I'm an Englishman in NY

di SFLind
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il capitolo della pioggia ***
Capitolo 2: *** Il capitolo del fratello ***
Capitolo 3: *** Il capitolo del fotografo ***
Capitolo 4: *** Il capitolo del profumo ***
Capitolo 5: *** Il capitolo dei limoni ***
Capitolo 6: *** Il capitolo degli invitati ***
Capitolo 7: *** Il capitolo della festa ***
Capitolo 8: *** Il capitolo degli sguardi indiscreti ***
Capitolo 9: *** Il capitolo delle entrate ad effetto ***
Capitolo 10: *** Il capitolo dei disperati ***



Capitolo 1
*** Il capitolo della pioggia ***


LA TERRA HA LE DIMENSIONI DI CUBA
 
1 – Il capitolo della pioggia;
 
 
Quella mattina pioveva a Londra.
Il cielo era grigio come non mai e sembrava che lassù qualcuno non facesse altro che lamentarsi.
Guardare fuori dalla finestra, sconsolato, era l’unica cosa che gli era rimasta da fare.
 
Quel giorno anche il cielo era contro di lui.
 
Almeno questo m’impedirà di prendere l’aereo..” pensò alzandosi pigramente dal letto di quella camera, cercando un’inutile luce di conforto.
 
Le pareti di quella stanza, come nel resto della casa, erano ornate da una carta da parati vecchia e scolorita, ma che non aveva ancora intenzione di cambiare.
Il colore originale era un verdone, se non ricordava male, decorato con fiori di un dolce color rosa. Ma quel che ne rimaneva era un chiaro prato verdognolo e delle sbiadite rose di un tristo color carne.
Il pavimento era di uno scuro parquet d’ebano, coperto quasi interamente da grandi tappeti Rococò dalle tonalità inadeguatamente scure.
 
Quella casa era ciò che di più vecchio potesse immaginare, ma il giorno in cui l’avrebbe cambiata era ancora molto lontano.
 
Era letteralmente “una vita” che ci abitava e ogni singolo oggetto in quella stanza raccontava una sua storia.
 
Però, certamente mancava qualcosa in quella casa.
 
La carestia di foto era difficile da ignorare.
 
Quadri e dipinti erano appesi ovunque. Ritratti di individui dalle pose esageratamente snob e vestiti ampollosi assalivano quelle vecchi pareti.
Ma di foto ve n’erano davvero poche.
Tutte ritraevano un piccolo bimbo dal viso imbronciato e piagnucolone.
Tutte tranne una. La più recente.
Era posta su uno degli scaffali più alti della libreria, in una cornice impolverata che nessuno prendeva in mano da anni.
Sotto quel vetro sporco, nel bianco e nero della foto, un altro bambino guardava l’obbiettivo con una smorfia sorpresa, mentre accanto a lui un ragazzino gli poggiava una mano sulla spalla, sorridendo posato.
 
Lo scrosciare della pioggia sulle finestre continuava imperterrito e per un momento si confuse con quello della doccia.
 
L’acqua fredda frantumò violentemente l’aria assopita che regnava quella mattina, e bestemmie e parolacce volarono sofferenti in quel bagno di marmo e oro.
Nel giro di qualche minuto un corpo seminudo girava per casa in asciugamano.
Nervoso, bagnato, ma sveglio.
 
- Che giornata di merda – si ripeteva sconfortato.
 
Poi suonò il campanello.
Nonostante quel giorno la sua agenda non prevedesse impegni.
 
Attraversò il corto corridoio d’ingresso e raggiunse la porta.
Dimenticò completamente di guardare dallo spioncino chi potesse venire a fargli visita di prima mattina e con un tempo del genere a rovinare la normalmente quieta aria londinese.
Poggiò la mano destra sulla maniglia e girò il pomello dorato.
Con un cigolio, la porta che portava inciso in oro massiccio il nome di “Arthur Kirkland” si aprì cautamente.
 
Dall’altra parte del porticato due sottili occhi blu lo fissavano furenti.
 
- Lo sapevo! – urlò l’uomo puntandogli l’indice contro.
- Il Russo ci aveva visto giusto! Sei ancora nudo! –
 
Il diretto interessato lo fissava sconcertato.
 
L’uomo aveva un viso bellissimo, una folta chioma di capelli biondi che scendevano ondulati e aggraziati sul collo, due occhi mare e della barbetta che gli cresceva curata sul mento.
 
Emanava eleganza e grazia da tutti i pori.
 
- Che cazzo fai lì impalato sulla porta?! – disse.
- Fammi entrare schifoso di un inglese! O dobbiamo restare a fissarci per tutta la giornata?! – diede una spinta al giovane sulla porta, ed entrò come una furia.
 
Il ragazzo alle sue spalle, ancora a bocca aperta, si chiuse dietro la porta, seguendo l’ospite inaspettato con lo sguardo.
 
L’altro continuava a sbraitare e imprecare con un marcatissimo accento francese contro una certa persona che si era fatta trovare in asciugamano al suo arrivo.
 
Poi, finalmente, anche il giovane attivò la zona del cervello riservata agli insulti.
 
- Aspetta un attimo! – urlò anche lui – Ma che minchia ci fai tu a casa mia?! Perché cazzo stai gridando come una checca isterica?! –
 
- Non è colpa mia se voi inglesi schifosi siete così prevedibili! –
 
- Ma di che parli Vinofilo del cacchio?! –
 
Si quella sarebbe decisamente stata una giornata di merda.
 
 
*
 
 
- Allora.. Mi ripeti con calma perché sei qui? – chiese visibilmente irritato.
 
- Te lo dirò ancora una volta, va bene? Sono qui per assicurarmi che tu ti prepari e venga all’aeroporto per prendere l’aereo delle 11:30 am – rispose rilassato Francis Bonnefoy mentre sorseggiava una tazza di thè alle rose.
 
Arthur Kirkland si massaggiò le tempie sotto i capelli color grano, mentre l’espressione corrucciata sul suo viso portava le folte sopracciglia a corrugarsi sugli occhi verde smeraldo, nascosti dalle palpebre chiuse.
 
- E tutto questo perché…? – continuava, sempre con maggiore irritazione.
 
- Perché oggi è il 4 di Luglio – concluse secco l’altro, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Poggiò la tazzina di porcellana a fiori sul tavolino e alzò lo sguardo alla ricerca di quello del ragazzo di fronte a lui.
 
Arthur lo resse, mentre nella sua mente tutto cominciava ad acquistare una sua logica.
 
- Sinceramente credevo di conoscerti meglio – riprese il francese, abbassando ancora lo sguardo sulle mani incrociate sulle ginocchia, poi rialzandolo nuovamente per continuare.
- Non mi sarei mai aspettato un tale infantilismo.. E’ stato Ivan a farmi venire il dubbio.. E a quanto pare aveva ragione! – un forte tono di disappunto.
- Tu non saresti venuto! –
 
- Onestamente, - ghignò Arthur – è come mandare ad un morto l’invito per l’anniversario della sua morte.. Non m’ispira per niente – ammise ancora con quel sorriso amaro sulle labbra.
 
- Avevo dimenticato fossi così pessimista – notò provato Francis.
 
- Non si tratta di pessimismo, ma di realismo –
 
- Com’è la tua tazzina? –
 
- Non ci casco in questi cliché. Ti pensavo più originale! –
 
- Visto? Guardi sempre tutto dal lato negativo! Tu, pensala così: una normale serata tra amici, una torta di compleanno, qualche regalo e una canzoncina di “Tanti Auguri”.. Tutto qui! Poi potrai tornare a casa tranquillo.. –
 
- Credimi, riuscirebbe meglio se non venissi! –
Non che pensasse davvero che qualcosa potesse riuscire meglio senza di lui, ma ciò che poco prima aveva elencato l’amico non lo tentava minimamente.
- Poi non ho nemmeno un regalo! – disse cercando di fingersi un po’ più dispiaciuto di quanto non fosse.
 
- Per quello troveremo una soluzione! – lo incalzò l’altro, prendendo posto accanto a lui sul divano.
Gli diede una leggera pacca sulla spalla.
- Vedrai che ci divertiremo! – disse allargando un grande sorriso.
 
L’inglese sorrise di rimando, poco convinto e combattuto per essersi scavato la fossa da solo.
 
- A proposito.. – riprese il francese con un tono molto più interessato di quello utilizzato prima, come sul punto di star per rivelare un segreto.
 
Arthur si voltò per guardarlo in faccia. Quegli occhi blu brillavano, mentre un sorriso malizioso compariva sul suo viso.
 
Un campanello d’allarme trillò nella sua testa.
 
- Non avevo mai notato avessi un tanto bel fisico.. – diceva mentre di avvicinava pericolosamente.
- Un po’ magrolino forse, ma non male.. –
 
Arthur scattò in piedi.
 
- Stammi lontano! Vinofilo di merda! Già ubriaco a quest’ora?! – disse facendo per andarsene.
 
- Non essere così repulsivo, cherì! – continuava l’altro, afferrandolo per l’asciugamano.
 
- Lasciami andare! Francese maniaco! –
 
Non si sa bene cosa accadde, ma urla e strani rumori volarono per la casa quella mattina.
 
 
*
 
 
Tutto vestito di tutto punto, Arthur Kirkland si guardava riflesso nello specchio, mentre nella sua mente la speranza di poter rimanere a casa si faceva sempre più lontana.
 
Dietro di lui, Francis Bonnefoy osservava distrattamente le foto poste sulla scrivania.
 
- Parlo sinceramente, - disse rompendo il silenzio della camera – secondo me te le sei presa troppo a cuore –
 
Volse lo sguardo sul piano più alto della libreria, lì dove una cornice si consumava dalla solitudine.
 
- Si.. Decisamente troppo –
 
Il biondo nello specchio non diede cenno di aver ascoltato.
 
- Credimi, capisco fin troppo bene che la situazione è difficile, e so anche che i vostri rapporti non sono buoni.. Ma mi pare che adesso sia passato tempo a sufficienza per andare oltre.. –
 
I due si rivolgevano le spalle.
 
- Non so davvero di cosa tu stia parlando. Ho visto che il tempo era brutto e ho pensato che non sarebbe stato il caso di rischiare –
 
- Buona scusa, complimenti – ridacchiò Francis.
Incrociò le dita dietro la nuca.
- Ma siamo amici da cos’ tanto tempo che non me la berrò.. Non hai nemmeno comprato il regalo! –
 
- L’ho solo dimenticato –
 
- E ho anche acquisito abbastanza esperienza da sapere che se fosse stato così non lo avresti mai ammesso –
Sorrise.
 
Dove vuoi arrivare?
 
- Vedi, non sono venuto qui apposta da Parigi solo per trascinarti ad una stupida festa di compleanno –
 
- No? – disse ironico l’altro.
 
L’Arthur nello specchio e quello fuori non si rivolgevano più lo sguardo, improvvisamente interessato al pavimento d’ebano.
 
- No, esattamente – disse.
- Sono qui per farti capire che è arrivato il momento di voltare pagina, ormai è passato troppo tempo per stare ancora a rimuginarci sopra.
 
Ma di che diavolo parli?!
 
Francis s’incamminò verso l’amico in piedi di fronte allo specchio.
 
- Tu ed io ne abbiamo passate tante, ma ancora adesso siamo amici.. E’ la vita! A volte si vince e a volte si perde.. E tu quella volta hai definitivamente perso. Punto –
 
- Non mi stai affatto consolando –
 
- Non era mia intenzione farlo! – rise e gli diede una pacca amichevole sulla spalla.
 
L’inglese si voltò verso di lui.
 
- C’est la vie! – ammiccò sorridente.
Probabilmente si sentiva compiaciuto e commosso del discorso che aveva fatto.
 
- Già.. – disse l’amico, con poca convinzione e molta rassegnazione.
- C’est la vie.. – l’accento inglese rovinò il celebre francesismo.
 
Il silenzio che scese aveva un che d’imbarazzante.
 
- Sai che spari veramente tante cazzate? -  rise.
 
- Si, lo so! -

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Capitolo 2
*** Il capitolo del fratello ***


2 – Il capitolo del fratello;
 
- Ah! – esclamò – ma guarda un po’ che giorno è oggi! –
 
Sul calendario, il 4 di Luglio era cerchiato da una linea d’inchiostro rosso.
 
- Luddi! Luddi! Vieni un attimo! – strillava dalla cucina.
 
Un imponente biondo entrò nella stanza. Gli occhi azzurri sbarrati e un’espressione allarmata sul volto.
 
- Che è successo Feliciano?! Perché strilli così?! – chiese con un forte accento tedesco.
 
-Uffa! Ma perché mi chiami Feliciano?! – continuava ad urlare il ragazzo, abbattuto.
- Sembra così distante! –
 
- Perché tu mi chiami “Luddi”, sembra un nome che si da ad un cane –
 
- Eh?? Ma perché?? E’ così carino! –
 
- Abbassa la voce, non siamo in Italia qui! – lo rimproverava.
 
- Scusa Luddi –
 
La rassegnazione gliela si poteva leggere in faccia.
 
Si diede uno sguardo in torno, costatando che niente nella sua cucina fosse andato bruciato, distrutto o in riparazione.
 
- La mia cucina è come l’avevo lasciata -  poi osservò meglio – se non fosse per quella pentola di pasta sul fornellino.. Che vuoi? –
 
- Guarda! – disse il minuto ragazzo dai capelli rossicci indicando la data del giorno.
- Oggi è il compleanno di Alfred! –
 
- Alfred? –
 
- Si! – era tornato ad alzare la voce – Quell’amico americano di Francis! –
 
- Ah si, Jones. Ora ricordo –
 
Sul volto del ragazzo rossiccio era stampato un sorriso felice a trentasei denti.
 
- ..Quindi? –
 
Adesso sembrava più un idiota, che allegro.
 
- Quindi dovremmo mandargli gli auguri! – gli fece notare, come se fosse palese.
 
Scese il silenzio.
 
- Sai cosa stavo facendo fino a cinque minuti fa? Quando ti ho sentito urlare per tutta la casa..? –
 
Il giovane scosse la testa, mentre il sorriso lentamente spariva, affogato nell’ansia.
 
Una decina di piani omicida sfilarono nella mente del possente ragazzo tedesco.
 
- Ero nel mio ufficio, a progettare il nuovo sistema di sicurezza che ha richiesto uno svizzero per la sua maledetta banca.. Impegno che richiedeva tutta l’attenzione che ho dovuto rivolgere a te invece! –
 
L’accento tedesco rendeva il tutto più minaccioso.
 
- Mi dispiace.. –
 
- Me lo hai già detto tante volte, perché anche io te l’ho ripetuto altrettante! Devi capire che io non ho tutte le vacanze che hai tu! Che chiudi il ristorante quando te ne vai e lo riapri quando torni! Con il mio lavoro io non posso permettermi errori! –
 
Lo aveva già ripetuto una decina di volte ormai.
 
Sul dolce viso del ragazzo il sorriso di sempre era definitivamente appassito, e se il tedesco avesse continuato ancora era probabile che da quegli occhioni castani sarebbero presto scese delle lacrime.
 
- Scusa, davvero.. Non pensavo di poterti creare tanti problemi nel giro di una mattinata.. forse è meglio se ora vado – disse dirigendosi verso la porta.
- Ci vediamo, Ludwig.. –
Fece un cenno con la mano e uscì.
 
Senza quell’italiano, per lo meno, nella casa tornò a regnare il silenzio.
 
 
*
 
 
Tik, tok, tik, tok, tik, tok, tik, tok, tik, tok
 
Da un paio d’ore a quella parte il ticchettio dell’orologio era l’unico suono che riecheggiava nella casa.
 
Ludwig Beilschmidt era seduto alla sua scrivania, nel suo silenzioso e ordinatissimo ufficio.
Scriveva qualcosa su un foglio di carta.
Poi la cancellava, la riscriveva e la ricancellava di nuovo.
 
- Dannazione! – imprecava.
 
Buttò la penna su tutte quelle scartoffie che coprivano il tavolo.
 
- Adesso mi sento anche maledettamente in colpa! –
 
Se c’era qualcosa che veramente non sopportava in Feliciano Vargas era quel musetto dolce che si portava in giro stampato sulla faccia.
Anche se dalla parte del torto, quella particolare smorfia continuava a fargli pena.
Non tenerezza, altrimenti non avrebbe nemmeno alzato la voce. Ma si, pena era il termine giusto.
Feliciano Vargas era una persona per cui Ludwig Beilschmidt provava pena, neint’altro.
 
Tik, tok, tik, tok, tik, tok
 
Pena o no, restava comunque il fatto che gli impediva di lavorare.
 
Dalla finestra entrava forte il sole, che brillante illuminava imparzialmente tutta la stanza.
Sotto quei vestiti scuri il caldo cominciava a farsi sentire.
 
Accese il computer che si trovava sulla sua scrivania e andò a controllare il meteo del giorno.
 
Berlino, 35°. Come anche a Berna e Vienna.
Londra, 22°. Temporale.
Parigi e Roma, 39°.
 
Per quanto ne sapeva, l’unico francese che conosceva, oggi partiva in vacanza da qualche parte in America.
 
New York, 40°.
 
Non avrebbe voluto trovarsi al suo posto.
 
Berlino 35°..”
 
- Chissà se Feliciano è riuscito a riparasi dal caldo.. – si chiedeva.
- Forse dovrei chiamarlo.. –
Poi ci ripensava.
 
Un altro sguardo al meteo.
 
Stoccolma, 23°.
 
Il luogo ideale per una vacanza.
 
Mosca, 25°.
 
Nemmeno lì se la passavano male.
 
Forse era davvero arrivato il momento di prendersi una pausa.
Gli tornò in mente la sceneggiata di qualche ora prima.
 
In quel momento avrebbe voluto essere l’osso che il suo cane, Adolf, stava sotterrando sotto un albero in giardino.
 
- Dannati sensi di colpa –
 
Basta.
Avrebbe prenotato una vacanza per lui e il suo amico italiano.
Era deciso.
 
Digitò qualcosa sulla tastiera ed una lista di luoghi e rispettive compagnie aeree comparve sullo schermo.
San Pietroburgo, Cracovia, Praga, Lubecca, Roma e Vienna erano le mete più gettonate.
Roma e Vienna vennero escluse automaticamente. Necessitavano una tregua dal caldo afoso dell’ultimo periodo.
Lo stesso avvenne per la Russia, la Polonia e la Repubblica Ceca. Un po’ troppo lontane per una piccola vacanza.
In compenso però, Lubecca meritava qualche pensierino.
Al nord della Germania, al fresco e con l’affascinante presenza del fiume.
Birra a volontà e buona cucina.
 
- Per Feliciano sarebbe l’ideale! – esultò.
- Chissà come sarà contento quando glielo proporrò! Lubecca è piena di monumenti interessanti! –
 
Analizzava per lungo e per largo la pagina web del viaggio, sempre più convinto ad acquistare il pacchetto con la traghettata sul fiume.
 
Poi il campanello suonò.
 
- ARRIVO! – urlò alzandosi velocemente dalla sedia girevole.
 
Quella era telepatia. Era arrivato al momento giusto.
 
Raggiunse il portone e girò la maniglia.
La sua bocca si azionò prima del cervello.
 
- TI DEVO MOSTRARE UN.. ehi –
 
Ripensandoci lui e Feliciano non erano mai stati molto sincronizzati.
Livello massimo di delusione quando un ragazzo dai capelli estremamente chiari si presentò alla porta, con un enorme sorriso in bocca.
 
- Ehilà fratellino! – disse abbracciandolo calorosamente – Da quanto tempo non ci si vede! –
Gli occhi di uno strano color bordeaux brillavano affettuosi.
 
- Gilbert! – disse, non provando nemmeno a nascondere lo stupore per quella visione inaspettata.
- Che ci fai qui? –
 
- Sono appena arrivato dall’aeroporto ma ero troppo stanco per prendere il treno per tornare a casa.. Quindi mi sono autoinvitato a casa del mio fratellino preferito per la notte! –
 
- Che onore, oltre all’unico sono anche il preferito – commentò.
- Entra, dai-
 
Era tanto che non vedeva Gilbert, forse un po’ di amore fraterno era ciò di cui aveva bisogno.
Avrebbe pensato dopo a Feliciano.
 
- Non capisco perché ti ostini a vivere a Bonn, è da sempre che ti dico di trasferirti qui per comodità –
Come per ogni volta che glielo aveva detto, Gilbert scosse il capo.
 
- Vedi.. per me Bonn ha qualcosa di più – spiegava quel ragazzo dagli occhi color sangue, mentre il fratello gli faceva strada nel corridoio.
- Mi da la sensazione di aver recuperato qualcosa che mi era stato negato. Nessuno sceglie dove nascere. Io sono semplicemente nato nel posto sbagliato –
 
Ludwig lo fissava da sopra la spalla sinistra, un’espressione confusa sul volto.
 
- Non guardarmi così, - rise – è solo che Berlino ha un sapore che conosco già fin troppo bene –
Sorrise di nuovo.
 
Già, era decisamente molto tempo che non vedeva quel sorriso dolce. Quella tenerezza che sapeva essere riservata solo a lui.
 
- Mi sei mancato.. –
Distolse lo sguardo dal fratello, come faceva sempre quando pensava di aver detto qualcosa di strano.
 
L’altro si limitò a sorridergli alle spalle, rimanendo in silenzio.
 
Anche se il fratellino non lo guardava, sorrideva.
Anche se il fratellino non lo avrebbe saputo, gli sorrideva.
Avrebbe voluto abbracciarlo, dimostrandogli praticamente tutto l’affetto che provava per lui, come quando erano bambini. Ma non lo fece.
Sapeva che non lo avrebbe mai apprezzato come lui avrebbe voluto.
Ludwig in realtà non aspettava nessuna risposta.
 
Attraversarono il corridoio in silenzio, godendosi quel momento di taciturna complicità. Rendendosi conto di essere inaspettatamente abituati a quell’assenza di comunicazione.
 
- Se solo tu ti trasferissi qui, avremmo la possibilità di passare molto più tempo insieme.. Non capisco perché sei così cocciuto –
 
- Non dire così che mi fai sentire il cattivo della situazione.. –
 
Forse erano davvero più abituati al silenzio.
 
- Non si tratta di testardaggine.. Sai che se fosse per me io e te torneremmo a vivere insieme. Ma nonostante ciò.. Non tornerò a Berlino –
 
Vivere insieme”.. Quanti anni erano passati? Otto.
Otto anni vedendosi solo un paio di volte all’anno.
Ludwig compiva tredici anni il giorno che Gilbert se ne andò.
Aveva aspettato il giorno dei propri diciotto anni e lo aveva lasciato.
 
Tutto è meglio di casa” aveva detto.
 
- Posso farti una domanda? – chiese infine, aprendo una camera che era chiusa  a chiave.
 
Se avesse voluto fare una domanda qualsiasi non avrebbe chiesto il permesso.
 
- Spara – rispose Gilbert, preparandosi mentalmente a dare una risposta d’effetto come soleva fare.
 
- Sei mai andato a trovare il nonno da quel giorno? –
 
Ludwig sapeva bene che quelli non erano fatti suoi. Ma era dannatamente e inconsciamente curioso di sapere se tutto quell’interesse, quella dolcezza e quelle visite, se pure rare, fossero parte di un trattamenti riservato solo a lui.
 
Gilbert scoppiò a ridere, forse deluso da quella domanda poco interessante.
 
- Potevi anche fare a meno di chiedere – ammiccò.
 
Anche se rassicurato, non batté ciglio, lasciando che la sua solita espressione seria rimanesse al suo posto.
Anche se felice, non avrebbe ammesso di avere l’egoistico desiderio di non voler condividere suo fratello nemmeno con il resto della sua famiglia.
 
Non avrebbe ammesso di volere suo fratello solo per sé. 

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Capitolo 3
*** Il capitolo del fotografo ***


3 – Il capitolo del fotografo;
 
 
Arthur Kirkland continuava a guardarsi allo specchio, nonostante tutto fosse pronto per la partenza.
Ciò che questo però rifletteva non era la sua solita espressione accigliata e contratta, bensì un viso tristemente abbattuto e deprimente.
 
Vedere in quelle condizioni quell’amico che generalmente era acido, isterico, scorbutico, sempre pronto ad andare contro tutti pur di far valere la sua idea delle cose, gli faceva rabbia.
 
Forse lo aveva sopravvalutato.
 
Forse Arthur Kirkland non era la persona forte e insormontabile che pensava.
 
Poi lo vide, che tentava per la quindicesima volta in mezzora di sistemarsi la cravatta, che comunque rimaneva storta.
 
No, non poteva essere così.
 
Conosceva quella piaga di ragazzo da diciannove anni, che forse quell’idiota di un americano che lo aveva ridotto così non era ancora nato.
 
No, non avrebbe ammesso di essersi sbagliato per diciannove anni.
In un modo o nell’altro avrebbe riportato Arthur a essere l’odioso inglese snob di sempre.
 
- Basta –
Francis Bonnefoy interruppe finalmente quella cerimonia di autocommiserazione che stava andando avanti da mezzora, a scapito della cravatta.
- Rimanere a guardare è uno strazio! –
 
Si alzò dal divano su cui si era appollaiato e si diresse verso l’amico, in piedi di fronte allo specchio.
 
- Era divertente per i primi dieci minuti, ma dopo mezzora ci mancava pure che mi venisse il tic nervoso di rifarmi la cravatta! –
 
Lo afferrò per il colletto e prese a sistemargliela, anche se dopo innumerevoli tentativi era del tutto sgualcita.
 
- Sei grande ormai, dovresti sapere che se sei agitato non dovresti prendertela con gli oggetti –
 
Questa volta la cravatta aveva una forma decente, per quanto necessitasse di essere ristirata.
 
- Grazie – si limitò a rispondere l’altro.
 
Francis sospirò di rassegnazione.
Davvero non lo sopportava.
Non poteva credere che bastasse questo ad abbattere il suo amato e odiato Arthur.
Aveva il gusto per il bello lui, era un fotografo, doveva averlo.
 
E quel viso sciupato non lo era per niente.
 
Detestava le cose che non erano belle, per questo doveva restituire ad Arthur la sua infantile e graziosa smorfia di sempre.
 
Solo per qualche secondo.
 
Arthur guardava per terra, probabilmente ancora imbarazzato per l’aiuto ricevuto per la cravatta.
 
Che stupido.
 
Ma cosa stava aspettando a rivolgergli il largo e storto sorriso di sempre?
 
Francis voleva solo quello.
 
Un sorrisino di qualche secondo, il tempo di fotografarlo nella mente e avere qualcosa a cui pensare quella notte nel letto, dopo una festa avrebbe avuto qualcosa di strano, costringendo Arthut Kirkland e Alfred Jones nella stessa stanza.
 
Ma che aspetti a sorridermi?”.
 
Quell’attesa lo stava irritando.
Lui non era una persona nervosa. Sempre rilassato e propenso a godersi la vita.
Ma tutto quel silenzio davvero non lo reggeva.
 
- Certo che sei proprio senza speranze… -
 
Arthur alzò lo sguardo da terra, confuso.
 
- Che vorresti dire? –
 
- Che voglio dire? – ghignò quasi con perfidia – Voglio dire che ti stai comportando come una ragazzina del liceo –
 
Forse non era proprio così che voleva andassero le cose.
 
- Ma di che diavolo parli?! –
 
Si cominciava ad alzare la voce.
 
- Mi sono rotto di stare qui a contemplarti mentre cadi in depressione come una donnicciola innamorata! E’ deprimente! –
 
Non era proprio questo ciò che avrebbe voluto dire.
 
- Tu non sai niente! Non accusare di essere “innamorati” se non sai di cosa stai parlando! –
 
- Io lo so e come! Hai uno sguardo da cane bastonato, non spiccichi parola e non guardi in faccia nessuno! Da quando sono arrivato mi hai trattato come un soprammobile, un fantasma! E riprenditi un po’! –
 
Adesso si stava decisamente urlando.
 
- Se ti da tanto fastidio, vattene e basta! Nessuno ti ha invitato a venire, né tanto meno a restare! Sei tu che vuoi trascinarmi a quella stupida festa! –
 
- Se tu non fossi un tale bambino cocciuto non sarei dovuto venire a raccattarti da casa! E’ palese! Ammettilo che provavi qualcosa per lui! –
 
Come siamo finiti a litigare?”.
 
- Vattene… -
 
Di nuovo non si guardavano più in faccia.
 
Quel pavimento doveva avere qualcosa di particolarmente interessante.
 
- Che cos’è?! Ho toccato un tasto dolente vero?! –
 
- Non ti sto lasciando scelta, vattene… -
 
Perché non mi rispondi?”.
 
E’ davvero così?”.
 
No, non se ne sarebbe andato con quel dubbio.
 
- Lo sai? – adesso più che di rabbia, quel tono di voce aveva un retrogusto di cattiveria – Chi tace acconsente –
 
Quegli occhi verde acido si levarono di nuovo da terra.
 
- Io ti sto dando solo il buon esempio, dato che a quanto pare non sai come si fa –
 
Si, quegli occhi erano decisamente verde acido.
 
- Forse dovrei anche mostrarti come uscire dalla porta –
 
Francis lo prese per il bavero. Due visi particolarmente vicini.
 
- Perché invece non dimostri quello che dici? Ripeti a me di non sapere niente però continui a comportarti come sei avessi ragione –
 
L’altro spingeva contro il suo petto, cercando di divincolarsi.
 
Ma Francis non mollava la presa.
 
- Lasciami… - biascicava, come se il tutto gli stesse creando una fastidiosa sofferenza.
 
- Che c’è? Ti sei disabituato al contatto umano? –
 
Ormai non serviva più gridare.
Un sussurro dell’uno era perfettamente udibile all’orecchio dell’altro.
 
Perché non lo diceva chiaramente? Aveva ragione lui o no? C’era davvero qualcos’altro?
Perché indugiava?
Perché quello sguardo non sembrava contrariato, ma solo infastidito da quella esagerata confidenza?
Perché non ammetteva di provare qualcosa per quell’americano irritante?
 
- Come fai a provare qualcosa per lui, se ti ha ridotto così.. ? –
 
Non sopportava quell’ignoranza.
Il non capire cosa stesse davvero accadendo a quel suo caro amico.
 
- Lasciami, ti prego… -
 
Qualcosa non andava questa volta.
La voce tremava in quella richiesta.
Ma non sapeva dire se era panico quello che febricitava gli occhi di quel ragazzo.
 
Francis allentò la presa, senza però rimuovere la mano dal suo posto. Ed un’orribile sensazione gli percorse la schiena.
 
 
Scese il silenzio.
 
 
Ma lui era lì, che teneva stretto quel giovane tra le braccia.
 
Le sue labbra avvinghiate a quelle di lui. Come con foga di divorarle.
 
Gli occhi verdi sbarrati. Le sottili mani stringevano la camicia del francese sul petto, esercitando contro di lui una debole pressione.
 
L’abbraccio divenne ancora più stretto.
Soffocando così anche quell’insignificante segno di ribellione.
 
Si staccò un momento, constatando che quelle labbra che aveva brama di assaporare ancora avevano preso un colorito leggermente più scuro.
Come le guancie ormai rosa.
 
Ci passò sopra la lingua, con delicatezza, per poi portarla sul collo.
Seguendo i muscoli tesi sotto la pelle. Arrivando all’incavo e risalendo verso l’orecchio.
Alitando con calore lì dove rimaneva umido.
 
Piano piano quelle guancie rosee divennero di un prepotente color rosso.
 
Lo strinse ancora di più a sé.
Come sperando che da un momento all’altro quei due corpi potessero fondersi.
 
Tornò a premere le labbra con forza contro quelle del ragazzo. Facendosi violentemente strada nella sua bocca.
Assaporando con la sua, la lingua che fino ad un momento prima aveva mormorato insulti in un inglese tremendamente volgare.
 
Ma quei continui movimenti di finta contrarietà, e quel debole divincolarsi tra le sue braccia, lo eccitavano ancora di più.
 
Lo eccitavano come niente e nessuno aveva mai fatto prima.
 
Fu così che improvvisamente si ritrovò a spingerlo contro il muro.
Continuando a trattenerlo fermamente, per quanto fosse possibile, tra le sue braccia.
 
Sapeva di non avere molto tempo, entro poco avrebbero dovuto raggiungere l’aereoporto.
Ma continuava a ripetersi che si sarebbe goduto quel momento fino alla fine.
 
E non si preoccupava nemmeno lontanamente potesse essere una voglia a senso unico.
 
Arthur era tutto un bollore.
Contratto contro Francis nonostante il muro alle sue spalle.
 
Decisamente però, tutto ciò non era abbastanza.
 
Erano entrambi abbandonati in balia dell’adrenalina.
E poi chissà se avrebbe avuto un’altra occasione.
 
Doveva gustarselo finché poteva.
 
 
Qualcosa di duro premeva ormai contro la sua gamba, che intanto si era infilata tra quelle dell’inglese.
 
Le cose si facevano interessanti.
 
Adesso era lui a tenersi avvinghiato.
 
Francis ne approfittò per lasciare un po’ la presa e infilare una mano nel gilet verde bottiglia del ragazzo, mentre l’altra faceva da sostegno contro il muro.
 
Cominciò a sbottonare la camicia candidamente bianca che vi si celava sotto.
 
La stretta di Arthur intorno al suo collo aumentò.
 
Francis lo baciò ancora, notando con piacere che quelle labbra sottili si erano leggermente gonfiate e colorate di rosso.
 
Allora passò a mordergli l’orecchio, mentre la mano sinistra scendeva dal torace verso la vita.
 
Le dita seguivano le linee dei deboli addominali, tesi sotto i polpastrelli.
 
Slacciò la cintura, i pantaloni, e vi infilò una mano.
 
Ma guarda un po’… C’è un’erezione in corso qui… Uhm?”.
 
Qualcosa era cambiato.
 
Adesso nascondeva il viso nell’incavo del suo collo, improvvisamente vergognoso.
 
Forse le cose stavano andando troppo veloci.
Arthur non lo avrebbe mai perdonato se si fosse spinto troppo oltre.
 
Voleva che fosse una cosa piacevole per entrambi. Non doveva andare così.
 
Eppure erano arrivati troppo lontano. Non sarebbe stato il massimo fermarsi così.
 
 
Gli avvolse la vita affettuosamente e gli baciò seducentemente la guancia.
 
Lo spogliò dolcemente di tutti i vestiti e lo fece poggiare sul divano.
Poi con nonchalance tolse anche la propria camicia.
 
Infine, finalmente tornò a guardarlo negli occhi.
 
- Guarda attentamente quello che sto per fare.. -

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Capitolo 4
*** Il capitolo del profumo ***


4 – Il capitolo del profumo;
 
 
L’aveva spinto così delicatamente su quel divano che quasi non ci aveva fatto caso.
 
Tutta quella dolcezza che gli stava intorpidendo i sensi, era qualcosa di cui non aveva ricordo in tutti quegli anni trascorsi insieme.
Una novità che gli riempiva il cuore di eccitazione.
Un’eccitazione che lentamente scendeva verso il basso, dura e pulsante.
 
Guarda attentamente quello che sto per fare” gli aveva sentito sussurrare mentre si toglieva la camicia di dosso.
 
La sua camicia di cotone lillà, intrisa del suo profumo.
Così forte da fargli girare la testa.
Così forte da fargli stringere ancora di più lo stomaco, torturato da quella morsa nervosa che lo attanagliava.
Che lo eccitava ancora di più.
 
Francis non era mai stato un uomo muscoloso. Anzi, era di costituzione particolarmente magra.
Ciò che lo rendeva particolarmente affascinante agli occhi di tutti erano le spalle larghe che si stringevano nella vita sottile, che si divaricava a sua volta in due lunghe e sottili gambe; gli ondulati capelli biondi che gli toccavano le spalle con le punte, in un modo tanto preciso da sembrare artificiale.
Quel color azzurro mare che colorava le sue pupille, il naso piccolo il viso appuntito gli donavano un aspetto regale.
 
Se ne rendeva conto perché il ragazzo stesso per anni glielo aveva fatto notare.
 
Bello e cosciente di esserlo, Francis era narcisista e pieno di sé probabilmente dalla nascita.
 
Tratti di lui a cui aveva fatto l'abitudine.
 
Se avesse mai dovuto ammettere di avere un qualche complesso d’inferiorità, non si sarebbe astenuto dallo scaricarne la colpa principalmente su due persone: Alfred Jones e Francis Bonnefoy.
Aveva trascorso l’infanzia cercando di stare dietro ad un Francis che sin da bambino non perdeva occasione di fargli contare tutti i passi indietro a cui rispetto a lui si trovava.
L’adolescenza con un Alfred che semplicemente nemmeno ci provava. Era sempre un passo avanti, senza mai fare caso a ciò che accadeva alle sue spalle.
 
Ora invece si sentiva solo come un cane.
Un maledetto e rabbioso cane da strada.
 
Lui e Francis non si vedevano comunque quasi mai, e ritrovarselo sulla porta quel giorno lo aveva sorpreso non poco.
Lo aveva accolto come se in realtà il tempo non fosse mai passato.
E ora gli stava scaricando addosso una voglia repressa che forse lui nemmeno aveva.
 
Solo perché l’altro gli aveva praticamente permesso di porgergliela su un piatto d’argento. E lui aveva un disperato bisogno di accontentarlo.
 
Anche se era un bluff che si stava in sceneggiando nella sua testa, realizzava come le possibilità fossero più di quelle da lui fino a quel momento considerate.
 
Voleva sentire che se anche non ci fosse chi aveva sempre immaginato ci sarebbe stato, non sarebbe rimasto solo.
 
Aveva la sua scappatoia, la sua terza opzione.
Non doveva essere per forza bianco o nero, poiché non disgustava il grigio.
 
Guarda attentamente..” gli aveva detto.
 
Perfetto.
 
Adesso aveva una scusa per focalizzare quegli occhi blu e non pensare più a niente.
 
Non gli restava altro che arrossire con vergogna mentre i sensi di colpa si facevano lontani, coperti dalla crescente eccitazione.
 
Francis era tremendamente bravo.
Continuava a stuzzicargli la punta con la lingua.
 
Arthur non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, eccitandosi ancora di più.
 
Bloccato in quel circolo vizioso e sensualmente mortificante.
 
Non poteva reprimere il godimento quando i suoi capezzoli sbocciavano al passaggio delle sue labbra.
Non poteva nascondere di cercarlo alla cieca con le mani mentre gli baciava bollentemente il collo.
Non poteva negare di desiderare la lussuria che si sprigionava da quei due bacini che si muovevano l’uno verso l’altro a scatti sempre più decisi.
 
Soltanto l’essere cosciente di come le loro schiene s’incurvassero per l’essere toccati, sfiorati, lo faceva ansimare.
 
Il francese lo stava facendo definitivamente suo…
 
Poi improvvisamente successe qualcosa.
Forse un telefono aveva squillato. Lui non lo aveva sentito.
 
Francis era a qualche metro da lui. Frugava nelle tasche della giacca.
Ne cacciò un cellulare a cui si affrettò a rispondere.
 
Decisamente il momento più opportuno..” pensò sarcastico.
 
Non avrebbe voluto rimettersi i vestiti addosso.
Li guardava, sperando che quegli incantesimi che da bambino passava il tempo ad inventare si rivelassero finalmente utili.
 
Il fatto di dover ammettere che fosse veramente tutto finito, così, per caso com’era iniziato, era umiliante.
 
Francis parlava a quello dall’altra parte del telefono con voce stizzita.
Diceva che entro poco gli avrebbero raggiunti.
 
- Certo che  questa festa ti sta proprio rovinando la giornata... – disse.
Non si era congedato prima di riattaccare.
 
Gli sorrise.
 
Arthur non poté fare a meno di arrossire infantilmente.
 
Ormai non aveva veramente più scelta se non rivestirsi. Il suo amico era già quasi del tutto pronto per uscire.
 
Pigramente recuperò i pantaloni da terra, infilandoseli.
Il suo umore sotto le scarpe.
La camicia necessitava di essere ristirata, ma a quanto pareva, non ve n’era più la possibilità.
 
Francis si avvicinò e lo baciò, proprio lì, sulle labbra chiuse e rosse.
 
Perché dava l’impressione di aver capito tutto? Tutto quanto?
 
- Tempo scaduto – disse – dobbiamo andare –
 
Dov’era stato per tutto quel tempo che era restato da solo?
Allora sì che avrebbe ringraziato per la sua presenza. Molto più di quanto potesse fare in quel momento.
Perché ormai il suo cuore aveva compreso.
Compreso che il fondamentale era sopravvivere.
Non importava se ricoperto di graffi e cicatrici. Se batteva, poteva rialzarsi e camminare ancora, alla cieca.
 
Francis continuava a guardarlo, sorridendogli, quando in quella situazione avrebbe solo dovuto girare i tacchi, uscire, e se ci teneva tanto, aspettare fuori.
 
Mentre invece lì, l’imbarazzo cresceva viscido e fuori controllo.
 
Piano piano si rivestì, sforzandosi di voltargli le spalle.
In mondo che non notasse il viso irragionevolmente rosso.
Sforzandosi di sopportare la camicia di nuovo addosso.
In modo che non si vedesse quanto lo stava nauseando.
 
Già, perché la camicia era ben imbevuta del suo profumo preferito.
Quel profumo che si era fino a quel momento preoccupato avesse tutta la sua casa.
Adesso, invece, era lui quello fuori luogo.
Era lui quello che non aveva più il suo stesso profumo addosso.
In quel momento percepiva la fragranza di acqua di rose, lieve, sulla pelle.
 
In quel momento odorava tremendamente di Francis.
 
 
*
 
 
- Sembra quasi che tu non mi voglia più parlare – disse Francis quando Arthur prese posto sul sedile dell’aereo accanto al suo.
Facendo così crollare il muro del silenzio che si era involontariamente costruito, mattone dopo mattone, tra loro.
 
- Hai frainteso – rispose.
Chiuse gli occhi verdi.
 
Se da una parte si sentiva sollevato per il non dover continuare con quel mutismo, dall’altra era combattuto dallo star lasciando la sua città.
 
- Sono felice di sentirtelo dire –
Forse aveva sorriso.
 
O per lo meno Arthur se ne voleva illudere.
Il batticuore si era finalmente placato, non avrebbe voluto avere ragione di farlo ricominciare.
 
Quindi si limitò a non rispondere.
Sperando di essere tanto bravo a fingere da far credere all’altro di avere sonno.
 
Sì, si sentiva sollevato. Ma non abbastanza da permettersi di ignorare la fitta allo stomaco.
Quell’ansia che gli toglieva la voglia di parlare.
Che gli rubava il fiato necessario a gonfiare le parole.
 
Guardava fuori dal finestrino la sua città farsi più piccola mentre l’aereo prendeva quota.
 
Londra era meravigliosa. Storica e nuova. Colossale e avvolgente. Tiepida e fresca allo stesso tempo.
Se Londra fosse stata una persona, non gli sarebbe importato chi o come, se uomo o donna, l’avrebbe fatta sua.
Londra era ciò che si sarebbe sempre rifiutato di lasciare.
Avrebbe preferito i ponti di Londra ai grattacieli di New York, sempre e comunque.
 
Erano già passate due ore da quando l’aereo aveva lasciato l’Inghilterra.
 
Francis si era addormentato in fretta, e vederlo così silenziosamente innocente lo fece sentire improvvisamente più leggero.
Dormiva appena appena, con le labbra leggermente schiuse e il capo lievemente inclinato verso di lui.
Dando l’impressione di potersi svegliare al minimo suono o movimento.
 
Si sorprese a sorridere.
Una sensazione gradevole si diffuse nelle sue vene senza che lui potesse farci niente.
Niente, tranne che sorridere.
 
Si guardò un po’ intorno, in cerca di qualcosa da fare.
 
I posti dell’aereo erano collocati in tre file da tre sedili.
Loro erano seduti sulla fila a sinistra.
 
L’uomo che era seduto all’interno, verso il corridoio, non sembrava inglese. Come molta della gente sull’aereo.
Aveva un viso dai tratti orientali, capelli scuri e lisci. Folte sopracciglia e un’espressione seria in volto.
Ebbe subito l’impressione non fosse molto loquace. Continuava a leggere un grosso libro rilegato in una copertina rosso cremisi e oro.
Senza staccare gli occhi dalle pagine, rimaneva immobile e in silenzio.
 
Accanto a lui, nel mezzo, era seduto Francis. Ancora dormiente.
Mentre Arthur aveva preso volontariamente posto accanto al finestrino, in modo da avere qualcosa con cui intrattenersi nelle sette ore e trenta minuti di volo.
 
Uno dei suoi peggiori difetti era l’incapacità di sapersi adeguare. Non gli era possibile, infatti, prendere sonno se non sul suo letto.
Per giunta, dietro di lui era seduto un ragazzino asiatico che non faceva altro che parlare e parlare e parlare.
Senza dare tregua né alla sua voce, né a coloro che gli erano intorno.
 
Era seduto con Ivan Braginsky.
Un ragazzo russo che aveva incontrato un paio di anni prima a casa di Francis, a Parigi.
Quando si conobbero lui studiava ancora lettere all’Università, ma a quanto aveva sentito raccontare dal francese, era già diventato un critico letterario di fama sorprendente.
 
In mezzo a loro era seduto un uomo che era arrivato all’aeroporto con Braginsky. Ed era colui che si era portato dietro il ragazzino.
 
Anche di lui aveva sentito dire qualcosa dall’amico.
Yao Wang era un designer cinese molto in voga negli ultimi tempi.
Da quanto ne sapeva, era in collaborazione con un altro designer asiatico, e insieme la loro reputazione era cresciuta al livello mondiale.
 
Anche loro erano invitati alla festa.
 
Ci stava andando davvero.
Chi lo avrebbe mai detto.
 
Infilò una mano nella borsa sotto le sue gambe e ne estrasse un pacchetto grande quanto il palmo della sua mano.
 
Guarda come mi sono ridotto...” commentò ironico nella sua mente.
 
Per un momento sentì lo sguardo dello sconosciuto addosso.
Ma deciso di non voltarsi.
 
Lo voleva considerare un auto-punizione per essere così esageratamente patetico.
 
In realtà il regalo lo aveva comprato, e già un bel po’ di tempo prima.
 
Non lo aveva detto a Francis. Si sarebbe inventato qualcosa sul momento.
Non avrebbe potuto ammettere di averlo comprato perché gli sembrava essere stato creato apposta per Alfred.
Mai.
 
Lo rimise in borsa e rivolse la coda dell’occhio verso l’altro passeggero sveglio.
 
Non era cambiato nulla.
Gli occhi ancora affogati nelle parole del pesante libro rosso.
 
Improvvisamente glielo vide chiudere e piegarsi.
Prese una ventiquattrore nera da sotto il sedile.
Mentre l’apriva per metterci dentro il libro, un odore di Oolong* si diffuse nell’aria come profumo.
 
 
*L’Oolong è una specie di tè orientale.

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Capitolo 5
*** Il capitolo dei limoni ***


5 – Il capitolo dei limoni;
 
 
1° Luglio;
 
- Questo profumo… E’ qualcosa che mi spinge verso di te, mi attrae come fosse gravità… -
 
- Davvero non hai niente di meglio da dire?! Nient’altro?! Non immagini nemmeno come mi senta, e parli di profumo?! –
 
Le mise un braccio intorno alla vita, guardandola fisso negli occhi purpurei.
 
- Hai ragione, io non lo immagino – ammise lui tranquillamente – ma non riusciremmo a intrattenerci al meglio se conoscessimo tutto l’uno dell’altra… Non la pensi anche tu così? –
 
Con l’altra mano giocherellava con una ciocca dei lunghi e chiarissimi capelli di lei.
 
- Per te tutto concerne al sesso, vero?! Non t’interessa nient’altro! Non ti fai schifo?! –
 
- Schifo? Non avrei mai detto fosse quello che provavi tu… O almeno, ieri notte non mi è parso, e nemmeno la notte prima o quella prima ancora… Forse ho frainteso – ghignò.
- Avrei detto fossi tu quella nel letto… -
 
Le brillarono gli occhi. Le labbra sottili impallidirono mentre le gote si coloravano del sangue che affluiva sotto la pelle.
In balia della rabbia.
 
Poi sorrise.
 
No, forse aveva solo gli angoli della bocca sollevati, malignamente.
 
- Già, forse ti sei solo confuso… - chiuse un momento gli occhi e fece un gesto di nonchalance con la mano – Con tutte quelle che ti parti a letto non mi sorprende. Un attimo di distrazione e “puff”… - tamburellò le dita per aria – Hai un orgasmo con il nome della donna sbagliata –
 
Lui alzò un sopracciglio, mentre il sorriso cattivo restava sulle sue labbra.
Spontaneo.
 
- Hai ragione anche su questo… - ammise. Come si ammette di aver perso una scommessa da due soldi.
- Ma tra quei tanti nomi c’era anche il tuo –
Si portò una mano sul cuore, chinandosi un po’ verso il viso di lei.
 
Adesso il tremolio nei suoi occhi era tale che avrebbe giurato si sarebbe messa a piangere.
 
- Va al diavolo! – urlò senza contegno, aprendo il palmo della mano destra e voltandolo ferocemente verso la guancia di lui.
 
Per un brevissimo momento fece in tempo a guardare la mano che lo stava per colpire con violenza.
Poi chiuse gli occhi verdi.
 
Strinse le palpebre.
 
 
- STOP! – urlò il regista – BUONA! –
 
Gupta Muhammad Hassam saltò energicamente dalla sua sedia e corse incontro ai due attori.
 
- Siete incredibili! – li elogiava a gran voce.
- La scena era perfetta! Non un minimo errore! –
 
I due gli sorrisero, forse incapaci di ringraziarlo in altro modo.
O forse semplicemente troppo stanchi per provarci.
 
- Antonio, da te non mi aspettavo niente di meno! Sei uno dei migliori attori con cui abbia mai lavorato! – disse, dandogli un colpetto sul braccio.
 
- Potrei dire la stessa cosa anch’io – rispose lui, ammiccando alla ragazza accanto a lui.
 
Lei arrossì compostamente.
 
- Tu, Natalia! – riprese il regista – Nessuno direbbe mai che questa è la tua prima esperienza come attrice! Sapevo che come ballerina sei il massimo, ma anche come attrice sei strabiliante! –
 
- Mi sono impegnata davvero tanto per conciliare la danza con le lezioni di recitazione, a volte non dormivo o mangiavo per fare tutto – spiegava lei.
Era innegabilmente felice di sé stessa.
 
- Non posso credere che questa fosse l’ultima scena! Il film adesso è veramente terminato! –
Il regista Hassam era su di giri, e la troupe non poteva fare a meno di essere contenta quanto lui.
 
Il film adesso è veramente terminato”.
 
Adesso lo avrebbe finalmente rivisto.
 
 
*
 
 
- Io vado, Nà! Grazie di tutto! Ci sentiamo! –
 
La ragazza lo salutò con la mano da lontano.
 
Udì la voce del regista.
- Antonio! Non sparire! Teniamoci in contatto! –
 
No soy tàn tonto”.
 
- Se ha bisogno di qualcosa contatti il mio agente! – gli rispose gridando, mentre allungava il passo per allontanarsi.
 
- Sai che non lo farò! –
Un velo d’irritazione era ben celato nel tono di quell’ultima frase.
 
Senza voltarsi fece un cenno di congedo con la mano sinistra.
 
Finalmente era in vacanza.
Finalmente lo avrebbe rivisto.
 
Quanti mesi erano passati? Cinque? Cinque mesi dall’ultima volta che erano stati insieme.
 
Sentiva il sudore bagnarli la fronte, il collo  e la schiena per il caldo.
 
Ma non gli importava.
 
Voleva correre.
Doveva correre in albergo, recuperare la valigia che si era già preoccupato di fare e prendere l’aereo.
 
Mise una mano nella tasca posteriore dei jeans scuri e ne tirò fuori il cellulare.
Digitò un messaggio e lo inviò. Poi lo rimise in tasca.
 
E’ tutto finito. Torno a casa!” aveva scritto.
 
Mentre camminava a passo svelto, la tasca vibrò.
Uno squillo.
 
Lo aveva letto.
 
Adesso era ancora più entusiasta.
 
Correva. Le strade di San Pietroburgo infiammavano sotto i suoi piedi.
 
All’entrata dell’albergo lo aspettava il suo agente, in piedi accanto ad una lussuosa auto bianca.
 
- Dai, dai, Antonio! L’aereo parte tra un’ora! – diceva, invitandolo a sbrigarsi.
- Le valigie sono già in macchina, mi sono occupato di tutto io. Sbrigati! –
 
- Grazie, Sadiq! –
 
Il suo agente era sempre stato un uomo efficiente.
 
Entrò in macchina.
L’uomo lo seguì e gli si sedette affianco, chiudendosi la portiera alle spalle.
 
Per quanto potesse essere grande il retro della limousine che era stata prenotata per lui, condividendolo con quell’uomo lo spazio sembrava diminuire drasticamente.
 
Alto forse più di un metro e novanta, Sadiq Adnan era un uomo possente e affascinante.
Andava per i trenta ma aveva un viso dalle caratteristiche quasi vissute.
Aveva occhi color terracotta, una pelle poco più abbronzata della sua e capelli castano scuro.
Nonostante la giovane età, Sadiq era il migliore in circolazione nel suo campo.
 
Una delle persone di cui si fidava di più.
Se ce ne fosse stata mai occasione gli avrebbe affidato anche la vita, perché Sadiq portava sempre a termine i suoi incarichi.
Qualsiasi questi fossero, Sadiq non era in grado di fallire.
 
- Come mai ci hai messo tanto? – gli chiese, sfogliando un agenda.
 
- Il regista ci ha trattenuto un po’ più del previsto –
 
Un gesto nervoso si mosse leggermente su quel viso abbronzato.
 
- Quell'egiziano buono a niente – serrò la mascella, coperta da una leggera barba. Poi riprese.
- E’ così lento che ogni volta mi fa perdere tempo prezioso! –
 
Antonio sapeva bene quanto il Gupta di Sadiq fosse diverso da quello con cui aveva a che fare lui ogni giorno. All’inizio aveva creduto fosse essenzialmente a causa del brutto rapporto che i primi due condividevano, ma alla fine era arrivato a pensare ad un vero e proprio esempio di sdoppiamento della personalità.
Il Gupta che elogiava il suoi attori sembrava essere completamente un’altra persona da quella chiusa, fredda e autoritaria che tiranneggiava Sadiq e tutti coloro che capitava gli ronzassero intorno.
 
- Non capisco proprio come tu abbia fatto a resistere cinque mesi lavorando per lui – continuava l’altro, visibilmente irritato.
 
Antonio si limitò a scrollare le spalle.
Meglio non incentivare il discorso” aveva pensato.
 
- Sicuro di non aver lasciato niente in albergo? – chiese tanto per forma al suo agente mentre si dirigevano verso l'areoporto.
Sapeva che quelli erano compiti da niente.
 
L’altro annuì sorridente.
 
Poi sembrò ricordarsi di una cosa a bruciapelo.
 
- Ah! – esclamò – Ha chiamato Lovino mentre ero in albergo! –
 
Il viso di Antonio s’illuminò improvvisamente.
 
- Chiedeva a che ora saremmo tornati a Barcellona e di avvisarti, dato che non hai risposto al suo messaggio, che non riuscirà a essere a casa per quell’ora –
 
Il sorriso si spense. La delusione aveva inflitto un colpo fortissimo al suo stomaco.
 
Prese il cellulare dalla tasca e controllò.
 
Un messaggio… Lovi… - A che ora arrivi? Oggi ho un po’ da fare – “.
 
Si, era decisamente delusione quel fastidio al centro del suo ventre.
 
Dopo cinque mesi sarebbe tornato a casa e non sapeva quando lo avrebbe potuto vedere.
 
Segretamente bestemmiava in spagnolo contro la sfiga che lo perseguitava.
 
 
*
 
 
- Ti chiamerò domattina! Buenas noches! – disse, mentre il finestrino oscurato dell’auto si alzava.
 
Gli piaceva quando Sadiq emulava l’accento spagnolo. Lasciava trapelare un po’ delle sue origini Turche nella pronuncia.
 
Il viaggio era durato parecchi ore. Ore passate lunghe e pesanti. Insopportabili.
 
Adesso era definitivamente sfinito.
Aveva a stento la forza di salire le scale.
 
Poi ovviamente dovevano essere salite anche le numerose valigie, che aspettavano lì, ferme sul ciglio della strada, di essere trascinate su per i gradini.
 
Madre de Dios”.
 
Con quella poca pazienza che gli era rimasta prese il cellulare e digitò il numero di Sadiq.
 
- Buenas tarde – rispose allegro – aspetta due minuti e sono da te –
 
Come si aspettava, non aveva avuto bisogno di dire niente.
Sadiq sapeva probabilmente anche ciò che stava pensando in quel momento stesso.
 
E in due minuti, in effetti, era proprio lì. Lo aiutava con le valigie.
 
Antonio si trascinava dietro un borsone, tenendolo per il manico.
Lo strisciava contro le grandi scale di pietra.
 
Un paio di gradini più sotto il suo agente caricava tranquillamente due bauli. Uno per ogni braccio.
 
- Ti serve aiuto? – chiese.
– Se vuoi posso prendere in braccio anche te – lo schernì.
 
Antonio come al solito non se la prese. Scoppiò a ridere e gli lasciò cadere la borsa sui piedi.
 
Una smorfia di dolore misto a divertimento.
 
- Guarda che io ho un fisico invidiabile, sei tu che sembri un culturista! –
 
Risero ancora insieme.
 
Quella sintonia lo rallegrava, ma allo stesso tempo lo pugnalava al petto. Perché per quanto fosse speciale per lui Sadiq, Lovi non era lì con loro.
Con lui.
Ma da tutt’altra parte a fare chissà cosa.
 
Entrati in casa, aprì le finestre del corridoio mentre Sadiq portava le sue cose in camera.
 
Gli era mancata la sua casa. C’era il profumo di Lovino lì.
Quell’aroma di limoni siciliani gli riempiva i polmoni.
 
Perché in quella casa Lovino era stato solo.
 
O almeno sperava.
 
Lovino Vargas era un ragazzo bellissimo.
Anche se ciò che guadagnava in bellezza lo perdeva in maniere.
A lui piaceva il lato indisponente di quel ragazzo.
Ci provava gusto ad occuparsi di lui e del suo brutto carattere. Era qualcosa che sapeva non poter chiedere al suo agente.
Lo faceva sentire importante.
 
Io vivo con Lovino Vargas”.
Avrebbe voluto gridarlo al mondo.
 
Eppure, per qualche strana ragione, Lovi non era così attaccato a lui.
Sembrava ricambiare solo il cinquanta percento di ciò che provava per quel ragazzo.
 
Ma finché il suo profumo al limone, i suoi abiti, le sue cose, le sue impronte erano in quella casa, non voleva preoccuparsene.
 
Erano le sei del pomeriggio. Barcellona era rovente fuori dalle grandi vetrate.
Le strade del loro maniero di campagna erano desolate.
I prati seccavano sotto il sole cocente.
Alcuni pomodori maturavano rossi nell’orticello dietro casa.
Tutto così silenzioso.
Lovino non era lì. Dov’era?
 
Si rese conto di essere tornato con nessun’altra voglia se non quella di rivederlo.
 
Rivederlo? Ma che stava dicendo?
Voleva vederlo, toccarlo, abbracciarlo, baciarlo, spogliarlo e poi farci l’amore.
Senza mai lasciarlo andare.
 
Ma Lovino non era lì!
 
Si sedette sul divano di tessuto bianco. Di fronte una gigantesca finestra.
Un panorama vasto e stupendo.
Papaveri che crescevano selvatici lo coloravano di rosso, contrastando con l’ocra dell’erba bruciata dall’afa.
 
Mentre con un’espressione affranta s’interrogava sul da farsi – deprimersi per l’essere lo sfigato della situazione o incazzarsi per aver scelto l’amante meno devoto sulla faccia della Terra – Sadiq entrò in salotto.
 
- Di là ho finito con i bagagli… - sembrò soffermarsi ad analizzare l’uomo stravaccato sul divano bianco.
- Oh no! – esclamò allarmato.
 
- Oh si… - gli rispose – Perché non ti sei fatto dire dove diavolo andava quel ragazzo?! –
 
- Ha detto semplicemente che aveva da fare, poi sapevo che se tu lo avessi saputo ti saresti diretto immediatamente sul posto… -
 
- Non posso farlo?! – lo interruppe irritato.
 
Sadiq ridusse gli occhi color terra a sue fessure.
 
- Ovvio che non puoi farlo. Questa settimana hai fatto pochissime ore di sonno per tutto il lavoro arretrato di quell’idiota di un regista… Hai le borse sotto gli occhi così marcate da sembrare un panda, sei nervoso e stai diventando decisamente ossessivo – si fermò a vedere la reazione ottenuta.
 
Antonio volse lo sguardo verso lo specchio a muro.
Aveva veramente le occhiaie da panda, i capelli arruffati e annodati e la camicia bianco panna sgualcita dal viaggio.
 
- Credi davvero di fare bella figura andando in giro in quelle condizioni? –
 
In effetti Sadiq era il suo manager, doveva occuparsi del suo aspetto e delle sue uscite in pubblico. Era il suo lavoro.
 
Guardandosi riflesso nello specchio, cominciò a sentire la stanchezza accumulata piombargli addosso tutta in una volta.
Aveva tremendamente sonno. Voleva chiudere gli occhi.
 
- Che ne dici di andare a riposare un po’? –
 
- Abbiamo dei sonniferi da qualche parte? –
 
- Stai scherzano?! Se prendi quella roba non ti sveglierai nemmeno per l’arrivo di Lovino! –
 
Lo scopo era proprio quello.
Voleva dormire profondamente. Svegliarsi con l’odore della pasta alla crudaiola preparata da Lovino, come se non fosse mai andato via.
 
- Non provarci Antonio – lo ammonì Sadiq con sguardo minaccioso.
 
- Allora aiutami tu ad addormentarmi! – disse gettandogli le braccia al collo.
- Sono depresso! Occupati di me… E’ il tuo lavoro – piagnucolava.
 
Sadiq lo guardava esasperato, mentre se lo trascinava dietro a peso morto. Ancora avvinghiato al suo collo.
 
Entrati in camera se ne liberò buttandolo pesantemente sul letto.
Il tempo di tirar fuori il pigiama dal cassettone che Antonio era già al settimo sonno.
 
Immagina con i sonniferi…” commentò ironico Sadiq nella sua testa.
 
 
*
 
 
Camminava per una sconfinata e fertile campagna. Un vasto frutteto si estendeva di fronte ai suoi occhi verdi.
Lui e Sadiq camminavano tra gli alberi, esaminandone i frutti.
La forma avrebbe fatto pensare a dei limoni, ma il colore era di un aggressivo verde melone.
 
- Son limas? – chiese Antonio, non avendoli mai visti prima.
 
Sadiq si avvicinò per osservare meglio.
 
- No – concluse – son limones –
 
- Limones? – chiese incredulo – Te equivocas! No es posible… -
 
- Te estoy diciendo que es asì, son inmaduros – insisteva.
 
- Es julio, Sadiq, de julio los limones son amarillos! Mas, aquì no crecen limones por que no los cultivan… -
 
Un cellulare squillò.
Sadiq diede uno sguardo al mittente ed inarcò un sopracciglio.
Rispose.
 
- Hassam! – disse irritato. Parlava in turco.
 
Gupta parlava il turco?
Nemmeno lui lo faceva, ma per qualche strano motivo non gli fu difficile intendere che il suo agente stava bestemmiando contro il regista, allontanandosi.
 
Stava per avviarsi per seguirlo quando un’improvvisata folata di vento lo distrasse.
I rami dell’albero tremarono e man mano i frutti cominciarono a cedere.
 
- Què lastima… - sospirò Antonio, voltando le spalle per andarsene.
 
Qualcosa lo colpì forte alle spalle. Perse un attimo l’equilibrio e si sentì colpito ancora.
 
I limoni verdi cadevano violentemente al suolo.
 
- Sadiq! – gridò – Què està pasando?! –
 
- Es Lovino – gli rispose l’altro da lontano.
 
E’ Lovino che fa cadere i limoni?” pensò confuso.
 
- Què idiota que es ese niño! – si sforzò di gridare con tutto il fiato disponibile.
 
- Callate! – urlò qualcuno dietro di lui.
Poi qualcosa lo colpì forte alla testa.
 
Aprì gli occhi, sbattendo le palpebre.
Era nel suo letto.
Gli doleva la testa, dietro la nuca.
Qualcosa di pesante sulla sua schiena non lo faceva alzare. Qualcosa che… profumava di limoni.
Qualcosa… Qualcuno che aveva un viso bellissimo, un tono arrabbiato e profumava di limoni, era seduto sulla sua schiena.
 
- Lovinito? – chiese spaesato. Ancora mettendo a fuoco.
 
Che ora era?
 
- “El niño idiota!” – lo colpì ancora sulla testa.
 
- Se continui a colpirmi in testa non mi resteranno più neuroni funzionanti per correggere la tua pronuncia spagnola –
 
- Vuoi che ti colpisca più sotto? –
 
- Acido –
 
- Bastardo – disse, stendendosi a pancia in giù sulla sua schiena.
 
- Dove sei stato? – chiese Antonio, con un tono più serio di quello che avrebbe voluto utilizzare.
 
- Ho accompagnato mio fratello alla stazione dei treni –
 
- Feliciano è stato qui? – adesso era decisamente perplesso.
Non sapeva niente di tutto ciò che fosse successo a casa sua in quei cinque mesi.
 
- Già – spiegò con voce annoiata – mi sentivo solo, così è venuto a fare una vacanza di una settimana… Poi ha preso il treno per andare a Berlino da quell’idiota del suo amico tedesco –
Impossibile non notare il disappunto nella voce.
 
Adesso si sentiva magicamente tranquillo e rilassato.
 
- De acuerdo… Altre novità? –
 
- Una –
 
Antonio lanciò un’occhiata sopra la sua spalla per volgergli uno sguardo curioso.
 
Lovino giocava distrattamente con i suoi capelli arruffati.
 
- Abbiamo un invito -

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Capitolo 6
*** Il capitolo degli invitati ***


6 – Il capitolo degli invitati;
 
 
4 Luglio;
Era mattina a New York City. Il sole splendeva dietro gli immensi vetri, ornati da tende che qualcuno si era già preoccupato di aprire.
La luce entrava accecante, illuminando l’intera camera.
Il disordine che aveva abbandonato su pavimento e mobili la notte prima si era dissolto nel nulla.
 
E’ stato veloce…” costatò.
 
Un dolce profumo di cialde entrava dalla porta socchiusa, contribuendo a decorare la stanza moderna con un tocco di romanticismo.
 
Devo ammettere che a volte si rende utile” pensò allegramente, lasciando che uno spontaneo sorriso facesse involontariamente brillare i suoi denti ben sbiancati.
 
Udì dei passi farsi più vicini e vide la porta spalancarsi piano.
Vi fece capolino un ragazzo dai lunghi capelli color miele e dai tondi occhiali da lettura, dietro ai quali si celavano due occhi dalla tonalità che aveva sempre definito strana.
Con sé aveva un vassoio di plastica nero.
L’aroma del caffè caldo e l’odore mieloso dello sciroppo d’acero penetrarono nei suoi polmoni quasi con violenza.
 
- Buon compleanno, Al! –
Sorrise.
Un sorriso così dolce e inutilmente sprecato.
 
Certamente, per lui lo era.
 
Ma no, aveva già deciso. Oggi si sarebbe sforzato.
Aveva deciso che oggi, almeno oggi, sarebbe stato grato per tutto.
 
- Grazie fratello –
Sfoggiò la smorfia più dolce di cui fosse capace.
 
L’altro lo guardò torvo.
 
- Al… perché fai quella faccia? –
 
- Che c’è? Non posso essere felice nemmeno il giorno del mio compleanno? –
 
Il ragazzo si avvicinò, poggiando il vassoio sul letto.
 
- Non è quello… Semplicemente non è una faccia che ti si addice –
 
“Perfetto…”.
 
Allungò la mano sinistra per prendere la tazza della scura bevanda fumante.
Ne bevve un sorso.
 
- Beh, allora qual è la faccia che mi si addice? – chiese mentre metteva due cucchiaini di zucchero nel caffè.
 
Il fratello sembrò pensarci su.
 
- Non saprei… Quella che hai di solito – disse con aria vaga.
 
- …ma sei scemo o cosa? –
 
Tutto ciò che ricevette fu un occhiata offesa.
Sospirò.
 
- Non mi pare di andare in giro con una faccia poco felice –
 
- Infatti il punto non è che fosse una smorfia felice o  meno, è che nessuno ti prenderebbe sul serio.. Tanto meno io che sono tuo fratello –
Si sedette sul bordo del materasso.
 
- Già, già Math – fece un segno di non curanza con la mano libera – ma non hai risposto alla mia domanda. Che faccia ho di solito? –
 
Come sono arrivato a fare una domanda del genere proprio a Matthew?”.
 
- Beh, vediamo… -
Si prese il mento tra le dita, pensieroso.
- Questa è più o meno l’espressione che ti vedo di solito sulla faccia.. –
Tirò gli occhiali sulla punta del naso e il suo viso esplose in un largo sorriso idiota a trentasei denti. Gli occhi chiusi e stretti con forza scomposta.
 
- Ma davvero… – commentò acido.
Poggiò uno mano sulla sua spalla.
Il ragazzo accovacciato sul bordo del letto fece appena in tempo ad aprire gli occhi bluacei che una leggera pressione lo spinse all’indietro, facendolo rotolare a terra.
Mentre questo lo insultava in tutte le lingue di cui aveva conoscenza, Alfred riportò la sua attenzione sull’invitante colazione.
Beveva il suo lungo caffè pregustando già il momento in cui avrebbe azzannato i pancakes sciroppati.
 
Matthew tornò a sedere sul letto. Aveva un’espressione contrariata, i capelli in disordine.
Prese in mano il piatto che aveva preparato e impugnò la forchetta.
 
Alfred smise di bere per lanciargli uno sguardo ripugnato.
 
- Pensavo che quelle fossero per me – disse.
 
Il fratellino, con fare rassegnato, rimise il piatto sul letto. Quasi si fosse aspettato una frase del genere.
 
Sforzati con il tuo fratellino, solo oggi..”.
 
- Guarda che se le vuoi, puoi averne un po’.. –
 
Matthew lo fissò per un momento.
Era forse sorpreso?
 
- No.. Oggi è il tuo compleanno, io ne mangio fin troppe – disse.
 
- Già… -
 
Per un momento invidiò l’abilità che aveva suo fratello nel cucinare.
Lui non era mai stato molto portato. Non era il tipo capace di apprezzare le delicatesse della vera cucina. Aveva sempre preferito le schifezze e tutto ciò che fosse veloce da ingurgitare.
 
- E’ proprio bella questa casa – commentò Matthew guardandosi intorno – non sarà grande ma è davvero bella.. E pensare che ci hai messo tanto per finire la progettazione –
 
Per poco non si strozzò col caffè.
 
- Ah già.. La progettazione.. – tossì, battendosi un pugno sul petto.
 
- Quando ti sei trasferito? –
 
Aveva temuto quella domanda, ma ormai…
 
- Cinque mesi fa –
 
Il ragazzo fece due calcoli con le dita.
 
Direi che la matematica non fa per lui..”.
 
Poi sbottò.
- Cosa?! Fino a due settimane fa hai detto a mamma che la casa era inagibile per lavori! –
 
- Infatti tu sei il primo a vederla.. – disse pensando ad una scusa da inventarsi per non ammettere di aver mentito solo per non ritrovarseli a casa.
 
- Perché tutta questa segretezza? –
 
I due motivi più validi erano stampati nella sua testa.
 
- Avevo le mie ragioni – disse.
 
Un anno prima aveva iniziato a studiare legge all’università di New York.
Pensava che sarebbe diventato giudice un giorno, ma con i contatti di cui era entrato in possesso la via della politica gli era sembrata ben spianata, breve e fruttuosa.
Nonostante non avesse ancora finito gli studi, era entrato nel giro.
Uomini importanti lo invitavano alle loro feste e gli parlavano dei loro programmi.
Lui aiutava come poteva.
Semplicemente, si era accorto troppo tardi che tra i pesci grossi che frequentava ci fossero anche degli squali. Si era accorto troppo tardi di essere entrato nel mirino, di essere il bersaglio.
Adesso aveva due pezzi grossi della mafia a controllare ogni sua mossa.
Erano chiamati gli Antichi. Loro erano le radici, coloro da cui dipendeva tutto. Un italiano ed un tedesco, in attesa di un suo passo falso.
Un pensiero che lo angosciava.
Ma grazie alle sue conoscenze in fatto di legge, era riuscito a tirarsi fuori il più possibile.
Doveva tenerli buoni ancora un po’ e non fare cazzate.
 
Semplice..
 
- Ho i miei problemi – concluse.
Non avrebbe detto una parola di più in proposito.
- Tu invece? Hai quasi diciannove anni fratello.. Pensi di continuare a vivere con mamma per sempre? -
Per un momento temette che gli avrebbe infilzato la forchetta nella mano.
Lo guardava con occhi incandescenti.
 
- Veramente – scandì, fissandolo diritto negli occhi azzurri – ho affittato un monolocale a Vancouver –
 
- Vancouver?! – scoppiò a ridere – In Canada?! Bella merda! –
Si stava sganasciando dalle risate.
- Non hai proprio stile Math! Vieni a vivere con me qui a NYC a questo punto! –
 
Il ragazzo dal viso dolce, sorrise.
 
- A dire il vero, l’ho scelto proprio per stare il più lontano possibile da te –
Sorrideva senza ritegno.
 
Coglione.. questa me la segno”.
 
- Forse averti trattato da schifo per diciotto anni ha finalmente dato i suoi frutti – ammise.
 
- Già, un sentimento di profondo fastidio mi sale dallo stomaco ogni volta che sento quella tua risata idiota –
 
2 a 0 per il canadese..”.
 
- Fanculo! Comunque, devo ammettere che sembri meno sfigato di come ti ricordavo –
 
L’altro si sistemò gli occhiali sul naso con non-chalance.
 
Alfred prese la pallina da baseball che aveva sul comodino accanto al letto.
La lanciò dritto contro il fratello.
 
Si sforzò di schivarla, ma come d’abitudine lo colpì dritto in faccia.
 
- Ok, no, mi rimangio tutto – riprese in mano il suo caffè – non sei cambiato affatto –
Abbassò la testa, schivando la palla che era arrivata a tutta velocità contro di lui.
- Lento –
 
Il fratello avrebbe voluto piangere.
 
 
*
 
 
- Chi ci sarà stasera? – chiese Matthew, stiracchiandosi sul divano.
 
Alfred infilava una T-shirt dalla testa.
- Beh, un bel po’ di gente… - biascicò – quelli di cui ho ricevuto conferma sono Ivan, Yao, Heracles, Gupta.. – mise fuori la testa dal collo della maglietta.
 
- Il regista egiziano? –
 
- Esattamente, poi verranno Carriedo e famiglia…-
 
- Famiglia? –
 
- Nel senso che mi ha avvisato si porterà dietro il manager e la ragazza –
 
- Manager?! Ma che razza di gente hai invitato?! –
 
- Non è niente di speciale.. L’attore e il manager sono inseparabili e tutta la sua vita gira intorno a questa “Lovi” di cui parlava tanto al telefono –
 
I due si scambiarono uno sguardo perplesso.
 
- Ho invitato anche i due Kirkland.. – sussurrò poi, quasi non fosse importante che quella notizia si sapesse.
 
Matthew sbatté le palpebre sorpreso.
 
- Verranno? –
 
- Non ne ho idea.. Credo che se Arthur avesse qualcosa in contrario, impedirebbe anche al fratello di venire –
 
- La cosa non sembra turbarti più di tanto.. – commentò l’altro, con un tono di chi si aspetta una spiegazione.
 
Alfred sembrò pensarci su seriamente mentre, vestito, sedeva sulla poltrona accanto al divano.
- Sinceramente non saprei.. – iniziò – ovviamente il non avere il rancore di Arthur a gravarmi addosso per tutta la serata sarebbe una seccatura in meno, ma mi dispiacerebbe se il piccolino di famiglia non dovesse venire, mi è tanto simpatico e gli avevo promesso che gli avrei fatto provare il mio nuovo videogioco – sorrise sovrappensiero.
- E poi.. – riprese, concedendosi una pausa per organizzare le parole.
- Voglio che la situazione con Arthur si risolva.. E’ stato un amico troppo caro in passato –
 
-Io non lo conosco come invece lo consoci tu, nemmeno lontanamente, ma è così orgoglioso che, mi dispiace per te, dubito lascerà correre –
 
- Per quel che può valere, a me questa situazione spiace –
 
Poi il fratello sembrò essere sul punto di dire qualcosa, qualcosa che aveva avuto l’impressione avesse voluto dire sin dall’inizio.
 
- …e Francis? – chiese timido infine.
Un rosso tempera gli tingeva il viso, rivolto verso un punto a caso del pavimento.
Gli occhi indaco si socchiusero per un secondo.
 
- Bonnefoy? Parlai con lui poco tempo fa per telefono – spiegava – aveva detto sarebbe venuto senz’altro… Mi era del tutto sfuggito – ghignò al fratello.
 
Egli arrossì indecentemente.
 
- Sei patetico – lo accusò.
 
Ma Matthew non alzò lo sguardo, negandogli la possibilità di ammirare l’espressione che aveva in viso mentre gli diceva tutto ciò che pensava.
 
- Hai diciotto anni eppure ti comporti ancora come un bambino –
 
Il fratello stringeva i pugni contro le ginocchia. I capelli mossi gli coprivano il volto, mentre un lungo ricciolo si ribellava al resto della capigliatura dorata.
 
- Sono passati tre anni, eppure sei sempre lo stesso –
Si diresse verso il divano – Quello “bravo” –
Sedendosi proprio lì, accanto al ragazzo dal viso nascosto.
- Sempre quello che vuole fare contenti tutti –
 
Egli non sembrò badare a quanto fossero vicini in quel momento.
 
- Non capisci che quel tuo salutarlo “candidamente” da lontano non ti porterà altro che un sorriso di rimando… -
Gli prese il mento con la mano sinistra, costringendolo a rivolgergli lo sguardo.
- Non capisci che non lo porterà mai da te? –
 
Il viso del ragazzo rimase imperscrutabile.
 
Forse sono stati un po’ troppo duro” si compiacque nella sua mente Alfred.
Eppure…
 
- Parli proprio tu? –
 
Cosa?
 
Aveva per caso saltato qualche passaggio?
 
- Dì quel che devi dire – tuonò, fulminandolo con gli occhi.
 
- Tu parli tanto, dici che sono “patetico”… Ma lascia che ti spieghi una cosa: Francis continuerà anche a sorridermi “di rimando” come dici, ricorda però che Arthur le spalle te le ha già voltate, e non tornerà a cercarti –
 
Le aveva quasi sputate quelle parole. Schifato da ciò che prima gli era stato detto.
 
Bastardo...!
 
Portò la mano dietro la nuca del fratello e ne afferrò con rabbia i capelli, tirandolo contro di sé.
 
- Come ti permetti?! –
 
Figlio di…
 
- Che c’è? Non te n’eri accorto? Lo avevi dimenticato? –
 
La dolorosa stretta aumentò, le distanze di accorciarono ancora, crudelmente.
 
- Taci –
 
- Come vedi non siamo poi tanto diversi, fratello –
 
Nessuno avrebbe mai osato dire il contrario.
Nonostante l’anno e mezzo di differenza, i due sarebbero potuti sembrare gemelli.
I capelli biondo scuro, gli occhi sul blu, stessa altezza, stesso viso.
Ma niente al mondo era più diverso dei fratelli Jones.
Fiducia e consapevolezza erano le caratteristiche dell’uno, educazione e timidezza quelle dell’altro.
Egoismo e superbia i difetti del primo, fragilità e insicurezza quelli del secondo.
Come due linee parallele erano vicini, ma destinati a non unirsi.
Due dimensioni opposte dello stesso mondo.
Uno stringeva la nuca del fratello, con rabbia.
L’altro drignava i denti, per resistenza.
 
“Drignava i denti”… Gli stava facendo male.
Realizzato l’errore, lasciò la presa.
 
Che cos’era?
 
Matthew lo guardava con disprezzo.
Le parole “non tornerà a cercarti” gliele aveva volute incidere nella carne. Crudeli, com’era stata la mano che gli aveva fatto male.
 
Alfred stentava a credere che fosse stato davvero il fratello a riaprirgli quella ferita.
 
Sentì uno strano sollievo nel chiedergli: Scommetto che adesso tornerai a casa.
Ma la risposta che ricevette non fu altrettanto gradevole.
 
- Ti sbagli, io resterò qui finché servirà –
 
Non servirà…
 
 
*
 
 
Ding. Dong.
 
Il campanello irruppe bruscamente nel silenzio che nelle ultime ore non aveva abbandonato la casa.
Alfred Jones attraversò in tutta fretta il corridoio.
 
- Apro io! – urlò.
 
Il fratello era sul divano, leggendo il suo libro.
Ignorando ciò che gli accadeva intorno.
 
Aprì la porta. Tre uomini occupavano l’ingresso.
 
- Feliz cumpleaños! –
 
Un avvenente ragazzo latino apriva le braccia in segno di un abbraccio. I ridenti occhi verdi accompagnavano un allegro sorriso.
 
- Antonio! – ricambiò l’abbraccio – Grazie di essere venuto! –
Poi gettò un’occhiata alle spalle dello spagnolo.
Il manager sorrideva mentre accanto a lui un fattorino lo fissava imbronciato.
- Sadiq! – salutò – Da quanto tempo! –
 
L’imponente uomo scuro fece un cenno con la mano e indicò la pesante busta bianca appesa al braccio del minuto ragazzo accanto.
Lo continuava a guardare, come in attesa.
 
- Hai fretta? – gli chiese.
 
- No.. – rispose il fattorino, evidentemente non a suo agio.
 
- Bene, allora ti dispiacerebbe lasciare il regalo su quel tavolo intanto? –
 
Il ragazzo si fece avanti di qualche passo.
 
- Allora? Dov’è la ragazza di cui mi avevi parlato? – disse rivolgendosi di nuovo allo spagnolo.
 
- Ragazza? – chiese quello, confuso.
 
- Dopo tanto che me ne hai parlato te ne sei già dimenticato? –
 
Immagino che la fedeltà non sia il suo forte..
 
Si scambiarono sguardi esasperati.
 
- Ehrm, ehrm.. – tossì qualcuno.
 
Si voltò,  il fattorino gli porgeva il palmo di una mano.
Alfred lo guardò sorpreso.
 
- Perché dovrei pagarti io? E’ il mio compleanno –
 
Il sopracciglio del ragazzo scattò nervosamente.
Aveva spettinati capelli castani e occhi ocra. Un viso affascinante e uno sguardo infastidito.
Rivolse lo sguardo allo spagnolo.
 
- No entiendo! – sbottò – No le gusto? Porquè me està hablando de dinero?! –
 
Antonio alzò le spalle.
 
Ma perché cazzo parla in spagnolo questo?!
 
- Alfred… Che diablo stai dicendo? –
 
- Perché dovrei pagare io il fattorino il giorno del mio compleanno?! –
 
- Fattorino?! – chiese il ragazzino, irritato.
 
- Ma quale fattorino, Alfred! Lui è Lovino! –
 
- Lovino..? – poi ci arrivò, voltandosi verso l’alttore – “Lovi”? E’ quel “Lovi”?! –
 
Lo spagnolo annuì, portandosi una mano alla tempia.
 
Si voltò ancora verso il ragazzino. Lo guardò meglio.
Era un ragazzino bassino e magro.
Indossava una camicia rosa pallido sbottonata sul collo. Poteva intravedere un sottile crocefisso poco più in basso dell’incavo.
Era abbronzato e dall’aspetto esotico. Alcune ciocche dei suoi capelli brillavano di riflessi rossastri, in totale contrasto con le iridi da gatto.
Come aveva fatto a scambiare quella bellezza per un fattorino?
 
- Scusa – gli disse porgendogli la mano – oggi è stata una brutta giornata, sono un po’ distratto –
 
L’altro ricambiò il saluto, ma non un sorriso.
- Non si preoccupi – rispose, con un particolarmente marcato accento italiano – Lovino Vargas.. Mi spiace di essere venuto qui senza nemmeno aver fatto la vostra conoscenza, spero apprezziate il regalo –
Senza un sorrisetto ad alleggerire quell’offeso viso latino, il tutto sembrava solo un’enorme montatura.
Ma lui era più bravo a fingere quando si trattava di maniere.
 
- Apprezzerò senz’altro, solo il pensiero mi rallegra – ammiccò – piacere, Alfred F. Jones –
 
Captando lo sguardo assassino che Antonio gli stava lanciando decise che per il suo bene la conversazione con il bell’italiano sarebbe finita lì.
Poteva leggere “Giù le mani da ciò che è mio, cane” scritto sulla fronte dello spagnolo, quindi si limitò a prendere la busta e ringraziare.
 
I tre si avviarono verso il salotto, mentre lui chiudeva la porta alle loro spalle.
Non fece nemmeno in tempo ad attraversare il corridoio che il campanello suonò ancora.
Aprì di nuovo la porta, questa volta erano in due.
Anche se uno di loro valeva il doppio.
 
- Al! – esultò il più piccolo buttandogli le braccia al collo.
- Grattis på födelsedagen! –
 
Il suo aspetto lo fece irrigidire un attimo.
Ogni santa volta che lo vedeva, notava sempre di più la dannata somiglianza con il fratello maggiore.
 
- Grazie Peter! Sei cresciuto tantissimo! – mascherò i suoi pensieri con la solita faccia allegra.
 
- Visto?! Il mio obbiettivo e raggiungere Ber! – disse il ragazzino, introducendo l’enorme uomo alle sue spalle.
Nonostante i capelli biondi, gli occhiali e gli occhi azzurri, emanava un’aura tremendamente inquietante.
 
Porse la mano, timoroso.
- Piacere, Alfred F. Jones.. – si sforzò di sorridere.
 
- Berwald Oxenstierna – si presentò l’altro.
 
La sua mente sobbalzò, alla ricerca di un ricordo.
 
Dove l’ho già sentito?
 
Poi collegò.
- Adesso ricordo! – esclamò.
 
L’uomo lo guardava confuso.
 
- Oxenstierna! Lei è un famoso avvocato! Avevo una conoscenza che aveva affari in Svezia, ho seguito un suo caso! Alcuni dei suoi processi vengono studiati anche all’università! – i suoi occhi brillavano – Complimenti! Lei è uno dei migliori! –
 
Berwald arrossì imbarazzato. Passandosi una mano dietro al collo e tra i capelli cenere.
Alfred lo prese per un braccio e lo tirò dentro.
 
- Devo raccontarle un po’ di cose, magari lei potrà aiutarmi! – spiegava trascinandolo con sé nello studio.
 
Il giovane Peter rimase lì qualche secondo. L’americano gli aveva appena portato via la compagnia, e lui era rimasto solo, ignorato e dimenticato sulla porta.
Profondamente offeso.
- Uffa però…- sbuffò mettendo un piede in casa.
 
Poi qualcuno dietro di lui posò una mano sulla sua spalla.
Si voltò.
Due uomini erano fuori ad aspettare, proprio come lui.
 
- Scusa, è per caso questa casa Jones? –
 
- Yes – rispose il ragazzino.
 
Quello che aveva parlato era un individuo alto e muscoloso. Aveva scuri e disordinati capelli castani e chiari occhi verdi. Un viso inespressivo e stanco.
L’altro era mingherlino, aveva pelle e capelli scuri e occhi gialli come oro liquido. Una coppola bianca a coprirgli il capo abbronzato.
 
- E’ qui la festa? – gridarono entrando.
 
Peter gli seguì a ruota.
Tutti erano in salotto.
Matthew sul divano. Antonio, Lovino e Sadiq parlavano, seduti al bancone della cucina. Alfred e Berwald uscivano dallo studio, discutendo di legge.
I tre entrarono dalla porta principale.
 
- Oh, ma guarda un po’ chi c’è.. – disse Sadiq, rivolto al più minuto dei due nuovi arrivati.
- C’è una finestra da cui possa buttarmi prima che Gupta Hassam mi porti alla depressione? –
 
- Dovresti farlo – rispose questo – così si alzerebbe il livello della festa -
 
Quanta tensione..” pensò Peter, dirigendosi verso lo svedese che gli sorrideva, invitandolo a raggiungerlo.
 
L’egiziano e il turco continuarono a litigare.
 
- Ehi! Ehi! Svegliati! Ti sei sdraiato su di me! – strillava Matthew quando, non notandolo, Heracles si appisolò su di lui.

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Capitolo 7
*** Il capitolo della festa ***


7 – Il capitolo della festa;
 
 
- Non mi sono ancora presentato – aveva detto l’uomo sull’aereo – sono Michael Kaoru Hong –
Nonostante le ovvie origini asiatiche parlava un inglese perfetto.
 
- Arthur Kirkland, piacere mio – gli aveva sorriso.
 
Michael Kaoru Hong lo aveva intrattenuto per tutta la durata del viaggio. Gli aveva parlato dei suoi viaggi alla ricerca di nuovi aromi. Gli aveva parlato di Hong Kong.
Condividevano lo stesso mestiere: mercanti di spezie.
A entrambi piaceva leggere. Entrambi andavano a New York contro la loro volontà.
Avevano perfino le stesse sopraciglia, ci avevano riso sopra.
 
Sembravano la stessa persona, solo che la sua casa era dall’altra parte del pianeta.
Lui girava il mondo, l'altro era fedele solo a Londra.
Arthur odorava di rose, Michael profumava come il thè Oolong.
 
Gli era quasi dispiaciuto quando si erano salutati, ma si erano scambiati i rispettivi biglietti da visita. Un giorno si sarebbero rincontrati, lo avevano giurato.
 
Francis aveva dormito per tutto il tempo, e nemmeno da sveglio era di molta compagnia, impegnato a discutere delle mode del momento con il compagno cinese.
 
Il taxi era decisamente troppo stretto per cinque persone, per non parlare del fatto che l’asiatico in miniatura si era egoisticamente impossessato del sedile anteriore. Lasciando i quattro più grossi a morire soffocati dietro.
 
Il cinese era tollerabile, ma Ivan e Francis (Ivan in particolare) occupavano più spazio del dovuto.
Il russo era seduto in mezzo a lui e Yao, che conversava con Francis, seduto invece accanto al finestrino.
 
Quel lato dell’auto era silenzioso e mortificante. Braginski era un uomo massiccio e non poco spaventoso.
Un po’ per la carenza di spazio, un po’ per il non volergli stare troppo vicino, Arthur diventava pian piano parte integrante dello sportello.
 
- Kirkland – lo richiamò a sottovoce.
 
La bocca era così vicina al suo orecchio che fu attraversato da un brivido quando ne avvertì il soffio caldo.
Arthur inclinò leggermente la testa, per quanto fosse possibile, per far capire di star ascoltando.
 
- Non sei troppo stretto vero? –
 
No, ma dai, cosa te lo fa pensare?”.
 
Forse per un momento gli fece tenerezza. Che poteva farci se era così grande?
 
Scosse la testa e gli sorrise.
 
Anche se era proprio ciò che lo rendeva inquietante, Ivan Braginski aveva degli atteggiamenti teneri e infantili.
Sembrava solamente un innocente bambino troppo cresciuto.
Un bambino dai chiarissimi capelli biondo platino, angoscianti occhi purpurei  e 185 centimetri d’altezza.
 
Bastava pensarla in questo modo per non avere più timore di lui.
 
- Sicuro? Se vuoi puoi sederti sulle mie ginocchia, tanto sei piccolo, l’unica cosa spessa in te sono le sopraciglia, sembri anche abbastanza gracile… Sicuro che non ti stia facendo male? –
 
Ritiro tutto.. Idiota di un alcolista russo maniaco..”.
 
Il suo orgoglio aveva appena incassato giusto un paio di colpi bassi.
 
Piccolo? Gracile? Non tutti abbiamo ricevuto il dono di essere così spaventosi da far piangere le persone soltanto guardandole negli occhi… E poi le mie sopraciglia danno un tocco di classe!”.
 
- No, grazie.. Sono apposto.. –
 
- Da? –
 
- Da-voglio dire, yes! –
 
Con quello sguardo saresti capace di far scoppiare a piangere anche Alfred..”.
 
- …Braginski? –
 
- Chiamami Ivan –
 
- Braginski andrà be-
 
- Ho detto Ivan –
Lo guardò dall’alto.
 
- Ok! –
 
Note to myself: mai contestare qualunque cosa dica”.
 
- In che rapporti sei con Alfred? Voglio dire… Come mai partecipi alla sua festa di compleanno? –
 
- Che strano… Chissà perché non ricordo questi siano anche affari tuoi –
Sorrise.
Quando sorrideva, con quel ghigno, faceva ancora più paura.
 
- Ok non te lo chiedo più! – disse tutto d’un fiato.
 
Sentiva una strano fastidio.
 
- Una volta venne a Mosca per fare non so cosa.. Ci siamo incontrai in un bar per puro caso.. E’ successo forse un cinque mesi fa –
Alla fine non si era fatto tanti problemi a raccontarlo.
 
Cinque mesi fa…
 
- Da quel giorno ha sempre tentato di avvicinarsi, nonostante io continui a ripetergli che non intendo diventare suo amico.. Questa festa è solo uno dei suoi stupidi tentativi –
 
Cos’è questa brutta sensazione allo stomaco…?”.
 
- Perché non vuoi diventar-
 
- Ho i miei buoni motivi – lo interruppe secco – resta il fatto che io sia venuto solo perché avevo degli interessi nel farlo e per la sua insostenibile insistenza –
 
E’ forse gelosia?
 
- Per quanto riguarda te, invece? –
 
…o invidia?
 
Non pretendere che gli stilisti cinesi siano meglio di quelli francesi!, strillava Francis.
 
- Eravamo amici.. Ma sinceramente non so perché mi abbia invitato.. –
 
Sinceramente non so perché io sia venuto
 
- Eravate? –
 
- Lo siamo stati… qualche tempo fa… -
 
- Sei una persona che porta rancore? –
 
- …forse –
 
- Capisco –
 
Nell’auto scese il silenzio.
I due dall’altro lato avevano terminato la loro discussione che, degenerata in insulti sul cibo, avevano deciso di finirla lì.
Si rese conto di quanto essere così stretti fosse scomodo e intollerabile.
Poteva sentire l’odore di Ivan impregnarsi nei capelli e sulla pelle della guancia.
Non profumava né di rose né di thè.
Quello in compenso era l’acre aroma della Vodka.
 
Immaginò come sarebbe andata la serata. Sarebbe rimasto in un angolo, aspettandone la fine.
Immaginò ciò che avrebbe fatto dopo, e quell’odore gli suggerì che non sarebbe rimasto sobrio ancora a lungo.
 
 
*
 
 
Arrivarono di fronte alla porta siglata “A. F. Jones”.
Erano al cinquantunesimo piano di un anonimo grattacielo dai vetri neri.
 
Francis era di nuovo accanto a lui. Lo fissava in silenzio.
Anche se quasi di nascosto, e per la breve durata di un secondo, gli accarezzò la guancia con il dorso delle dita.
 
Arthur sapeva che se non fosse stato per la presenza di Francis avrebbe già mollato tutto, preso il primo aereo disponibile e sarebbe tornato a Londra.
E proprio in quel momento avrebbe giurato di aver desiderato che il tempo di fermasse.
Era cosciente del non voler vedere Alfred, come del non voler deludere le aspettative che Francis aveva nutrito trascinandolo fin lì.
Rimanere sospeso in quel frammento di secondo sarebbe stato l’ideale.
Voleva scappare il più lontano possibile dal russo, che faceva sembrare il tutto un brutto film dell’orrore, e non dover sentire più quel cinese litigioso e chiassoso.
Il ragazzino,che aveva scoperto essere il fratellino minore proprio dell’ultimo, sembrava annoiarsi più di lui.
Continuava a lamentarsi, strattonando la maglia del maggiore.
 
Braginski suonò il campanello.
 
Si rassegnò all’idea che non ci fosse più niente da fare.
 
Francis gli era vicinissimo. Tanto da poter percepire il contatto tra i loro abiti.
 
La sua borsa era improvvisamente diventata pesantissima. Aveva voglia di prendere il regalo e gettarlo dalla finestra. Giù dal cinquantunesimo piano.
 
La porta si spalancò.
 
- Salve a tutti! – aveva detto una vocina dolce. Ovviamente non quella di Alfred.
 
- Hai cresciuto i capelli, Jones? Hai in un non so che di diverso.. – disse Ivan.
 
- Matthew! – esclamò Francis, allontanandosi da lui per abbracciarlo calorosamente. Quello arrossì.
 
- Sembri un pomodoro! – si mise a ridere Yao.
 
Rise anche lui, poi volse lo sguardo verso Arthur.
 
- Arthur, è da un po’ che non ci si vede – sorrideva.
 
- Touchè! Non vi vedete da quella volta a Parigi un paio d’anni fa – disse Francis, rispondendo al suo posto.
 
- Esattamente! Entrate! – gli invitò.
 
La casa era fresca d’aria condizionata, a differenza del caldo torrido e umido che si respirava all’esterno.
Loro sarebbero probabilmente stati gli ultimi ad arrivare.
Il soggiorno, la sala da pranzo e la cucina infatti già brulicavano di gente.
 
Tra politici e gente mai vista, riconobbe anche qualche viso conosciuto.
 
A bere al bancone della cucina, era seduto Antonio Fernández Carriedo, una vecchia conoscenza, insieme ad altri due uomini, apparentemente anch’essi latini.
Vicino la vetrata, chiacchierava un gruppo di uomini tra cui riconobbe un celebre regista egiziano.
In un angolino del salotto, su un divano di pelle nere, Alfred discuteva fittiziamente con un imponente uomo dai capelli biondi, su cui si era accoccolato un ragazzino mezzo addormentato, che per un momento gli parve somigliasse tanto a suo fratello.
Sbatté più volte le palpebre.
 
- Peter? – domandò, senza realmente parlare con nessuno.
 
Matthew seguì il suo sguardo, poi annuì.
- Già, sono arrivati un’oretta fa –
 
- Im, sembra che tu abbia trovato compagnia – disse Yao al fratello minore, riferendosi anche lui al giovane Peter Kirkland.
 
- Ma è un bambino! – si lamentò il ragazzino.
 
- Non hai molta scelta –
 
- …sempre meglio di niente – ammise rassegnato, dirigendosi verso il fratellino di Arthur.

"Non ci vuole molto a convincerlo.." pensò Yao.
 
- Come mai è qui anche mio fratello? – chiese a Matthew.
 
Quello scosse le spalle.
- Per lo stesso motivo per cui sei qui anche tu, immagino –
 
Non credo..
 
In fine anche il festeggiato sembrò accorgersi del loro arrivo.
Congedò in un attimo l’uomo con cui aveva dialogato animatamente fino ad un secondo prima e fece per raggiungerli.
 
Alle sue spalle il piccolo Peter si agganciava alla maglia dell’uomo, per non lasciarsi portare via dal fratello del cinese.
 
- Ben arrivati! – gli accolse con un sorriso.
 
Nessuno di loro, però, ne sembrò troppo entusiasta.
 
Diede un’occhiata distratta ad ognuno e si soffermò su Braginski.
- Ivan! – esclamò – sono contentissimo che tu sia riuscito a venire! –
 
L’uomo alzò le spalle.
 
- Non facciamo discriminazioni adesso – disse Francis con aria falsamente offesa e uno sguardo diverito.
 
- Scusa, ma non vorrei che se ti dicessi qualcosa poi mio fratello smettesse di rivolgermi la parola –
 
Matthew gli lanciò una frecciata furiosa.
 
- Già, sai bene che la tua mancanza di educazione è qualcosa che io e Arthur non tolleriamo – commentò.
 
Francis sembrò far finta di niente, ma lui davvero non comprese il motivo per cui era stato tirato in ballo.
Guardava i due fratelli, quasi si aspettasse di capire cosa i due si stessero dicendo con lo sguardo e senza aprire bocca.
 
- Mi sento escluso adesso! – disse Yao con ironia.
 
Il russo lo afferrò per un braccio e lo trascinò via, scappando dalle attenzioni di Alfred.
 
- Ah beh, peccato – disse quest’ultimo guardando Ivan allontanarsi e l'altro scalciare per ribellarsi – immagino che abbia intravisto della Vodka –
 
- Non dispiacerti, ma anche io mi unisco alla festa – disse Francis mischiandosi alla folla, all’inseguimento di un bicchiere di Champagne.
 
Gli sguardi di Matthew e Alfred caddero contemporaneamente su Arthur. Nel momento in cui il secondo fece per aprire bocca, capì che era ora di svignarsela.
 
- Scusate, ma io andrei a cercare un attimo mio fratello –
 
Sparì dalla loro vista e andò a sedere sul divano.
Cercò Peter con lo sguardo, ma rinunciò all’idea di raggiungerlo quando lo vide nascondersi sotto al tavolo della sala da pranzo, intento  a sfuggire alle grinfie di Im Yang, il cinese iperattivo.
 
Voltando un po’ la testa, scoprì di essere seduto accanto all’uomo che un momento prima parlava con l’americano di casa.
Aveva un aspetto decisamente poco amichevole, ma dopo l’esperienza con Ivan non gli era rimasta altra paura in corpo. Si era consumata tutta nel taxi, dove, se avesse potuto, si sarebbe fatto addosso.
 
I due rimasero in silenzio, rivolgendosi di tanto in tanto sorrisi formali e sguardi imbarazzati.
 
- Finalmente! – arrivò il fratello boccheggiando – Sono esausto… Ber, tra quanto ce ne andiamo? Mi annoio… - disse, gettandosi a peso morto sulle ginocchia dell’uomo.
Senza fare minimamente caso a chi gli fosse seduto accanto.
 
- Possiamo andare via in qualunque momento . rispose quello, accarezzandogli dolcemente la testa.
Poi gli sussurrò qualcosa all’orecchio che Arthur non riuscì a capire.
 
Il ragazzino rivolse uno sguardo curioso verso di lui.
- Fratellone! – esultò alzandosi in piedi – Quando sei arrivato?! –
 
- Poco fa… -
 
- Hai fatto preoccupare Ber! Perché non sei venuto a salutarmi?! – disse mettendo il broncio sul visino dolce.
Sedette in mezzo ai due uomini.
 
- Ti vedevo impegnato – rispose, ridendo sotto i baffi.
 
Il giovane fece una smorfia esasperata.
- Quel maniaco esaltato non mi mollava più… Per ora l’ho seminato –
Si guardò attorno per controllare.
 
Entrambi scappiamo da qualcuno” notò divertito Arthur.
 
Prima non lo avevo notato, ma sono così uguali che fanno quasi paura…” pensò invece Berwald.
 
Gli scappò un sorriso mentre considerava quanto il fratellino fosse cresciuto.
Poi si rese conto di una cosa.
- Scusa… Ma come sei arrivato in America?-
Così immediatamente un pensiero orribile gli attraversò la mente.
- Non dirmi che… c’è anche Lain?! – gli tremò la voce mentre gettava un’occhiata agli invitati, aspettandosi di vedere il fratello piombargli alle spalle col suo solito sigaro, i capelli rossi  e la mazza da golf in mano, pronto a colpirlo.
 
Il ragazzino scosse la testa.
- Sono qui con Ber – disse.
 
- E Ber sarebbe..? –
 
Peter indicò l’uomo accanto.
- Berwald –
 
L’uomo fece un cenno col capo.
- Berwald Oxenstierna –
 
Arthur annuì, ignorando il brivido che gli era salito lungo la schiena, e ragionò ancora.
 
- E lei sarebbe? – chiese ancora, puntandogli contro un dito.
 
L’uomo guardò perplesso il ragazzino.
 
- Non sapevi che non vivo più in Inghilterra? –
 
Arthur si grattò la testa.
- Veramente.. no.. No, non ne sapevo niente! –
 
Ma dove ho vissuto fino a questo momento?! Possibile che me ne sia dimenticato?!”.
 
- Avevo chiesto a Lain di avvisarti prima della mia partenza – fece spallucce.
 
Questo spiega tutto allora..” pensò a quella canaglia.
 
- Ok.. Quindi? – tornò a riferirsi all’uomo seduto con loro.
 
- Lui si occupa di me – spiegò sorridendo – non potevo certo vivere da solo a Stoccolma –
 
- Stoccolma?! Come ci sei finito?! –
 
- Sai quanto la nostra sia una famiglia di larghe vedute.. Beh, Papà ha deciso che farmi vivere lì gli avrebbe garantito allacciamenti commerciali non di poca rilevanza – era evidentemente infastidito dal dover ricordare quel particolare della vicenda.
 
Decise di farsene una ragione.
Ma non poteva fare a meno di provare un po’ di pena per il fratello, strumento della compagnia commerciale del padre già da quell’età.
 
- E quindi ti anno mandato a studiare in Svezia.. Tipico..- disse ironico.
 
Peter e Berwald annuirono insieme.
 
- Capisco.. –
 
 
*
 
 
Aspettava, seduto sempre sullo stesso divano. Pian piano le stanze si stavano svuotando.
Man mano che le lancette dell’orologio avanzavano, la gente si dissolveva.
Si sentiva sollevato. Entro poco avrebbe abbandonato il campo anche lui.
 
Era riuscito ad evitare Alfred per tutta la durata della festa.
Francis era stato occupato con l’attore e relativi amici. Come se lui fosse magicamente sparito dalla sua mente. Non lo aveva mai nemmeno guardato.
Ivan aveva passato il tempo a bere Vodka, diffondere perle di saggezza e dottrine filo-letterarie ai fan che tra gli invitati lo fermavano, e molestare Yao.
Il cinese, d’altro canto, non aveva fatto altro se non cercare (inutilmente) di sfuggire al russo. Che spaventosamente riusciva sempre e comunque a scovarlo.
Im Yang aveva torturato Peter per tutto il tempo in cui era stato possibile. Perché quando poi il ragazzino se n’era andato, lui, annoiato e depresso, si era attaccato ai videogiochi.
Qualche volta si alzava, gridava qualcosa tipo: “SI! ANCHE TU APPARTIENI AD IM YANG ADESSO!” e poi tornava a giocare.
Alfred invece gironzolava e chiacchierava un po’ con tutti.
Matthew era seduto accanto a lui e sembrava perfino più demotivato.
 
- Che hai? – si ritrovò a chiedergli – Ti trovo strano… -
 
Il ragazzo volse uno sguardo vago agli ospiti.
- Non lo so nemmeno io... – rispose.
 
- Litigato con tuo fratello? –
 
- Non è per niente facile andarci d’accordo.. –
 
- Lo so bene… -
 
- Già… - sorrise ironico.
 
Rimasero un attimo in silenzio.
 
- Vorrei tanto che almeno con me abbassasse la guardia, che deponesse le armi… Invece non fa altro che allontanarmi con ogni mezzo disponibile – riprese Matthew.
 
Dallo sguardo che aveva negli occhi, quello era decisamente un pensiero che lo turbava.
 
- Io vorrei non avergli mai dato motivo di farlo invece… -
Nel momento stesso in cui le parole gli furono uscite di bocca e i ricordi passati d’avanti agli occhi, capì che nel corso di tutti quegli anni era stato un mostro d’egoismo, e negli ultimi mesi era anche diventato idiota. Oltre che depresso, ora si sentiva anche colpevole.
- Non gli ho nemmeno dato il regalo…-

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Capitolo 8
*** Il capitolo degli sguardi indiscreti ***


Perdonate il ritardo, questo capitolo mi ha portato qualche problema, incluso quello della carenza di idee. Forse potrà sembrare un po' confuso ma non sono riuscita ad arrangiarlo meglio dato che mi sono trovata a scrivere la prima parte tempo fa e poi la seconda a distanza di un mese forse. Spero che porterete fiducia per il prossimo capitolo che all'inizio avevo intenzione di integrare a questo, ma che poi ho capito avrebbe portato via troppo tempo e sarebbe uscito troppo lungo. Spero sia di vostro gradimento, aspetto i vostri commenti :)

8 - Il capitolo degli sguardi indiscreti; 

 
Siamo tutti schiavi del destino: qualcuno è legato con una lunga catena d’oro, altri con una corta e di vile metallo. Ma che importanza ha? La medesima prigione rinchiude tutti, e sono incatenati anche coloro che tengono incatenati gli altri… Tutta la vita è una schiavitù. Bisogna quindi abituarsi alla propria condizione, lamentandosi il meno possibile e cogliendo tutti i vantaggi che essa può offrire
– Seneca;
 
Si conoscevano ormai da anni lui e Alfred. Eppure era bastato loro un breve e nemmeno tanto complesso litigio per stroncare sul nascere un qualcosa che tra loro si stava andando a creare. Molto più profondo, intimo e segreto, nonché fondamentalmente banale.
 
Vi era stato un periodo in cui lui, Francis e Alfred erano stati grandi amici, inseparabili, uno completava l’altro. Poi però con il rientro di Francis a Parigi, erano rimasti in due.
Solo loro due.
Niente più a segnare il limite tra la vita dell’uno e quella dell’altro, niente più confine tra giusto e sbagliato, tra ciò che era lecito e ciò che non lo era.
Tutto andava degenerando in una relazione senza freni, colorata di rosso e ombrata di bordeaux, in cui nulla sembrava aver motivo di fallire.
 
Vi era però qualcosa che per mesi aveva lentamente e lascivamente torturato i nervi di Arthur.
 
Chiuse gli occhi verdi ed esausti.
Sfiancati dal reprimere quel veleno che continuava ad avvelenargli i ricordi.
Un istinto di rabbia violenta che non conosceva destinatario, che gli saliva dall’intestino e gli cresceva nello sterno, irritandolo fino alle lacrime. Stringendo fino a negargli l’aria stessa.
Qualcosa aveva staccato cruentamente quelle due anime che sembravano ormai cucite assieme, strappato la sua in tanti piccoli pezzi tinti di cremisi, come la tazza di porcellana che era caduta quella mattina, frantumandosi sul pavimento della sua cucina.
 
- Se mai un giorno le cose dovessero cambiare, sarà stato solo il Destino a volerlo – aveva detto Alfred dopo aver letto un libro di un importante scrittore tedesco.
 
- Secondo me sarà stata solo colpa tua invece -  gli aveva risposto, preparandosi a prendere una gomitata dritta nelle costole.
 
Non aveva mai creduto al destino, lui che era sempre stato fan di Osho Rajneesh.
Eppure da qualche mese a quella parte ci aveva persino provato, solo che vi era quella semplice vena di vittimismo nel suo carattere, che imperterrita continuava a suggerire la più veloce risposta al problema.
La soluzione più scomoda per quando semplice.
 
Non aveva mantenuto la parola data, era un bugiardo”.
 
E lui che faceva? Scappava da chi aveva torto? No, lui non scappava affatto da chi si era scelto il ruolo del colpevole. Voleva solo evitare di realizzare che le cose in realtà fossero diverse, non voleva rischiare di arrivare alla conclusione che fosse stata forse colpa sua.
Era così abituato a essere la vittima, in quel suo piccolo mondo distorto che non avrebbe avuto le parole nemmeno per difendersi dai suoi stessi dubbi.
 
Lui era come un bambino che nonostante la paura del buio, passava la notte solo nella sua stanza, a luci spente perché nessun mostro lo vedesse. Facendo da guardia a sé stesso.
Quello che aveva non erano altro che sensi di colpa, senza vie di fuga.
Si convinceva di non aver avuto scelta in quel fatidico giorno, e quindi continuava con la sua solita miserabile recita, nel cui copione la sua coscienza non faceva altro che nascondersi.
Una conseguenza inevitabile e un fardello sopportabile.
 
Solo che in lì, in quel momento, su quel divano di pelle nera, compatendo quello stesso senso d’impotenza che provava Matthew, le diapositive assumevano un ordine diverso, troppo diverso.
Un incidente non previsto su quel palcoscenico, quello spettacolo in sceneggiato dalla sua mente, solo per lui.
 
I ricordi erano tanto vividi da sembrare allucinazioni.
Sentiva che se avesse allungato la mano avrebbe sfiorato la schiena di un Alfred che se ne andava, che lo lasciava per raggiungere un posto nuovo, perché era ciò che aveva fatto.
 
Siamo tutti schiavi del destino, per questo tanto vale non lamentarsi e affrontare la realtà così com’è”.
 
Ma perché quel Destino non aveva chiesto il permesso di cambiare le cose?
Perché non li aveva lasciati in pace?
Ma no, “davanti al fallimento, all’errore, alla viltà, l’uomo indossa la maschera del predestinato”, per scappare dai propri fallimenti si nasconde dietro la propria ombra.
Un po’ come aveva fatto lui, lasciando che la sua codardia acquisisse la capacità di proteggerlo.
 
Tutte le belle parole che un giorno aveva immaginato di sputargli addosso, in risposta a quel “Ma per favore.. Lasciami stare, questa è la mia vita”, tutto quel male che aveva desiderato fargli così che smettesse di parlare, di ferirlo.. erano andate tutte all’Inferno.
 
Eppure… che odore stranamente assuefacente che aveva quell’Inferno, pungente e prepotente nella bocca.
Vodka tanto forte da credere di sentirla scendere per la gola.
 
Alzò lo sguardo verso l’uomo che gli era di fronte, con quel suo inquietante paio di occhi violacei.
 
- Fammi spazio, Kirkland! –
 
- Il “per favore” è passato di moda? –
 
Uno sguardo fu più efficace di mille parole, il solo contatto visivo gli gelò il sangue.
 
 
*
 
 
Ne aveva abbastanza di quella festa, di quello stupido americano che non faceva altro che seguirlo e quel cinese che continuava a scappare, quasi non avesse capito di essere solo un “passatempo”.
Ancora si chiedeva il perché della sua presenza al party.
Lui e Jones non condividevano alcuna relazione.
 
Forse, vi era solo una cosa che i due avrebbero potuto avere in comune.
 
Seduto accanto a quel ragazzo che non faceva altro se non deprimerlo ancora di più, aveva capito il motivo per cui quella sera fosse tanto diversa dalle altre, il motivo per cui quella petulante e fastidiosa mosca qual’era Alfred Jones, fosse più strano del solito.
 
Entrambi desideravano scrollarsi quell’orribile sensazione di dosso.
 
Era evidente quanto Jones non si sentisse a suo agio, correndo da una parte all’altra senza motivo, pur di non incontrare lo sguardo di quell’esserino lì accanto.
Quegli occhi verdi come veleno che sembravano sempre guardare dall’alto verso il basso, tutto quell’orgoglio dietro cui nascondeva gli errori.
 
Non lo sorprendeva il fatto che Alfred percepisse quello sguardo accusatorio, anche lui ne avvertiva inesorabilmente il peso incombente, tanto era palpabile la tensione nell’aria.
 
A lui mai nessuno aveva osato guardare in quel modo, cercando per lo più di evitare qualsiasi contatto visivo.
Un sentimento d’invidia oscurò improvvisamente tutti gli altri suoi pensieri. Come il tetro nuvolone che per ultimo nasconde il sole di un cielo già nero.
Anche lui voleva provare quella sensazione.
Avere quello sguardo indignato a perforagli la schiena e la mente. Quel contatto che poi avrebbe sempre negato di aver cercato.
 
- Sai… Non credevo potessi avere così poco rispetto per il tuo orgoglio –
 
L’inglese si voltò di scatto.
 
- Pensavo fossi una persona degna della mia stima, che saresti rimasto a casa con la tua dignità… Eppure, eccoti qui –
 
Le due biglie verdi vacillarono.
- Dove vuoi arrivare? –
 
- Lo hai già intuito veramente… Lui ti ha invitato (anche se sinceramente mi sto ancora chiedendo il perché, dato che ti sta chiaramente evitando) mentre tu sei seduto qui per i fatti tuoi aspettando che quel tardo colga la tua indignazione –
 
- ...veramente fino al tuo arrivo discutevo con Matthew – rispose indicando il ragazzo che fino a quel momento non aveva dato segni di vita.
 
- Ah… Non lo avevo notato – disse non curandosi minimamente del biondino stravaccato alla sua destra – Beh, hai scelto decisamente il modo più dignitoso di passare la serata: con il clone di Jones –
 
Non osò ribattere. Volse gli occhi in un’altra direzione.

Aveva trovato il tasto perfetto da toccare.
 
- Non controbatti… Forse non ho tutti i torti –
 
- Ho scelta? –
 
- Nessuno ti ha obbligato a venire, nessuno ti obbliga a restare –
 
All’inizio sembrò voler dire qualcosa, ma, rinunciando, concluse:
- Non posso andarmene adesso –
 
Una sonora risata gli uscì spontanea.
- Mi dispiace per te, io me ne sto andando – disse sorridendo, come se quella fosse stata una normale conversazione tra amici.
Non avrebbe demorso tanto facilmente.
 
L’altro tornò a guardarlo, con quegli occhi che fingevano di non temere nulla.
 
Oh, si, non avrebbe rinunciato a quell’occasione.
 
- Ho l’impressione che tu stia morendo dalla voglia di fare altro in questo momento, almeno tanto quanto me –
 
- Preferirei senz’altro tornare a casa e tracannarmi una bottiglia di Whiskey –
 
Colse la palla al balzo.
- E se invece ti offrissi un bicchierino di Vodka? –
 
- Non mi dispiacerebbe affatto l’idea –
 
- Di conseguenza non di costerebbe nulla fare un salto con me a bere qualcosa… Poi se proprio ci tieni torni qui dal tuo “amico” – enfatizzò evidentemente l’ultima parola.
 
L’espressione che fece fu più chiara di qualunque altra risposta.
 
Era suo.
 
Si alzò dal suo posto e con allegria agghiacciante gli tese una mano, pregustando il salato sapore del successo in cui avrebbe trasformato quella serata.
Lo trascinò dietro di sé tenendolo saldamente, fingendo d’ignorare le occhiate che venivano rivolte loro.
 
Jones li guardava allontanarsi, mano  nella mano, inebetito.
 
Ma notò anche qualcos’altro.
Il suo amico francese, Francis, anche lui li fissava, insistente e sorprendentemente turbato, nel suo angolino adornato di belle donne e traboccanti bicchieri di Champagne.
 
Non che diede loro molta importanza, ma lo divertì il pensiero di non essere infastidito, ma piuttosto eccitato, da quegli occhi invidiosi che li seguivano, aspettando di vedere le loro mani separarsi. E lo soddisfò a maggior ragione il fatto di averli battuti tutti sul tempo.
 
Varcò la soglia della porta e uscì, strattonando quel braccio che lo seguiva con difficoltà. Aumentando la stretta.
 
Quella notte le due gemme edera sarebbero state sue, a costo di cavargliele dagli occhi.
 
 
*
 
 
…Cosa?
 
Aveva appena avuto un’allucinazione: Arthur e Ivan che se ne andavano insieme dalla festa, mano nella mano.
Le sottili dita di Arthur che solo quella mattina avrebbe giurato essere diventate sue.
Cosa era successo?
Perché Braginsky si trascinava dietro Arthur?
Il suo Arthur?
 
Rimase lì a bocca aperta sul divano di pelle rossa, mentre il suo amico spagnolo chiacchierava con i suoi compagni in una lingua che nonostante non gli fosse mai piaciuta si sforzava di capire, mentre i due uscivano dalla porta.
Si alzò di scatto, il vino nel bicchiere vacillò.
 
- Francis, que pasò? – chiede Antonio.
 
- Devo fare una cosa, Pardonne – lasciò il bicchiere e abbandonò il gruppo di amici.
 
Attraversò la sala da pranzo spintonando e sgomitando, raggiungendo l’uscita giusto in tempo per vedere le porte dell’ascensore  chiudersi alle loro spalle.
 
- Jones! – lo afferrò per il braccio – Perché Arthur e Braginsky se ne sono andati insieme?! Ne sai qualcosa?! –
 
L’americano aveva dipinta sul volto un’espressione riluttante, indignata e furiosa.
- Dovrei saperne qualcosa? –
 
Sospettava che quell’idiota avesse detto qualcosa di troppo, come al suo solito, e di tremendamente sbagliato. Sospettava che per l’ennesima volta fosse tutta colpa sua.
- Bah, non saprei… Erano tuoi ospiti! –
 
- Perché quando si tratta di Arthur sei sempre pronto a darmi contro?! Non sbranarmi per cose per cui non c’entro! –
 
Ogni parola detta era come carne al fuoco.
Gli occhi blu si ridussero a due fessure.
- Taci, per favore –
 
- Ascolta… Non so che rapporti abbiano quei due, ma Ivan non è tipo che da problemi – disse allora, forse cercando di convincere anche sé stesso – Credo… -
 
- Sarà, ma non è di certo famoso per la sua gentilezza ed il buon cuore… -
 
Wang capitava passasse di lì, e allora anche lui si trovò le braccia bloccate da due individui di poca fede.
 
- Wang, sei in buoni rapporti con Braginski, vero? – chiese Alfred.
 
Il cinese fece una smorfia nervosa.
- Cosa intendi per “buoni rapporti”…? –
 
- Oh, vabè, lascia stare – tagliò corto Francis – Non è un tipo pericoloso, vero? –
 
- Pericoloso? Naaaa… Almeno non penso… Non ho mai avuto motivo di crederlo… A volte può sembrare un po’ egoista e, spesso e volentieri, non ascolta nessuno, ma non azzarderei niente di più – l’uomo pareva abbastanza sicuro di ciò che stava dicendo.
- In ogni caso… Come mai queste domande? Non è per niente carino-aru – sembrò quasi accigliarsi.
 
- Niente di che, è solo che Arthur è sparito all’orizzonte con Ivan, e la sua mamma (qui accanto) – disse indicando il francese con il pollice – stava facendo strampalati viaggi mentali –
 
Il cinese rimase un momento in silenzio. Impossibile dire a cosa stesse pensando.
- Kirkland? Il ragazzo inglese? Strano, ha passato praticamente tutta la serata insieme a tuo fratello – disse, rivolgendosi ad Alfred.
 
Il conto alla rovescia partì. Era evidente quanto anche il solo nominare il fratello fosse come gettare benzina.
 
- Con Matthew? – chiese.
 
L’altro annuì, rivolgendo gli occhi scuri e sottili verso un altro degli ospiti, e allontanandosi per lanciarsi all’inseguimento di una collana con il ciondolo a forma di panda, che lui stesso aveva disegnato.
 
Non gli aveva fatto un gran male, Arthur era solito scappare. Lo aveva sempre fatto.
Nessun dolore, nessuna fitta al cuore, solo un irritante fastidio lì dove la gelosia lo aveva graffiato, lasciando un profondo e scuro marchio.
Francis sospirò. Era inutile correre dietro al topo, se continuava a fuggire. Era fatica sprecata.
Non ne valeva la pena.
Avrebbe affogato l’indignazione nel vino, riempito le orecchie di chiacchiere frivole e bendato gli occhi con quelli di qualcun altro.
E lì, dall’altro lato della sala, poggiato all’enorme finestra, vi era il candidato perfetto.
 
Spettinati capelli color cenere, carnagione tiepidamente pallida e sorriso enigmatico.
Fumava indisturbato, fremendo a volte per trattenere qualche risata poco posata, che probabilmente non gli avrebbe donato.
 
- Vabè, Jones… - riprese sventolandogli la mano di fronte al muso, non staccando gli occhi dalla preda – C’è poco da fare ormai, a dopo –
Non aspettò alcuna risposta. Gli diede un colpetto sulla spalla e sia avviò per la nuova strada.
 
Si avvicinò elegantemente alla vetrata e colse qualche dettaglio rilevante.
 
Era giovane, alta statura e spalle larghe. I capelli disordinati lasciavano allo scoperto la larga fronte, tagliata da una sottile cicatrice.
Annuiva poco interessato al discorso dell’uomo a cui faceva compagnia, e a volte esordiva con una profonda e rauca risata, lasciando intravedere la fila di denti bianchi e perfetti.
 
L’uomo con lui sembrava essere totalmente l’opposto.
Spigliato e selvaggio, rideva fino alle lacrime. I capelli biondi rivolti verso l’alto raccontavano già qualcosa di lui, mentre i vispi occhi azzurri brillavano nel raccontare battute in un accento alquanto sguaiato.
- Tak så meget! – disse al cameriere, prendendo un bicchiere di vino rosso dal vassoio, continuando a ridere.
 
Quella somiglianza che aveva notato da lontano era impossibile da riscoprire, coperta da quella valanga di parole pronunciate con quella particolare cadenza, nascosta dietro le palpebre che l’altro non osava sollevare.
 
Smise di ridere, e in un momento sembrò tornare serio.
- Questa festa è diventata abbastanza noiosa…mh? –
 
L’altro annuì ancora e socchiuse gli occhi, ma le lunghe ciglia ne nascosero bene il colore.
- Non sarà che senti di già la mancanza dello svedese? – il tono ironico non era di certo nascosto.
 
- Kæft!* – sorrise il biondo.
 
- Niet, lo sai… Adoro prenderti in giro – lo guardò di sottecchi, ghignando.
 
- Già, ma le due pesti che mi aspettano a casa bastano e avanzano, non c’è veramente bisogno del tuo contributo – disse sfoggiando la faccia più falsamente disperata di tutti il suo repertorio – Oxenstierna è un agnellino in confronto! –
 
I due scoppiarono in una sonora risata.
Era il momento giusto.
 
- Bonsoir – si avvicinò con un bicchiere di vino rosato e bollicine in mano.
 
L’attenzione che gli fu rivolta dai due fu minima.
- Hej – disse l’altro ragazzo, mettendo un braccio sulla spalla dell’amico, che lo degnò di poco più di uno sguardo con la coda dell’occhio – ci conosciamo? –
 
- Non, è solo che mi annoiavo, e volevo alzare un po’ il livello della compagnia – i suoi pensieri corsero subito a quell’idiota che lo aveva piantato in asso – Non credete anche voi che la festa sia un po’ noiosa? –
 
L’altro interlocutore rise ancora e annuì con sincerità, mente l’altro continuava a tacere.
 
- Francis Bonnefoy – allungò la mano.
 
- Mathias Densen – anche nella pronuncia dello stesso nome l’accento strideva fortemente – e lui è Nikolaas Van deer Meer –
Parlava con la risata in bocca, con quella melodia così buffa da far ridere in sé.
 
L’altro fece un cenno con la testa, limitandosi a fissare insistentemente chi gli si era parato d’avanti.
 
Finalmente gli fu possibile notare il colore di quegli occhi lunghi e sottili.
Un verdino per cui non riusciva a trovare un aggettivo. In un’altra situazione avrebbe azzardato “strano”, ma quello lo aveva già dedicato agli occhi grandi e orgogliosi di Arthur. Tanto verdi da definirli “acidi”, tanto accesi da irritare.
Invece quelli erano occhi del tutto diversi, pallidi e delicati, non paragonabili a quelli dell’inglese, ma impossibile dire se per eccesso o per difetto.
Le pupille strettissime non facevano altro che rendere più evidenti le iridi da serpente.
Fredde e indispettite.
Un brivido gli attraversò la schiena, distolse lo sguardo. Schiarì la voce e riprese a parlare.
 
- Non sembrate di qui, ragazzi… Di dove siete? D’altronde qui gli invitati vengono un po’ da tutte le parti del mondo –
 
- Danmark – rispose il primo.
 
- Nederland – mugugnò l’altro.
 
- Non sei tanto socievole, vero? –
 
Il danese per poco non si affogò con il vino che stava bevendo.
 
- E’ solo una tua impressione – gli rispose.
 
Stava evidentemente cercando di metterlo in soggezione.
Tra loro vi era una distanza che sapeva non se ne sarebbe andata, mentre si sentiva incapace di accorciarla.
 
- Non lo è mai stato – lo schernì l’amico, alleggerendo la pesante tensione tra i due.
- Che fai nella vita francesino? –
 
- T’interessa davvero? – domandò l’olandese, con un odioso sorriso sulle labbra.
 
L’altro gli diede una gomitata, lanciando supplichevoli occhiate di scusa.
 
- …Faccio il fotografo – si sentiva così preso in giro che non avrebbe voluto nemmeno rispondere, solo colpire quel naso perfetto e curato con un pugno e andarsene.
 
- Oh, questo si che è un lavoro interessante – esclamò sorpreso Mathias.
 
- Interessante? Si, immagino che si potrebbe dire così… Voi? Lavorate insieme? –
 
Questa volta l’olandese rise di gusto.
- Decisamente no –
 
- Io sono ancora un apprendista in avvocatura – rispose il danese, decisamente poco soddisfatto.
 
- Ik ben een model – rispose l’altro, con evidente orgoglio di star mostrando al mondo la propria faccia.
Tirò lentamente dalla sigaretta.
 
Questo spiega molte cose…”.
 
Espirò fuori tutto il fumo, con grazia e lentezza disdicevoli.
 
Magari non te la tirare tanto”.
 
- Chissà, magari un giorno lavoreremo insieme… - cercò di scherzare, sperando nel profondo di poter levare le tende e cambiare aria.
 
Il ragazzo si scrollò di dosso il peso dell’amico e si avvicinò al francese.
 
Francis era leggermente più basso,  e si trovò le spalle coperte dal braccio di quello.
L’odore che emanava non era quello delle semplici e amare sigarette a cui era abitutato.
 
- Magari anche prima – gli sorrise malignamente quel Nikolaas.
 
Densen si asteneva dal commentare, ma non certo dal guastare la scena. Sghignazzava compiaciuto.
 
Francis ebbe subito la spiacevole sensazione di essere stato messo all’angolo.
Non solo non era riuscito ad impedire che Braginsky portasse via Arthur, ma era anche diventato il breve gioco di un lupo dagli occhi di serpente.
 
 
 
*Kaeft! : Significa “Taci!”, “Chiudi il becco!”, in danese.

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Capitolo 9
*** Il capitolo delle entrate ad effetto ***


9 – Il capitolo delle entrate ad effetto;
 
 
- Questa è la mia vita! – aveva detto Alfred, sbattendo la porta alle sue spalle.
 
- Idiota.. – aveva biascicato lui, con il desiderio che la sua voce gli entrasse nel cervello, e allo stesso tempo la consapevolezza che non lo avrebbe fatto.
 
“Tu non sei nessuno per impedirmi di fare ciò che voglio!”.
Quella frase non l’avrebbe mai scordata.
Anche se, avrebbe voluto.
Non gli sarebbe mai stato possibile.
 
Lui, semplicemente, ci aveva messo così tanto tempo ad assimilare il concetto, che era rimasto in silenzio.
Aveva completamente dimenticato che rispondergli a tono sarebbe stato meglio, sarebbe stato più nel suo stile.
 
Occhio per occhio, dente per dente. L’aveva sempre pensata così.
 
“Era veramente nessuno?” e “per quanto tempo lo era stato?”.
 
 
*
 
 
- Fossi stato al tuo posto l’avrei fermato con la forza  e gliene avrei dette quattro – disse Nikolaas.
 
Francis gli sorrise, sperando dannatamente di avere uno sguardo complice.
 
- Non seguire troppo il suo esempio – suggerì ironico Mathias, dalla poltrona accanto – il suo dirgliene quattro è un po’ più violento del normale -.
 
- Ma almeno io non mi faccio mettere i piedi in testa - rispose l’altro – e poi sei tu quello dai modi troppo bruschi -.
 
- IO?! -.
 
Francis sarebbe voluto intervenire in difesa del danese, ma preferì restare in silenzio.
 
Non riusciva a capacitarsi di come la situazione fosse drasticamente cambiata. Improvvisamente si era ritrovato a parlare con i due di come quello stronzo di Arthur lo avesse abbandonato lì.
 
Si scolò un altro bicchiere di Champagne.
 
I suoi piani erano falliti miseramente. Tutti i suoi piani, erano falliti miseramente.
Arthur lo aveva piantato in asso per Braginski e i due a cui aveva puntato per consolazione stavano cercando di tirarlo su di morale, sì, ma certamente non nel modo in cui aveva sperato.
 
Che poi… Perché cazzo quel connard* si era preso proprio Braginski?!
Quell’uomo gigantesco, inquietante, con il suo fare poco elegante, i suoi abiti poco di classe e il suo accento russo, che già di per sé sembrava cattivo.
Per di più, aveva la faccia di uno a cui piaceva il sadomaso!
Bisognava proprio essere cretini per fidarsi di uno come Ivan Braginski!
Sot*!
 
Tirò un lungo sospirò e poi un altro bicchieri di Champagne.
 
I due biondini lo fissavano alquanto dubbiosi.
 
- Hey, kerel* - disse l’olandese – sù, rianimati un po’.. -.
 
Prese il pacchetto di sigarette, che poi tanto sigarette non erano, dal taschino e gliene offrì gentilmente una.
 
- No.. merci – rispose il francese, visibilmente contrariato.
 
-Sai cosa diceva spesso mio nonno? – continuò quello – Fumati le lacrime per liberarti della tristezza -.
Tirò fuori una delle sigarette dal pacchetto e gliela sventolò d’avanti al muso.
 
Mathias li guardava interessato.
 
Francis sorrise leggermente, accettò l’offerta e si allontanò dai due.
 
- Davvero tuo nonno diceva qualcosa del genere? – chiese il danese.
 
- Macché, me la sono inventata sul momento – rispose l’altro.
 
Il danese scoppiò in una sonora e lunga risata.
- Røvhul!* -.
 
 
*
 
 
”15 minuti..”
 
Erano già quindici minuti che era lì, seduto su quel morbido sedile nero. Quindici minuti di persistente lotta contro il sonno.
 
- Braginski, tra quanto arriviamo? Pensavo stessimo solo andando a bere qualcosa – chiese all’uomo lì accanto.
 
- Da, stiamo andando a bere qualcosa, ma non mi godrei la serata se dovessi passarla in uno di questi squallidi bar americani – disse, guardando sprezzante fuori dal finestrino dell’auto. Poi lanciò un’occhiata al guidatore.
 
Era un giovane con la tipica e anonima faccia d’autista.
Espressione passiva in volto, occhi grigiastri e lunghi capelli cioccolato sotto il berretto da professionista.
Teneva lo sguardo fisso sulla strada di fronte a lui.
 
- Toris – disse il russo – quanto manca a destinazione? -.
Aveva un leggero sorriso e storcergli le labbra sottili e pallide.
 
L’autista distolse per pochi secondi gli occhi dalla strada e guardò nello specchietto retrovisore.
Arthur si ritrovò a guardare fisso nel riflesso quegli occhi grigi, puntati su di lui.
 
-. Ancora qualche minuto, signori – sorrise – siamo in zona ormai  -.
 
Il russo annuì senza distogliere lo sguardo dal finestrino.
 
Se ne pentiva.
Se ne pentiva amaramente.
Cosa gli fosse passato per la testa non lo sapeva nemmeno lui.
Accettare un drink con Ivan Braginski? Ma stiamo scherzano? Era diventato totalmente scemo?
Possibile che lo avesse drogato senza che se ne fosse accorto?
Nope, era davvero diventato scemo.
Accendeva, spegneva, e poi riaccendeva di nuovo il display del cellulare.
Contando i secondi e sperando che un messaggio, una chiamata, qualsiasi cosa, comparisse dal nulla sul cellulare, liberandolo da quella pressante ansia.
 
L’ansia di star perdendo ad un gioco a cui solo lui stava giocando.
 
- Sai... – cominciò di nuovo il russo, questa volta rivolgendogli la coda dell’occhio.
- Sono alquanto sorpreso dal fatto che tu abbia accettato di bere un drink con me -.
 
Arthur avrebbe voluto dire di essere altrettanto sorpreso, ma si limitò a fare spallucce guardando il finestrino alla sua destra.
 
- Chi avrebbe mai immaginato che saresti sceso tanto facilmente dal tuo piedistallo -.
 
Già…
No, aspetta…
 Cosa?
 
Arthur si voltò per rivolgergli uno sguardo interrogatorio.
Un brivido si arrampicò su per la sua schiena quando incontrò lo sguardo dell’altro.
 
Uno sguardo invadente, arrogante e purpureo.
 
- Pardon? – chiese blandamente.
 
- Il tuo piedistallo, la tua aria altezzosa, la puzza sotto il naso, lo sguardo scrutatore.. Dove li hai messi, Arthur? – chiese ancora, ghignando leggermente, con le pupille fisse in quelle verdi dell’altro.
 
Arthur corrugò le sopracciglia, non lo seguiva assolutamente.
 
- Quando ti conobbi un paio di anni fa, eri una persona detestabile, irritante e snob fino al midollo.. – posò un braccio intorno alle spalle dell’inglese.
- La gente, se da un lato non ti tollerava, dall’altro ti ammirava inconsciamente. Per quella fastidiosa e onnipresente superbia.. – il braccio diventava man mano più pesante.
 
L’autista lo guardava dallo specchietto.
 
Arthur si sentì il sangue alle orecchie per l’imbarazzo.
Non sapeva cosa dire, cosa fare e chi guardare.
Sentiva soltanto l’incombente vicinanza del russo e lo sguardo fisso dell’autista.
 
- L’orgoglio, Kirkland, che fine ha fatto? – disse, tirandolo strettamente a sé.
 
Poteva sentire il fiato dell’uomo proprio sul viso, poco sopra il suo.
 
Il retro dell’auto gli parve improvvisamente troppo stretto.
Gli mancava l’aria.

Sentì lo stomaco contorcersi, pronto per un attacco di panico, quando l’auto si fermò.
 
- Signor Braginski, siamo qui – disse Toris, piatto.
 
- Grazie – disse il russo allontanandosi dall’altro passeggero.

- Arthur.. Sapevi che Toris è un amico di Alfred? – continuò poi, sorridendo compiaciuto.
 

L’inglese sgranò gli occhi.
 
Il ragazzo dai capelli color cioccolato fece un cenno col capo, quasi impossibile da cogliere.
Uno sguardo serio e freddo velava quegli occhi grigi.
 
Alfred sarebbe venuto a saperlo sicuramente.
Alfred avrebbe saputo l’espressione che aveva fatto.
Alfred avrebbe saputo come si era fatto raggirare e manovrare.
 
Voleva piangere, rimangiarsi la risposta allo spiacevole invito e tornare alla festa.
 
Braginski gli afferrò un braccio e lo tirò vigorosamente fuori dall’auto.
Sbatté lo sportello e afferandogli ancora la spalla lo tirò di nuovo a sé.
 
Arthur guardò Toris andare via lentamente nel traffico della città, senza che quello rivolgesse loro nemmeno uno di quei tanti sguardi riflessi.
 
- Allora Kirkland, vogliamo andare? – chiese ironicamente il russo, scuotendolo un po’.
Scoppiando in una sonora risata.
 
Arthur si vide trascinato barbaramente in un bar le cui insegne erano in un alfabeto decisamente non di sua competenza.
Probabilmente cirillico.
 
Attraversato uno spesso portone di legno, si ritrovò in una sala scura illuminata da fioche luci rosa.
Diversi uomini erano seduti al bancone, bevevano cauti e silenziosi.
Un cameriere si avvicinò ad Ivan, parlando probabilmente in russo.
Si sentiva completamente spettatore di quella situazione, esterno ma non estraneo.
Colse la parola Vodka nel discorso tra Braginski ed il cameriere.
 Sapeva che in quello strano e forse deprimente bar, avrebbe sicuramente dimenticato la brutta, forse la peggiore, giornata che aveva passato.
 
 
*
 
 
Era nervoso.
Decisamente nervoso.
 
Arthur se n’era andato così, senza dire niente, con Ivan.

Quell’ospite tanto importante qual’era Ivan Braginski!
Dopo tutto quello che aveva passato per convincerlo a venire!
 
Che nervoso.
 
Poi, perché avesse deciso di andarsene rimaneva un mistero.
 
Si voltò un momento a guardare Francis fumare solo e disilluso accanto alla finestra.
Un comportamento non solito al francese, poco ma sicuro.
 
Wang aveva detto che Arthur aveva passato tutta la serata a parlare con Matthew.
 
Che quell’idiota di suo fratello avesse detto qualcosa di troppo?
 
Spostò lo sguardo sul minore, ancorato al suo divano e chiaramente offeso.
 
Era sempre stato il tipo da legarsi le cose al dito. Non lo sopportava.
 
Soltanto pensare alla discussione svoltasi quella stessa mattina gli faceva perdere la calma.

Davvero si aspettava delle scuse?
Davvero si aspettava che lui, il maggiore, si facesse scrupoli del fratellino?

Non lo aveva mai fatto, non avrebbe iniziato adesso.
 
Matthew alzò lo sguardo da terra e accidentalmente incrociò il suo.
Si leggeva il chiaro disappunto.
 
Alfred davvero non lo aveva mai tollerato.
 
Si avvicinò al il divano, da cui il fratello lo vedeva avanzare a grandi passi.
 
Non avrebbe cominciato dopo quasi diciotto anni a farsi scrupoli del minore.

Non lo aveva mai fatto, non avrebbe iniziato adesso.


*

INFORMAZIONI:
*Connard è il termine francese per "testa di cazzo".
*Sot è il francese di "stupido".
*Kerel è la traduzione olandese del termine inglese "fellow", compagno, ma in italiano potrebbe essere tradotto con "tizio" o "ragazzo".
*Røvhul è il danese di "asshole", buco di culo, ma in italiano è comunque tradotto con "coglione" o "testa di cazzo".
[Principalemente insulti come si può ben vedere ahah]

PER MAGGIORI INFORMAZIONI:


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Capitolo 10
*** Il capitolo dei disperati ***



10 – Il capitolo dei disperati;
 
 
- Hola amigo, que tal?*
 
L’unica risposta che ricevette fu un brusco grugnito.
 
- Que pasò*?
 
- Antoine.. Sai quanto detesto che tu mi parli in quella cazzo di lingua.. – disse Francis, sofferente.
 
- Lo se, lo se – rispose divertito lo spagnolo – è proprio per questo che lo faccio –
 
Il francese si voltò a guardare l’amico.
Una vista nostalgica.
 
Quanti anni erano passati dall’ultima volta che si erano visti?
 
Sorrise.
 
- Mi spiace che dopo tanto tempo tu mi debba vedere in queste oscene condizioni.. –
 
L’amico lo squadrò da capo a piede.
 
- Mi chiedevo appunto cosa ti fosse capitato.. Entonces?* – disse, porgendo all’amico l’ennesimo bicchiere della serata.
 
- Se sei tanto allergico all’inglese impara il francese per lo meno, o l’italiano, te ne prego! –
Il francese lo accettò, già pregustandolo.
 
- Ma che diamine hai contro lo spagnolo?! –
 
- Non lo so! Ma tutte quelle stupide s mi irritano! –
 
Antonio sbuffò amareggiato.
- Ah.. Non ti capisco proprio.. – si allentò leggermente la cravatta rossa – Allora.. Aggiornami un po’.. –
 
- Sai una cosa.. – si tirò indietro i capelli biondi dalla fronte – avrei tanto da raccontare, tanto da poter scrivere un libro.. Eppure non so da dove iniziare –
 
- Potresti cominciare, ad esempio, da come sei finito qui, solo come un cane e con una canna in mano –
 
Francis fissò la “cigarette” che teneva tra le dita.
Nell’altra mano il decimo bicchiere di Champagne.
 
Già..
 
Com’era finito in quel modo?
 
 
*Que tal = significa "Come va?" in spagnolo.
*Entonces = significa "Allora?" in spagnolo.
*Que pasò = significa "Che è successo?" in spagnolo.
*
 
 
- Oh, ma guarda un po’ che cosa abbiamo qui.. – disse.
 
- Di che parli? – chiese Mathias, cercando di seguire lo sguardo dell’amico.
 
- E tu che dicevi che questa festa era noiosa.. Guarda un po’ che corpicino sexy quello la giù –
 
- Nik.. Direi che con il francesino oggi ti sia divertito abbastanza, devi per forza combinare altro? – disse il biondo, ridendo del suo stesso momento di finto moralismo.
 
- Pensala come vuoi ma quello per Francis è stato solo volontariato.. Adesso arriva il vero divertimento.. Vaarwel ~ * -
 
Una leggera pacca sulla spalla e nel giro di un secondo era già scomparso dal campo visivo del danese.
 
Mathias sbuffò rassegnato.
 
Vuol dire che ne approfitterò per controllare come vanno un po’ le cose a casa.."
 
Avvicinò il cellulare all’orecchio destro e aspettò qualche secondo.
 
1 squillo..
2 squilli..
3 squilli..
4 squ..
 
Allora?!
 
Un leggero rumore.
 
- ..Ja? – rispose una voce assonnata.
 
- Ah, Lukas, scusa l’ora.. Dormivi? –
 
- Nei, cosa te lo fa pensare.. Sono solo le sei di mattina – disse con sarcasmo.
Sbadigliò.
- Dove diavolo sei?
 
Dove sono?
 
- Sono ancora a New York! Dove dovrei essere?! –
 
- Ah.. A New York.. – un altro sbadiglio.
 
Qualche secondo di silenzio.
 
- … HVA*?! A NEW YORK?! CHE DIAVOLO CI FAI A NEW YORK?!
 
“…calma…”.
 
- Sono al compleanno di un ex compagno di Università.. E ve lo avevo fatto sapere già da un bel po’ di tempo.. COME AVETE FATTO A NON ACCORGERVENE?! –
 
Sentì ridere dall’altra parte del telefono.
 
- Ehi, Emìl! Emìl! Svegliati! Mat è a New York!
 
Altre risate.
Sentì anche una seconda voce.
 
- Scusa bróðir, non ce n’eravamo accorti– continuava divertita l’altra voce, più lontana dalla cornetta del telefono e altrettanto addormentata.
 
Non se n’erano accorti?!
 
- Ah!– riprese Lukas – Quando dovresti tornare? Noi abbiamo fame!
 
- Come volete che vi aiuti?! Cucinate da soli mentre sono qui! –
 
- Nééé ~ – questa volta era Emìl, probabilmente avevano messo il vivavoce – Sapessimo farlo saremmo andati a vivere da soli già da un pezzo ~ -
 
Detestava quel tono canzonatorio.
Detestava quei due mocciosi.
 
- Ehi, idiota, sei ancora lì? – di nuovo Lukas, decisamente quello che dei due tollerava di meno.
 
Sospirò rassegnato e contrariato.
 
- D’accordo.. Nel primo cassetto della mia scrivania c’è un portafogli nero, usate la carta di credito per mangiare domani.. Tanto dopodomani sono di nuovo a casa.. –
 
Purtroppo..” pensò.
 
- Takk*! ~ - dissero in coro.
Poi, immediatamente, terminarono la chiamata.
 
Si portò una mano al viso.
Non ne poteva davvero più di quelle due pesti.
Si avvicinò al divano nero e vi si ci gettò di peso.
Fece per mettere il cellulare in tasca ma, nemmeno a farlo apposta, lo sentì squillare di nuovo.
 
Numero Privato.
 
Portò il telefono ancora caldo all’orecchio.
 
- Ja? Mathias Densen –
 
- Hej*, Mathias!– disse una vocina allegra.
 
Gli bastò questo per identificare il mittente. Nessun’altro parlava lo svedese con un accento tanto strano.
 
- Hej, Tino – sorrise.
 
 
*Vaarwel = significa "Addio" in olandese.
*Hva = significa "Che cosa?" in norvegese.
*Bróðir = significa "fratello" in islandese.
*Takk = significa "grazie" sia in norvegese che in islandese.
*Hej = significa "Ciao" in svedese.
*
 
 
- Che palle.. - sbuffò annoiato.
 
Quanto tempo era passato da quando quel bastardo lo aveva mollato lì da solo?
 
Si annoiava.
Si annoiava troppo.
Fissava accigliato il bicchierino di vino che aveva d’avanti.
 
Quanto avrebbe aspettato ancora?
 
Sbuffò per la trentesima volta in mezz’ora.
 
Era arrivato a quella festa con due energumeni sexy, e improvvisamente si era ritrovato seduto da solo, in compagnia di un acquoso vino rosso.
Niente in confronto al suo amato e prezioso Negroamaro del Salento.
 
Non ci aveva più pensato, ma era da tanto che non tornava in Puglia.
 
Lì dove poco tempo prima aveva comprato una splendida casetta sul mare.. Senza averne mai goduto.
Già, perché, proprio un paio di settimane dopo, Antonio se n’era uscito con la storia del vivere insieme.
 
Come diavolo aveva fatto a lasciarsi convincere da quello spagnolo ingrato?!
 
Lo aveva fatto rimanere mesi e mesi da solo in campagna, in un paese che non conosceva e di cui si era ritrovato a dover imparare con urgenza la lingua.
Doveva ringraziare il fratellino per aver fatto almeno un po’ di compagnia.
Qual’era stato il punto nel farlo trasferire a casa sua? Per tenerlo meglio sotto controllo?
 
Beh, qualsiasi fossero stati i motivi, adesso si pentiva di averlo seguito.
 
Si guardò un po’ intorno.
Nessuno che conoscesse.
Aveva ascoltato Antonio chiacchierare esaltato con Sadiq di tutte le persone importanti invitate alla festa, ma sinceramente lui non aveva mai sentito nominare nessuna di queste.
Si sentiva ignorante ed escluso.
E per di più non parlava una parola d’inglese.
 
Dopotutto.. A cosa gli sarebbe mai servito studiarlo? Non avrebbe mai creduto di dover abbandonare Roma.
Perché mai, poi, una persona normale dovrebbe voler abbandonare Roma?
 
Sbuffò ancora.
Voleva tornare a casa.
Voleva chiamare Feliciano e sentire un po’ la sua voce allegra.
 
..Non che glielo avrebbe mai detto, ovviamente.
 
- Hola cariño, que tal?– sentì, mentre il suo bicchiere veniva magicamente riempito.
 
Dopo tutto l’impegno ed il sacrificio che ci aveva messo per finirlo!
 
Alzò lo sguardo e incontrò due verdissimi occhi da gatto.
Non conosceva abbastanza bene la lingua per capire se il suo accento fosse spagnolo o meno, ma l’aspetto certamente non era latino. Appariva evidentemente nordico, ma sperava dannatamente che quel figo non fosse un altro di quei crucchi idioti.
Sarebbe stato uno spreco!
 
- Ciao.. – rispose.
 
Quello lo guardò un po’ così.
- Italiano? – domandò sorpreso.
 
- Beh, direi.. – rispose con un che di superbo.
- E lei sarebbe? – chiese.
 
- Ah, wat zegt u*, la mia capacità linguistica arriva all’inglese e allo spagnolo – sorrise – sono Nikolaas Van Deer Meer, piacere – gli porse la mano.
 
Lovino lo squadrò da capo a piede, leggermente compiaciuto della preda.
 
- Lovino Vargas, piacere – accettò con grazia il saluto dell’olandese.
 
- Come mai sei solo soletto a bere? – chiese insolente il biondo.
 
- Se questo lo si può considerare bere – osservò schifato il bicchiere di acqua rossa.
 
L’altro rise divertito e complice.
 
- Comunque.. Dato che non conosco nemmeno uno di questi tizi non posso certo immettermi in una conversazione con un inglese inventato – guardava sconsolato il resto degli invitati.
 
- Io ti ascolterei per ore, che sia in italiano, spagnolo, egiziano o inglese inventato –
Ghignò l'altro, visibilmente compiaciuto di sé stesso.
 
- Oh, ma davvero? – Lovino alzò un sopracciglio con fare sospettoso e divertito.
- Chissà perché, però, credo che queste affermazioni da stupidi film per coppiette non ti si addicano troppo.. –
 
Nikolaas si soffermò un momento a guardarlo.
Poi, con molta non-chalance, poggiò sul tavolo il bicchiere di birra che aveva in mano.
- Però – commentò dilettato – che intuito –
 
- Con quante altre persone ci hai provato solo stasera? – chiese ridendo.
 
- Non sono un tipo così facile – sorseggiò un po’ di birra – sei l’unico con cui valga la pena provarci, anzi, dimmi un po’ tu.. in quanti ci hanno già provato stasera? Un viso come il tuo non sarà certamente passato inosservato –
Rideva, rideva chiaramente, dentro il calice semivuoto.
 
- Se ci avesse provato qualcuno prima di te –
Antonio non contava.
- Credimi, non starei ancora qui seduto come un asociale –
Puntò gli occhi ocra sul ragazzone olandese seduto accanto a lui.
 
Quello resse lo sguardo.
- Ah beh, allora.. Tanto meglio per me –
 
 
*Wat zegt u = significa "Pardon" in olandese.
*
 
 
- Vuoi darmi a bere che Braginski se la stia facendo con uno come Kirkland? Sicuro di non aver bevuto troppo? –
 
- Avrò anche bevuto troppo, fumato, tutto quello che vuoi, ma Arthur è uscito con quello psicopatico –
 
- Sinceramente non so quale tra i due sia il più fuori di testa.. –
 
- …Già –
 
- Ma avete litigato? Perché avrebbe dovuto piantarti in asso? –
Chiedeva il latino con il suo marcatissimo accento spagnolo.
 
- Non abbiamo litigato.. anzi.. tutt’altro.. –
 
- Che vuoi dire? –
 
- Lascia stare. –
 
- Pero, amigo! Un po’ di vita! Stai troppo sotto! –
 
Il francese alzò un sopracciglio.
- Io, no? –
 
- Che vorresti dire con quella faccia perplessa? –
 
- Niente di che.. Ammiro solo la rapidità con cui il tuo Lovinito ha trovato compagnia.. –
 
Uno spagnolo gay che nota disperato il suo fidanzato flirtare con un biondone sexy.
Esilarante.
 
Scoppiò a ridere mentre ammirava l’amico farsi strada fra gli invitati per reclamare come un cane il suo territorio.
Forse lo aveva tirato un po’ su di morale, in fondo.
 
- Ehilà –
Qualcuno gli sfiorò i capelli biondi.
- Da quanto non ci si vede, Bonnefoy –
 
Quella voce gli fece contorcere lo stomaco.
Si voltò di scatto.
 
- Ma tu guarda un po’ che gente poco raccomandabile puoi incontrare a New York.. – disse l’uomo alle sue spalle, ghignando soddisfatto della reazione ottenuta.
- Non è che, per caso, hai visto mio fratello in giro, vero? –
Aveva capelli rossi.
Scuri e familiari capelli rossi.
E sempre lo stesso odore di sigari.
 
- Lain.. -

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