice di vederti, non ne hai idea!»
  Michael era rimasto un attimo interdetto, ma poi rispose all’abbraccio della sorella e rispose, felice: «Janet, è così bello, finalmente sei tornata, non ci credo!»
  «Quanto sei cresciuto, in questi quattro anni! Fatti guardare!» disse Jane, allontanandosi dal fratello per guardarlo meglio. In quel momento, Michael vide Karen, che stava in braccio a Ginevra. «Un momento?» disse. «Questa chi è?»
  «È Karen, la mia figlia più piccola, a casa ne ho altri tre! Ragazzi, in questi quattro anni mi sono successe più cose di quante ne potreste mai immaginare, davvero!»
  Si accorse a malapena che gli altri due la stavano fissando a bocca aperta. Poco dopo Michael suggerì che tornassero tutti a sedersi sul divano e così fecero.
  «Adesso ci devi spiegare, però, Jane» le disse a quel punto suo fratello. «Com’è possibile che tu abbia avuto quattro figli in quattro anni? Voglio dire, che cosa ti è successo? Perché ci hai messo così tanto a tornare? La mamma ieri mi ha detto che sei riuscita a fuggire dopo poco più di un anno dalla casa del tuo sequestratore».
  «Be’, mettetevi comodi, ragazzi» rispose lei con un lieve ghigno. «Questa è una storia lunga e che merita di essere raccontata.
  «Dunque, tutto è incominciato appunto quando sono fuggita dalla casa del mio rapitore, esattamente tredici mesi dopo esserci entrata» continuò. «C’era anche il mio primogenito con me, ovviamente dato che l’ho avuto da lui, dal bandito sopraccitato, e che ora ha… tre anni, certo. Accidenti, già tre anni, che grande! Scusate, ma ho un po’ perso la cognizione del tempo. Da allora in poi mi è successo di tutto. Sono stata ospitata e scacciata da una famiglia perché il figlio mi aveva messa incinta. Dopodiché è nata Claudia, che adesso ha due anni. A proposito, è vero, hanno compiuto entrambi gli anni qualche giorno fa».
  «Perché? Quando sono nati?» le chiese Ginevra, incuriosita da un dettaglio magari  di poca importanza, ma che poteva in realtà significare moltissimo. Jane rimane un attimo in silenzio, mentre ci pensava sopra, poi rispose: «Calcola che io all’inizio non sapevo le date di nascita dei miei figli perché ero quasi sempre in giro. Comunque poi ho saputo che sono nati il sedici luglio del 1998, Nicholas, il diciotto dello stesso mese, ma del 1999, Claudia, il cinque giugno 2000, David e lei, Karen, il tredici marzo di quest’anno. Tre in inverno e una in autunno. In ogni caso, quando Claudia aveva due mesi, mi ha ospitata un’altra famiglia che aveva un figlio, William. Questo ragazzo aveva quindici anni, quindi io mi sono illusa che sarebbe stata una permanenza tranquilla. Ma quanto mi sbagliavo!
  «William ha minacciato di far cadere i miei figli fuori dalla finestra della mia stanza, al terzo piano, se non avessi accettato la sua irragionevole proposta».
  «E tu che hai fatto, allora?» le chiese Ginevra, senza fiato.
  «Ho accettato, che altro potevo fare?» rispose Jane, affranta. «Aveva intenzioni serie. Ad ogni modo, ho accettato la sua proposta e per questo sono rimasta incinta per la terza volta. Avete capito, quindi? Oltre il danno, la beffa. È stato assolutamente tremendo e non subito, ma qualche giorno dopo me ne sono andata, solo che da quel momento non sono più riuscita a farmi ospitare, da nessuno. Tant’è vero che David, anche se so che molto probabilmente non mi crederete, è nato in un parco! Per fortuna non ho dovuto fare tutto da sola, perché anche se era il mio terzo figlio non so se ce l’avrei fatta, senza aiuto. In quel momento, infatti, è spuntata per caso un’ostetrica di un ospedale, ad aiutarmi. Quella donna è una santa, secondo me; infatti, dopo quest’ episodio, mi ha anche invitato spontaneamente a casa sua! E fino al mese scorso ero là! Me ne sarei andata anche molto prima, solo che c’è stato un piccolo, diciamo, imprevisto».
  Michael chiese, con tono ironico e sorridendo divertito: «Ma che cosa sarà mai potuto succedere? Non so perché, ma sono praticamente sicuro che questa donna aveva un figlio, molto affascinante»
  «Esatto» rispose Jane, con un tono di voce che si sforzava di suonare indifferente. «Sono rimasta incinta del figlio suo e di suo marito e loro due, quando l’hanno saputo, prima di tutto non hanno fatto delle scene esagerate, al contrario della famiglia del padre di Claudia. Oltre a questo, mi hanno ospitata in casa loro fino a marzo, cioè quando è nata Karen, appunto. A quel punto mi sembrava opportuno togliere il disturbo, ma loro mi hanno obbligato a rimanere per atri tre mesi, cioè fino al primo compleanno di David. Sono stati assolutamente mitici, davvero. Dopodiché me ne sono andata per davvero e adesso, eccomi qua».
  Michael e Ginevra la stavano guardando con gli occhi sbarrati. «Ma, Janet, è incredibile quello che ci hai raccontato. Ti rendi conto che se scrivessi un libro su questi fatti, potresti guadagnare abbastanza per viverci una vita intera?» esclamò Michael, totalmente sbalordito, da aspirante scrittore qual era.
  Jane fissò il fratello. «Sai Mickey, hai proprio ragione. Non ci avevo mai pensato». Sorrise. «Ma io non sono molto brava in questo genere di cose. Magari lascio il compito a te, fratellino. Tanto so che è quello che vuoi, non è vero?»
  Quel pomeriggio tornò a casa e, nonostante quanto aveva detto al fratello, si mise a pensare veramente a come avrebbe potuto scrivere le sue numerose avventure in un libro. Decise che, nell’eventualità, avrebbe in ogni caso lasciato fare a lui, lei gli avrebbe soltanto consegnato la trama.
 
Una settimana dopo, Jane e James si rincontrarono, con grande gioia da parte di tutti e due. Se ci fermiamo un attimo a ripensare alla grande passione di Jane, non dovremmo stupirci eccessivamente, una volta appreso che la ragazza s’innamorò perdutamente del suo amico d’infanzia già a partire da quel giorno. E va detto che James ricambiò apertamente. Fu una piacevole sorpresa per entrambi scoprirsi innamorati, perché erano sempre stati solo due grandi amici ed orgogliosi di esserlo.
  Insomma, per farla breve, due mesi dopo Jane e James si sposarono. Le nozze furono ben accolte da entrambe le famiglie e, nonostante per Jane fosse il secondo matrimonio, lei lo sentì come se fosse il primo, anche perché quello con Number One non lo ricordava affatto e comunque, non l’aveva vissuto per niente. Dopo il matrimonio, i due novelli sposi e i quattro figli di Jane, ovviamente, si trasferirono in una bella casetta in pieno centro, abbastanza vicino alla stazione. Era stata proprio Jane a volerlo. Aveva pensato che quella zona le evocava solo brutti ricordi, così, di punto in bianco, decise di tagliare completamente i ponti con il passato e di iniziare una nuova vita con la sua nuova famiglia, proprio lì.
  Passò parecchio tempo. Jane e James insieme erano molto felici, anche perché lui non aveva avuto nessun problema ad accogliere in casa propria anche i figli della moglie e a trattarli come se fossero suoi. Jane, dal canto suo, sentiva che la sua vita poteva ormai essersi stabilizzata e che James probabilmente era l’uomo perfetto per lei. Era tanto gentile, James, che una mattina durante i primi giorni di settembre, appena si furono svegliati, all’improvviso annunciò a Jane: «Tesoro, ho finalmente preso una decisione».
  «Che decisione, Jamie?» gli chiese Jane, perplessa e ancora un po’ assonnata. Non si ricordava che avessero parlato insieme di decisioni da prendere, in tutte quelle settimane. Suo marito la fissò sorridendo. «Capisco la tua confusione, Janet. È una cosa che mi è venuta in mente soltanto ora. Ho deciso che adotterò i tuoi quattro figli» concluse entusiasta.
  Jane a quelle parole restò di sasso. Un padre per i suoi figli? Un’offerta del genere non se l’aspettava proprio! Riavutasi dal leggero shock, riuscì a fatica a balbettare: «Oh no, James, caro non dovre…»
  James la zittì, mettendole un dito sulle labbra. «Shh… non dire una parola. Siamo sposati ormai, amore, e ora i bambini sono quasi figli miei, oltre che tuoi. Perché non completare l’opera?» Jane a quel punto del discorso, non aveva più potuto ribattere: il ragionamento di James, in effetti, non faceva una grinza.
  Così un giorno di metà settembre, James e Jane andarono insieme al Comune di Sidney e lì Nicholas, Claudia, David e Karen, divennero ufficialmente figli anche di James, del quale presero anche il cognome, in aggiunta a quello della madre. Questo particolare era stato una scelta di entrambi. Jane voleva che i suoi figli tenessero il suo cognome, le sembrava giusto dato che erano nati e cresciuti soltanto con quello e, nello stesso tempo, le sorrideva decisamente l’idea che si vedesse anche sui documenti che avevano un padre vero e proprio.
  I bambini, in particolare i più grandicelli, come Nicholas e Claudia erano felicissimi all’idea di avere finalmente anche un papà. Avevano solo provato il contrario e, anche se erano ancora piccoli, si resero conto tutti del cambiamento.
 
Alcune settimane dopo l’episodio dell’adozione, sia a Jane sia a James venne un’irrefrenabile voglia di avere un figlio insieme. Il desiderio, però, era sicuramente diverso nei due coniugi. Infatti, per James sarebbe stato il primo figlio biologico, quindi il suo desiderio era anche piuttosto comprensibile.
  Per quanto riguarda Jane, invece, i casi erano due. O era talmente felice insieme a James, da voler coronare quest’amore così profondo con un altro bambino, oppure si era improvvisamente resa conto che, stranamente, quattro figli ancora non le bastavano e doveva assolutamente correre ai ripari con un quinto. Chi può saperlo. Magari poteva anche essere un insieme di entrambe le motivazioni.
  Fatto sta che ci riuscirono. Nel mese di gennaio, infatti, quando Karen aveva circa dieci mesi, Jane scoprì di essere incinta di quattro settimane. Per la prima volta in vita sua, ne fu veramente felice, anche se, com’era prevedibile, la sua gioia non era niente, se messa a confronto con quello che provava James, da quando lei glielo aveva annunciato un giorno di quelli.
  Per prima cosa, infatti, lui telefonò ad amici e parenti, urlando a squarciagola a chiunque si trovasse dall’altra parte della cornetta: «Ehi, diventerò padre! Avrò un figlio tutto mio! Mia moglie è incinta! Sono al settimo cielo!» senza lasciare al malcapitato, nemmeno il tempo utile per congratularsi con lui.
  Jane, quando suo marito faceva così, lo osservava perplessa ed anche un po’ divertita. Lei c’era talmente abituata, che ormai non lo trovava più un evento degno di nota. In quei momenti pensava che, da quando era stata rapita, aveva passato quasi la maggior parte del tempo con un bambino dentro di sé e non sapeva dire se quella fosse una cosa buona oppure no. Quando i due coniugi annunciarono alle famiglie la nuova gravidanza, non tutti ne furono felici. I genitori di Jane pensavano che fossero un po’ irresponsabili, perché in fondo avevano già molti bambini, nonostante per James fossero tutti adottivi e non erano sposati da molto. Malgrado ciò, in fondo, si trovavano anche d’accordo con James.
 
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


12.
 
 
Passarono alcuni mesi. Il tredici marzo, Karen compì un anno. Jane e James invitarono alla festa i rispettivi genitori e fratelli. Quello di James, che finora non si era ancora visto, si chiamava Anthony, era di due anni più grande di lui, era sposato ed aveva due figlie già grandicelle: Jillian di nove anni e Megan di sette. C’era naturalmente anche Michael, con Ginevra ed il piccolo Matthew, che entro qualche giorno avrebbe anche lui festeggiato il suo primo compleanno.
  Nei mesi successivi furono impegnati con altre feste di compleanno. A giugno festeggiarono David per i suoi due anni, mentre a luglio, Nicholas e Claudia che compivano rispettivamente, quattro e tre anni. Nel quartiere la famiglia Cox divenne famosa ed invidiata per le sue feste di compleanno faraoniche. Secondo alcuni testimoni oculari, i padroni di casa si inventavano meravigliosi giochi, con cui far divertire i piccoli ospiti, c’erano dolci per tutti i gusti, oltre ad innumerevoli snack salati, la torta di compleanno era ogni volta sorprendente, e tutti gli invitati portavano sempre a casa un regalo e una foto di ringraziamento. Jane, quando lo venne a sapere, ne fu lusingata. Disse di essersi allenata negli anni passati per la strada, o meglio, nelle case delle famiglie che l’avevano ospitata.
  Nicholas e Claudia, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, avevano iniziato anche ad andare alla scuola materna del quartiere. Jane si era resa conto che, ormai, i suoi figli erano cresciuti e avevano bisogno di conoscere anche dei loro coetanei, così un giorno di metà novembre era andata all’asilo per iscriverli. Entrambi i bambini, ma Nicholas, in particolare, ne furono felicissimi.
  Infine, il venti settembre del 2002, nacque Jason. Quando era in ospedale, il giorno seguente al parto, Jane venne colta, improvvisamente da un dubbio, se si vuole insensato, ma sempre piuttosto inquietante. Forse era lei a decidere il sesso dei propri figli. Sapeva perfettamente che ciò era naturalmente impossibile, ma era ancor più strano, secondo lei, il fatto che da cinque uomini diversi, fosse riuscita ad ottenere cinque figli sempre alternati: maschio, femmina, maschio, femmina… secondo Jane, tutto ciò era molto più che sconcertante, era quasi sconvolgente.
  Qualche giorno dopo, la ragazza tornò finalmente a casa con il piccolo Jason. Il nome l’aveva scelto insieme al resto della sua famiglia. Non era un caso che il nome iniziasse con la J: Jane e James avevano infatti deciso che il nome del loro primogenito sarebbe dovuto cominciare con la stessa lettera dei loro.  Nonostante lei fosse sicura che fosse un maschio, decisero un nome anche da femmina, nel caso, per quanto improbabile che si fosse sbagliata; la scelta era caduta su June, che era piaciuto molto a tutti e in più aveva il vantaggio di iniziare con la J.
  Jane non fu del tutto sorpresa, quando notò che gli altri bambini non erano precisamente entusiasti della presenza dell’ultimo arrivato. In particolar modo Nicholas non era molto felice, anzi era piuttosto arrabbiato e Jane non faticò a comprendere come si doveva sentire il suo primogenito: non doveva essere per niente facile, a soli quattro anni, avere già così tanti fratelli e sorelle più piccoli, da dover sopportare. Non aveva mai potuto provare il piacere di essere figlio unico.
  Jane era assolutamente sicura che il bimbo sarebbe anche stato contento di avere tutti i fratelli che realmente aveva, ma probabilmente avrebbe voluto qualche pausa tra uno e l’altro. Non poteva dargli torto: lei al suo posto si sarebbe sentita allo stesso modo. Comunque anche lei avrebbe preferito che ci fossero state alcune pause, anche solo l’intervallo che c’era stato tra la nascita di Karen e l’arrivo di Jason: un anno e mezzo, non chiedeva di più. Avere tutti quei figli uno dopo l’altro, trovava che potesse veramente distruggere il fisico di una donna: portare una persona nel proprio corpo per circa nove mesi, era una delle cose più faticose in assoluto da sopportare.
  Inoltre, anche sua madre e suo padre confermarono le loro perplessità, sul fatto che quella fosse una buona idea, ma naturalmente comprendevano ed accettavano di buon grado, anche il punto di vista di James.
  Di regola, la signora Thaisis e suo marito si limitavano ad ammonire dolcemente la figlia. La ragazza annuiva e diceva sempre di sì a qualunque cosa le stessero dicendo, ma non prestava mai veramente attenzione alle loro parole. Si viveva la sua vita tranquilla con James, nella loro villetta vicino alla stazione. Il suo disinteresse nei confronti delle preoccupazioni dei genitori, divenne evidente nel mese di febbraio dell’anno dopo, quando Jane, nonostante avesse deciso di fermarsi, annunciò a sorpresa, in famiglia, di essere rimasta incinta per la sesta volta. Questa volta non ne era felice, se ne rendeva perfettamente conto, ma nello stesso tempo si accorgeva di non essere terrorizzata come le prime quattro volte. La vita, per lei, era sicuramente cambiata. Si giustificò per il fatto, sostenendo che era stato il destino a volere che i suoi figli fossero in numero pari. Non si poteva mettere in dubbio il volere del fato, così dichiarò Jane un giorno.
  James, d’altro canto, diceva di sentirsi confuso. L’idea di avere un secondo figlio suo, gli andava decisamente a genio, ma certamente non se l’aspettava, quando Jason aveva soltanto quattro mesi! Si sentiva molto responsabile nei confronti di Jane, in fondo era anche colpa sua, se lei era rimasta incinta e non esitò a difenderla dalle accuse degli altri parenti, arrivando ad essere molto felice anche questa volta.
  Passarono alcune settimane in modo del tutto normale. Poi, verso la metà di marzo, Karen compì due anni, a giugno David ne festeggiò tre ed infine a luglio Claudia e Nicholas, ne festeggiarono rispettivamente quattro e cinque. Jason, invece, avrebbe compiuto un anno soltanto a settembre, quindi c’era ancora tempo prima che arrivasse il suo compleanno. E intanto Jane aspettava che la sua sesta figlia nascesse. Era assolutamente sicura che fosse una femmina, lo era stata fin da quando aveva appena scoperto di essere incinta, non aveva alcun dubbio in proposito.
  Una sera di agosto, erano tutti e sette a casa ed avevano appena cenato. Ad un certo punto, Jane aveva chiesto a James: «Allora come la chiamiamo questa bambina? Sai, io pensavo ad un nome che inizia con la J, come abbiamo fatto per Jason».
  Suo marito, a queste parole, la guardò, con aria confusa. «No, scusa una cosa, Jane, ma com’è che tu sai che sarà una femmina? È vero che ormai sta quasi per nascere, ma non abbiamo mai chiesto per il sesso, giusto? Avevamo promesso di non farlo. Hai mantenuto il nostro accordo, giusto?»
  Jane, a questo punto, fissò i propri occhi verdi in quelli grigio chiaro del marito e poi sorrise. «Scommettiamo dieci ad uno che è una femmina? Che ne dici? Io ne sono assolutamente sicura e ti spiego anche il perché. Spero che tu ti sia accorto che tutti gli altri cinque bambini sono alternati. Benissimo, dato che questa è la mia sesta gravidanza, sono matematicamente certa che questa sarà una femmina. E comunque l’ho mantenuta la promessa, non ti preoccupare.
  «Allora» continuò, «come la chiamiamo?» Fissò James e lui la fissò di rimando. Dopo alcuni istanti, James disse, in tono conciliante: «E va bene, tesoro. In fondo, sei tu l’esperta in questo campo. Quanto al nome, non saprei. Aspetta, fammi pensare. Ad esempio, Jennifer, ti piacerebbe? A me piace molto, ad essere sincero».
  «Jennifer?» rispose Jane con una smorfia. «Non è che mi faccia impazzire e poi è troppo lungo, preferirei un nome più corto. Jessica?»
  James fece una faccia orripilata. «Jessica?! No, no per carità, sembra quasi un nome da… lascia stare, è meglio di no. Assolutamente no».
  Andarono avanti di questo passo ancora per circa tre quarti d’ora, interpellando, di tanto in tanto anche i bambini in qualità di suggeritori che, però, proponevano soltanto nomi strampalati, magari che avevano sentito alla televisione, nei cartoni animati o cose di questo genere. Alla fine, si trovarono tutti d’accordo su Julia, semplice, corto e sempre bello. Però James propose di tenere un nome maschile di riserva nel caso improbabile che Jane avesse sbagliato con le sue previsioni. Sua moglie accettò, anche se riluttante e scelsero Justin, deciso perché iniziante con la J, come gli altri tre nomi: Julia, Jason e June.
  Alla fine, la bambina, perché era una femmina, proprio come Jane aveva previsto, arrivò il ventiquattro settembre del 2003, soltanto quattro giorni dopo il primo compleanno di Jason. Ovviamente Jane aveva ragione; al sesto figlio, quando anche gli altri sono nati in quel modo, si disse, una può anche pensare di conoscere piuttosto bene il meccanismo. James dovette riconoscere, con una certa sorpresa, che sua moglie aveva perfettamente ragione e si chiese, sconcertato, se per caso aveva sposato una veggente. Jane, in ospedale, decise che adesso veramente si sarebbe fermata. E decise che avrebbe fatto qualsiasi cosa per mantenere la sua promessa. Pensò che sei bambini erano davvero tanti e che anche con uno solo in più, la casa probabilmente sarebbe esplosa.
  Le cose andarono avanti abbastanza normalmente, per loro, da quel punto in poi. Facevano le cose che fanno le famiglie comuni. Andavano a fare la spesa tutti insieme, certe domeniche, soprattutto in estate andavano alla spiaggia e altre cose di questo genere. Inoltre, ora avevano anche un’automobile. L’avevano acquistata giusto un paio di settimane prima che nascesse Julia, nei giorni in cui Jane stava in piedi solo se era strettamente necessario. In quel periodo sapeva già, da circa otto mesi e mezzo, che l’ultimo arrivo sarebbe stato una femmina, ma non sapeva ancora che questa bambina si sarebbe chiamata Julia. Naturalmente lo sapeva lei, grazie a quel suo particolare istinto. Aveva infatti l’impressione di essere molto sensitiva, per quanto riguardava questo genere di cose. Ogni tanto pensava “Per ora ho avuto cinque figli e ho indovinato il sesso di tutti quanti, già nella prima settimana di gravidanza. Magari ho dei poteri paranormali. Potrei fare la veggente”.
  Per quanto riguarda l’automobile, invece, erano andati in una concessionaria un giorno di fine luglio. Cercavano un’auto per otto persone, ma quelle normali arrivavano fino a sette, perciò, alla fine, si erano trovati costretti ad acquistarne una da dieci posti. Il giovane addetto alla vendita, un ragazzo che probabilmente non arrivava nemmeno ai venticinque anni, quando si era trovato davanti quella folla, ci aveva messo un po’ a riprendersi, ma alla fine si era dimostrato perfettamente capace. Lasciando Jane seduta con i bambini nella sala d’attesa, aveva guidato James alla visita di, probabilmente, ogni singola auto esposta nel salone principale ed anche nel retro della concessionaria.
  Jane, in questo caso molto pratica, quando invece, si poteva definire una donna piuttosto impulsiva e portata a sognare ad occhi aperti, stabilì dei posti fissi che i suoi figli avrebbero dovuto occupare nella nuova auto. Voleva evitare litigi e questo le era sembrato l’unico nonché miglior modo. La macchina era una grande monovolume e c’era spazio a sufficienza per tutti, ma Jane preferì non correre rischi.
  Davanti si sarebbe seduto Nicholas, nel posto da tre, insieme ai genitori in quanto primogenito; Claudia e Karen si sarebbero sedute nel mezzo, nell’unico sedile da quattro posti e David, Jason e l’ultima bambina, avrebbero preso posto dietro, in un altro sedile da tre. Rimanevano ancora due posti non utilizzati, nel mezzo dell’auto, dove sedevano Claudia e Karen. In fondo potevano sempre tornare utili, ad esempio per ospitare qualche amichetto, che era invitato a casa loro a giocare dopo scuola. «Però» Jane raccomandò i bambini, «i posti messi così li userete solo quando sarete più grandi e non ci saranno più i vostri seggiolini, che occupano spazio».
  E fecero esattamente così, come era stato deciso.
  Passarono due o tre mesi e la famiglia Cox poteva ormai definirsi tornata alla completa normalità. Ma lo erano mai stati loro una famiglia normale? Chi lo sa? Nel frattempo, Michael decise che finalmente anche per lui e Ginevra era arrivato il momento di  allargare la famiglia. Ammise che in confronto alla tribù messa insieme dalla sorella, il suo unico figlio avrebbe potuto essere un po’ tenuto in disparte, perciò decise immediatamente di correre ai ripari. A questo punto era diventata una questione di principio, disse. E poi ormai Matthew era arrivato all’età giusta per avere un fratellino o una sorellina.
  Fu più o meno quando Julia aveva tre mesi, infatti, che Ginevra annunciò di aspettare un altro bambino per la fine di luglio. Entrambe le famiglie si rallegrarono, quando seppero che anche la famiglia Thaisis aveva la discendenza assicurata. Naturalmente c’era già Matthew, ma era comunque una cosa piacevole che ci fossero altri bambini in arrivo. La bella notizia arrivò proprio il giorno di Natale, quando la famiglia era felicemente riunita in casa dei genitori di Jane e Michael.
  E quale non fu la loro enorme sorpresa quando, circa due o tre mesi dopo, scoprirono che, invece di uno solo, i bambini erano addirittura due! L’annuncio lasciò entrambe le famiglie piuttosto scioccate, perché i parti gemellari erano sempre stati più unici che rari, sia nella famiglia di Ginevra sia, in particolar modo, in quella di Michael. I due bambini erano gemelli eterozigoti, erano un maschio ed una femmina, ma erano in ogni caso più di uno!
  Quando lo seppe, Jane, oltre ad esprimere la sua gioia per i due nuovi arrivi, espresse anche il grande desiderio che il fratello e la cognata li chiamassero Ronald e Gwendolyn o che scegliessero anche solo uno dei due nomi, in onore dei suoi gemelli preferiti, sarebbe a dire i due Brooks, ma dovette accontentarsi, se così si può dire, di Anna e Simon. La motivazione fu semplicemente che, ai futuri genitori i due nomi che aveva proposto Jane, non piacevano per niente!
  I due gemellini, alla fine, vennero al mondo il 10 agosto del 2004, quando Julia aveva circa undici mesi. Michael e Ginevra decisero che si sarebbero fermati a tre figli, che non avrebbero seguito l’esempio di Jane e lei assicurò che andava più che bene così, che tre già erano più che abbastanza. Ammise lei stessa che il suo non era un esempio da seguire, non tanto nel numero, quanto, soprattutto, nel modo in cui aveva avuto i suoi figli.
 
Ogni tanto Jane Thaisis, quando passeggiava insieme ai suoi figli o a James, ma anche senza nessuno di loro, nel suo quartiere, capitava piuttosto spesso che si trovasse a camminare proprio nei pressi della catapecchia di Number One. Quando ciò succedeva, la giovane si chiedeva sempre che cosa mai stesse succedendo là dentro, se qualche altra povera ragazza era caduta nelle sue grinfie, senza però fare notizia, se Jack l’Araldo era finalmente riuscito a scappare o se magari, quella specie di avanzo di galera del suo ex-marito, cosa che tra l’altro quasi certamente era, ed il resto della sua fedele banda erano stati miracolosamente arrestati.
  Con sua enorme sorpresa, si trovava anche a riflettere sul fatto che in fondo la sua vera vita, la vita da adulta, era incominciata proprio da allora. Quel giorno, quell’ormai lontano giugno del 1997, in cui Number One aveva deciso di rapirla, rovinando in questo modo tutti i suoi bei piani per il college e mandando in mille pezzi tutto quello che aveva passato e che si era costruita prima di allora. 
  Nei momenti come quello, pensava “Comunque, se Number One non mi avesse sequestrata, niente di tutto questo sarebbe successo tanto facilmente. Non avrei mai potuto fare conoscenza con quel ragazzo fantastico di nome Jack l’Araldo e molto probabilmente non avrei mai avuto modo di incontrare di nuovo James. O, in ogni caso, non sarebbe accaduto nel modo in cui è accaduto. Per di più, quasi sicuramente ora non vivrei qui, alla stazione, ma da qualche altra parte, con molta prevedibilità vicino a dove abitano i miei genitori”.
  In quelle occasioni improvvisamente si fermava dov’era, colta da un’istantanea ispirazione, sorrideva tra sé e, nel segreto profondo del suo cuore, ringraziava silenziosamente Number One, il malvagio sequestratore.
 
 
 

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