Violet

di Padmini
(/viewuser.php?uid=100927)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sogno ***
Capitolo 2: *** Come forzare una porta chiusa ***
Capitolo 3: *** Carboni ardenti ***
Capitolo 4: *** Mamma? ***
Capitolo 5: *** Altri dolorosi ricordi ***
Capitolo 6: *** Stephen Brown ***
Capitolo 7: *** Addio papà ***
Capitolo 8: *** La scorciatoia ***
Capitolo 9: *** Irruzione! ***
Capitolo 10: *** Caro Diario - prima parte ***
Capitolo 11: *** Caro Diario - Seconda parte ***
Capitolo 12: *** Caro Diario - terza parte ***
Capitolo 13: *** Un sogno? No, un ricordo ***
Capitolo 14: *** Stesso sogno, stesso ricordo ***
Capitolo 15: *** Rabbia ***
Capitolo 16: *** Il bivio ***
Capitolo 17: *** La lettera ***
Capitolo 18: *** Caro Sherlock ***
Capitolo 19: *** Amore ***
Capitolo 20: *** Perdono ***
Capitolo 21: *** Mio fratello ***
Capitolo 22: *** Harry ***
Capitolo 23: *** Confessioni ***
Capitolo 24: *** Odissea sotto la pioggia ***
Capitolo 25: *** Guarigione ***
Capitolo 26: *** Papà! ***
Capitolo 27: *** Cinque giorni d'attesa, cinque sensi: Tatto ***
Capitolo 28: *** Cinque giorni d'attesa, cinque sensi: Udito ***
Capitolo 29: *** Cinque giorni d'attesa, cinque sensi: Gusto ***
Capitolo 30: *** Cinque giorni d'attesa, cinque sensi: Olfatto ***
Capitolo 31: *** Cinque giorni d'attesa, cinque sensi: Vista ***
Capitolo 32: *** Raccomandata con ricevuta di ritorno ***
Capitolo 32: *** Un consiglio ***
Capitolo 33: *** Violet ***
Capitolo 34: *** Mia figlia ***



Capitolo 1
*** Il sogno ***





Il narratore questa volta non è esterno, è Sherlock. Spero di non renderlo troppo OOC. Se dovesse accadere perdonatemi! In realtà, dopo aver letto “La soluzione sette per cento” di Nicholas Meyer, ho voluto approfondire un po’ il personaggio di Sherlock Holmes. Meyer fa scrivere a Watson che in realtà, sotto la corazza di freddezza si cela in realtà una grande sensibilità.
 
 
 


 
Mi sveglio.
Il rumore della pioggia sul vetro della finestra mi ha miracolosamente riportato alla realtà.
Non posso crederci. È successo di nuovo.
Mi sono addormentato, ieri sera, durante uno di quei film che piacciono tanto a John. Lui mi ha svegliato e mi ha aiutato a raggiungere il letto, dove sono di nuovo sprofondato tra le braccia di Morfeo. Maledetto Dio del sonno! Perché non si trova un altro hobby? Che so? Carte? Scacchi? Backgammon? Andrebbe bene tutto. Mi basterebbe che la smettesse di tormentarmi. Io non ho bisogno di dormire. Non voglio dormire.
Perché? Dormire per prima cosa è un’inutile perdita di tempo. Qualcuno potrà dire che serve al corpo per ricaricarsi. Sarà così per le persone normali! Qualcuno deve aver invertito qualche filo quando mi ha generato perché per me succede tutto il contrario.
Mentre gli altri si ricaricano mangiando, riposando o addirittura (orrore!) dormendo, io mi scarico. Davvero! Non c’è nulla di più deleterio per me dell’ozio. Il mio cervello, la parte più importante di me, l’unica a cui possa fare affidamento, ha bisogno di attività. Lavoro. Lavoro. Sono mesi che non ho un lavoro decente tra le mani.
Ragazzini scappati di casa, mogli tradite da mariti che hanno scoperto troppo tardi di amare il loro migliore amico, frodi assicurative. Banale, noioso.
Non c’è nulla lì fuori che possa distrarmi dai miei incubi. No, mi correggo. Dal mio incubo. Uno solo. È sufficiente a destabilizzarmi.
Non mi ricordo da quando ce l’ho. Forse da sempre. Ciclicamente è tornato per tormentarmi. Quindi, ciclicamente, sono ricaduto nel mi vecchio vizio. Non è sempre stato così. Mi ricordo che quando ero bambino c’era mia madre. Lei veniva in camera mia e mi consolava.
Poi, quando sono cresciuto, non ho più potuto fare appello a lei per calmare le mie notti. Ho dovuto arrangiarmi, ed è arrivata lei. La mia dannazione.
La cocaina.
Ci sono andato giù pesante fin da subito. Appena l’incubo tornava a farsi vivo, andavo da quel mio vecchio conoscente che mi doveva più di un favore e mi rifornivo della droga. Nessuno in casa poteva sospettare nulla.
Poi Mycroft se ne è accorto. Mi osservava. Il mio caro fratello! Sempre così preoccupato per me! Mi teneva d’occhio! Mi aveva portato in quella clinica per aiutarmi a smettere. Per un periodo aveva funzionato. Poi ci ero ricascato.
Finalmente, dopo la mia seconda visita a quella stramaledetta psicologa, avevo trovato qualcosa migliore della cocaina: gli omicidi.
Non fraintendiamo. Non mi distraevo ammazzando la gente, sia chiaro! Scoprire gli assassini era meglio della droga più pura. Ragionare, trovare indizi, incasellare la gente solo guardandola. Ecco cosa mi faceva sentire bene. Ho bisogno di tenere il cervello impegnato in qualcosa che non sia quello stramaledetto sogno. Mi perseguita. Quello …  e altro.
Voglio solo dimenticare. Sono tante le cose che non voglio nella mia mente, ora. Perché se ci sono riuscito con il sistema solare non posso riuscirci anche con questo? Voglio dire, sono informazioni. Banali ricordi nel cervello. Non posso semplicemente spazzarli via?
Invece eccolo qui! Il mio nemico di sempre! Quel maledetto incubo non ne vuole saperne di lasciarmi in pace! E con quell’incubo, riaffiorano ricordi che pensavo di aver ormai seppellito. Ricordi dolorosi.
 
Nel sogno mi ritrovo neonato. Sto dormendo in una culla. Le pareti soffici, imbottite di cotone, mi circondano. Per coprirmi, un lenzuolino di cotone delicatissimo e una coperta di lana, fatta dalla nonna. Sopra di me gira una giostrina con degli uccellini e una musica classica di pianoforte. Rido, mi piace quella musica. Ben presto la musica sta per farmi addormentare, quando all’improvviso sento delle urla.
Sono urla di un uomo e di una donna. L’uomo è furente, impreca, inveisce, accusa. La donna piange, chiede perdono. Si sentono dei colpi e la donna piange più forte. Poi una porta sbatte. Lì mi sveglio, ricoperto di sudore.
Non so perché ma questo sogno mi mette un’angoscia tremenda. Non so da dove provenga. Non so nemmeno se sia un mio ricordo o se abbia un valore simbolico. Ho provato a parlarne con la psicologa ma non è stata di grande aiuto.
‘Devi affrontarlo’ mi diceva ‘Prova a gestirlo. Prova ad alzarti da quella culla per andare a vedere chi sta litigando. È il tuo sogno, lo puoi fare. È facile!’
Facile un corno! Forse poteva essere facile per lei! Per me, l’unico desiderio non era uscire dalla culla ma da quel sogno! Ho provato a liberarmene in ogni modo. Pensavo di esserci riuscito. Quanto mi sbagliavo!
 
È ritornato. Ormai sono tre notti che mi sveglio così. John sembra aver notato qualcosa. Anche lui come Mycroft mi osserva. Al contrario del mio petulante fratello, però, sa stare al suo posto. Non mi tormenta. Sa aspettare. Sa che, se vorrò, gliene parlerò.
Intanto però, da vero ingrato, lo sto trattando come una pezza da piedi. Perché faccio così? Lui sopporta, ma non penso che potrà resistere a lungo. Due sere fa è andato a dormire da Sarah. Di nuovo. Oramai passa più tempo a casa di quella donna che a Baker Street. Lo capisco, in fondo. Anch’io scapperei al suo posto.
Sono diventato insopportabile. I miei sbalzi di umore sono sempre più evidenti. È l’effetto della cocaina. la mia faccia da cane bastonato, la mattina dopo, deve averlo intenerito perché ha suggerito di guardarci un film insieme. Ho accettato. Non volevo contrariarlo di nuovo. Non volevo che se ne andasse, lasciandomi solo con i miei mostri. Eppure … anche con la sua presenza qui si sono fatti vivi. Forse proprio per questo. Con John al mio fianco mi sono sentito più sicuro, più rilassato …  e quei ricordi maledetti ne hanno approfittato per colpirmi più violentemente del solito.
 
Mi alzo, faccio la doccia. Magari l’acqua che scorre può portare via le ombre della notte, come un fiume che si pulisce dalle foglie morte. Inutile.
Mi prude una spalla. Appoggio una mano alla pelle per togliermi il prurito e la sento. Una piccola imperfezione. Mi guardo e la vedo. Una cicatrice. Da quando ce l’ho? Non ricordo. Sarà saggio cercarne l’origine nella mia memoria? Troppo tardi. Prima che possa finire di formulare questo pensiero il ricordo si fa strada prepotentemente nella mia mente.
Risento di nuovo quel dolore. Il dolore della ceramica che si infrange contro la mia pelle. Ma il dolore più grande lo provo nel cuore. Quel cuore che pensavo di aver sigillato per sempre in una camera stagna. Scivolo sul fondo della doccia mentre l’acqua continua a cadermi addosso.
Cosa mi sta succedendo? Cosa sono queste emozioni così terribili che pian piano stanno prendendo possesso del mio essere? Non le voglio! Non le voglio! Non le voglio ma non posso scacciarle. Più ci provo più queste mi tornano indietro, ferendomi. Come delle lame affilate. Mi inseguono in ogni nascondiglio, mi braccano.
 
“Sherlock?”
Sento la voce di John dalla cucina. Mi chiama. Sta uscendo per andare al lavoro.
“Sto uscendo. Tornando a casa mi fermo al supermercato. Ti serve qualcosa?”
Non rispondo. Lui, rassegnato, esce dalla stanza sbattendo un po’ la porta. È arrabbiato di nuovo. Stanotte dormirà di nuovo da Sarah, lo sento. Mi sforzerò per farmi perdonare, forse. Magari potrei togliere quegli alluci in decomposizione nel frigo. Dovrebbero essere pronti per i test che ho in programma e se in un paio d’ore riesco a portarli a termine John si ritroverà con qualcosa di fetido in meno tra il latte e la marmellata.
Esco dalla doccia. Mi asciugo e mi vesto. Mi abbottono la camicia e infilo la mia bellissima vestaglia blu. Com’è comoda! Finalmente un po’ di pace. Vado in salotto e mi godo il silenzio. No. Troppo silenzio. La mia mente prova, bastarda, a riportarmi a quei ricordi.
Prendo il violino e provo a scacciarli. Suono una musica vivace. Non ho voglia di deprimermi. Mi muovo per la stanza, danzando. Ogni tanto apro gli occhi per non inciampare in qualcosa ed è lì che mi accorgo che il mio cellulare sta squillando.
Sempre tenendo il violino in mano, appoggio l’archetto sulla poltrona e afferro il telefono. È Lestrade.
Ciao Sherlock” mi dice “Ti disturbo?
“No, figurati” dico io in risposta. Un altro caso! Ti prego! Un caso di omicidio magari! Ti prego! Qualcosa degno della mia attenzione!
C’è stato un brutto omicidio stanotte. Un uomo pugnalato è stato ritrovato in una vecchia fabbrica abbandonata. Posso mandare una macchina a prenderti?”
“Certo, certo” rispondo cercando di reprimere la felicità.
Un omicidio! Bene! Un po’ di cibo per la mia mente! Mi sfilo con un solo gesto la vestaglia e in pochi minuti sono pronto per salire sulla macchina che mi porterà sul luogo del delitto. Mi dispiace che non ci sia John con me, però. Pazienza. Gli racconterò i fatti stasera.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Come forzare una porta chiusa ***








La macchina mandata dall’ispettore Lestrade è arrivata velocemente. Troppo per i miei gusti. Il vecchio ‘Greg’ sapeva benissimo che avrei accettato. Corro giù per le scale, eccitatissimo. Non vedo l’ora di esaminare il luogo del delitto e, cosa ancora più interessante, il corpo.
Avrò almeno cinque minuti tutti per me per potermi muovere liberamente e poi un tempo indeterminato per sciorinare le conclusioni. Tutto dipende da quello che troverò.
Mi pare che questo autista sia un po’ troppo lento. Non mi disturbo neanche a dirgli di accelerare. Mi ignorerebbe. Nell’attesa osservo fuori dal finestrino e mi viene da ridere. Ogni tanto Lestrade mi dice di essere troppo freddo, troppo indifferente alle sofferenze dell’umanità. Che ne sa lui di me? Sa qualcosa delle sofferenze che io ho dovuto sopportare? Non ne sa nulla. E mai lo saprà. Punto.
Cercare di ignorare le mie sofferenze mi ha portato inevitabilmente a ignorare anche quelle degli altri. Oppure ho cominciato a fregarmene dei sentimenti altrui proprio per poter dimenticare i miei? Probabile. Ho imprigionato le mie emozioni una cella di isolamento chiusa a doppia mandata con qualche centinaio di lucchetti. Impossibile aprirla.
Da qualche tempo a questa parte, però, mi sembra che qualcuno, o qualcosa, tenti di forzarla. Ho prestato troppa attenzione alla serratura. Da qualche parte deve esserci una falla. Una minuscola fessura che, se stressata con la giusta forza, potrebbe far crollare tutte le mie difese. E a quel punto? Cosa potrei fare, io?
Riuscirei a gestire quell’ondata che inevitabilmente mi colpirebbe?
 
Arrivo sul luogo del delitto. Ancora non so cosa mi aspetta. È questo quello che mi piace. L’attesa. Più lunga è l’attesa più mi godo il premio. Scendo dall’auto con cautela, con eleganza. Ogni mio movimento deve essere preciso e armonioso. Mi metto in una posizione di superiorità solo camminando. Voglio dire, quanti camminano come me? Sono un bell’uomo, ne sono consapevole. Più di una mia cliente, parlandomi, non ha potuto fare a meno di notarlo. John ha ragione a dire che mi pavoneggio un po’. Che c’è di male in questo? È la sola soddisfazione che mi rimane.
 
“Finalmente” mi dice Lestrade avvicinandosi “Ce ne hai messo di tempo!”
“La prossima volta mandami un autista che non abbia trovato la patente nelle patatine” dico io senza nemmeno scusarmi. Perché dovrei farlo, poi? È lui che dovrebbe ringraziarmi per la mia presenza.
Mi avvicino al cadavere. È disteso a pancia in giù. Mi sembra di riconoscere quel cappotto. L’ho già visto.
Osservo per prima cosa il terreno. C’è stata una lotta molto cruenta, a giudicare dalle impronte che vedo. Due uomini. Uno di loro è arrivato prima e ha atteso che l’altro lo raggiungesse. Poi i due hanno cominciato a parlare animatamente e sono arrivati alle mani. Non si può ancora parlare di omicidio, in realtà. Potrebbe trattarsi di legittima difesa. Bisognerà trovare l’altro uomo per capirlo.
Visto che mi ha chiamato avranno già fatto tutte le rilevazioni del caso quindi senza domandare nulla mi infilo i guanti e giro il corpo per verificarne l’identità.
 
Non sono mai stato impressionabile con i cadaveri. Voglio dire! Ne vedo tantissimi con la mia professione. La mia casa, con sommo disappunto di John, è sempre piena di teste, dita, braccia, mani, organi vari.
Allora perché quando vedo il viso dell’uomo mi viene solo voglia di vomitare? Perché mi sento pizzicare gli occhi? Guardo il cielo, sperando che le lacrime non vogliano uscire.
“Allora?” mi domanda Lestrade preoccupato “Mio dio Sherlock, c’è qualcosa che non va?”
Se ne è accorto. Ha percepito il mio disagio. Non reagisco mai così quando sto per esaminare il corpo. Di solito tutta la mia attenzione va su di lui. Sui dettagli del vestito, della pelle, delle scarpe. Tutto quello che può aiutarmi a identificarlo e incasellarlo. Ora no. Ho distolto lo sguardo e respiro con affanno, cercando di ricacciare indietro lacrime troppo forti per essere fermate.
Quando mi giro verso di lui lo spavento. Anche Donovan, arrivata da poco, mi guarda spaesata. Non mi hanno mai visto piangere. Sto piangendo, ora. Silenziosamente ma sto piangendo.
Mai, mai mi sarei aspettato di trovare proprio lui qui. L’ho amato, l’ho odiato. Non  so cosa provo per lui adesso. Pietà. Forse. Rimpianto. Anche. Dolore. Si, soprattutto dolore. Dolore per non essere riuscito a dimostrargli il mio affetto. Per non essere riuscito ad ottenerlo da lui.
“Cosa c’è Sherlock?” mi chiede Sally preoccupata. Devo essere proprio spaventoso visto così se perfino lei ha rinunciato al classico nomignolo che mi affibbia di solito.
Apro la bocca per parlare, ma le parole non escono. Cerco di riordinarle.
“Cosa ci puoi dire del cadavere?”
“C’è stata una lite” dico evitando la domanda “Evidentemente lui e un altro uomo hanno litigato …  e questa è la conseguenza. Potrebbe trattarsi di legittima difesa. Anzi, ne sono sicuro”
“Come puoi dire una cosa del genere?”
“Il pugnale” dico. Mi sono accorto troppo tardi del pugnale e solo ora lo riconosco, conficcato tra le costole dell’uomo “Appartiene alla vittima”
“Come fai a dirlo?” mi domanda Lestrade
“Se il pugnale appartiene alla vittima probabilmente chi lo ha ucciso voleva solo difendersi. Lui” dico indicando l’uomo steso a terra “lo avrà chiamato qui, probabilmente con una scusa, e ha provato ad ucciderlo ma l’altro è stato più veloce e lo ha pugnalato con la sua stessa arma”
“Sherlock” mi dice l’ispettore tenendosi la fronte “Tutto ciò è molto interessante ma non puoi provarlo. Hai ragione a dire che se il pugnale apparteneva alla vittima si tratta di legittima difesa, ma non puoi provarlo. Dovremmo prima esaminare le impronte digitali e, cosa più importante, identificare il morto!”
Bene. Perfetto. Come lo dico? Io so già chi è. Cerco le parole che fanno tanta fatica ad arrivare. Vedo la pietà nei loro occhi. Sembrano inteneriti da questa mia debolezza. Di solito sono io che li sovrasto. Sono freddo, calcolatore, cinico. Li eccita vedermi così debole?
 
Non ho il tempo di cercare una risposta nei loro visi perché vengo travolto.
La stessa lama che ha trafitto il costato di quell’uomo è penetrata nella fessura della mia camera di sicurezza e l’ha scoperchiata senza pudore, ignorando i numerosi lucchetti di cui l’avevo dotata.
Tutto quello che era racchiuso lì dentro mi investe con eccessiva violenza. Tanti, troppi ricordi che ho voluto seppellire. La consapevolezza di tutti quegli episodi mi esplode dentro come una bomba.
Non ho mangiato nulla stamattina, eppure devo allontanarmi per non contaminare la scena del crimine. Corro fuori, sotto lo sguardo colmo di pietà di Donovan, Lestrade e Anderson, che si è appena aggiunto. Figurati se quello stronzetto vuole perdersi lo spettacolo!
Mi raggiungono mentre io ho già appoggiato le mani sul muro della fabbrica di fronte e butto fuori la scarsa cena che John mi ha costretto a mangiare ieri sera.
Sento male in ogni parte del corpo, come se i ricordi avessero preso forma. Ogni percossa. Ogni insulto. Ogni maltrattamento. Riaffiorano alla mia mente e nel mio corpo come se li stessi vivendo ora. Ripenso a quell’uomo, morto in un modo così brutale,  in un luogo così squallido. Tutto è così distante da come era lui.
 
Mi rimetto in piedi a fatica. Barcollo un po’ e, finalmente, riesco a ritrovare una certa lucidità. Sento la presenza dei tre alle mie spalle. Non parlano ma mi fissano con insistenza. Cosa si aspetteranno da me? Mi disprezzeranno? Finalmente anche il freddo Sherlock Holmes soffre di fronte alla morte? Chi se ne frega! Non mi è mai importato nulla del giudizio altrui, tantomeno di questi tre imbecilli che stanno ad osservare la mia schiena, attenti per cogliere anche il minimo movimento.
Prendo il cellulare. Devo fare tutto con calma altrimenti rischio di cadere di nuovo. Seleziono il numero di Mycroft. Bene. Le mie funzioni mentali sono ancora intatte. Provo a digitare un SMS. No. C’è qualcosa che non va. Le lettere sui tasti si confondono, sono sfocate. Cosa c’è che mi ostacola?
Lacrime? Sono lacrime queste?
Va bene. Rinuncio al messaggio. Gli telefono, anche perché lui detesta i messaggi.
“Mycroft?” lo chiamo quando, dopo una breve attesa, lui risponde “Vieni qui, subito”
Dove?” mi domanda ovviamente lui, ma io non sono più connesso con il mondo esterno. Vago in un universo tutto mio .
“Vieni qui” ripeto. Dove dovrebbe venire, poi? Vieni qui da me e aiutami ad arginare la sofferenza. Aiutami. Tu lo sai, tu sai tutto quello che quella stanza maledetta conteneva. Puoi aiutarmi a rimettere tutto dentro, fratello?
Devo aver ripetuto la stessa frase un numero imprecisato di volte ma non ne sono consapevole. Mycroft, dall’altra parte del telefono, è disorientato. È Lestrade ad aiutarmi. Mi prende il telefono di mano. Non oppongo resistenza. Resto così, con il braccio a mezz’aria e la mano aperta. Gli detta l’indirizzo e chiude la chiamata.
“Sarà qui tra poco” mi dice porgendomi il telefono. Io non mi giro. Non mi muovo. Abbasso la mano ma non accenno a voler prendere il cellulare che lui mi porge. Rassegnato me lo infila in tasca.
“Sherlock, mi spieghi cosa ti sta succedendo?” mi chiede cercando di mascherare l’impazienza.
“So chi è” dico infine. Devo farcela. Posso farcela. Voglio farcela.
“Avanti, allora!” dice Anderson con il suo solito atteggiamento irritante “Illuminaci!”
Non posso non notare un certo sarcasmo nella sua voce. Mi ha sempre disprezzato e non  lo ha mai nascosto. Non che il sentimento non fosse reciproco, ma adesso mi fa male. Come girare un coltello in una piaga.
“Il suo nome è Siger Holmes” dico, e li sento trattenere il respiro “Era mio padre”

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Carboni ardenti ***








Non ricordo molto di quello che è accaduto dopo. È stato così confuso … Mycroft è arrivato e mi ha abbracciato. Non piangeva. Non è mai stato debole, lui.
Mi sosteneva con le sue braccia così forti. Le braccia che avrei voluto avere anch’io, per potermi sostenere da solo. Mi ha portato a casa. John ancora non c’era così è rimasto con me finché non è tornata a casa almeno la signora Hudson.
Anche lei mi è rimasta accanto finché non è tornato John. Lui ancora non sa nulla.
Adesso è qui, davanti a me. Mi guarda. Io ho lo sguardo puntato verso di lui ma non lo vedo. Nessuno gli ha detto niente. Dovrò farlo io. Ma sono ancora sotto Shock. Non riesco a formulare frasi di senso compiuto. Il mio pensiero corre veloce, come al solito, ma il corpo si rifiuta di obbedirmi.
Sono rimasto in questo stato tutto il giorno. Né Mycroft ne la signora Hudson sono riusciti a risvegliarmi.
Con un immane sforzo di volontà, torno sulla terra. È una cosa che voglio fare. Mi impongo di farlo.
“Sherlock” mi sussurra John “Cos’è successo? La signora Hudson mi è sembrata così preoccupata …”
Lo guardo e ora lo vedo. Anche lui è in pensiero per me. Caro John! Lo faccio arrabbiare eppure è sempre presente per me!
“Stamattina” comincio a fatica “Stamattina sono andato ad esaminare un cadavere”
“Niente di strano, allora” dice lui alzandosi dalla poltrona su cui sedeva per andare in cucina. Sento che sta trafficando con il bollitore per fare un tè.
“Era mio padre” dico semplicemente. Come dovrei dirlo? Non c’è altro modo. Sento il rumore di una tazza che si rompe. Guardo verso la cucina e vedo John, irrigidito, con la mano aperta. Si volta verso di me. Mi guarda.  Mi studia. Non sa cosa dirmi. Vedo il panico nei suoi occhi.
“Lascia stare” dico “Non serve che dici nulla”
“Lo hanno ammazzato?” mi domanda lui, cercando di farmi le domande che mi porrebbe se si trattasse di un cadavere qualsiasi. Purtroppo non è così.
“Dagli indizi che ho potuto rilevare sul luogo deve esserci stata una lite” rispondo cercando di suonare professionale “Ma sono quasi certo che mio padre volesse uccidere chi invece ha ucciso lui”
“Come mai?” mi chiede. Già. Come mai? Chi avrebbe voluto uccidere mio padre? Con chi ce l’aveva?
“Non lo so”.
 
Provo ad alzarmi. Non ci riesco. Mi sento debole. Frustrato. Stanco. Ho voglia di piangere. Ho voglia di dormire. Ho voglia di stare solo. Ho bisogno della cocaina. Non posso iniettarmela ora, qui, davanti a John. Mi disprezzerebbe. No, peggio. Mi impedirebbe di farlo.
Cerco di alzarmi ma le braccia si rifiutano di sostenere il peso del mio corpo. Ricado bruscamente sulla poltrona. John subito viene in mio soccorso. Me l’aspettavo.
“Ti aiuto io” mi dice prendendomi da sotto le ascelle “Hai bisogno di dormire” decide.
Si, lo decide. Quando usa quel tono non ci sono santi. Devo dormire o, per lo meno, fare finta. Mi porta a letto. Normalmente mi sarei disteso ad occhi aperti, continuando a pensare. Oggi no. Non ne ho la forza. Voglio solo dormire.
La cocaina è sempre lì, nella mia cassaforte, al di fuori della mia portata. Mi chiedo se sarei in grado di iniettarmela, in queste condizioni.
Mi copre ed esce dalla stanza, non prima di fermarsi un paio di minuti per osservarmi. Cosa prova nei miei confronti? Pietà?
 
Chiudo gli occhi. Non vorrei dormire ma ne ho bisogno. Eppure ho paura. Paura di rivivere quell’incubo.
Stavolta, però, proverò a seguire il consiglio di quella psicologa. Non che mi fidi di lei, sia chiaro. Sarà un esperimento. Spero che non arrivi. Spero di dormire otto ore filate e risvegliarmi fresco, domani mattina.
Sarà Mycroft ad occuparsi del funerale. Io dovrò solo … non riesco più a pensare a nulla. Una nube grigia mi avvolge. Sento che sto per svenire. Lo avverto chiaramente. Non è puro abbandono al sonno. È qualcosa di peggio. Cado velocemente nell’oblio.
 
Sono di nuovo in quella culla. La musica, sopra di me, continua. Gli uccellini di plastica girano e mi fanno divertire. Come sono carini! Magari questa volta riuscirò ad addormentarmi al suono di questo dolce pianoforte? Ci provo. Chiudo gli occhi e ci provo. Inutile.
Le grida dei due si fanno presto sentire.
“Come hai potuto!” grida lui “Puttana!”
“Ti prego” lo supplica lei “Ti prego perdonami!”
“Ormai è troppo tardi!”
“No, ti prego, no! Pensa a tuo figlio!”
“Mio figlio? Come puoi dire una cosa del genere?”
“Ti prego! Ti prego!”
Così partono le botte. Le sento. La donna non riesce più a parlare. Piange, sotto quelle percosse.
Allora, con uno sforzo di volontà, mi alzo. La culla scompare.
 
Cammino. Riesco a camminare. Non sono più un neonato. Quanti ani avrò? Sei anni a giudicare dalla mia statura. Avanzo verso la porta. La apro e sono fuori, nel corridoio. Comincio a correre verso le urla ma queste, all’improvviso, smettono. Mi fermo in mezzo alla stanza, disorientato.
Cosa succede? Cerco di tornare indietro, ma una porta si apre, di fronte a me. Non l’avevo notata.
Ne esce un uomo. Lo riconosco. Provo affetto verso di lui. Voglio andare ad abbracciarlo.
“Papà!” grido felice. Gli corro incontro con le braccia aperte. Lui nemmeno mi guarda. Mi passa accanto senza accorgersi della mia presenza. Soffro per questo.
“Papà! Guardami! Sono qui! Abbracciami! Prendimi in braccio!”
Lui non mi ascolta. Perché lo sto supplicando? Gli corro dietro ma lui va troppo veloce. Non ci riesco. Cado.
Mi sveglio.
 
Sono a letto. Mi libero a fatica delle lenzuola che nel sonno agitato si sono avvolte attorno al mio corpo. Mi sento una mummia.
“John?” lo chiamo. Sarà in casa? Ti prego, John! Rispondi! “JOHN!”
Un fascio di luce entra nella mia stanza. John ha aperto la porta e mi osserva.
“Tutto bene, Sherlock?”
Che domanda idiota! Come può andare tutto bene! Devo avere una faccia spaventosa perché subito mi si avvicina e mi abbraccia.
“Va tutto bene, Sherlock. Sono qui. Sono qui”
Lo sento. È qui. Il contatto con le sue braccia mi fa sentire meglio. Sento qualcosa di bagnato scorrermi lungo la guancia. L’ennesima lacrima. Non ne posso più. Per anni non ho pianto e sembra che ora tutte le lacrime che ho represso vogliano vendicarsi di me.
“Sherlock, ti prego” mi dice lui. Non aggiunge altro. Vuole solo che io mi confidi con lui. Non lo farò. Lo sa.
Per ora mi basta affondare la faccia sul suo petto cercando di calmare i singhiozzi che scuotono il mio corpo. La mia anima.
 
È mattina. Com’è successo? Era così buio, prima … l’ultimo ricordo che ho è la mia faccia premuta contro il maglione di John, umido delle mie lacrime. Mi alzo. Sono già vestito perché ieri sera proprio non ce l’ho fatta a cambiarmi. Ho bisogno di una doccia.
Mi lavo e mi metto vestiti puliti. Mi guardo allo specchio. Cerco di assumere la solita espressione indifferente. Mi riesce bene. dentro, in realtà, sono a pezzi.
Trovo John in cucina. Sta facendo colazione.
“Come stai oggi?” mi chiede premuroso.
“Meglio” rispondo.
In effetti è vero. Va un po’ meglio. Il sogno ha proseguito. Sto procedendo lungo un sentiero di carboni ardenti. L’omicidio di mio padre è stato la spinta che mi ha fatto fare il primo passo. Ora devo solo proseguire. Ignorare il dolore e proseguire. Cosa ci sarà, in fondo al sentiero?
 
Vedo che la mia tazza è già piena di tè. È proprio quello che mi ci vuole, stamattina. Ho anche fame. Mi siedo e comincio a inzuppare alcuni biscotti. Me la sto proprio godendo, questa colazione. John mi guarda. È preoccupato per me, si vede. Gli sorrido. Non voglio che sia triste.
 
Sento il telefono vibrare sopra la scrivania. Mi alzo di slancio per andare a prenderlo. Si, sto decisamente meglio. È Lestrade.
“Sherlock, abbiamo individuato l’altro uomo” mi dice con il fiatone. Deve aver corso parecchio, in queste ultime ore. Che lo abbia fatto per me?
“Chi è?” chiedo con la mia solita voce fredda e professionale.
“Si chiama Stephen Brown. È un avvocato divorzista. Nella sua agenda abbiamo trovato un nome che potrà interessarti”
“Dimmi”
“Violet Holmes”

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Mamma? ***




Per il disegno ringrazio Freida Rush :D








Quasi mi strozzo con il tè. Mia madre? Cosa ci faceva mia madre da … no, capisco. Ora è tutto chiaro. Fin troppo, direi. Mio padre è sempre stato un uomo vendicativo. Lo so. L’ho provato sulla mia pelle. Non voleva lasciarla andare.
“John” dico prendendo il cappotto e cominciando a infilarmi la sciarpa “Vado a Scotland Yard. Ci sono sviluppi sul caso di …” mi interrompo. Non ce la faccio proprio a finire la frase “Be’, hai capito”
“Verrei volentieri anch’io, Sherlock, ma devo andare in ambulatorio”
“Tranquillo” gli dico uscendo.

Chiamo un taxi. In pochi minuti arrivo a Scotland Yard.
“Come stai?” mi domanda Lestrade appena mi vede. È la domanda del giorno.
“Meglio” stessa domanda. Stessa risposta.
“Dunque” riprende lui, professionale “Questo Stephen Brown … abbiamo trovato un suo biglietto da visita mezzo sepolto dal fango. Lo ha riconosciuto Anderson”
“Dov’è ora?”
“Lo abbiamo interrogato. Verrà processato, certo, ma sicuramente verrà assolto per legittima difesa. Hai detto tu stesso che il pugnale era di tuo padre, no?”
“Giusto. Ma se il caso è chiuso, perché mi hai chiamato qui?”
“Volevo solo sapere come stai” mi risponde insicuro. Mi vuole bene, nonostante tutto gli sto veramente a cuore.
“Te l’ho detto. Sto meglio”
“Meglio non vuol dire bene”
“No”
“Mycroft si occuperà del funerale, giusto?”
“Si”
Ormai ha capito come andrà avanti la conversazione.
“Chiamami se hai bisogno” mi dice mentre sono già alla porta.
“Altrettanto” dico io.
Chi ha bisogno di chi? È lui che ha bisogno di me! Se avessi bisogno di aiuto, sicuramente non mi rivolgerei a lui! Ora ho solo bisogno di risposte. So dove trovarle.

La casa dei miei genitori è molto grande ma a me sembra immensa. L’ho lasciata da parecchi anni, da quando frequentavo l’università. Non ci sono più tornato, cene di Natale a parte.
Mi ha visto dalla finestra ed è subito alla porta, pronta ad accogliermi. Non si è truccata. Negli occhi ha i segni di una notte insonne. I capelli ormai bianchi sono spettinati. Non si è ancora vestita, indossa quella sua vestaglia rossa che mi piace tanto. È bellissima.
“Sherlock, tesoro” mi dice prima di abbracciarmi.
“Ciao mamma” le dico rispondendo all’abbraccio.
Non servono altre parole. Lei è la mia ancora. La mia salvezza. L’unica donna di cui riesca a fidarmi. Si potrebbe pensare che sono un mammone. Non me ne frega niente. Lei è stata l’unica che mi ha sempre difeso.
“Puoi aspettarmi qualche minuto? Vado a vestirmi”
Non faccio in tempo a rispondere che lei è già andata via. Mentre l’aspetto mi guardo attorno. Le stanze che mi hanno visto crescere. Tutto lì dentro mi ricorda mio padre. Lui e il rapporto che avevamo.

“Eccomi” mi dice scendendo le scale.
Ora la riconosco. Si è vestita con la solita eleganza ed è perfettamente truccata. Sotto il fondotinta si vede ancora che non deve aver dormito molto stanotte, ma lei riesce a mascherarlo perfettamente.
“Come stai?” le chiedo. Per la prima volta da ieri sono io che lo domando a qualcuno e non il contrario.
“Non lo so” mi risponde lei “Non lo so davvero Sherlock”
È agitata. Lo vedo. Cosa mi sta nascondendo tra quelle mani che si contorcono, cercando rassicurazione l’una con l’altra? Cosa nascondono quegli occhi di ghiaccio? Quegli occhi che ha avuto la bontà di regalarmi. Le assomiglio così tanto. Per questo so bene che non parlerà. Dovrò aiutarla ad aprirsi. Non è mia intenzione violare così la sua intimità, ma ho bisogno di risposte. Ho bisogno di avanzare lungo questa strada che mi si è aperta davanti.
“Stavate divorziando?” le chiedo a bruciapelo. Non so come altro chiederglielo.
Lei sobbalza. Non che non si aspettasse una domanda del genere, da me.
“No” mi risponde lei. Sarà vero?
“Allora come mai papà ha provato ad uccidere un avvocato divorzista?” un’altra stoccata.
Lei adesso è sconvolta. Mycroft non le ha raccontato tutto, a quanto pare. Dovrò farlo io.
“Di cosa stai parlando?” è sincera. Davvero non sa nulla.
“Sai com’è morto?”
“No”
“Lo hanno trovato in un vecchio capannone abbandonato. È stato ucciso con il suo stesso pugnale. Quello che aveva ereditato dal nonno. Era lui il potenziale assassino. Vicino al corpo hanno trovato un biglietto da visita. Sai chi è Stephen Brown?”
“Come? Sthephen? Dov’è ora? Cosa gli hanno fatto?”
“Lo conosci?”
“Io …” esita. Cos’è quella cosa che vedo nei suoi occhi? Senso di colpa? “Si. Lo conosco”
Si, confermo. È proprio senso di colpa. Sento che mi sta nascondendo altro. Distoglie lo sguardo. Sa che posso leggerle dentro. Sa che capisco quando mente. Non può permetterselo. Non con me. È tesa come una corda di violino.
“Sarà processato ma se la caverà. Tutto dimostra che è stata legittima difesa”
La tensione magicamente scompare. Le sue spalle si abbassano e lei torna a respirare normalmente. Sarà il caso di chiederle qualcosa? Anche se lo facessi, mi risponderebbe sinceramente? I dubbi si insinuano pian piano nella mia mente. Se ne accorge. Sono come un libro aperto, per lei. Lei è l’unica che mi capisce.
“Posso spiegare, Sherlock” mi dice con un espressione sofferente.
Vuole giustificarsi? Vuole spiegarmi come mai mio padre ha provato ad ucciderlo? Non solo ha provato ad ucciderlo, lo ha intenzionalmente attirato in quel capannone! Doveva avere un motivo ben valido per fare ciò che ha fatto. O no?
“Io e Stephen ci conoscevamo dai tempi dell’università. Non ci vedevamo da anni. Lui è sempre vissuto qui in Inghilterra. Ci siamo persi di vista quando mi sono trasferita in Francia. Non ho saputo più nulla di lui fino a qualche mese fa”
“Non mi vorrai dire che tu e lui …” perché no? Perché no?
“No” mi risponde lei, secca “Non eravamo amanti, se è questo che volevi insinuare”
Perfetto. L’ho fatta arrabbiare. Si gira, dandomi ostentatamente le spalle con le braccia incrociate al petto. La conversazione è finita. Non so più cosa dirle. Mi pesa questo muro che si sta alzando tra di noi. Non lo voglio. Eppure eccolo lì. Si sta difendendo. Da me? Perché dovrebbe difendersi da me? Ha paura che possa scoprire qualcosa? Qualcosa che nemmeno lei vuole ammettere?
Se lei per prima non vuole vedere la verità, chi sono io per sbattergliela in faccia? Lo faccio con tutti eppure con lei non me la sento. Non posso. Non voglio mancarle di rispetto così. Sono ben lungi dallo scoprire la verità, ma lei ha alzato questa barriera che mi impedisce di comunicare. Altre domande sarebbero inutili. Dannose.
Eppure voglio la verità. So che lei potrebbe darmela.
Qui.
Subito.
Adesso.
Dovrò quindi avanzare da solo? Sono tante le domande che mi passano per la testa. Tante come i ricordi che, pian piano, affiorano. Ricordi che pensavo di aver seppellito per sempre con la cocaina. Ora non mi serve più. Sono motivato. Sono pieno di energia. Voglio andare fino in fondo a questa storia.
Per la legge il caso è chiuso. Stephen Brown presto potrà tornare a separare coppie infelici mentre mio padre giacerà per sempre sotto la nuda terra. Che melodrammatico! Mi faccio pena da solo.

Per me? Il caso è chiuso per me? No, certo che no. È appena iniziato. The game is on! Questa volta, però, dovrò fare molta attenzione. Dovrò indagare fuori, capire cosa ha portato mio padre a quel gesto estremo. Chi è veramente Stephen Brown? Che rapporto ha con mia madre? Potrei pedinarlo. Potrei cercare di leggere la sua agenda. Interrogare la segretaria. Sento l’adrenalina salire. Devo agire.
C’è un altro caso, però, che dovrò seguire. Me stesso. Cosa mi sta succedendo?
Tanti, troppi ricordi si sono messi in fila per processarmi. Sono alla sbarra. No c’è modo di sottrarmi a tutto questo. Ho paura. Paura di ricordare. Eppure non c’è alternativa. Non la vedo, di fronte a me. Sento che se lasciassi perdere sarebbe peggio. Tutto quello che mi è successo, durante la mia infanzia, sta cominciando ad eruttare.
Per adesso sono ancora lapilli e cenere. Il brutto deve ancora venire. Sarò in grado di reggerlo?
“Mi dispiace, mamma” le dico avvicinandomi. Vedo che si tranquillizza. Si volta con grazia e mi guarda con gli occhi lucidi.
“Non ti preoccupare” mi dice semplicemente.
Affondo il viso nella sua spalla. Ho bisogno di questo abbraccio. Il mio corpo vibra. Tensione, rabbia, curiosità, paura. Ho bisogno di sfogarmi.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Altri dolorosi ricordi ***




Prima di ogni altra cosa grazie mille a tutti quelli che leggono, seguono e commentano questa storia! Grazie mille!






Pensavo che andare da mia madre mi avrebbe aiutato a fare luce su questo mistero, invece ne esco più confuso di prima.
Ho bisogno di riallinearmi. I pensieri, in questo momento, sono troppo confusi. Navigano nella mia mente come insetti storditi. Devo rimetterli in riga. Già. Il problema è: come? Ho già pronta la soluzione.
Una bella sfida a scherma è quello che mi ci vuole.
 
Mi ci è voluto poco per passare da casa e prendere l’attrezzatura e adesso sono qui, in piedi davanti a questa porta e non mi decido ad entrare. Anche qui non mi faccio vedere da tanti anni. Alla fine devo cedere di fronte all’evidenza.
Sono un codardo.
Sono sempre fuggito da tutto ciò che mi ha fatto soffrire. Anche questa palestra entra nell’elenco. Cosa faccio? Entro o no? Eppure sono qui apposta! Mi aggiusto la borsa con la divisa per allentare la tensione, quando una mano si poggia sulla mia spalla.
“Sherlock Holmes!” mi dice una voce. Lo riconosco subito. È Lightman*, il mio vecchio insegnante.
“Ciao Cal” gli dico. Ormai siamo in confidenza, posso permettermi di chiamarlo per nome.
“Sono parecchi anni che non ci vediamo, vero?”
“Già” rispondo “Sono stato molto impegnato con il lavoro”
“Scienza della deduzione” recita lui assorto. Mi guarda. Non posso mentire davanti a lui. Nessuno può. Sa vedere le menzogne a km di distanza. Mi tocca essere sincero per non complicare le cose. Lo so e lo sa anche lui.
“Si” rispondo secco “Hai voglia di una sfida?”
Mi guarda da capo a piedi. Mi sento sotto esame. Ha capito che ho solo bisogno di una valvola di sfogo.
“Non avrò pietà” mi dice. Bene. Non è quello di cui ho bisogno. Ho solo la necessità di riordinare la mente.
 
Entro nello spogliatoio. Perché mi sento a disagio? Le voci degli altri già in palestra arrivano nella stanza attutite dai muri però sono presenti. Le sento bene. Mi sto immergendo nuovamente in questo mondo.
Erano anni che non indossavo questa divisa. Mi sta larga. Quanto sono dimagrito? Mycroft mi invidierebbe, lo so. Lui, in perenne lotta con i chili di troppo! Io non ho mai avuto di questi problemi. Magari li avessi avuti! Questi problemi, dico. Mi sarebbe piaciuto fare come lui. Soffrire sopra la bilancia sperando di leggere che l’aver rinunciato a quella fetta di torta ha dato i sui frutti.
Invece ne ho avuti altri, di problemi. Avrei fatto volentieri a cambio con chiunque. Chiunque.
Bene. Mi guardo allo specchio. Non devo fare così. Devo imparare a gestire le emozioni. Sto per scendere in pedana con Cal. Non sarà una passeggiata. Sono piuttosto arrugginito e questi pensieri continuano a ronzarmi davanti, inopportunamente fastidiosi.
 
Patetico. Semplicemente patetico. Ho fatto una figura veramente meschina. Ho perso miseramente. Troppe emozioni. Ero davvero deconcentrato. Cal mi si avvicina e mi tende una mano.
“Mi dispiace” mi dice togliendosi la maschera. Sul suo viso non c’è né disprezzo ne superiorità. Solo un sorriso. Quel sorriso che mi ha sempre confortato. Un sorriso totalmente privo di giudizio.
“Scusa” gli rispondo “Non sono concentrato”
“Pensavi che questo avrebbe potuto aiutarti?”
“Si”
“Pensavi bene” mi risponde lui squadrandomi “Ma la prossima volta ti voglio più in forma!”
Mi saluta con un cenno del capo e si allontana canticchiando. Che tipo! A Scotland Yard dicono che sono strano … forse perché non hanno mai conosciuto Cal Lightman!
È sempre stato di poche parole. Mi ha insegnato di più con le sue azioni. Non solo sulla scherma. Mi ha aiutato anche sulla vita. È da lui che ho imparato ad osservare le persone. Lui lo fa per lavoro, non tanto diverso dal mio. Lui scopre i bugiardi. Ora, però, mi rendo conto del mio errore. Mio e suo, probabilmente, anche se non ho dati sufficienti per poterlo dire.
Per quanto riguarda me si. Ho sempre osservato gli altri per evitare di osservare me stesso. Ho chiuso gli occhi di fronte alle mie sofferenze. Non volevo vederle. Adesso mi stanno presentando il conto. Si vogliono vendicare? Di certo stanno cercando un posto dentro di me. Vogliono uscire allo scoperto.
 
Mi avvio verso gli spogliatoi. Non mi è mai piaciuto fare la doccia qui. L’ho sempre fatta a casa. Allora perché ero sempre l’ultimo ad andarmene? Se non facevo la doccia mi sarebbe bastato cambiarmi e andare da mio padre che mi aspettava fuori, in macchina.
È tardi. Anche gli ultimi ragazzi stanno uscendo dagli spogliatoi. Si parlano. Ridono. Scherzano. Li invidio un pochino. Mia madre aveva voluto che facessi uno sport anche per legare con qualcuno. Fatica sprecata. Non ci sono mai riuscito.
Stancamente apro la porta degli spogliatoi. Sono vuoti. Mi siedo e comincio a spogliarmi. Sono solo. Come sempre. Mi passo la mano sugli occhi e premo forte. Vorrei che tutto questo finisse. Mi sembra di essere in un incubo. Per un momento, anche solo per un momento, vorrei poter far finta che non sia la mia vita. Vorrei poter vivere tranquillamente, come tutti. Inutile. Non è possibile. Non adesso, almeno.
Riapro gli occhi. Macchie scure cominciano a danzarmi davanti. Poi le vedo. No, non le vedo. Le immagino. Le ricordo. Sono lì, davanti a me, dolorosamente presenti.
Mi guardo le braccia. Come per magia le macchie scure che galleggiavano davanti ai miei occhi si sono posate sulla pelle bianca. Sono botte. Erano botte. Ora non ci sono più ma adesso hanno ripreso forma nella mia coscienza. È inutile tentare di scacciarle.
Sbatto gli occhi un paio di volte e la visione torna normale. Le macchie sono sparite. Il ricordo no. Ecco perché mi cambiavo sempre per ultimo e non volevo mai fare la doccia qui. Volevo nascondere le botte. Il mio corpo ne era sempre cosparso.
 
Quanti anni avevo? Dieci, dodici? Non ricordo. C’era la finale del torneo. Tra gli spettatori c’era anche la mia famiglia. Mia madre, ostentatamente orgogliosa. Mio fratello, interessato. Anche lui aveva giocato a scherma ma si era stufato subito. Mio padre. Si! C’era anche mio padre, quel giorno! Come ero felice! Ero in finale ed ero in netto vantaggio. Duellavo per lui. Per renderlo orgoglioso di me. Ogni tanto, quando riuscivo a segnare un punto e lo scontro si interrompeva, in quei pochi secondi alzavo lo sguardo verso di lui. Cercavo approvazione. Quello che vedevo, però, era solo disinteresse. Disgusto, forse? Di certo non amore. Mia madre, in fianco a lui, intercettava il mio sguardo e mi salutava. Lui no. Neanche un’occhiata.
Quella sera avevamo festeggiato per la coppa e la medaglia d’oro che ero riuscito a portare a casa. Mia madre mi aveva preparato una cena buonissima e il dolce al cioccolato. Anche Mycroft ne aveva mangiata una fetta. ‘Uno strappo alla regola per festeggiarti come si deve’ mi aveva detto facendomi l’occhiolino.
Eravamo solo noi tre. Mio padre si era già rifugiato nel suo studio, intento a correggere i compiti in classe dei suoi studenti.
Dopo cena ero sgattaiolato fuori dalla cucina per raggiungerlo. Perché lo avevo fatto? Dentro di me sapevo come sarebbe andata a finire eppure speravo.
Insomma! Avevo vinto quel giorno! Perché mi avrebbe dovuto trattare male? Avrebbe dovuto essere orgoglioso di me!
“Papà!” gridai entrando “Hai visto oggi? Sono stato bravissimo!”
“Si, si” mi rispose lui senza guardarmi. Insistetti.
“Hai visto l’ultima stoccata?” dissi mimandola “Un colpo da maestro! Forse diventerò anche più bravo di Mycroft! Lui è troppo pigro per …” Errore. Errore fatale. Mai criticare Mycroft.
Mio padre alzò lo sguardo furente verso di me. Si alzò in piedi mi raggiunse. Mi prese per il polso e mi sollevò mentre abbassava la testa, minaccioso. Mi guardò negli occhi. Vidi il disprezzo uscire come un fiume da quegli occhi scuri. Il braccio mi faceva male e sentivo che stava per spezzarmi il polso.
“Non osare mai più paragonarti a Mycroft” mi disse “Mai più!” Scandì ogni singola parola che bruciava come un ferro rovente sulla mia pelle “Sei solo un essere inutile, non sarai mai come tuo fratello!”
Presto grosse lacrime cominciarono a solcarmi il viso. Piangere è stato un altro grosso errore. Mai piangere.
“Non piangere!” mi urla addosso “Ti odio quando piangi!”
Mi buttò per terra con malagrazia. Iniziava sempre così. Io cercavo di attirare la sua attenzione ma l’unica cosa che ricevevo in cambio erano insulti e botte. Tante botte. Troppe. Non le ricordo tutte ma so che erano troppo per un bambino.
Prima partivano gli schiaffi. Allora lì il pianto si faceva più intenso. Più piangevo più mi picchiava. Lo faceva sempre di nascosto, in modo che né mia madre né mio fratello potessero sentirci. Io non dicevo nulla di tutto ciò. A nessuno. Mi vergognavo. Pensavo di meritarle quelle botte. Alla fine arrivavano i calci. Mi allontanava da lui con un poderoso calcio. Spesso mi lasciava lì a terra, tremante, mentre lui andava chissà dove per finire di sfogare la rabbia.
Non capivo. Non capisco. Perché mi odiava così tanto? Cosa aveva Mycroft in più di me? Ero suo figlio, no? Perché mi disprezzava così?
Se fossi andato da uno psicologo mi avrebbe detto che erano botte che non mi meritavo e che avrei dovuto denunciare mio padre. Come avrei potuto? Mi avrebbe odiato ancora di più e io non lo volevo.
 
Mi risveglio da questi ricordi. Adesso non ne ho proprio bisogno. Finisco di cambiarmi e prendo una decisione.
Devo andare da Brown. Devo parlargli. Se mia madre non si è voluta sbottonare, dovrò provare con lui.
Mi guardo allo specchio. Ho bisogno di una doccia. Ho bisogno di ritrovare la mia solita impassibilità. Non avrei grandi risultati con Brown, in queste condizioni.
Ho gli occhi lucidi e lo sguardo di un cane bastonato. La doccia mi farà bene.
 
 
 
 
 
*Un piccolo riferimento a Cal Lightman di “Lie to me”. Il personaggio non è mai stato insegnante di scherma ma lo volevo come guida per Sherlock in un periodo difficile della sua vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Stephen Brown ***







L’acqua gelida scorre sulla mia pelle. Fa male ma per lo meno mi distrae dai pensieri. Perché mi sono tornate in mente certe cose? Ha senso che me le ricordi?
Mi asciugo e mi vesto velocemente. Mentre finisco di infilarmi la giacca, sento che John è appena tornato.
“Sherlock?” mi chiama. Esco dalla camera e gli vado incontro.
“Sono qui” dico. Mi guarda preoccupato.
“Qualche novità?”
“Hanno arrestato un certo Stephen Brown. Un avvocato divorzista. È stato lui ad ucciderlo. Legittima difesa”
“Capisco”
No, penso, non capisci. Nessuno può capirmi. Perché dovrei raccontarti ciò che mi sta tormentando l’anima? Vorrei piangere ma non voglio sembrare debole davanti ai suoi occhi. Devo ritrovare un po’ di contegno, dannazione! Mi avvio verso la porta, dove è appeso il mio cappotto.
“Esci?” mi domanda. Domanda ovvia. Risposta ovvia.
“Vado da Brown” dico. Spero che voglia venire con me. Non glielo chiederò ma spero che sia lui a seguirmi.
“Posso venire anch’io?”
“Certo” Cerco di nascondere la felicità. Mi fa piacere avere lui affianco. Mi fa sentire sicuro.
 
Nonostante l’inchiesta aperta a suo carico, l’avvocato può continuare ad esercitare. Troppi appuntamenti in queste settimane per prendersi una pausa. Tra un cliente e l’altro riusciamo ad infilarci nel suo ufficio.
Non avevo mai visto questo signor Brown. Ha l’aspetto di un uomo estremamente debole.
“Sono Sherlock Holmes” gli dico.
“Condoglianze” mi dice allungandomi la mano. Lo ignoro.
“Sono venuto qui per farle qualche domanda sulla morte di Siger Holmes”. Ho evitato accuratamente di dire ‘di mio padre’. Voglio sembrare più professionale possibile.
“Ho già detto tutto alla polizia” mi dice lui ritirando la mano, dopo averla tenuta sospesa qualche istante. Si siede alla sua scrivania e riprende a scrivere “Scusate ma ho molto da fare”
“Noi non siamo della polizia” sottolineo con voce dura. Mi scoccia il modo in cui mi ha ignorato.
“Immagino che lei voglia sapere qualcosa di più sulla morte di suo padre, giusto?”
“Esatto”
“In effetti alla polizia è interessato solo che la mia è stata legittima difesa. All’ispettore Lestrade non è importato del perché. In realtà si vedeva che moriva dalla voglia di chiedermelo. Anche lei, suppongo”
“Sa dirmi qualcosa in merito?”
“Non potrò dirle quello che vuole sentirsi dire”
“Non sapevo che fosse in grado di leggere nel pensiero. Non ho aspettative riguardo quello che potrebbe dirmi. Mi interessa solo la verità. Conoscevo mio padre e …”
“… Non può credere che potesse essere un assassino? Mi dispiace contraddirla ma purtroppo è così. Mi ha invitato in quel capannone per parlare e invece ha tentato di uccidermi. L’ho già raccontato alla polizia. Non vedo come dirlo di nuovo anche a lei …”
Lo guardo male. Ha terminato la frase per me con una supponenza che neanche io ho mai dimostrato. Brutto stronzo. Sento la mia antipatia per lui crescere minuto dopo minuto.
“Conoscevo mio padre e penso che potrebbe essere un assassino”
Sia Brown che John si bloccano. Mi guardano a bocca aperta.
“Cosa …” inizia John disorientato “Sherlock, spero che tu stia scherzando!”
“Non scherzo” rispondo io serio “Voglio sapere perché. Cosa c’entra lei con la mia famiglia? Non cerchi di negarlo. So che si vedeva con mia madre. Lei mi ha detto che eravate vecchi amici ma io penso che ci sia dell’altro”
“Se sua madre non le ha detto altro, non vedo come potrei esserle d’aiuto io. Rispetto Violet e non dirò nulla che lei per prima non ha voluto rivelare”
“Temo che dovrò insistere” dico a denti stretti. Non è possibile che tutte le porte mi vengano chiuse così. Non lo accetto.
“Invece dovrò io pregarvi di andarvene” risponde lui leggermente arrabbiato “Ho avuto una settimana piuttosto impegnativa e sono ancora piuttosto scosso. Se Violet non ha ritenuto opportuno confidarsi con lei non vedo perché dovrei farlo io!”
“Cosa voleva mia madre da lei? Mi ha detto che non stavano divorziando, eppure è venuta proprio da lei, un avvocato divorzista. Ho assoluto bisogno di sapere perché mio padre voleva ucciderla! Come le ho detto lo conoscevo. Era un uomo molto prepotente e vendicativo ma non agiva mai senza uno scopo preciso. La domanda è: perché voleva ucciderla?”
Mi guarda con rabbia. Sa che la mia è una domanda più che ragionevole e non sa come comportarsi. È teso. Sta cercando il modo di rispondere omettendo la verità e contemporaneamente cercando di non mentire. Dovrò cavarmela con le poche informazioni che sarà disposto a darmi.
“Evidentemente non conosceva abbastanza bene suo padre” mi dice “Io e Violet avevamo ricominciato a frequentarci. Come amici, s’intende! Non ci vedevamo dai tempi dell’università e così …”
Si interrompe, indeciso su come continuare. Vedo che apre un cassetto. Alzando un poco la testa riesco a scorgere la foto di mia madre. Lui sospira guardandola. Poi guarda me. Starà cercando qualche somiglianza?
“Suo padre si è ingelosito. Evidentemente tra loro le cose stavano cominciando ad andare male ed ha interpretato il nostro legame di amicizia come qualcosa di più. Mi ha insultato pesantemente prima di tentare di uccidermi”
Lo guardo storto. Non so perché ma sento che mi sta nascondendo qualcosa. Lui risponde al mio sguardo tranquillamente. Eppure la sua mano sulla scrivania non smette di muoversi, come se il suo proprietario non vedesse l’ora di restare solo. È evidente che non riuscirò a tirargli fuori altro. Provo a pensare a cosa avrebbe fatto Cal in questa situazione. Se ha qualcosa da nascondere si sentirà sollevato vedendomi rinunciare. Proviamo.
“Mi scusi” dico cercando di suonare il più sincero possibile “È evidente che non sa nulla. Mi dispiace per averla disturbata”
“Non si preoccupi, la capisco” mi risponde. Ora la sua mano è ferma. Le spalle, prima in evidente stato di tensione, si rilassano. Io ho mentito bene così lui ora sa che non dovrà più farlo con me.
 
Mentre usciamo la mia mente lavora incessantemente. Stephen Brown sa qualcosa che sta cercando di tenermi nascosto. Il mio stato d’animo deve aver colpito John perché continua a guardarmi. Avrà intuito qualcosa?
“Sherlock, mi pareva che il caso fosse chiuso. Come mai vuoi continuare a indagare?”
“Ha mentito” dico mentre mille pensieri continuano a girare vorticosamente nella mia testa “Non so come né perché ma so che ha mentito. Sta nascondendo qualcosa. Ora rimane solo da scoprire la verità”
“Hai detto tu stesso che tuo padre agiva sempre con una buona motivazione. Non penso che avrebbe rischiato la vita per semplice gelosia, no?”
“Non lo conoscevi, John”
“Dimmelo tu, allora? Cosa pensi che stesse nascondendo l’avvocato? In fondo lui è la vittima di tutta questa storia. Ti ricordo che ha rischiato di morire!”
“LO SO!” urlo. Calmo. Devo stare calmo. John non c’entra niente. Perché me la prendo con lui? “Scusa”
“Fa nulla” ormai mi conosce. Porta pazienza.
“Io so solo che mi padre è morto tentando di uccidere un uomo. Voglio sapere perché, John. Non mi sembra di chiedere tanto”
“Evidentemente è così. Rassegnati Sherlock, sei in un vicolo cieco. Anche se Brown nascondesse qualcosa, riusciresti tu a scoprirlo?”
“Certo!”
“Senti, ti comporteresti allo stesso modo se non fosse stato tuo padre?”
Mi fermo. Ha ragione! Me la sto prendendo davvero troppo a cuore? Lo guardo. Non so cosa rispondergli. Ho sempre cercato la verità in ogni caso e non mi sono mai accontentato di risposte facili. Provo ad immaginare che l’uomo che ho visto morto nel capannone non sia mio padre. Probabilmente avrei trovato noiosa la cosa e l’avrei lasciata completamente nelle mani incompetenti di Scotland Yard. Allora perché la deposizione di Brown non mi convince? Perché sento che c’è dell’altro? Perché voglio scoprirlo?
Semplice.
È una domanda che mi porto dentro fin da quando ne ho memoria.
Perché mio padre mi picchiava? Perche non mi ha mai amato? Sto investigando su Stephen Brown ma in realtà sento che potrà aiutarmi a scoprire qualcosa di più su me stesso.
Cosa sa lui su mia madre? Qual’era o è il loro rapporto? Perché sento che entrambi mi stanno nascondendo qualcosa di estremamente importante?

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Addio papà ***








Oggi c’è il funerale.
Mycroft ha pensato proprio a tutto. Se non ci fosse stato lui. È una roccia. Spesso mi fermo a pensare a lui. Tanti ci paragonano. Dicono che siamo così uguali. Così apparentemente privi di sentimenti. Lui si. Non si è scomposto quando ha visto papà steso su quel pavimento con il petto squarciato dal suo stesso pugnale. Si è limitato ad abbracciarmi mentre io davo uno spettacolo a dir poco indecoroso. Piangevo come un bambino.
Anche oggi, sento salire le lacrime agli occhi. Prepotenti, mi ricordano che mio padre non c’è più. È morto senza mai volermi bene. Senza darmi quello che avevo sempre cercato da lui. Lo odio per questo ma non posso fare a meno di piangere.
Che stupido! Sono solo uno stupido! Odio le emozioni e tutto il dolore che portano! Non voglio più provarle! Mai più! Mi fa male ricordare mio padre. Sembra che ogni maltrattamento voglia tornare in superficie.
 
Sono davanti alla sua tomba. Al funerale ha partecipato tanta gente. La chiesa era stracolma. Tutti i suoi ex studenti, i colleghi di lavoro, i colleghi di Mycroft, i suoi amici. Non vedo nessuno che conosco, a parte John. Come avevo detto tempo fa io non ho amici. Solo John. Mi sta vicino tutto il tempo. Non piango ma sento le lacrime pronte ad uscire.
Ho la vista appannata così John mi aiuta. Dopo la cerimonia raggiungiamo il cimitero. Non ricordo quello che ha detto il prete. Probabilmente non ho nemmeno sentito. Non mi sono neanche accorto di quando ha smesso di parlare. Ho solo visto la bara di mio padre calata piano sul terreno. I becchini, con solerte precisione, riempiono la buca di terra e se ne vanno. È un lavoro come un altro.
Eppure mi sembra che abbiano sepolto anche una parte di me, con la bara. Ogni badilata di terra mi fa tremare. Mai più, sembra dire quella terra scagliata così brutalmente sul legno che sovrasta il suo corpo, non lo vedrai mai più. Non ti amerà mai più. Non ti ha mai amato.
Sono in trance. Sento la mia voce ma è come se non mi appartenesse. La sento come un eco in lontananza.
“Perché?” continuo a ripetere tra i singhiozzi che ormai non riesco più a fermare.
Perché non mi hai amato? Perché mi picchiavi? Perché volevi uccidere quell’uomo?
Ogni lacrima scandisce domande a cui purtroppo non posso più dare risposta.
 
Una mano sulla mia spalla. Non la riconosco. Non è John. Mi volto. È l’ultima persona che mi sarei aspettato.
“Mi dispiace Sherlock”
È Sally. Dietro di lei, imbarazzati, ci sono Lestrade e Anderson. Mi vergogno. Non voglio farmi vedere così da loro. Cosa proveranno per me? Pietà? Li guardo. Li osservo. No. Sembra … compassione. Mi vogliono bene, nonostante tutto. Posso considerarli miei amici? Si. Sono venuti per me. Siger Holmes non era che un semplice caso per loro ma sono venuti qui per me. Tento di sorridere per ringraziarli per la loro presenza perché parlare mi risulta difficile.
Subito dopo arriva Mycroft. Mi prende per una spalla e mi accompagna a casa. Vicino a lui c’è John. Non diciamo nulla. Io continuo a guardare fisso davanti a me. Non ho pensieri. John mi afferra la mano e la stringe dolcemente. Mi volto verso di lui. Mi sorride e tutto mi sembra andare meglio. Non è la prima volta che il sorriso e gli occhi così rassicuranti di John mi aiutano a trovare calma e tranquillità.
 
Arriviamo a casa. Mia madre è con una sua amica, in cucina. Stanno bevendo un caffè. Parlano fittamente di qualche segreto immagino perché smettono appena ci vedono.
“Sherlock tesoro” mi dice vedendomi “Vieni qui amor mio”
Si avvicina e con un fazzoletto di cotone mi asciuga il viso prima di abbracciarmi.
“Volevi molto bene a tuo padre, vero?” mi chiede. Si. Gli volevo bene. Non posso dire che mi manchi ma gli volevo bene. Annuisco.
“Vai a lavarti il viso” mi dice teneramente “Ti preparo una tazza di tè?”
Annuisco di nuovo, la gola ancora chiusa per poter emettere un suono, e vado in bagno.
Sento mia madre parlare di me a John. Di come sono sempre stato tanto emotivo. John fa fatica a crederci ma è vero. Tento di nascondere le mie emozioni ma loro sono lì. Presenti, vive, inopportune, fastidiose. Più le caccio e più loro riemergono. Come una pallina di gomma sulla superficie dell’acqua. Cerco di farla affondare e lei riemerge con più forza, fino a farmi male.
 
Mi guardo allo specchio. Chi sono? Sono davvero io quello? Non riconosco più il consulente detective così freddo e distaccato. È andato in vacanza? No, non c’è mai stato. Era solo una maschera. Un modo per autoconvincermi di non avere sentimenti. Sarebbe stato più facile se non li avessi avuti sul serio.
Cosa me ne sarebbe importato di mio padre? Nulla! Invece eccomi qui a piangere per lui! Maledetto!
Mi lavo accuratamente il viso con acqua gelida. Più volte. Anche l’asciugamano, premuto violentemente contro il mio viso, sembra aiutare. Mi riguardo. Meglio. Molto meglio. Posso tornare di là.
 
Tornando vedo che si sono tutti spostati in salotto. Sul tavolino sono posate alcune tazze dalle quali vedo fumare il tè. Sto per fare un altro passo per raggiungerli quando John fa cadere un vaso. Un incidente da nulla. Era un vecchio vaso che mia madre aveva comprato ad un mercatino per metterci i fiori. Niente di che. Eppure perché sto cominciando a tremare? Perché non riesco a sopportare tutto questo? Perché sentire la ceramica del vaso infrangersi sul pavimento mi turba così?
 
14 anni prima
“Con chi sei uscita, stasera?” la aggredisce con violenza, con una voce baritonale che non ammette menzogne.
“Con nessuno Siger, con nessuno” sembra sincera ma ha paura.
“Non ti credo! Dimmi la verità!” è rabbioso, non le crede.
“Ero solo con una mia amica, davvero”
“Dove siete andate?”
“Siamo andate a bere qualcosa al bar” è in difficoltà. Sa che il marito non si fida di lei e ha paura.
“Ascolta un po’, credi che sia scemo?”
“No Siger, davvero, credimi. Puoi telefonare a Susanne quando vuoi. Ti confermerà che eravamo insieme stasera! Sai, non ci vedevamo da tanto tempo … avevamo molto di cui parlare”
“Di me?”
“No, mi stava raccontando di suo figlio che …”
“Non mi interessa!” la aggredisce, la prende per le spalle e comincia a scuoterla “Voglio solo che tu mi dica la verità!”
“Questa è la verità! Te lo giuro!” e parte il primo schiaffo.
Un bambino, in piedi in mezzo alla porta, osserva la scena inorridito. Gli scappa un singhiozzo. Non gli piace quando il papà maltratta così la mamma. L’uomo lo vede.
“Cosa ci fai tu qui? Non dovresti essere a letto?”
“Non litigate” supplica lui piangendo.
“Non stiamo litigando” cerca di rassicurarlo la mamma “Stiamo solo parlando. Ora va’ a dormire, su. Tra poco arriverò io e ti racconterò una fiaba, va bene?”
Tutto ciò è molto rassicurante ma il bambino non riesce a muoversi.
“Tua madre ti ha detto di andare a letto! Muoviti!” gli urla il padre.
Il bambino è paralizzato dal terrore. Sa che il padre si arrabbia quando non gli si obbedisce ma non riesce a muovere un passo. Siger, accecato dall’ira, afferra la prima cosa che gli capita sotto le mani e la tira al bambino. Un vaso di ceramica si schianta sulla porta a pochi centimetri da lui. Una scheggia si conficca sulla spalla del bimbo che comincia ad urlare dal dolore. La mamma gli si avvicina di corsa.
“Come hai potuto, Siger? Gli hai fatto male!”
L’uomo non può rispondere. È troppo arrabbiato. Sicuramente non si sente in colpa.
La donna prende in braccio il bambino che continua a piangere e osserva la ferita.
“Dobbiamo portarlo al pronto soccorso” dice al marito “Serviranno dei punti”
“Arrangiati” le dice lui brusco “Ce l’hai la patente, no? Porta tuo figlio all’ospedale e non scocciarmi! Ho una marea di compiti da correggere e non voglio essere disturbato per queste sciocchezze!!”
 
Come è possibile? Quel suono …  è bastato quel suono per farmi ricordare? Sento sulla spalla lo stesso dolore di allora. Quanto mi ha fatto male mentre i medici mi mettevano i punti! Avevo l’anestesia locale ma faceva male lo stesso!
Mi accascio alla parete. Piango senza ritegno. Ho paura. Ho di nuovo paura. Questo ricorodo fa troppo male.
Perché? Perché sono così? Non voglio essere così! Non voglio soffrire così tanto!
Ho freddo. Sono appoggiato al muro e seduto sul freddo marmo del pavimento. Un’ombra mi sovrasta. È Mycroft. Mi prende per le spalle e mi costringe a guardarlo negli occhi.
“Sherlock!” mi urla addosso “Riprenditi, per l’amor del cielo RIPRENDITI” e mi molla uno schiaffo. Il rumore della sua mano contro la mia guancia rimbomba nella stanza e ottiene il risultato di farmi piangere ancora di più. Vedo nostra madre che si avvicina. Fa alzare Mycroft e si accuccia vicino a me. Mi ha fatto male lo schiaffo di Mycroft. In tutti i sensi.
“Sherlock” mi dice abbracciandomi “Va tutto bene. Sono qui. Sono qui. Vedrai, andrà tutto bene”
La guardo mentre le lacrime continuano a uscire silenziose dai miei occhi. Perché non riesco a crederle?
Il mio corpo è scosso dal pianto. Non riesco a fermarmi. Sento una puntura. Poi solo il buio.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** La scorciatoia ***





Wow! Mi fa piacere che così tanti seguano questa storia! Vi ringrazio davvero! Come ha detto il nostro caro Benedict alla consegna di non-mi-ricordo-più-che-premio (GQ, mi pare):
wow wow wow wow WOW!!
 

 


 
Buio. È tutto buio. Ricordo poco o nulla. Il vaso che John ha rotto, io seduto per terra, lo schiaffo di Mycroft, l’abbraccio di mia madre. Mycroft. Deve essere stato lui. Mi ha sicuramente iniettato della morfina per calmarmi.
Sto meglio. Riesco a respirare bene e sono sveglio. Sono a casa mia, a Baker Street. Mi metto a sedere. Per qualche istante mi gira la testa. Pian piano i miei occhi si abituano al buio e riesco a distinguere qualche sagoma. C’è John vicino a me. Ha la testa appoggiata alla mano. Dorme.
È seduto sulla poltrona che ha portato in camera per starmi vicino. Quando sente il fruscio delle lenzuola che si spostano si risveglia. Si alza e viene a sedersi accanto a me, nel letto.
“Sherlock, come stai?” mi chiede preoccupato “Mycroft ha dovuto sedarti oggi pomeriggio per farti calmare” Come sospettavo.
“Meglio, sto meglio”
“Sherlock, per piacere” mi dice lui guardandomi severo “È da quando è morto tuo padre che dici che stai ‘meglio’”
“Ma meglio non vuol dire bene, giusto?” dico ricordando le parole di Lestrade.
“Giusto. Insomma, sono tuo amico. Sai che puoi dirmi tutto. Puoi confidarti, se ti fa stare meglio. Anzi, ne sono sicuro”
“Sono un vigliacco, John”
“Non è vero”
“Si, invece. Ho paura di questi ricordi che stanno riaffiorando alla mia mente. Ho paura di confidarmi con chiunque. Sono solo un codardo”
“Di quali ricordi stai parlando?”
“Di quando vivevo con mio padre. Appena ho potuto, quando ho iniziato l’università, me ne sono andato di casa. Fino a quel momento ho dovuto convivere con lui e con il suo odio”
“Di cosa stai parlando?”
“Mio padre non mi ha mai amato. Da piccolo mi picchiava spessissimo ed era violento persino con mia madre”
“Picchiava anche Mycroft?”
“No, figurati! Era il suo prediletto! Lo portava in palmo di mano! Guai a toccare il suo figlio perfetto Mycroft! Era un’eresia!”
Sospiro forte e mi lascio andare sul letto. Il cuscino sbuffa sotto il peso inatteso della mia testa.
“Non so perché” dico guardando il soffitto “ma mi ha sempre odiato. Qualsiasi cosa facessi non era mai abbastanza per lui”
“È per questo che sei diventato uno stronzetto supponente?” mi chiede mentre un sorriso gli increspa le labbra. Mi piace tantissimo, quando fa così. Mio malgrado non posso fare a meno di ridere.
“Esatto. Penso che sia andata proprio così”
“Così” prosegue lui “La morte di tuo padre ti ha portato alla memoria tutta una serie di ricordi?”
“Si. Ricordi che avevo sepolto nella mia mente. Come per il sistema solare” tento di spostare la conversazione su argomenti più leggeri ma lui è implacabile.
“Sherlock” ora è tornato serio “Mentre ti spogliavamo, prima, abbiamo trovato queste”
Mi prende il braccio e solleva la manica fino al gomito. Si vedono benissimo le cicatrici delle iniezioni sulla mia pelle candida.
“Io …” comincio ma no so come finire.
“Non devi ricorrere a questi sistemi, Sherlock” mi dice rimettendo a posto la manica “Ci sono io. C’è Mycroft”
“Hai ragione. Hai perfettamente ragione” deglutisco. Sono imbarazzato. Un’altra prova inconfutabile della mia vigliaccheria.
“Questa è una scorciatoia meschina, Sherlock. Lo sai bene anche tu”
Annuisco. È vero. Ha ragione. Mi vergogno di me stesso. Distolgo lo sguardo da lui. Mi pesa il modo in cui mi guarda. No. Non è così. Lui mi guarda ma non mi sta giudicando. Sono io che vedo il mio stesso giudizio riflesso nei suoi occhi. Non è che uno specchio di quello che io stesso provo verso di me.
“Sherlock” mi dice facendomi voltare “Adesso ci sono io qui con te. Adesso andrà meglio. È un bene che tu abbia ricordato queste cose, davvero. Ora devi solo accettarle. Non da solo. Ci sono io. Ricordatelo. C’è Mycroft. C’è tua madre”
Il campanello lo interrompe.
“Aspetta qui, arrivo subito”
 
Dopo qualche istante torna. Con lui c’è qualcuno. È Lestrade.
“Ciao Sherlock” mi saluta entrando “Ho saputo da John”
Lo guardo a bocca aperta e non so cosa pensare. Lui ricambia lo sguardo. Sa che ho bisogno di tutto l’aiuto possibile, adesso. È stato gentile a chiamarlo.
“Grazie” e non riesco a dire altro.
Non mi confiderò con lui. Non me la sento. Però mi fa bene che lui sia qui. Sa della mia dipendenza dalla cocaina ed è stato anche lui, insieme a Mycroft, ad aiutarmi ad uscirne l’ultima volta. Anche adesso è qui. Non sa però che questa volta l’acqua è molto più torbida. I ricordi si sono sollevati come una nuvola di sabbia e mi impediscono di vedere le cose importanti. Sta a me farmi aiutare. Non posso pensare di fare cela da solo. Qualcuno deve aiutarmi a riportare chiarezza nella mia vita. Qualcuno, non la cocaina.
 
Dopo qualche minuto arriva la signora Hudson. Si siede anche lei vicino a me e mi abbraccia, materna. Non dice nulla. Si limita a stringermi forte.
Ho bisogno di tutto questo. Di questo … e di altro.
Soprattutto ho bisogno di risposte. Quello che mi sta accadendo ha un perché e io voglio scoprirlo. Mentre John, Lestrade e la signora Hudson parlano tra di loro sottovoce, io elaboro un mio piano.
Questo è un caso. Il mio caso. Devo andare fino in fondo. Voglio farcela. Me lo devo. So esattamente cosa fare. La parte razionale del mio cervello si è stufata di stare in panchina e ora reclama il suo posto in prima linea. Il corpo, sfortunatamente, non è d’accordo.
Ho sonno ora. Tanto sonno. È sera, ormai. L’effetto della morfina è durato poche ore. Ho bisogno di una buona notte di sonno e domani sarò pronto a continuare le indagini.
Le voci dei miei amici - che strana parola … i miei amici … ho degli amici, ora … -mi cullano dolcemente, trasportandomi in un sonno senza sogni.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Irruzione! ***








“Dove pensi di andare?”
Beccato. Stavo cercando di uscire senza che John se ne accorgesse e invece ho miseramente fallito.
“Ho bisogno di smaltire la morfina. Vado a trovare Cal. Ho bisogno di fare un po’ di sport”
“Chi sarebbe questo Cal, adesso?”
“È il mio vecchio insegnante di scherma. Mi farà bene muovermi”
“Concordo” mi dice lui rilassato “Non fare tardi”
“Si mammina” dico uscendo.
 
Mi ha fatto bene. L’amicizia di John, Greg e la signora Hudson mi ha proprio fatto bene. Esco in strada e tutto mi sembra più limpido, più chiaro. Sono più chiare le mie intenzioni. So cosa voglio fare. Per ora, però, ho bisogno di smaltire. Non solo la morfina. Muovermi mi farà bene. Non posso rimanere paralizzato nelle mie emozioni, incatenato a inutili ricordi. Inutili e dannosi.
“Ciao Cal!” dico quando lo vedo “Pronto per la rivincita?”
 
Questa volta è andata meglio. Sono più lucido, nonostante tutto. Ho buttato fuori parecchia melma, ieri pomeriggio. L’acqua si sta purificando.
“Meglio, molto meglio” dice lui. Chiaramente ho perso di nuovo. È lui il maestro e io sono troppi anni che non mi alleno. Vedrà! Se continuo così nel giro di un mese lo recupero.
Sono stanco e sudato ma felice. Adesso mi aspetta una bella doccia. Qui. Non a casa. Qui. Per la prima volta.
 
Esco dagli spogliatoi e lo trovo fuori ad aspettarmi.
“Ho saputo di tuo padre” mi dice “Perché non mi hai detto niente?”
“Ero troppo scosso” dico. Sono sincero e lui lo capisce.
“La notizia non mi è giunta inaspettata, però” Come? Ho capito bene?
“Cosa vuoi dire?” chiedo con un filo di panico nella voce.
“Ho avuto a che fare con lui, ultimamente” mi dice “Ti va se ne parliamo mentre beviamo qualcosa?”
 
Siamo al Lightman Group, il posto dove lavora Cal, di cui è il presidente.
“Tuo padre è venuto da me qualche settimana fa. Voleva assumermi. Voleva capire se sua moglie gli mentiva”
“Mia madre? Perché avrebbe dovuto … no. Non ci credo. Scommetto che non hai scoperto niente, vero? Lei non gli ha mai mentito … vero?”
Mi osserva a lungo prima di parlare.
“No. Mentiva”
“Cosa vuoi dire? Su cosa mentiva?”
“Tuo padre ha fatto installare delle telecamere in punti strategici della casa per riprenderla mentre parlava. Ha scoperto che si vedeva di nascosto con quell’avvocato che poi ha tentato di uccidere. Lui le chiedeva se erano amanti e lei negava. Il problema è che mentiva. Però c’è qualcosa che non mi convince in questa storia”
“Dimmi tutto”
“Quando è venuto qui, l’ultima volta, era disperato”
“Mio padre?” domando incredulo.
“Si. Mi ha detto che aveva cominciato a girare sempre armato perché qualcuno lo stava minacciando. La sera prima di essere ucciso mi aveva portato questo biglietto”
Mi passa un biglietto bianco.
 
Fatti trovare alla vecchia fabbrica Smith’s alle 21.00.
Ho delle informazioni su tua moglie. Vieni solo.
 
“Non è firmato” dico “Basterebbe un confronto sulla grafia di Brown per sapere se è suo”
“Pensi che sia suo?”
“Non lo so” dico confuso “Non so più nulla”
“Anch’io penso che sia suo” dice. È diretto. È un’accusa seria, la sua. Pendo dalle sue labbra.
“Quando ho saputo di tuo padre ho chiesto alla mia fidanzata che lavora a Scotland Yard di farmi avere i video del suo interrogatorio. Lo vuoi vedere?”
 
Andiamo nella sala dei monitor. Mi fa vedere l’interrogatorio di Stephen Brown. Lo odio. Lo odio sempre di più.
“Vedi? Usa tantissimo i manipolatori. Ha mentito dall’inizio alla fine di quell’interrogatorio. Manderò una mail a Scotland Yard per informarli”
Questo è troppo. Cosa diavolo sta succedendo? In che melma sudicia mi hanno trascinato? Eh no! Non glielo permetterò! Voglio vederci chiaro! Non mi butteranno sabbia sugli occhi in questo modo! Passi per mia madre che, sono sicuro, è all’oscuro di tutto. Lui no! Lui la dovrà pagare cara!!
“Ti ringrazio, Cal, davvero” dico mentre raccolgo il mio cappotto e mi infilo la sciarpa “Ci vediamo alla prossima sfida!”
Mi saluta con un cenno della mano e un sorriso.
 
Sono così arrabbiato ed eccitato per quello che ho scoperto che prendo subito un taxi per andare da mia madre. Falsi! Falsi! Ancora falsi! Come hanno potuto mentirmi? Quindi non è stato mio padre a voler uccidere lui! Si stava difendendo! Con scarso risultato, vista la lapide nuova che c’è in cimitero. Vorrei urlare. Vorrei prendere a pugni quell’avvocato da quattro soldi e scuotere ben bene mia madre per farle confessare, una volta per tutte, la verità.
È troppo presto. Non ho dati sufficienti per agire. In realtà, per quello che mi riguarda, la parola di Cal vale più di mille prove empiriche. Ma Lestrade non sarà d’accordo. Ho dalla mia il biglietto che gli ha mandato Brown. È un punto a suo sfavore ma non basta. Basterebbe per incriminare lui ma non basta a me. Io ho bisogno di ben altre risposte.
 
Prima di arrivare a casa di mia madre passo in centrale.
“Buongiorno” dico con un sorriso “Ho delle novità!”
Lestrade mi guarda e sorride a sua volta.
“Sono felice di vederti così bene”
“Non sto bene Lestrade. Sono incazzato come una iena! Però tra poco la mia rabbia troverà modo di sfogarsi. Guarda qui” gli dico porgendoli il biglietto “So che avete avuto a che fare con il Lightman group per questo caso, vero?”
“Si, Cal Lightman in persona ci ha chiesto il video dell’interrogatorio di Brown ma non vedo come …”
“Anche mio padre aveva assunto Lightman per un lavoro. Il giorno prima di morire aveva ricevuto questo. Basta fare una prova con la grafia di Brown. Sono sicuro che è la sua”
“Bene Sherlock” mi dice leggendolo “Questo è sicuramente un dato importante che mi costringe a riaprire il caso. Ci lavoreremo sopra”
“Inoltre Cal mi ha assicurato che Brown ha mentito durante l’interrogatorio. Dovrebbe arrivarvi a breve una sua mail”
“Grazie Sherlock” mi dice stringendomi la mano “Bentornato”
 
Bene. Benissimo. Tutto sta andando alla grande. O meglio. Tutto sta andando a puttane. Sto cominciando a intravedere delle risposte ma non mi piacciono. Non mi piacciono per niente!
In pochi minuti arrivo a casa di mia madre. La porta è aperta. Entro silenziosamente e mi blocco. Sento due voci provenire dalla cucina. Mi accuccio in un posto strategico e li spio. Sono un uomo e una donna. La donna, prevedibilmente, è mia madre. L’uomo … Mi aspettavo di vedere Brown. Invece c’è qualcun altro. Ne sono sicuro. Ha un che di familiare, eppure … Non mi sembra di averlo già visto … o si? I due si parlano a bassa voce. Sembrano molto intimi.
 
“È troppo presto” dice lei imbarazzata.
“Non posso più aspettare”
“Ma è appena morto”
“Non avrei potuto aspettare neanche se fosse stato vivo”
“Ti avrebbe ammazzato, lo sai. È sempre stato geloso”
“Ma non avevi chiesto il divorzio?”
“No. Ero solo andata dall’avvocato, un mio vecchio amico, per cominciare ad avviare le pratiche, ma non ce l’ho fatta. Ho avuto troppa paura”
“Chi ha ucciso tuo marito?”
“Ultimamente uscivo parecchio con Stephen. Pensavo che lui, con la sua esperienza di divorzi, mi potesse aiutare a trovare la forza di dirlo a Siger. Purtroppo ha scoperto tutto, lo ha trascinato in un luogo isolato e ha provato ad ucciderlo. È stata legittima difesa”
“Non ha più importanza, ora. La cosa che conta ora è che possiamo stare insieme”
“Oh! Arthur! Come potrò dirlo ai miei figli? Sono sicura che Mycroft capirà, ma Sherlock era disperato per la morte del padre”
“Ci sono molte cose che dovrai dirgli. Devi solo trovare il coraggio. Ci sarò io ad aiutarti”
 
Lui non aggiunge altro. La prende tra le sue braccia e la bacia con passione. Lei risponde al bacio con altrettanto trasporto. Non voglio vedere oltre. Chi è questo Arthur? Ma lo scoprirò! Ah se lo scoprirò!
Senza farmi sentire sgattaiolo al piano di sopra. Entro in camera da letto di mia madre e vado verso la sua scrivania. Nascosta dietro lo specchio c’è la chiave del cassetto superiore. Lo apro cercando di non fare rumore e comincio a cercare. Trovo subito quello che mi serve. Il suo diario. Uno dei tanti. Guardo le date. Sono gli anni precedenti la mia nascita.
Uscendo silenziosamente come sono entrato torno a casa con il bottino. Riuscirò a trovare qualche risposta tra queste pagine?

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Caro Diario - prima parte ***






Note: per il ruolo di Arthur, per motivi di cui vi parlerò più avanti, ho scelto Hugh Laurie.
 
 
 


Sono tornato a casa. John non c’è. È al lavoro. Avrò tutto il tempo per leggere con calma il diario di mia madre.
Mi sento un po’ in colpa a sbirciare così nel suo cuore. D’altro canto lei mi ha mentito spudoratamente. Chi è questo Arthur, poi? Avrà scritto anche di lui nel suo diario?
Mi distendo sul divano per stare più comodo. Bene: cominciamo.
 
 
24 giugno 1974
Caro diario,
oggi è stata proprio una brutta giornata. Sono uscita con Susanne, la mia migliore amica. Fin qui tutto bene, no? Si, se avessi un marito normale! Invece no! Siger è oltremodo geloso! Non ne posso più di tutto questo suo controllo!
Non posso neanche andare a fare una passeggiata con una donna e lui sospetta subito che lo tradisca. Cosa dovrei fare, secondo lui? Stare dietro a mio figlio tutto il giorno? Come farei, poi? Mycroft è già abbastanza indipendente, nonostante abbia già cinque anni. Non gli piace che stia tutto il giorno a controllarlo.
La signora Stevenson, la nostra domestica, mi ha assicurato che avrebbe badato lei a mio figlio, così ho accettato l’invito di Susanne. Abbiamo parlato molto. Sa che non sono del tutto felice con Siger in questo periodo e cerca di aiutarmi come può.
Domani sera ci sarà la sua festa di compleanno. Mi ha invitata già da qualche settimana e Siger lo sa. Lui non è invitato e nemmeno si sarebbe presentato, immagino. Siamo in periodo di esami e non vuole essere disturbato da cose simili. Mi ha chiesto se proprio devo andarci. Certo che ci andrò!
 
 
2 luglio 1974
Caro diario.
Sono state giornate piene ed intense queste!!
Come sono contenta di esser andata al compleanno di Susanne! Quella diavoletta! Aveva organizzato tutto ben bene, lei! Eh già!
Devo dire che un po’ mi sento in colpa. Appena un po’, però! Già! Perché dovrei dare del bugiardo a Siger? Insomma, se lui è geloso ed è convinto che io lo tradisca, perché dovrei dargli torto? Ora si che può stare in ansia! Vuole essere geloso? Bene! Adesso ne avrà il motivo!
Sono ancora giovane perdio! Avrò pure un figlio piccolo, ma sono comunque una donna con le sue esigenze! E se Siger si ostina a chiudersi nella sua gelosia, senza darmi un pizzico di amore che se ne vada pure al diavolo!
Ho incontrato Arthur* per la prima volta proprio al compleanno di Susanne. Mi è piaciuto subito. Abbiamo parlato molto. Anche lui ha problemi con la moglie. Se non fosse per i due figli l’avrebbe lasciata già da tempo. Siamo nella stessa barca, insomma. Tutto è nato così, un po’ di comprensione, esperienze simili … da cosa nasce cosa …
 
 
15 settembre 1974
Caro diario,
Non ho avuto proprio tempo per scriverti! Non pensavo che avere un amante portasse via tanto tempo e tante energie! La maggior parte delle quali, purtroppo, è sprecata nel nascondersi! Eh già! Con un marito come Siger non è proprio facile avere una vita amorosa clandestina!
Devo calcolare ogni suo spostamento. Conosco i suoi orari. Quando va e torna dal liceo dove insegna, quando ha le riunioni con i genitori, gli appuntamenti coni suoi colleghi. Ho tutto segnato in una piccola agenda.
Non posso neanche stare via più del necessario perché non posso lasciare Mycroft da solo tutto il giorno. Devo trovare mille scuse. Susanne mi aiuta molto in questo. Devo andare a fare la spesa. In realtà vado da Arthur e la mia amica nel frattempo fa la spesa per me. Cose così.
Molto spesso esco di notte. Allora devo somministrare a Siger una bella dose di sedativo per impedire che si svegli. Non che serva. Ha il sonno pesante, lui!
Insomma, questa vita clandestina mi eccita! Non pensavo che sarebbe stato così divertente! Mi sento un po’ in colpa nei confronti di Mycroft, ma cerco di non farci caso.
 
 
28 ottobre 1974
Caro diario,
ormai riesco a scriverti solo una volta al mese! Le giornate con Arthur sono così belle e piene! Proprio così! Siger è partito per un corso di aggiornamento che durerà ben sei mesi!! Sono libera! Finalmente! Non dovrò più stare sotto il suo disgustoso controllo!
Possiamo vederci come e quando vogliamo!! Molto spesso viene a dormire da me. La signora Stevenson sa tutto e approva, fortunatamente. È una donna dalle ampie vedute, per mia fortuna! Conosce la situazione tra me e Siger ed è più che contenta così. Le fa bene vedermi felice. Questo le basta. È un po’ preoccupata per Mycroft, ma lui sembra non accorgersi di nulla. D’altra parte io e Arthur ci vediamo solo quando lui è a l’asilo, perciò … non lascio prove in giro. Non si sa mai.
 
 
4 novembre 1974
Parigi! Diario! Siamo a Parigi!!
Siger è sempre via per il corso, Mycroft è a casa con la signora Stevenson e io mi godo un meritato weekend a Parigi!! È stata un’idea di Arthur. Questo fine settimana sua moglie sarà impegnata con la fiera del paese e lui ha trovato la scusa di una conferenza di medici per organizzare questo viaggetto.
Sono così felice! Mi sembra di essere una scolaretta alla prima cotta!
Abbiamo visitato la città tenendoci sempre per mano. Ho fatto sfoggio della mia cultura e gli ho fatto da guida turistica per tutto il tempo. Lui rideva guardandomi e ascoltandomi! Quanto mi mancano questi momenti con Siger! Vorrei poterli avere con lui e non con un uomo sposato con due figli!
Per adesso dovrò accontentarmi. Riuscirò, un giorno, ad essere totalmente felice?
 
 
21 dicembre 1974
Siger tornerà a casa per le vacanze di Natale. Ciò significa che non potrò vedere Arthur per molto tempo, almeno fino a gennaio. Sono triste per questo. Anche Arthur, però, è cambiato. Ogni volta che facciamo l’amore non è più la stessa cosa. Dice che si sente in colpa. Per i suoi figli, forse? Per la moglie? Quando parla di lei diventa subito triste. Che si stiano riavvicinando?
 
 
25 dicembre 1974
Caro Diario, è Natale.
Allora perché sono così desolatamente triste? Devo recitare la parte della madre e moglie modello davanti ai genitori di Siger. Festeggiamo tutti insieme il Natale, che bello! Arthur lo starà passando con la sua famiglia. Mi aveva detto che mi avrebbe chiamata, almeno oggi. Guardo l’orologio. È mezzanotte e lui non si è fatto sentire. Aspetto che chiami domani.
 
 
Leggo l’ultima riga e mi rendo conto che il mi corpo si è irrigidito. Sono così teso che mi fanno male i muscoli. Così era vero! Mia madre tradiva veramente mio padre! E adesso quei due si sono incontrati di nuovo! Insomma! Mio padre è appena morto e lei …
No. Aspetta un attimo. Sicuramente si sono già visti prima di oggi. Da come parlavano la loro nuova relazione deve andare avanti almeno da qualche mese. Devo andare avanti a leggere. Sento che non è finita qui. Il telefono, però, mi distrae.
“Ciao, sono Lestrade. È come hai detto tu. Dopo un lungo interrogatorio abbiamo fatto parlare Brown. Il dottor Lightman è stato di grande aiuto. Alla fine ha confessato. È stato lui a dare appuntamento a tuo padre in quel capannone e poi ad ucciderlo. Tra l’altro era già da parecchio tempo che lo minacciava, per questo lui girava sempre armato. Il pugnale l’aveva con sé per autodifesa, non per uccidere. Mi dispiace”
 “Grazie” è l’unica cosa che riesco a dire. Tutta la mia attenzione in questo momento è diretta verso il diario.
 


  
*Ho pensato molto al nome dell’amante di Violet. Alla fine ho scelto Arthur perché …  Sir Arthur Conan Doyle!

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Caro Diario - Seconda parte ***








7 gennaio 1975
Caro diario,
Sono state le settimane più difficili della mia vita. Arthur non si è fatto sentire e io non ho il suo numero perciò non posso contattarlo. Siger si è comportato più dolcemente con me in questo periodo. Che abbia intuito qualcosa? Avrà paura di perdermi davvero? Queste sue attenzioni inattese mi spaventano. Non mi sono gradite. D’altra parte neanche Arthur sta rispondendo alle mi aspettative. Doveva chiamarmi a Natale e non l’ha fatto. Perché? Si sarà riconciliato totalmente con sua moglie?
Sono un’egoista? Desidero che lui sia solo mio. Solo mio. No, vorrei un uomo, uno qualsiasi, che mi ami, che mi faccia sentire speciale!
 
 
25 gennaio 1975
Caro Diario.
Il lavoro mi tiene sempre più impegnata. Ora sto allestendo una mostra e non ho più tempo neanche per Arthur. Non che lui ne abbia per me! Certo! Sono due mesi che non si fa sentire!
 
 
27 gennaio 1975
Caro Diario,
ieri c’è stata l’inaugurazione della mostra. Stranamente è venuto anche Siger. Stranamente c’era anche Arthur! Che tortura per me! Sono settimane che non lo vedo e ho dovuto recitare la parte della brava mogliettina con Siger che ha fatto altrettanto per dare ai più la parvenza di una famiglia felice. Mycroft ha apprezzato la mostra. Gli piacciono i colori. Vedere mio figlio sorridere è l’unica cosa che mi dà soddisfazione adesso, veramente!
 
 
2 febbraio 1975
Caro diario, finalmente!
Siger è tornato al suo corso e starà via almeno fino ad aprile! Arthur è tornato da me. Dopo avermi rivista alla mostra deve aver sentito che prova qualcosa ma sento che è combattuto.
Abbiamo ripreso a fare l’amore ma non è più come prima. Sento una forte malinconia, quando mi tocca. Abbiamo vissuto insieme momenti bellissimi ma è come se qualcosa tra di noi si stia sfilacciando. O forse non c’è mai stato nulla? Forse mi sono immaginata tutto? Forse avevamo solo bisogno di reciproco sostegno. Siamo stati entrambi egoisti. Ci siamo usati a vicenda. Solo che ora lui apparentemente non ha più bisogno di me.
 
14 febbraio 1975
San Valentino! La festa di ogni cretino!
Certo, non so trovare definizione migliore! Arthur, chiaramente, lo passerà con sua moglie. I figli saranno affidati alla nonna e i due piccioncini voleranno a Parigi. Parigi! Il luogo che ci ha visti felici solo qualche mese fa!
E io? Siger mi aveva assicurato che sarebbe tornato a casa ma un impegno imprevisto lo ha costretto a rimanere lì. Mi ha detto che avremo molto altri San Valentino da festeggiare insieme. Certo, avrei preferito che avesse rinunciato all’impegno (neanche tanto importante, poi) per venire da me, ma il modo tenero in cui me l’ha detto mi ha addolcito. Mi ama ancora?
 
 
28 febbraio 1975
Non so più cosa pensare. Siger si comporta da marito modello, nonostante sia lontano. Non mi asfissia più con le sue chiamate e i rimproveri. Che abbia anche lui l’amante? No, poco probabile.
Arthur? C’è e non c’è. Continuiamo a fare l’amore ma penso che lui lo faccia più per pietà verso di me che per altro. Non so se è tormentato dai sensi di colpa verso la moglie o semplicemente hanno fatto pace. Sta di fatto che ci vediamo sempre di meno e la cosa non mi piace.
Cioè, mi fa piacere che lui riallacci i contatti con la moglie, ma mi turba pensare che sarò di nuovo sola. A dir la verità Siger è così dolce in questo periodo. L’altro giorno mi ha telefonato solo per dirmi che mi ama.
Non so come sarà il futuro. Spero in bene. Per me, per Siger e per Mycroft.
 
 
26 marzo 1975
Caro diario.
Non ho avuto molto tempo per scrivere, ultimamente. Tra le mostre che devo organizzare, i quadri da finire, le sculture da vendere … non ne ho avuto proprio la possibilità! Inoltre c’è un nuovo problema che rischia seriamente di annuvolare il mio futuro che sembrava così limpido.
Già! Sembrava limpido! Arthur, come al solito, è sempre più distaccato. Siger, invece, sembra amarmi ogni giorno di più. Dice che conta i giorni. Tra due settimane tornerà a casa e mi ha detto che dopo questo corso gli aumenteranno lo stipendio, così potremo andare a fare un viaggio tutti insieme! Sembrava così felice al telefono!
Invece io sono tormentata. Sono incinta! Di chi, mi pare scontato. Non vedo Siger da gennaio e non facciamo l’amore da almeno cinque mesi. Io, però, sono incinta solo di due settimane. Il figlio che sto aspettando è di Arthur. C’è poco da fare. Come potrò dirglielo? Ma, dovrò dirglielo? Sarà utile? Potrei ingannare Siger sulla data del concepimento, mettermi d’accordo con la ginecologa per far sembrare che mio figlio nasca con due settimane di anticipo! Si, si può fare. Arthur non dovrà sapere nulla di tutto ciò. Se si sta riconciliando con sua moglie non voglio portare nuovo scompiglio alla sua famiglia … e nemmeno alla mia! Un figlio non potrà che portare nuovo amore, ne sono sicura.
Allora perché continuo a sentirmi un nodo in gola? Spero che passi.
 
 
29 giugno 1975
Caro Diario.
Ieri è venuto a trovarmi Arthur. Gli ho detto che non potremo vederci più perché sono incinta. Anche lui, a dir la verità, voleva dirmi la stessa cosa. Mi ha confessato che ultimamente era un po’ più distaccato perché si stava riconciliando con la moglie e adesso vuole tornare definitivamente con lei. Se non glielo avessi chiesto io non avrebbe trovato il coraggio di lasciarmi. Per pietà? Per quanto tempo sarebbe andato avanti così? Mi ha chiesto se il figlio che aspetto è di mio marito. Io gli ho detto di si ma non sono sicura che mi abbia creduto.
 
 
7 giugno 1975
Caro Diario.
Finalmente trovo un po’ di tempo per scriverti. Ho riletto tutto quello che ho scritto in quest’ultimo anno e mi sembra così distante!
Ieri ho fatto la prima ecografia! Ero così emozionata! Anche Siger è venuto con me. È stato dolcissimo! Purtroppo non posso scrivere molto perché l’esserino che ho in grembo richiama tutta la mia attenzione. I due uomini di casa sono diventati estremamente premurosi nei miei confronti. Siger era felicissimo quando gli ho detto di essere incinta e anche Mycroft sembra aver accettato la responsabilità di essere il fratello maggiore! Già. Avranno sette anni di differenza! ‘Lo proteggerò io, mamma’ mi ha detto l’altro giorno. Gli ho chiesto da chi o da cosa volesse proteggerlo. ‘Da tutti quelli che vorranno fargli male. Sono suo fratello maggiore, ne sono responsabile’. Che ometto il mio Mycroft! È così tenero! Non so ancora se è un maschio o una femmina, dovrò aspettare altri due mesi per saperlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Caro Diario - terza parte ***








Piccola nota in cui spiego perché ho scelto Hugh Laurie per interpretare Arthur. Nel 2003 è stato prodotto dalla BBC un telefilm (purtroppo mai trasmesso in italia!) intitolato “Fortysomething”, in cui Hugh e Benedict recitano insieme e sono rispettivamente padre e figlio.
 
 



 
 
15 giugno 1975
Caro Diario,
finalmente le nausee mattutine cominciano a darmi un po’ di tregua. Susanne viene a trovarmi tutti i giorni. Dice che mi vede bene, più serena, più tranquilla. È vero, in effetti. Non posso negarlo. Siger è completamente trasformato. Sembra un altro. La prospettiva di diventare padre per la seconda volta lo eccita tantissimo. Mi sta sempre vicino.
L’unica cosa che rimpiango è il non poter più dipingere o scolpire. Le sostanze chimiche dei colori e la polvere di marmo sono dannosi per il mio bimbo e non voglio fargli del male. Non so ancora il sesso, ma sono quasi certa che sia un maschio. Non so perché ma me lo sento.
Ogni sera con Siger pensiamo ai vari nomi. Se fosse una femmina? Sophie. Anne. Carol.
Se fosse un maschio? William. Sherrinford (che nome assurdo! È venuto in mente a Siger!).
 
 
22 agosto 1975
Caro Diario!
È un maschio! Lo sapevo! Ieri siamo andati a fare l’ecografia ed è venuto fuori che il secondogenito di Siger e Violet Holmes sarà un bel maschietto!
Così abbiamo deciso di chiamarlo Sherlock. L’ho scelto io. Siger non potrà mai saperlo, ma ‘sherlock’ è il nome del tabacco preferito di Arthur, quello che fumava quando eravamo insieme. Ormai non ci vediamo da tanto, troppo tempo. Un po’ mi manca ma non cambierei la situazione attuale per niente al mondo!
Siger è sempre così dolce, con me!
 
 
2 luglio 1975
Caro Diario.
È passato un anno da quando ho conosciuto Arthur. Mai avrei pensato che le cose tra di noi si sarebbero evolute così tanto. Non lo vedo da quel giorno. Da quando gli ho detto di essere incinta. Mi manca. Non riesco a non pensare che, in fondo, è lui il padre di mio figlio.
 
 
27 agosto 1975
Sherlock è sempre più irrequieto. Si muove dentro la mia pancia continuamente. Sembra non dormire mai! Appena comincio a parlargli, però, si ferma. È esigente di attenzioni. Ecco! Un altro calcio! Non posso scrivere. Vado a fare una passeggiata.
 
 
14 settembre 1975
La pancia è sempre più evidente. Sherlock cresce forte e sano e io non potrei essere più felice. La sera mi siedo sul divano, Mycroft mi raggiunge e comincia ad accarezzarmi il ventre. Sono così felice che ami suo fratello ancora prima che sia nato!
Ogni sera lo porto a dormire e gli racconto una fiaba. Lui chiude gli occhi e mi ascolta. Ho la netta sensazione che anche Sherlock mi stia a sentire perché quando parlo lui si ferma e mi lascia riposare.
Ho iniziato il corredo per il mio bimbo. Tutto fatto a mano. Da quando sono incinta ho dovuto lasciare il lavoro, così ho molto tempo libero. Se fino a qualche settimana fa riuscivo comunque ad allestire qualche retrospettiva o ad aiutare qualche mia amica con le sue mostre, ora devo stare in assoluto riposo. Tra ricami e uncinetto le giornate passano presto. Devo cantare continuamente perché così Sherlock se ne sta tranquillo ed evita di tirarmi calci.
 
 
16 gennaio 1976
È nato! Finalmente Sherlock è nato! Il 6 gennaio, dopo un travaglio neanche tanto lungo me lo sono ritrovato tra le braccia. Ha gli occhi di un colore indefinibile, come tutti i neonati. La pelle è bianchissima e contrasta piacevolmente con i pochi capelli neri che ha già.
 
 
24 marzo 1976
Caro Diario.
Sono passati tanti anni da quando ho fatto la mamma l’ultima volta. Non ricordavo che fosse così impegnativo!! Sherlock è un bambino veramente esigente. Non vuole stare mai solo. Piange di continuo se rimane solo troppo tempo nella sua culla. Allora devo andare da lui. Non serve che lo prenda in braccio. Sapere che sono nella stanza e sentire la mia voce lo rassicura, così smette di piangere.
 
 
6 gennaio 1977
Sherlock ha compiuto il suo primo anno! Grande festa in casa Holmes! Ha ereditato i miei occhi, azzurri tendenti al verde. Sono bellissimi. I capelli sono neri, foltissimi e piacevolmente ricci. Ride quando lo carezzo. È così tenero. Non posso scrivere a lungo, non ce la faccio a stare lontana da lui.
 
 
2 agosto 1977
Sta andando tutto a rotoli! Siger ha scoperto la verità! Ha fatto di nascosto un test di paternità (chissà perché, poi?) e ha scoperto che Sherlock non è suo figlio! Come andrà finire? Era furioso!
 
 
27 agosto 1977
Mi sembra di aver affrontato una tempesta in mare aperto. Sono andata allo studio di Arthur ieri pomeriggio e gli ho raccontato tutto. Non sembrava tanto sorpreso, a dir la verità. Mi sa che l’aveva capito. Domani pomeriggio verrà a trovarmi. Siger è partito per il week end con la scusa di un breve corso di aggiornamento. Meglio. Io e Arthur avremo tutto il tempo per parlare.
 
 
29 agosto 1977
Disastro! Disastro! Siger non è più partito e ha scoperto me e Arthur insieme. Lo ha fulminato con lo sguardo e gli ha detto di non farsi più vedere, di stare lontano dalla sua famiglia. Mi chiedo come andrà a finire. La cosa che mi dispiace di più è che è stato coinvolto anche il figlio di Arthur che ha solo tre anni. Lui lo aveva portato per fargli conoscere il fratellino. Chissà cosa gli resterà impresso di questo giorno?
 
 
18 settembre 1977
Sembra che tutto sia tornato tranquillo. Arthur non si è più fatto sentire e non mi aspetto che lo faccia. Né andrò io da lui. L’ho promesso a Siger. Lui mi ha perdonata, sembra. Spero che sia vero! Lo spero non tanto per me ma per Sherlock! Spero che Siger possa imparare ad accettarlo! Ti prego, mio Dio! Fa in modo che la mia possa essere una famiglia felice! Mi pento dei miei errori! Non avrei dovuto tradire così mio marito eppure non riesco a non essere felice di poter stringere tra le braccia questo bimbo innocente! Fallo per lui! Lui merita di essere felice!
 
 
Ho letto il diario di mia madre tutto d’un fiato. Le note successive parlano della mia infanzia, di come mio padre abbia cominciato ad essere incostante nei suoi confronti e, successivamente, nei miei.
Stranamente non riesco ad essere in collera con mia madre. Ha solo cercato di essere felice. La colpa di chi è? Non riesco a trovare il colpevole, in questa storia. Non c’è. Anche mio padre è stato solo una vittima delle sue emozioni più meschine. Della gelosia in primis. Della rabbia poi.
Sento le guance bagnate dalle ennesime lacrime. Mi lascio andare. Sono disteso sul divano. Abbandono la testa sul cuscino e mi consegno ad un sonno profondo e, spero, senza sogni.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Un sogno? No, un ricordo ***







Ho letto il diario di mia madre. Se l’avessi fatto prima! Non ne ho avuto mai il coraggio, né il motivo a dir la verità! Ma tutto quello che è successo ultimamente mi ha messo con le spalle al muro.
Finisco di leggere l’ultima riga e chiudo gli occhi. Mentre le ultime lacrime scorrono sulle mie guance mi perdo in un sogno antico, Il Sogno, quello che ha accompagnato per tanti anni le mie sofferenze.
 
Sono di nuovo neonato. Mia madre mi tiene in braccio e canta una ninna nanna dolcissima. Com’è bella! Mi perdo dentro i suoi occhi così limpidi! Lei mi guarda con amore ma vedo che è preoccupata. Sento un campanello suonare. Lei mi posa sul lettino.
“Tesoro, mamma torna presto, non preoccuparti”
Se ne va. Normalmente avrei pianto ma oggi no. Sono curioso di sapere chi c’è alla porta. Sento delle voci in lontananza. Il silenzio della casa me le fa sentire bene.
“Ciao Violet”
“Ciao Arthur. Grazie per essere venuto ma …  chi …”
“Lui è mio figlio minore. Volevo fargli vedere il fratellino”
“Arthur …”
“Non ti preoccupare. Ho parlato con mia moglie. Sa tutto. Anche lei, in quel periodo, mi tradiva. Eravamo in piena crisi ma adesso si è sistemato tutto. Capisce perfettamente la situazione e l’ha accettata”
“Ti ringrazio. Magari potessi avere la tua fortuna”
“Come mai? Siger non è stato comprensivo?”
“Se fosse una persona comprensiva a quest’ora Sherlock non sarebbe nato. Non avrei mai avuto bisogno di trovare qualcun altro”
“Non credo di poter capire. La crisi tra me e mia moglie è stata diversa. Lei mi accusava di essere troppo assente … Tuo marito, invece …”
“Siger era troppo presente. Soffocante! Estremamente geloso, direi”
Sento la porta che si apre con violenza.
“A quanto pare facevo bene ad esserlo!” è la voce di mio padre.
“Siger!” urla mia madre. È in preda al panico “Ti posso spiegare!”
“Cosa vuoi spiegare? Chi è quest’uomo? È lui il padre di Sherlock?”
Lei esita. Comincia a piangere. Non so cosa risponde. Ha parlato troppo piano o ha solo annuito.
“Come hai potuto!” grida lui “Puttana!”
“Ti prego” lo supplica lei “Ti prego perdonami!”
“Ormai è troppo tardi!”
“No, ti prego, no! Pensa a tuo figlio!”
“Mio figlio? Come puoi dire una cosa del genere?”
“Ti prego! Ti prego!”
Lui comincia a picchiarla. Non mi piace sentire la voce di mia madre che piange. Mi piace sentirla cantare, mi piace sentirla quando mi racconta una storia. Non posso sopportare il suono del suo pianto. Piango anch’io. Disperato. I grandi, di là, non mi sentono o semplicemente mi ignorano.
Sento che mio padre comincia a prenderla a sberle.
“Non ti azzardare, sai!” lo minaccia l’altro.
“Non si permetta lei! Rovina famiglie!”
“La colpa è solo tua, non te ne rendi conto? Tua e della tua gelosia!”
“Nessuno le ha dato il permesso di darmi del tu! E ora se ne vada da casa mia!”
Io continuo a piangere. La stanza è tutta buia. Le urla di là mi spaventano. Urlo disperato e non so se sto più male per la paura o per il dolore che ho in gola a forza di strillare.
All’improvviso vedo una luce. Una sottile linea di luce si abbatte sulla mia culla. La porta si apre lentamente e il fascio luminoso si allarga. Un’ombra, una piccola ombra lo oscura. Deve essere mio fratello. Neanche a lui deve piacere quello che sta succedendo di là. I grandi continuano ad urlare e a picchiarsi ma da quando è entrato lui mi sento meglio. Non smetto di piangere finché non me lo ritrovo davanti.
Sono disteso a pancia in su. Lui si avvicina piano alle sbarre della mia culla. Lo sento arrivare. Mi giro. È davanti a me. Ha le manine aggrappate a due sbarre e mi guarda. È un bel bambino biondo con gli occhi azzurri. Pian piano calmo il mi pianto. Anche il respiro si fa più regolare. Lo guardo. Sento le lacrime che continuano a scendere sulle guance ma ora sono calmo. Le urla di là non le sento nemmeno più.
Mi sembra di essere in una bolla dove ci siamo solo io e lui.
Stacca una mano e la posa delicatamente sulla mia guancia per asciugarmi una lacrima.
“Tao bimbo” mi dice sorridendomi “Io sono il tuo fratello”
Non riesce ancora a parlare bene, ma non servono le parole. Con quel tocco mi ha già trasmesso tutto. Mi vuole proteggere. Vuole che io sia felice. Mi vuole bene nonostante tutto. Gli afferro il dito e comincio a ridere. Mi piace mio fratello! Sono felice di avere due fratelli! Sarò per sempre così felice? Stringo il dito. Non voglio che se ne vada.
Purtroppo tutto questo è destinato a finire. Un’altra ombra sovrasta quella del bambino e lo prende in braccio.
“Dobbiamo andare” gli dice. Poi mi guarda. Anch’io lo guardo e ricomincio a piangere. Perché vuole portarmi via mio fratello? Non riesco bene a decifrare cosa provi quell’uomo. Rimpianto? Sento i miei genitori che continuano a litigare. Poi mio padre se ne va sbattendo la porta e lasciando mia madre a piangere. Dopo pochi istanti è in camera con noi.
“Si sistemerà tutto Violet, ne sono sicuro” dice lui sistemandosi meglio il figlio tra le braccia.
“Lo spero Arthur, lo spero davvero”
Io continuo a piangere. Mia madre mi guarda e mi sorride ma questo non basta. Il bambino biondo si sporge dalla spalla di suo padre e mi saluta con la mano.
“Ciao fratellino” mi dice semplicemente.
Vorrei fermarlo. Vorrei chiamarlo ma non conosco il suo nome e per giunta non so nemmeno parlare! Allungo le mani verso di lui. L’ultima immagine del sogno è il viso di quel bambino che pian piano svanisce nella nebbia della mia memoria.
 
“Sherlock! Sherlock! Svegliati per l’amor del cielo!”
Sono sveglio. Devo essermi agitato tanto nel sonno. Il diario di mia madre giace a terra aperto alla pagina in cui mi sono fermato. Apro gli occhi.
John è sopra di me e mi guarda allarmato. Quante preoccupazioni gli ho dato ultimamente! Lo guardo. Lo riconosco. È lui. È John. Una lacrima sta scendendo lungo la mia guancia. John mi guarda con tenerezza e la raccoglie con un dito.
John. L’unica persona, a parte mia madre, che riesca a farmi sentire sempre a mio agio. Anche nelle situazioni più disperate, sapere che ho lui accanto mi fa bene. Mi rilassa. La sua voce, i suoi occhi così rassicuranti, così calmi, così posati. Irradia tranquillità. Il mio cuore esulta quando ce l’ho accanto.
È lui. È lui. Il mio cuore l’ha sempre saputo ma io non gli ho voluto mai dare retta. Razionalmente non lo potevo sapere. Non potevo ricordare quell’episodio. Ero troppo piccolo. Quello che mi è successo in questi giorni, però, mi ha aiutato ad aprire il cuore ed è uscita la verità.
Non è un sogno. Non è una metafora della mia vita. È un ricordo vivo e concreto nella mia mente. Guardo John. Il mio viso è asciutto. La mia mente è sgombra. La melma che hanno voluto tirarmi addosso è sparita. Ora è tutto chiaro. Sono pronto ad accettare questa verità.
È lui.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Stesso sogno, stesso ricordo ***









John P.O.V.
 
 
Sono stanchissimo. Stanchissimo. Veramente e definitivamente distrutto.
Il tutto a causa di Sherlock. Non voglio dire per colpa sua, lui non ha colpa. Sta già soffrendo abbastanza.
Tutta questa storia mi ha completamente snervato. Mi fa star male vederlo così! Quanto sono stupido! Non lo avevo mai capito! Pensavo di si, invece non avevo capito un tubo di lui! È così sensibile, anche troppo, direi. Per questo nasconde continuamente le sue emozioni.
Mi ha raccontato qualcosa del suo passato, di come lo trattasse male suo padre. Sento però che è solo l’inizio. C’è ben altro. Altro che, per adesso, non vuole raccontarmi o non vuole affrontare. Dovrà farlo, però. Lo so. Lo sa anche lui. Dovrà guardare in faccia tutta la sua vita e farne un bilancio.
Mi sento in colpa per averlo trascurato così in questo periodo. Normalmente non sarebbe successo niente ma adesso aveva bisogno di me, no? O forse è andata meglio così.
Torno a casa dal lavoro e lo trovo disteso sul divano. Una lacrima gli solca il viso. Sta dormendo. Chissà quali pensieri lo hanno portato ad uno stato di torpore così profondo. Tiene un libro aperto sul petto, un vecchio libro sgualcito. Chissà cos’è? Vorrei prenderlo e provare a scoprirlo e avvicino la mano a lui ma qualcosa mi trattiene. No. Ti starò vicino ma non ti soffocherò. Mi parlerai tu quando ne sentirai la necessità. Sposto la mano dal libro alla sua testa e la carezzo dolcemente.
Ho tanto sonno anch’io. Vado a letto, mi spoglio velocemente e in poco tempo sono sotto le coperte. Ah! Che sensazione rilassante! Mi abbandono al sonno … e al sogno.
 
 
Dove sono? Non capisco … sono su un’automobile … legato ad un seggiolino? Ma non ho mica tre anni! O si? Aspetta un po’! mi guardo le mani. Sono cicciottelle e piccolissime. Devo avere due o tre anni. Sono seduto sul sedile posteriore della vecchia auto di mio padre che è li davanti a me. Sta guidando.
“Papà!” lo chiamo.
“Stai buono, John. Tra poco arriveremo”
“Dove papà?”
“Voglio farti conoscere il tuo fratellino”
“Ho un fratellino?”
“Si, tesoro, un fratellino piccolo. Piccolo piccolo. Vedrai, ti piacerà”
È teso, lo capsico da come mi parla, da come si muove. Si starà chiedendo se fa bene a comportarsi così? Ben presto arriviamo in un giardino. È enorme! Davanti a me si staglia una villa principesca. Rimango abbagliato da tutti quei colori, da quella casa così grande. Papà scende dall’auto e viene a sedersi vicino a me. Mi guarda con apprensione. Si sta preparando a dirmi qualcosa di importante.
“Dov’è mamma?” chiedo ingenuamente.
“John, piccolo, devo dirti una cosa. Il fratellino che tra poco conoscerai …”
“La mamma è lì con lui?” chiedo.
“No, John. Mamma è con Harry, adesso. Il bambino che vedrai tra poco è il figlio di papà ma ha una mamma diversa, lo capisci?”
“Perché non è la mia mamma?”
Mi guarda sempre più preoccupato. Non sa come rispondermi.
“Un giorno capirai” e non aggiunge altro.
Entriamo nella casa. Ci accoglie una donna bellissima. È alta, con lunghi capelli neri e occhi azzurrissimi. Le sorrido. È lei la mamma del mio fratellino?
“Ciao Violet” dice lui.
“Ciao Arthur. Grazie per essere venuto ma …  chi …”
“Lui è mio figlio minore. Volevo fargli vedere il fratellino”
“Arthur …”
“Non ti preoccupare. Ho parlato con mia moglie. Sa tutto. Anche lei, in quel periodo, mi tradiva. Eravamo in piena crisi ma adesso si è sistemato tutto. Capisce perfettamente la situazione e l’ha accettata”
“Ti ringrazio. Magari potessi avere la tua fortuna”
“Come mai? Siger non è stato comprensivo?”
“Se fosse una persona comprensiva a quest’ora Sherlock non sarebbe nato. Non avrei mai avuto bisogno di trovare qualcun altro”
“Non credo di poter capire. La crisi tra me e mia moglie è stata diversa. Lei mi accusava di essere troppo assente … Tuo marito, invece …”
“Siger era troppo presente. Soffocante! Estremamente geloso, direi”
La porta dietro di noi si apre all’improvviso. Entra un uomo spaventoso. È un bell’uomo ma mi fa paura. È arrabbiatissimo. Guarda con odio mio padre e mia madre.
“A quanto pare facevo bene ad esserlo!” dice furente
 “Siger!” urla la donna. Penso che tra poco si metterà a piangere “Ti posso spiegare!”
“Cosa vuoi spiegare? Chi è quest’uomo? È lui il padre di Sherlock?”
La donna esita. Si torce le mani. Grosse lacrime cominciano a uscirle da quegli occhi così belli. Deglutisce e infine annuisce.
“Come hai potuto!” grida lui “Puttana!”
“Ti prego” lo supplica lei “Ti prego perdonami!”
“Ormai è troppo tardi!”
“No, ti prego, no! Pensa a tuo figlio!”
“Mio figlio? Come puoi dire una cosa del genere?”
“Ti prego! Ti prego!”
Lei comincia a piangere sul serio, adesso. Lui la prende a schiaffi. Il rumore di quei ceffoni risuona sopra i singhiozzi di lei. Fa paura. Mio padre, che fino a quel momento ha osservato tenendomi in braccio, mi lascia a terra e prova a fermare l’uomo.
“Non ti azzardare, sai!” lo minaccia l’altro.
“Non si permetta lei! Rovina famiglie!”
“La colpa è solo tua, non te ne rendi conto? Tua e della tua gelosia!”
“Nessuno le ha dato il permesso di darmi del tu! E ora se ne vada da casa mia!”
Mi fa paura mio padre così. Non l’ho mai visto tanto arrabbiato. Indietreggio di qualche passo e lo sento. È un bambino. Sta piangendo. Mi guardo attorno per capire da dove viene la sua voce e vedo una porta chiusa. Le urla del bimbo sono così forti! Chissà quanto starà male! Guardo i grandi. Non gliene importa niente. Ma non lo sentono? È così straziante!
Mi avvicino alla porta con cautela, guardandomi ogni tanto indietro per capire se quei tre hanno intenzione di accorgersi del bimbo che piange. Niente. Continuano a litigare. Lo ignorano. Dovrò occuparmene io.
Apro lentamente la porta. Davanti a me compare una culla. C’è un bambino che piange lì. È disperato, le mani strette a pugno, il petto che si alza e si abbassa velocemente, seguendo il suo pianto.
Appena avverte la mia presenza, però, smette di piangere. Mi avvicino alla sua culla. Gira la testa verso di me. Mi sta guardando. Respira normalmente adesso. Anche le mani si rilassano. È bellissimo. I suoi occhi, ancora colmi di lacrime, sono azzurri come quelli della sua mamma. Però è mio fratello. Me lo ha detto mio papà. Anche se abbiamo mamme diverse lui è mio fratello. Mi sembra di essere in un altro mondo, separato. Le urla degli adulti, di là si fanno lontane. Ci siamo solo noi due.
Una lacrima comincia a scivolargli lungo la guancia. Gliela raccolgo con un dito, che lui subito afferra con la sua manina.
“Tao bimbo” gli dico “Io sono il tuo fratello”
Il bambino stringe di più il mio dito. Non vuole che me ne vada.
Purtroppo, però, dovrò andarmene. Mi sento sollevare e capisco che è mio padre che mi prende in braccio.
“Dobbiamo andare” mi dice. Poi guarda il bambino nella culla che nel frattempo, sentendo che sto andando via, ha ricominciato a piangere. Gli altri due grandi stanno continuando a litigare, lo sento. Poi all’improvviso sento il rumore di una porta che si chiude e la donna, ancora in lacrime, ci raggiunge.
“Si sistemerà tutto Violet, ne sono sicuro” le dice mio padre cercando di farmi stare più comodo tra le sue braccia.
“Lo spero Arthur, lo spero davvero”
Il bimbo continua a piangere. La madre cerca di rassicurarlo con un sorriso ma non ottiene molto. Mi sporgo oltre la spalla di papà e lo guardo.
 “Ciao fratellino” è l’unica cosa che riesco a dirgli.
L’ultima immagine del sogno è il viso di quel bambino che continua a piangere. Allungo la mano per cercare di raggiungerlo, di consolarlo, ma si fa sempre più distante … più indistinto …
 
 
Mi sveglio di colpo. Che razza di sogno è? Ma è davvero un sogno? O è un ricordo? All’improvviso tutto si fa chiaro nella mia mente. È un ricordo. Come ho fatto a dimenticarmelo?
Dopo quel giorno non siamo più tornati in quella casa così bella. Non ho più visto quel bambino. L’ho dimenticato, rimosso.
Mi alzo e scendo. Ho bisogno di un caffè bello forte. Arrivo in cucina senza passare dal soggiorno per non disturbare Sherlock ma sento che sta male. Si lamenta nel sonno. Il libro è caduto per terra.
“Sherlock! Sherlock! Svegliati per l’amor del cielo!” cerco di riportarlo alla realtà. Chissà quali oscuri ricordi sono tornati per tormentarlo. Poi capisco.
Si è svegliato. Mi guarda. La verità mi raggiunge come un proiettile. Lui riesce a leggere la preoccupazione nei miei occhi. Una lacrima gli scende piano sulla guancia. Cerco di recuperare un po’ di contegno e gliela asciugo con un dito.
È lui. Lo riconosco. È Sherlock. Non sono mai stato molto dedito a preoccuparmi per gli altri ma con Sherlock è diverso. Mi sento responsabile. Devo proteggerlo, voglio proteggerlo.
Da quando l’ho conosciuto ho sempre avuto la necessità di proteggerlo. Ho perfino ucciso un uomo, per lui. L’avevo appena conosciuto eppure sono arrivato a tanto. Ero davvero spaventato, quel giorno. Non sapevo perché ma dentro di me qualcosa mi diceva che dovevo farlo. Dovevo prendermene cura.
Come ho potuto dimenticarmi di lui? In fin dei conti era solo un bambino che ho visto una volta per pochi minuti eppure …  quei pochi istanti ci hanno legato per sempre. Ora siamo di nuovo insieme.
È lui.




Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Rabbia ***








John è venuto a svegliarmi. Stavo sognando di nuovo quel ricordo.
Mi guarda in modo strano. Provo a sedermi. Cerco il diario di mia madre ma vedo che nel sonno l’ho fatto cadere per terra. Mi gira un po’ la testa, mi sono alzato troppo di scatto. Mi massaggio la fronte. Il ricordo del sogno è ancora impresso nella mia memoria.
Guardo John. Anche lui sembra sconvolto. Non parla. Si limita ad osservarmi. Sembra felice. Devo assolutamente dirgli cosa ho scoperto, cosa ho ricordato.
“John …”
“Lo so”
Lo sa? Di cosa sta parlando? Che anche lui abbia ricordato?
“Devo andare da mia madre” dico recuperando il diario “Ho bisogno di chiederle una cosa”
“Vengo con te” mi risponde. Non è una domanda. È un’affermazione. Un ordine.
“Ma il tuo ambulatorio …”
“Sarah saprà coprirmi. E poi devo chiedere anche io una cosa a tua madre”
 
Arriviamo a casa di mia madre molto presto. Entriamo senza neanche bussare, tanto la porta è aperta. Sento delle voci dalla cucina. Sono due donne.
“Dovrai pur dirglielo, Violet!” riconosco Susanne appena la vedo. È la migliore amica di mia madre. Sono sempre state insieme, loro due.
“Cosa dovrai dirmi, mamma?” chiedo entrando all’improvviso. Le ho spaventate. Bene. È  quello che volevo.
“Sherlock …” mia madre è sconvolta. Non si aspettava il mio arrivo.
“So tutto” le dico, sventolandole davanti il diario.
“Sherlock!” ora è indignata. Come ho osato rubarle il diario? La mia domanda è altrettanto evidente: come hai osato tu mentirmi per tutti questi anni? Un’intera vita nella menzogna!
“Chi è Arthur? È l’uomo che era qui ieri, giusto?”
Lei non mi risponde. Si limita ad annuire.
“Da quanto tempo vi vedete?”
“Da circa due anni”
“Due anni? Stai scherzando?”
“Sarà qui tra poco, potrai chiederlo a lui”
 
Sospettavo che si vedessero già da tempo, ma così tanto …! Guardo John. Anche lui è sorpreso.
“John! Cosa ci fai qui?!”
La voce dell’uomo che ho visto ieri mi coglie di sorpresa. Mi volto e lo riconosco. È lui.
“Papà!” è l’unica cosa che John riesce a dire ma mi sconvolge. Si, l’avevo capito, l’avevo intuito, ma sentirmelo sbattuto in faccia così … anche John aveva capito, ma è ugualmente sorpreso.
“Sono qui con un mio amico” risponde indicandomi con un moto del viso.
“John …  c’è una cosa che devi sapere …” è imbarazzato. Si sente.
A questo punto non ne posso più. Il mio cervello sta per esplodere. Devo dargli una valvola di sfogo. Sarò indelicato ma me lo devo, dannazione! Lo devo a me stesso! Non me ne fregherà niente di ferire i loro sentimenti! Se fossero stati un po’ più onesti con loro stessi probabilmente io non avrei sofferto così tanto durante la mia vita! Come pensano che mi faccia sentire sapere di essere solo un errore nato dalla frustrazione di due amanti?
“Adesso basta” dico serio.
Tutti si voltano a guardarmi.
“So che siete stati amanti, in passato. L’ho letto sul tuo diario, mamma. Non l’avrei fatto se non vi avessi visti ieri sera parlare e poi baciarvi. Eravate così ovvi! Ho dovuto rubartelo”
Lo dico prima che lei possa interrompermi. Ha aperto la bocca per parlare ma non le voglio lasciare spazio per giustificarsi. Mi sento avvampare dalla rabbia.
“Tu non mi avresti mai detto niente! Lo so! Anche adesso hai dei dubbi in riguardo! Non occorre che tu mi nasconda più niente! So che Siger non era veramente mio padre! Non capivo perché mi trattasse sempre così male! Anche lui lo sapeva! Lo sapeva e ha sfogato il suo rancore su di me! Su di me! Che cosa potevo farci, io? Che colpa avevo se voi due siete stati troppo fessi da mettermi al mondo? Eh?! Non sarebbe stato meglio se non fossi mai nato? Che bellezza! La mia esistenza ha rovinato non una ma due famiglie! E la mia vita non è stata certo rose e fiori, lo sai! Papà anzi, Siger, non mi ha mai amato. Ha provato solo rancore nei miei confronti! Non ti ho mai detto niente per non farti soffrire, ma non sai quante volte mi ha picchiato, insultato, umiliato!”
Le mie parole la sconvolgono. Non ne sapeva nulla. A parte l’episodio del vaso, era all’oscuro delle violenze di mio padre. Vedo che sta per piangere ma non mi fa pena, non ora. Il mio odio verso di loro scorre come lava incandescente. Urlo la mia esasperazione verso coloro che ne sono responsabili.
“Mi ha sempre paragonato a Mycroft e sempre mettendomi al secondo posto! Cosa potevo io, figlio di un amante, contro il suo vero e unico figlio? Quello che hai scritto ne diario è vero! Vi siete usati a vicenda! Non so se vi siete amati o se vi amate adesso e sinceramente non me ne può fregare di meno! Siete due stupidi imbecilli! Avreste dovuto essere più sinceri con voi stessi! Io non avrei sofferto così tanto! Perché si, ho sofferto tantissimo a causa vostra! Non ho mai avuto un momento tranquillo nella mia vita! Perché pensi che abbia cominciato a drogarmi, mammina? Non lo sapevo neanche io! Sapevo solo che mio padre mi odiava senza un motivo! Eccolo il motivo! Pensavo che saperlo mi avrebbe fatto sentire meglio! Invece no! Sono incazzato come una biscia, ecco la verità! Non sarei mai dovuto nascere! Sono solo un errore! Uno stupido errore di due cretini! Mi hai deluso tantissimo, mamma. Io pensavo di poterti dare massima fiducia ma tu mi hai tradito miseramente. E tu, Arthur o come diavolo ti chiami. Sapevi che ero tuo figlio e mi hai abbandonato. Abbandonato, capisci? Sei colpevole come mio padre! Lui non mi ha mai accettato ma neanche tu! Come dovrei sentirmi, io? Tua moglie lo sapeva, tuo figlio lo sapeva, anche Harry, presumo. Allora perché in tutti questi anni non ti sei mai fatto vivo? Perché non me lo hai detto subito? Sapevi che John e io viviamo insieme! Avresti potuto parlare! Invece no! Sei stato un gran codardo! Non pensare che venire adesso da me chiedendomi di volerti bene possa funzionare. Scordatelo. Non sarà così facile. Avete sbagliato mettendomi al mondo! Non solo siete stati infelici voi due, avete reso infelice anche me!”
Ci sono tante altre cose che vorrei dire ma mi si chiude la gola. Sento gli occhi pizzicarmi per l’ennesima volta. Guardo John. Lui, l’unico che mi abbia veramente amato, l’unico che è stato sempre sincero con me. Mio fratello. Vorrei dirgli che lo amo anch’io, vorrei dirgli quanto gli voglio bene, che sono al settimo cielo adesso che so che è mio fratello. Torno a guardare mia madre. Sono più calmo ma le mie parole sono ancora affilate come rasoi.
“L’unica cosa positiva di tutta questa situazione è che ho scoperto che John è mio fratello! L’unica cosa positiva! La cosa più bella, l’unica cosa bella che mi sia capitata da quando sono nato! Lui è l’unica persona di cui posso fidarmi, attualmente!”
John mi guarda e io ricambio il suo sguardo. Mi sorride. Ha capito senza bisogno di troppe parole.
Ho gli occhi rossi, lo sento, ma non voglio piangere. Non più. Non ora. Non davanti ai miei genitori. Non voglio dargli questa soddisfazione. Sono rimasti ad ascoltare il mio sfogo a bocca aperta. Sanno che ho ragione. Si guardano. Non sanno come rispondermi. Ci provano ugualmente.
“Sherlock, capiamo perfettamente come ti senti” mi dice Arthur facendo un passo verso di me. Allunga una mano. Tenta di prendermi per un braccio.
“Non mi toccare” gli alzando le braccia, allontanandole da lui “Non mi toccare. Non potete capire. Non potete. Andatevene affanculo tutti e due. Io mi chiamo fuori”
“Per piacere, Sherlock, cerca di capire …” mi dice mia madre, tentando di mediare la situazione.
“Dunque sono io quello che deve cercare di capire? Eh? È così?”
“Hai letto il mio diario. Sai cosa provavo in quel periodo!”
“Avresti dovuto ABORTIRE!” le urlo in faccia. Davvero. Adesso. Non. Vorrei. Essere. Nato.
“Come puoi dire una cosa del genere?!” mi chiede Arthur arrabbiato “Sai cosa significa un aborto per una donna? Come puoi essere così insensibile! Inoltre se lei avesse abortito tu non saresti nato!”
“Insensibile? Io sarei insensibile?” urlo di nuovo. Come si permette? “Sarà anche vero. Si, sono insensibile, ma per colpa di chi? Secondo lei, mio caro dottore, cosa può spingere una persona a drogarsi? Non glielo ha detto mia  madre? Non le ha detto che sono stato più volte in terapia per disintossicarmi dalla cocaina? Mi odiavo! Ecco la risposta! Mi odiavo come adesso odio voi! Vi odio! vi odio! VI ODIO!!”
Urlo l’ultima parola così forte che mi fa male la gola. Non posso farci nulla. Le lacrime cominciano a scendere prima che possa fermarle e prima che loro possano fermare me ho già impugnato la maniglia e sono corso fuori. Non voglio scuse, non voglio giustificazioni. Ora è troppo tardi. Volevo solo un po’ d’amore e loro non sono mai stati in grado di darmelo.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Il bivio ***









Non so dove sto andando. Mi passo velocemente la manica sugli occhi per asciugarli dalle lacrime. Quante me ne hanno fatte versare quegli egoisti! Troppe! Non voglio più stare al loro gioco. Mai più. Voglio essere io a decidere della mia vita. Ho passato troppi anni chiedendomi se là fuori c’è qualcuno che possa amarmi. I miei genitori, i miei veri genitori, non sono stati in grado di farlo.
Avrei capito se Arthur si fosse fatto vivo prima! Lo avrei perdonato! Avrei almeno avuto la consapevolezza di avere un padre amorevole, da qualche parte! Invece no! Non so se mi voglia bene e francamente la cosa non potrebbe importarmi di meno, in questo momento.
Non so dove andare, cosa fare, cosa pensare. Ho tanta di quella rabbia, dentro! Devo sfogarla, in qualche modo. La scherma non va bene. No. Ho bisogno di far del male a qualcosa. Con passi rapidi mi avvio verso la palestra. Un bel sacco da pugilato, ecco cosa mi ci vuole!
 
Eccomi qui, mezzo nudo davanti a questo sacco che, per sua sfortuna, sta per sorbirsi tutta la mia rabbia, tutta la mia frustrazione. Un bel respiro e via!
Da ragazzo ho tirato di scherma ma non ho disdegnato nemmeno la boxe. Volevo essere più agile ma anche più forte, per poter incassare meglio i pugni di mio padre. Devo dire che mi è servita molto.
Il sacco dondola sotto i miei colpi. Ho tanto odio da buttare fuori! Così tanto che mi pare di scoppiare!
Mi dispiace per John. Lui non ne può nulla. Anche lui è una vittima di tutto questo. Almeno lui, però, ha avuto una vita normale! Non ha dovuto continuamente elemosinare un po’ di affetto da suo padre! Avrà pure i suoi incubi sull’Afghanistan, ma almeno quelli sono tutti derivati da una sua scelta! È stato lui a voler partire per quella missione!
Io no! Non sono io che ho deciso di nascere! Mi ci hanno messo di forza in questo mondo! Mi avete voluto? Accettate le vostre responsabilità! Se fossi stato cosciente, allora, di quello a cui andavo incontro, mi sarei sicuramente rifiutato. Ma come può un bambino capire le idiozie degli adulti, quando nemmeno loro sanno quello che fanno? Maledetti! Maledettissimi adulti! Maledetti uomini che pensano solo a soddisfare quel coso che hanno tra le gambe! Maledette donne che mendicano amore a destra e a sinistra senza preoccuparsi delle conseguenze! Maledetti tutti!
Sottolineo con un pugno ogni parola che mi passa per la mente. Ogni parola. Mi fanno male le mani. Mi fanno male le braccia. Mi fa male la testa. Mi fa male il cuore. Maledetto cuore! Perché sei lì? Perché non puoi semplicemente sparire?
Sono completamente sudato. Mi manca il fiato. Mi aggrappo al sacco come se potesse aiutarmi a rimanere in questa vita. Ansimo forte. La rabbia non è ancora smaltita del tutto ma il mi corpo chiede un time out.
 
“Pensavo che fossi solo cervello. Evidentemente mi sbagliavo”
La voce di una donna mi coglie alla sprovvista. Mi raddrizzo e mi giro. Chi è?
Nonostante il travestimento la riconosco subito. È lei. La Donna. Cosa vorrà da me, proprio ora?
“Cosa vuoi?” le chiedo bruscamente. Rabbia e odio scorrono come fiumi di lava. Io sono un vulcano che non ha ancora terminato di eruttare.
“Carino!” dice lei. Non coglie la provocazione.
“Cosa ci fai qui?” le domando di nuovo.
“Come saprai, grazie a te sono riuscita a tornare in pista. Non ti ho mai ringraziato a sufficienza per avermi salvato, quella volta”
“Non dovevi ringraziarmi. Piuttosto, non dovresti nasconderti?”
“Non più. Un certo signor Holmes mi ha aiutata a rifarmi una vita. Sono sotto stretta sorveglianza ma posso permettermi di girare per il mondo senza il pericolo di essere uccisa”
“Dovrai startene buona buona, allora. Niente più ricatti? Niente più estorsioni tramite prestazioni sessuali?”
Voglio offenderla. Voglio farle male. Come lei ha fatto con me.
“Non mi sfiorano nemmeno le tue paroline acide. So perché mi tratti così e riconosco di meritarlo”
“Davvero?”
“Si. Comunque sappi che so come ottenere le informazioni che voglio. Il sesso aiuta ma non è indispensabile. Ho saputo di tuo padre”
“Vuoi un aggiornamento?”
“Cosa vuoi dire?”
“Voglio dire che Siger Holmes non era mio padre. Mia madre lo aveva tradito. Mio padre in realtà è Arthur Watson. Si, il padre di John. Siamo fratelli”
“Chi l’avrebbe mai detto! Pensavo che foste amanti! Tutta quella intesa …”
“Allora non ne sapevo nulla. L’ho scoperto giusto oggi”
“Bene. Mi fa piacere per te. Quindi … se non siete amanti … io ho qualche possibilità!”
Sempre diretta, lei. Non ha mezzi termini. Non come Molly. È per questo che mi piace. Va subito al punto. So di cosa parla. Lo so perché quello che prova per me lo provo io per lei. Avrei dovuto lasciarmi andare, quella volta. Dovrei lasciarmi andare anche ora. Purtroppo non posso. È così tanto l’odio che sento scorrermi dentro che mi sembra di impazzire. Lei, come sempre, sembra leggermi nel pensiero.
“Lo sai che la rabbia è energia? Puoi trasformarla, se vuoi. In qualcosa di più bello ed appagante!”
Mi guarda. Uno sguardo che vale più di mille parole. Detto questo si allontana con la sua solita eleganza.
 
Basta. Per oggi basta. Dopo che se ne è andata la Donna, ho continuato ancora un po’ a sfogarmi con il sacco. Ho bisogno di una bella doccia e di tornare a casa. Subito.
Mi lavo e, quando apro la borsa per prendere i vestiti puliti lo vedo. È un biglietto da visita di un albergo. Il Grand Hotel*. Lo giro e dietro, scritto a penna in una grafia bellissima e molto femminile, c’è segnato il numero di stanza. Mi mordo il labbro. Cosa devo fare?
Mi rivesto lentamente. Devo riordinare i pensieri.
Per adesso non ho spazio per i miei genitori. Scusami, John, ma non ho spazio nemmeno per te. Sono solo io. Per una volta voglio essere più che egoista. Voglio vivere. Voglio godere. Voglio sentirmi bene, appagato. Che senso ha la mia esistenza? Quello che pensavo fosse mio padre mi odiava perché non lo era. Quello vero, quello che mi ha concepito con mia madre se ne è altamente fregato di me. E allora? La mia vita deve dipendere da quei cretini? No! Certo che no! Deve dipendere da me e dalle mie scelte.
 
Sono ad un bivio, nel senso stretto della parola.
Sono uscito dalla palestra lavato e con i vestiti puliti. Mi fanno male tutti i muscoli per lo sforzo eccessivo. Mi fa male la testa. John. Penso a John. Sarà preoccupato?
Se vado a destra andrò verso Baker Street, verso John.
Se vado a sinistra andrò verso il Grand Hotel, verso la Donna.
Che destino! La sinistra, la parte del diavolo, mi tenta. È lei il diavolo, la Donna. Vorrei andare da lei ma qualcosa mi blocca. Non riesco a muovere un passo. Sono qui, in piedi come un cretino in mezzo a questo incrocio e non so decidere da che parte andare.
Mi sento un gran ipocrita. Sarà giusto agire così? Non me ne frega niente. Ho bisogno di contatto fisico. Lo voglio. Ne sento urgente necessità. Vada come vada. Allungo il piede e faccio il primo passo … a sinistra.
Mando un SMS a John. Non voglio che si stia in ansia.
Dormirò fuori stanotte. Non preoccuparti per me. Starò bene. Niente cocaina, tranquillo. Ci vediamo domani. SH
 
 
 
 
*Nel film “Sherlock Holmes” con Robert Downey Jr Irene Adler gli dice che alloggia al Grand Hotel dove le hanno riservato ‘la loro vecchia stanza’. Può starci.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** La lettera ***




Questo capitolo e il successivo sono dedicati a Meramadia94. Grazie ancora per la bella idea che mi hai dato!!
 






Busso discretamente alla porta indicata dal biglietto. Si muove silenziosamente al mio tocco. È aperta … mi stava aspettando, dunque!
Entro. C’è un buon profumo di fiori nell’aria. Mi piace, mi rilassa.
“Sapevo che saresti venuto da me”
È lei. È la Donna. Mi appare davanti all’improvviso. È bellissima. Indossa una semplice vestaglia viola che le fa risaltare il fisico asciutto ed estremamente sensuale. I capelli le cadono dolcemente sul decolleté e mi chiamano con le loro onde sinuose.
Non mi lascia il tempo di ambientarmi o di pensare. In pochi passi annulla la distanza tra di noi e mi bacia sulle labbra. Il mio corpo freme a questo contatto così diretto. Scosto il viso, fuori dalla portata della sua bocca.
“Non avere paura, verginello” mi dice lei accarezzandomi il petto “Non c’è nulla di sbagliato in questo”
“Lo so”
“Allora perché non ti lasci andare?”
Già. Perché? Perché no?
Lei mi prende le spalle e si alza sulle punte dei piedi per arrivare meglio alle mie labbra. Questa volta rispondo al bacio con passione. La rabbia, come ha detto lei, può essere trasformata, usata come energia pura per scopi ben più concreti e soddisfacenti.
Le cingo la vita e la attiro verso di me. Il bacio si fa più profondo. Sento l’eccitazione salire, salire, salire … Vorrei urlare dal piacere, ma so che è solo l’inizio.
Lei si stacca da me e comincia a togliermi la giacca. La lascio fare. Voglio lasciarmi andare totalmente. Abbandono il controllo nelle sue mani. Ho bisogno di fidarmi. Voglio fidarmi di lei.
La giacca scende pian piano dalle mie spalle e va a cadere ai miei piedi. Un brivido mi percorre la schiena. uno ad uno sfila i bottoni della camicia, mostrando il mio petto. Non avrei mai pensato di poter provare un simile piacere. Il piacere di lasciarsi andare alle cure di qualcun altro. Completamente immobile, lascio che lei mi spogli, non solo dei vestiti, ma della corazza che mi sono creato in questi anni. Voglio sentirmi debole, vulnerabile, ma vivo.
Sono nudo davanti a lei, per la prima volta. Sono totalmente scoperto, in tutti i sensi. Lascio che le mie emozioni più belle fluiscano verso di lei.
Mi ci vuole poco per spogliarla. Sotto la vestaglia non indossa nulla.
 
Ho rischiato di morire da quanto ho goduto, più di due volte ho implorato pietà ma lei non mi ha risparmiato. Mi ha guidato nella mia prima esperienza e devo ammettere che è stato stupefacente. Meraviglioso. Incredibile. Mi sono perso tra le sue braccia, nel suo corpo, nei suoi occhi perennemente incatenati ai miei. Così simili ai miei. Occhi di chi ha sofferto ma è riuscito ad andare avanti. Anch’io voglio farcela. Voglio provare a vivere una vita normale.
 
Mi sveglio fresco e riposato. Sento i muscoli indolenziti per l’eccessiva attività fisica di ieri. Ci ho dato dentro con quel sacco, ma neanche con Irene mi sono tirato indietro. Lei è distesa sopra di me, sembra che dorma. Faccio un respiro profondo che mi alza il petto dove la sua testa è posata. Apre gli occhi e mi guarda.
“Buongiorno” dice sottovoce. Dio quanto è sexy! Mi viene voglia di baciarla. Lo faccio.
“Buongiorno” le dico. Vorrei rimanere qui per sempre.
“Per essere un ‘verginello’ te la sei cavata piuttosto bene”
“Ho avuto una maestra eccellente!”
La osservo bene. È da ieri sera che lo faccio. Da quando sono entrato in questa camera d’albergo. Voglio capire cosa mi piace di lei. Cosa in lei mi attira come se fossi un pezzo di ferro vicino ad una calamita. Ammirazione? Desiderio sessuale? Amore? Forse tutte e tre le cose. Mi piace da impazzire. Vorrei vivere la mia vita con lei ma ho paura. Paura di essere per lei solo uno dei tanti che ha sedotto, di cui ha soddisfatto le momentanee voglie per ottenere quello che voleva.
Io con lei non ho voglie momentanee. Non è solo sesso, per me. Vorrei essere unico, speciale. Me l’ha già dimostrato una volta … quel ‘SHER LOCKED’! Purtroppo, però, non riesco ancora a fidarmi delle donne. Non mi fido di mia madre … potrò fidarmi di lei?
 
“Dovrò ringraziare Mycroft” dico carezzandole la schiena con tutta la dolcezza che riesco a tirare fuori dalle mie mani “Se non fosse stato per lui adesso non saremmo insieme”
“Dimmi un po’, perché mai dovresti ringraziare l’uomo che mi voleva arrestare?”
Sono interdetto. Non capisco dove vuole arrivare.
“Me l’hai detto tu che un certo signor Holmes ti ha aiutata a risolvere i tuoi problemi con la legge, anche se sei sotto sorveglianza!”
“Ho detto ‘un certo signor Holmes’, non ho detto Mycroft”
“Cosa vuoi …”
“Mycroft voleva arrestarmi a tutti i costi. È così patriottico che penso avrebbe approvato la pena di morte nei miei confronti, se fosse stata ancora in vigore. Lui mi odia. Non sopporta che lo abbia trattato come un imbecille. Devo dire che su questo punto non vi assomigliate per niente. Tu ti sei innamorato di me proprio perché sono riuscita a tenerti testa, o sbaglio?”
Sorrido, mio malgrado. Ha ragione. Ha perfettamente ragione. Allora chi diavolo è questo ‘signor Holmes’?
Lei mi guarda e si sposta al mio fianco. Si sostiene con il gomito sul materasso e posa la testa sulla mano.
“Non più tardi di una settimana fa mi trovavo nel West End. Come puoi intuire mi stavo nascondendo ma cercavo allo stesso tempo di rifarmi una vita, di levarmi di dosso chi voleva uccidermi. Non sapevo bene a chi rivolgermi, quando qualcuno si è rivolto a me.
Era un uomo molto affascinante, non più giovane ma con una bellezza tutta sua. Mi ha chiesto di confermargli la mia identità. Io all’inizio ho negato, ho cercato di togliermelo di torno, ma quando mi ha detto il suo nome …”
“Il suo nome?”
“Siger Holmes, mi caro ‘non-più-verginello’”
Mi irrigidisco. L’aria è uscita completamente dai miei polmoni. Sono in apnea.
“Mio padre? Insomma …”
“Siger Holmes mi ha chiesto aiuto. Sapeva che potevo aiutarlo a rintracciare qualcuno che lo stava minacciando. Gli ho chiesto perché non si fosse rivolto a te e lui mi ha risposto che non avevate un buon rapporto”
“Altroché!”
“Era triste, sai? Ho visto un uomo tormentato dai sensi di colpa. Era veramente pentito. Ho intuito che avesse qualche colpa nei tuoi confronti, altrimenti non avreste avuto un rapporto difficile. Io ho cercato di aiutarlo come ho potuto, ma qualche giorno dopo ho saputo che l’avevano già ucciso. Mi dispiace”
“Non fa niente. Era un pezzo di merda”
“Non dire così”
“Perché non dovrei? Non posso definire ‘pezzo di merda’ un uomo che maltratta il figlio solo perché sa di non esserne il vero padre?”
“Vuoi dire che ti picchiava?”
“Si. Non è mai riuscito a darmi amore in vita sua. Te l’ho detto, mio padre è un amante di mia madre. Non lui”
“Però ti voleva bene”
“Ti ho appena detto che …”
“Era cambiato. Davvero. Sherlock, non sono una sprovveduta. Ho visto reale pentimento nei suoi occhi. È stato lui, con le sue conoscenze influenti, a tirarmi fuori dagli impicci”
“Ti ha aiutata solo per ottenere qualcosa in cambio, tutto qui”
“No. Ti sbagli. Prima non sono stata del tutto onesta. Lui era nel West End non solo per cercare protezione. Cercava me. Voleva aiutarmi”
“Che cambiamento!” dico sarcastico “Dal picchiare il proprio figlio a salvare una – scusami per il termine ma fino a poco tempo fa lo eri e non sono del tutto sicuro che non lo sia più – prostituta è davvero un passo avanti!”
“Lo ha fatto per TE!”
Trattengo di nuovo il fiato. Per me? Cosa vuol dire per me?
“Tu non te ne sei accorto, ma da quando sei diventato famoso grazie al blog del dottor Watson, non ti ha mai perso di vista. Si è pentito di come ti ha trattato quando eri piccolo. Ha capito che se non fosse stato per lui saresti diventato una persona migliore. Quando hai inscenato il tuo suicidio, poi! Ha temuto di averti perso per sempre! Ha capito che, nonostante tutto, teneva a te. Per questo ha cercato di redimersi come ha potuto. Non poteva pretendere che tu provassi affetto per lui. Penso quasi che avesse paura di affrontarti. Per questo mi ha salvata. Sapeva che tu tieni a me e voleva metterti in condizione di amare qualcuno”
Tutte queste rivelazioni mi sconvolgono. Le ferite si squarciano e nuovo sangue comincia a uscire a fiotti. Irene lo capisce ma non ha pietà. Continua con la sua missione. Si alza e con passi eleganti si avvicina alla cassaforte. La apre e ne estrae un a busta. Ritorna verso di me. La tiene tra le mani come se fosse un tesoro prezioso.
“Tra le altre cose …” mi dice porgendomela “Mi ha chiesto di farti avere questa”
La mia mano trema mentre la prendo tra le dita. La guardo. Sulla busta ci sono solo quattro parole scritte con la riconoscibilissima grafia di Siger.
 
Per mio figlio Sherlock

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Caro Sherlock ***









Caro Sherlock,
caro figlio mio.
So che non ho il diritto di chiamarti così. Non sai per quanti anni ho desiderato poterlo fare appieno, veramente. Ho sempre desiderato che tu fossi veramente mio figlio.
Tu non lo puoi sapere ma tua madre mi ha tradito e il tuo vero padre è un altro uomo. Non io! So che questo ti sconvolgerà. Potrai non credermi ma è la verità pura e semplice.
Io amo così tanto tua madre! Ammetto di essere stato un egoista nei suoi confronti. Eccessivamente geloso e pedante.
Per questo lei è scappata da me, per questo è andata a rifugiarsi tra le braccia di un altro uomo!
Non so dirti quanto ho sofferto quando ho scoperto la verità. Sapere che lei aveva concepito un figlio con qualcun altro, con qualcuno che non ero io … mi ha spezzato il cuore.
Non ho giustificazioni per come mi sono comportato con te. Non posso chiedere il tuo perdono. So già che non me lo concederesti. Sei così orgoglioso! Nonostante tutto, nonostante i tuoi geni non abbiano nulla in comune con i miei, mi somigli così tanto!
Tu non te ne rendi conto, ma crescendo hai reagito al dolore al mio stesso modo. Ti sei chiuso in te stesso sputando odio sugli altri. È colpa mia. Lo ammetto. Sono io che ti ho reso così. Se non fossi stato tanto testardo! Se ti avessi accettato per quello che eri … mio figlio. Eri mio figlio perché volevi esserlo. Non c’entra il DNA, non c’entra il rapporto che tua madre ha avuto con quell’uomo che neanche conosco.
Tu mi guardavi e vedevi tuo padre. Per te non contava altro. Io invece, da stupido che sono, ti ho sempre negato l’unica cosa che tu mi abbia chiesto nella tua vita: l’amore.
Se ripenso a quanto ti sei sforzato per attirare la mia attenzione!
Io cosa ho fatto, invece? Invece di carezze e abbracci ti ho ripagato con schiaffi e botte. Che uomo orribile sono stato! Che padre indegno!
Picchiare te era un modo per distogliermi dal mio personale dolore! Come ho potuto fare questo ad un bambino? A mio figlio! Mio figlio! Sherlock, tu sei il tesoro più prezioso della mia vita. Tu, Mycroft e tua madre.
Lo sai quanto può essere sottile il confine tra odio e amore? È invisibile. È talmente labile che spesso accade che si spezzi e non si sa più distinguere i propri sentimenti.
Ho odiato tua madre per quello che mi ha fatto. Lo ha fatto anche per colpa mia ma ciò non la giustifica totalmente. Mi ha tradito. Ha tradito la mia fiducia e quella di Mycroft. Ci ha dato le spalle senza curarsi dei nostri sentimenti. E si sente lei la vittima!
No, qui l’unica vittima sei tu. Tu, impotente davanti alla stupidità di noi che ci ritenevamo tanto adulti e responsabili. In realtà tu questo l’avrai già capito, no?
Sei così intelligente! In questo assomigli molto a tua madre!
Ti prego, ti prego. Non considerarti una vittima. Cerca di superare questo dolore. So bene cosa si prova vivendo con un continuo peso sullo stomaco, impossibile da togliere, che ti opprime, ti toglie il respiro.
Non fare come me.
Vivi! Gioisci! Dimentica noi poveri vecchi e lasciaci nella nostra miseria!
Non fare il mio stesso errore. Quante cose belle mi sono perso, facendo così! Non voglio che tu segua il mio destino.
Ho cominciato a leggere il blog del tuo amico, il dottor Watson. Devo ammettere che mi hai fatto preoccupare parecchio. Questo lavoro che ti sei scelto non mi ha mai reso felice. Mi ha sempre messo in ansia. Leggere le tue avventure tramite i racconti del tuo coinquilino non ha fatto altro che confermare le mie paure.
Tu rischi troppo la tua vita, amor mio. Troppo. Sembra quasi che non ti interessi. Sembra che non ti importi di morire. Né di vivere. È colpa mia. Lo so. È sempre, solo colpa mia. Come vorrei poter tornare indietro!
Non sai che dolore mi hai dato fingendo il tuo suicidio! Non hai idea di quanto ho pianto, di nascosto, davanti alla tua tomba. Tua madre non ne sapeva nulla, ma dietro la mia impassibilità e scontrosità si nasconde tanto dolore e risentimento verso me stesso.
Quando ho capito che non ti importava di vivere ho compreso quello che provo per te.
Quando ho saputo che eri morto … il mondo mi è crollato addosso. Mi sono sentito sprofondare. Tutte le botte che ti ho dato mi sono tornate indietro in uno solo colpo.
Lo sai? Ogni cosa che diamo agli altri ci ritorna indietro, come un boomerang. È inevitabile. Tutto l’odio che ti ho trasmesso mi è passato sopra come un caterpillar. Ha spezzato ogni singolo osso nel mio corpo.
Mi sono sentito annichilito, annientato. Sprofondato in un pozzo oscuro e senza fondo. Non lo vedo, il fondo. Sento solo che sto continuando a precipitare.
Sapere che sei vivo e che puoi leggere queste mie parole così vigliacche mi fa stare appena un po’ meglio.
Perché è evidente che sono un vigliacco. Dovrei dirtele di persona, queste cose! invece mi rifugio dietro una anonima carta da lettere. Non ho nemmeno il coraggio di consegnartela. Neanche di spedirla. La consegnerò a qualcuno di fiducia sperando che abbia il buon cuore di fartela avere.
Ultimamente sono preoccupato per la mia vita. C’è qualcuno che mi minaccia. Non so chi è né perché vuole uccidermi. Continua a mandarmi biglietti anonimi dove dice che mi vuole ammazzare.
Oggi ho ricevuto il suo ultimo messaggio. Vuole incontrarmi. Sopravvivrò? Mi ucciderà veramente?
L’aspettativa di non vedere l’alba di domani mi ha dato il coraggio, la forza, l’umiltà, di scrivere queste poche righe.
Per te, figlio mio.
Per tutto l’amore che non ti ho mai dato.
Figlio mio.
Spero che il mio amore ti raggiunga.
Spero che tu saprai accettarlo.
Spero che tu possa diventare una persona migliore di me.
 
Addio figlio mio.
Tuo padre

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Amore ***








Ho fatto un po’ di fatica a leggere la lettera di mio padre. Le parole, qua è là, sono interrotte da delle grosse macchie che sfumano l’inchiostro. Lacrime. Piangeva, mentre la scriveva.
Sono sempre nudo. Non ho avuto il tempo né la voglia di rivestirmi. Avevo troppa fretta di leggere queste righe. Sono nudo eppure sento caldo. Sento tanto caldo.
Chiudo gli occhi e mi abbandono sul materasso. Pace. Queste parole mi hanno dato un immenso senso di pace. Come mai nella mia vita. Respiro profondamente. Questo è tutto ciò di cui ho bisogno.
Ripenso a mio padre. A Siger, non ad Arthur. Lui non sarà mai mio padre. Non mi importa di cosa ci sia tra lui e mia madre. Siger sarà sempre mio padre.
Nonostante tutto, lo sarà per sempre. Ora ho ottenuto quello che volevo.
Il rancore e l’odio verso di lui sono scomparsi. Dissolti in una nube di fumo. È stato così facile! Così dannatamente facile che quasi mi arrabbio con me stesso per non esserci arrivato prima!
Anche Irene ha messo del suo, però. Non so se avrei reagito allo stesso modo se non ci fosse stata lei. Mi ha aiutato ad amare me stesso, prima di tutto. Ora si, ora che mi amo, posso finalmente aprire il cuore a mio padre.
Non so perché ma la desideravo, questa lettera. Lui non potrà più darmelo l’amore che voleva, ma lo sento scorrere nelle mie vene come una medicina, un elisir miracoloso che risana ferite, lenisce i dolori di tutta una vita.
 
“Vedo che stai bene” mi dice Irene, riportandomi alla realtà. Mi ero quasi dimenticato della sua presenza, a dirla tutta.
“Si. Sto bene. incredibilmente bene”
“Mi fa piacere. Ha scritto qualcosa di interessante, tuo padre? Anzi, scusa, Siger?”
“Dì pure ‘tuo padre’. Lo considererò per sempre tale. Non mi importa di come mi ha trattato. Non mi importa se non lo è veramente. Per me lo è. Questo basta”
“Mi sembra giusto” e mi porge la sigaretta che sta fumando.
“No, grazie”
“Sicuro? Non vuoi almeno un cerotto alla nicotina?”
“No. Non ne ho bisogno”
“Come vuoi” e ritorna a gustarsi il suo fumo.
Si è già vestita. È seduta a gambe incrociate sulla poltrona davanti al letto. Fuma con eleganza la sigaretta, apparentemente assorta nei suoi pensieri. Com’è bella …
Vorrei che mi guardasse, che rivolgesse a me i suoi occhi così meravigliosi … Lei se ne accorge e prolunga la tortura. Non vuole darmi soddisfazione.
Guardo l’ora. È tardi. È tremendamente tardi. Sono già le undici! Ma quanto ho dormito? Non sapevo che un – no, più orgasmi – potessero stancare tanto una persona!
Guardo il cellulare. L’avevo messo in modalità silenziosa per non essere disturbato. È stato letteralmente sommerso dalle chiamate. Anche i messaggi non sono pochi.
Due chiamate da parte di John.
Almeno una quindicina da parte di mia madre.
Altrettante, o forse di più, da parte di un numero sconosciuto. Arthur? Probabile.
Una da parte di Lestrade. Per un caso o per sentire come sto?
Non mi interessa.
Ora i messaggi.
 
John 10.35
Ho provato a chiamarti un paio di volte ma non hai risposto. Chiamami tu quando vorrai … fratellino!
Che bello! Che bel messaggio! John sa sempre cosa dire!
 
Mamma 08.02
Per favore, rispondi!
 
Mamma 08.24
Ho provato a chiamarti tante volte, perché non rispondi?
 
Mamma 09.14
Ti prego, fallo per me, rispondi
 
Mamma 10.45
So che sei arrabbiato, non possiamo parlarne insieme?
 
Se sapesse in che modo sono stato occupato mentre lei elemosinava la mia attenzione! Per prima cosa voglio andare da John. Sono sicuro che lo troverò nel suo ambulatorio. Mi vesto in fretta. Prima di uscire voglio chiarire una cosa.
“Ci vedremo ancora?” le chiedo cercando di essere il meno supplichevole possibile.
“Se lo vuoi” mi risponde lei tranquilla.
“Lo voglio. Voglio stare con te”
Lei mi guarda, allibita. L’ho davvero sorpresa con questa mia uscita.
“Davvero lo vuoi?”
“Si”
“Come mi hai chiamata, prima? Prostituta? Vuoi davvero stare con una come me?”
“Sai benissimo che era la verità”
È di nuovo interdetta. Sa che ho ragione. Sembra spaventata, però. Non se l’aspettava. Non da me. Mi avvicino. Lei spegne la sigaretta mentre le prendo la mano per farla alzare.
“Non aspettarti sdolcinate dichiarazioni d’amore, da parte mia” le dico. No, sarebbe troppo, per me.
“Non me le aspetterò”
“Potresti rinunciare a tutti gli altri uomini, tranne che a me?”
“Cos’è, ex verginello? Una proposta di matrimonio?” si diverte a prendermi in giro.
“Vorrei che la smettessi di chiamarmi così”
“Va bene. Come vuoi che ti chiami?”
“Sherlock”
“Va bene … Sherlock. Allora tu non chiamarmi più ‘La Donna’”
“Potrei chiamarti ‘La Mia Donna’”
“No. Chiamami Irene”
“Devo ritenermi lusingato?”
“Si. Non permetto a nessuno di chiamarmi per nome. Mi faccio chiamare Miss Adler o Dominatrice. Mai per nome. Lo lascerei fare solo alla persona che amo”
“Questo vuol dire che …” non riesco a terminare la frase. Sono così felice!
Lei non risponde. Si alza sulle punte e mi bacia dolcemente sulle labbra socchiuse dalla sorpresa.
“Ti amo”

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Perdono ***










“Ti Amo”
Sono bastate queste parole per sconvolgermi ancora di più. Nessuno me lo aveva mai detto, prima. Mia madre, forse, tanto tempo fa. Sento il cuore fare una doppia capriola all’indietro. Non rispondo. Non ce la faccio. Mi sporgo verso di lei e la bacio. Per adesso questa è la massima dichiarazione a cui posso arrivare. Devo procedere per gradi, non posso forzare la mia volontà, non posso andare troppo oltre i miei limiti o rischio di spezzarmi. Per adesso va bene così.
 
Dopo colazione ci vestiamo e lei se ne è andata per la sua strada. E io? Cosa posso fare ora, io?
Ho perdonato mio padre, Siger. Nonostante tutto quello che mi ha fatto, dopo aver letto quella lettera proprio non ce la faccio a sentirmi in collera con lui.
Vorrei andare da mia madre, ma non so come reagirei. L’ho travolta con tutto il mio odio, tutta la rabbia repressa per anni. Mi rendo conto di aver sbagliato, ma ne avevo bisogno. In fin dei conti se lo meritavano.
Mi avvio con passo leggero verso il cimitero. Passo cautamente sotto l’albero dove fino a pochi mesi fa giaceva la mia bara vuota. Mi fermo per un momento a contemplare quel luogo. Nonostante sia passato parecchio tempo riesco ancora a riconoscere dove è stata smossa la terra per far spazio alla mia finta morte. È stato difficile fingere di morire. Tutto il mio orgoglio se ne è andato quel giorno. Ho dovuto fingere di essere quello che non ero, ho dovuto buttare tutta la mia vita …  per amicizia. Lo rifarei mille volte se fosse necessario.
Ora sono fermo davanti a questo luogo per dire addio ad una parte di me. L’odio che provavo verso mio padre lo voglio seppellire qui, adesso.
Più avanti, non tanto distante da dove avevano pianto me, c’è la tomba sua tomba.
Non c’è la foto, solo il suo nome. Un nome che rimarrà per sempre nel mio cuore. Stringo i pugni. Perché me lo hanno portato via proprio adesso che avevo imparato ad amarlo? Proprio adesso che lui aveva imparato ad amare me?
Comincio a piangere e nemmeno me ne rendo conto. Mi accascio davanti a questa lapide così fredda, così distante. Eppure sento che mio padre, allontanato da me dalla morte, non mi è mai stato così vicino.
Assurdo, vero? Anche lui ha sofferto tanto. Per orgoglio non l’ha mai fatto capire a nessuno e alla fine è morto con il cuore gonfio di dolore. Non riesco a provare odio verso di lui. Solo amore. Amore e compassione.
Addio papà. Ti saluto adesso come meriti perché finalmente mi sento in grado di farlo. Ti perdono per tutto quello che mi hai fatto e per quello che non sei stato in grado di darmi. Che possa trovare pace, ovunque tu sia.
 
Sto per rialzarmi, quando sento una mano appoggiarsi sulla mia spalla. Mi volto. È mia madre.
Si inginocchia vicino a me senza guardarmi. Fissa il nome del marito su quella lastra di marmo e non dice nulla. Semplicemente mi porge la mano. La lascia lì, a mezz’aria. Aspetta che sia io ad afferrarla.
Esito. Non ne sono sicuro. Alla fine mi lascio andare e la stringo forte. Poi, prendendola per quella mano, la avvicino a me e la abbraccio. Siamo in posizioni precarie e questo movimento così brusco ci fa cadere definitivamente per terra. Non ce ne importa.
 
Restiamo lì abbracciati per un tempo infinito. Il sole che comincia a tramontare colora di rosso i nostri visi.
Quando cominciamo ad avere freddo, ci alziamo.
“Devo andare a casa mamma, a Baker Street” dico staccandomi da lei.
“Mi dispiace, Sherlock, davvero”
“Non hai nulla di cui rimproverarti” le dico. Se ho perdonato mio padre, posso perdonare anche lei.
“Anche Arthur vuole parlarti, vuole starti vicino …”
Questo, però, è troppo. Lui proprio non posso accettarlo.
“Devo andare” dico.
Non voglio farla soffrire. Non voglio dirle che non potrò mai accettare l’uomo che lei ama come mio padre. Non le lascio il tempo di ribattere. Le do un piccolo e lieve bacio sulla guancia e mi giro. Alzo il bavero del cappotto per proteggermi dal leggero venticello che si è alzato e mi allontano con le mani in tasca.
Lei non ha fatto nulla per fermarmi. Mi conosce. Sa che deve darmi i miei tempi. Per questo, non sono sicuro di quanto tempo mi ci vorrà. Posso accettare che lei si sposi con un altro. Non sono mica un bambino! La cosa che non potrò mai concedere ad Arthur è di essere mio padre. Siger non è riuscito a farlo standomi vicino, ma almeno lui c’era! Arthur per me non ha fatto neanche quello. Si è tolto l’impiccio.
Posso concedergli che è stata anche un po’ colpa di Siger. È stato lui a separare gli amanti, a fargli promettere di non rivedersi più. Questo, però, non lo giustifica. Tutti e tre sapevano la verità e hanno preferito tacere.
Avrei potuto capire finché ero bambino, ma adesso? Insomma, quei due si frequentano da più di due anni! Mia madre sapeva benissimo che vivo con John, il figlio del suo amante! Avrebbero potuto parlare! Avremmo capito! Invece no! Hanno dovuto aspettare la morte di mio padre per dirmi tutto! Chissà poi se l’avrebbero fatto se non li avessi scoperti io!
 
Cammino spedito verso casa, quando un SMS mi raggiunge.
 
John 20.02
Stasera ho un appuntamento. Penso che dormirò fuori. A domani. JW
 
Bene, perfetto! Una bella serata solitaria! Non è proprio quello di cui ho bisogno. Rallento il passo. Proprio non ho voglia di stare a casa da solo. So che ad aspettarmi ci sarà solo il violino. Una lunga nottata che passerò a suonare per tenermi compagnia.
Forse, però, mi farà bene. Devo riflettere a lungo. Capire quello che voglio. Capire se posso accettare la presenza di Arthur nella mia vita. Potrei semplicemente considerarlo come un soprammobile, di quelli che si impolverano sopra i centrini di pizzo. È un elemento estraneo, una nota stonata. Non lo posso accettare. Lo posso sopportare. Ma non lo posso considerare parte della mia vita.
 
Con John sarà diverso. L’amore che ho sempre provato per lui ha acquistato un significato nuovo, diverso, più completo. Non potevo immaginare di meglio.
Fin dal mostro primo incontro mi ha trasmesso una sensazione che mai in vita mia avevo provato. Una sensazione di protezione, di calma, di tranquillità.
Sono stati i suoi occhi. Gli occhi di quel bambino che, tanti anni fa mi ha calmato all’improvviso. Io non potevo ricordarmi di quell’episodio in modo razionale, ma è tornato alla mia mente in modo spontaneo, come se aspettasse di rivelarmi qualcosa.
Mi viene da sorridere pensando a John. Chissà dove sarà ora? Dove avrà portato la sua bella di turno? Spero sia quella giusta, stavolta. Lo spero tanto per lui. Se lo merita.
E io? Cosa mi merito io? Chi mi merito? Una donna di cui posso nutrire scarsa fiducia, che mi ha tradito più di una volta, che mi ha fatto soffrire, mi ha umiliato … allora perché la cerco? Perché la amo? La maledizione di mio padre si abbatterà anche su di me? Sarò costretto a vivere una vita nel perenne dubbio che la donna che amo mi menta?
 
Sono già arrivato? Non volevo fare così presto, eppure mentre pensavo non me ne sono reso conto. Entrando saluto la signora Hudson e mi avvio verso il mio appartamento. Il silenzio mi pesa, stasera.
Guardo il violino, chiuso nella sua custodia. Non ho voglia di suonare. Ho gli occhi stanchi e pesanti. Mi preparo velocemente un tè caldo. Il rumore dell’infuso che riempie la tazza rompe il silenzio che mi ronza attorno come una mosca fastidiosa.
Vado in camera e mi spoglio lentamente. Mi pesano anche i vestiti. Voglio liberarmi di qualsiasi intralcio. Il tessuto leggero del pigiama mi fa sentire meglio. Avvicino la poltrona alla porta finestra della mia stanza e mi siedo con le ginocchia raccolte sul petto. Guardo fuori. Da questa posizione riesco a vedere bene la strada. Spero che John torni presto.
 
Bevo il tè con piccoli e meditati sorsi. Me lo voglio gustare. Il suo odore, il suo calore, la sua consistenza sulla mia lingua, il suo sapore. Mi inebrio di questa perfezione. Mi lascio cullare da queste sensazioni.
Per tanto tempo ho potuto trovare conforto solo dalle cose o dal mio cervello. Mi manca qualcuno da abbracciare e da cui essere abbracciato.
Mi stringo nelle spalle. Nonostante il tè caldo, sento freddo. Sulla poltrona è appoggiata una coperta. È bella pesante ma ho freddo lo stesso. Non riesco a smettere di tremare. Conosco questa sensazione.
Cerco di respingerla. Non voglio cascarci di nuovo. Mentalmente sono sereno, almeno credo. Eppure il mio corpo comincia a reclamare qualcosa che gli viene negato dalla ragione. No, non posso ricominciare. Ho deciso che avrei smesso quando ho voluto sapere la verità su mio padre. Ora so tutto, mi sento in pace con me stesso e voglio continuare così. non è ammissibile che una stupidissima crisi d’astinenza mi blocchi! Non voglio fermarmi per così poco!
Voglio vivere pienamente la mia vita, dannazione!
Non so cosa fare. Guardo la mia cassaforte. È li che tengo quello che non voglio che John veda. Esito. Sarà il caso? E poi? Dovrò continuare così? Schiavo della droga? No, devo riuscire a superare questa crisi da solo. Nessuno può essermi d’aiuto. Neanche John. Non lo voglio far preoccupare.
Decido per qualcosa di più ‘leggero’. Mi avvio in cucina dove ci sono tutte le mie provette. Dovrei riuscire a sintetizzare un buon sonnifero. Almeno quello! Così smetterei di tremare. Ho bisogno di dormire.
Cerco di dosare con precisione gli elementi ma è difficile. Alla fine ottengo un risultato quasi soddisfacente.
Me lo inietto direttamente in vena e già sento l’effetto. Faccio giusto in tempo ad arrivare al letto che tutto si fa buio. Sprofondo in un sonno senza sogni.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Mio fratello ***










Mi sveglio all’improvviso, come se una scarica elettrica avesse attraversato il mio corpo. Mi metto a sedere. La luce del giorno entra dalla finestra. Devo aver dormito un’eternità. Guardo l’orologio. È quasi mezzogiorno. Quel sonnifero era troppo potente.
Vado in soggiorno ma John è già andato a lavoro. Trovo solo un biglietto.
 
Sono andato a lavorare.
Passa da me all’una, mi piacerebbe pranzare insieme
John
 
Mi vesto come meglio posso. Mi sento ancora debole e continuo ad avere freddo. Mi starà salendo anche un po’ di febbre? Decido di ignorare i tremiti ed esco di casa. Con il taxi arrivo davanti all’ambulatorio dove lavora John che ormai è quasi l’una.
La sala d’aspetto è piena di gente. Nasi gocciolanti, colpi di tosse e sguardi lucidi. Supero la fila con nonchalance, bombardato da voci di proteste. Non ci bado. Sarah è al suo posto, sta accogliendo i pazienti uno ad uno. Mi guarda e mi saluta con un cenno della testa. È troppo impegnata per parlare. O forse vuole solo ignorarmi. Non ha un bel ricordo, di me. La capisco. Un altro uomo arriva da una porta secondaria. Deve essere un dottore.
 Ciao Sarah” dice rivolto alla donna
“Ciao George”
“Il dottor Watson è già andato via?”
“No, sta finendo di visitare l’ultimo paziente”
“Bene. Chi è il prossimo?” dice rivolgendosi ai malati. Una donna si alza a fatica e lo segue.
In quel momento si apre la porta dello studio di John ed esce una donna, accompagnata da lui che continua a spiegarle come prendere le pillole.
“… e si ricordi di prenderle sempre a stomaco pieno, capito?”
“Grazie dottore”
“Ciao John” dico.
“Ciao fratellino” mi dice lui con un sorriso. Mi piace tantissimo quando mi chiama così!
Sarah ci guarda interdetta.
“Fratellino?”
“Abbiamo scoperto di essere fratelli. Divertente, vero?” dico con un sorriso larghissimo.
“Com’è possibile?”
“Te lo spiegherò un giorno” le dice John “Adesso non ho tempo. Andiamo Sherlock, ho bisogno di parlarti. E anche di mangiare! Ho una fame! Tu no, vero?”
“Invece si!” dico mentre usciamo dall’edificio “Tra ieri e oggi ho fatto un’intensa attività fisica! Ricordi il soprannome della ‘Donna’?” davanti a lui per adesso preferisco continuare a chiamarla così “Bene, ora non può più chiamarmi così”
Mi guarda allibito. È davvero sorpreso.
“Sherlock …”
“Tranquillo! Non diventerai zio!”
“Meno male! Cioè, volevo dire … Come stai?”
Siamo arrivati nell’atrio. Siamo soli. Il silenzio di quel posto così ampio ci circonda come una coperta. Non rispondo. Sono così tante le cose che vorrei dirgli! Ha capito. Ne parleremo con calma, magari davanti ad una bella bistecca al sangue.
“Andiamo da Angelo?” suggerisce “Vorrei presentami a lui come tuo fratello maggiore, così la smetterà di portarci inutili candeline romantiche!”
Annuisco e sorrido. Lui risponde al mio sorriso e si avvia verso l’uscita.
“John” lo chiamo. Lui si ferma con la mano sulla maniglia. Si gira e torna indietro di qualche passo.
Io sono più alto di lui però adesso voglio annullare questa differenza. Voglio che mi abbracci veramente come un fratello maggiore. Lo prendo per mano e gli faccio salire due gradini della scalinata che porta al piano superiore. Lui è spaesato. Non capisce. Lo abbraccio. La mia testa arriva ora al livello delle sue spalle. Voglio sentirmi protetto da lui. Voglio fargli capire quanto gli voglio bene.
All’inizio è un po’ incerto, sorpreso da quel mio gesto inaspettato, ma presto si riprende e risponde al mi abbraccio con trasporto. Mi carezza la schiena. Che bella sensazione!
“Sono così felice che tu sia mio fratello” dico strusciando il viso nel suo petto.
Lui ride. Non è facile vedermi così. Devo sembrare un gatto che fa le fusa. Mi piace. Con lui ci sta. Anni di parole non dette, di abbracci incompleti, di imbarazzi … tutto sta sfociando in questo unico, meraviglioso momento.
“Anch’io sono felice che tu sia mio fratello” mi dice, carezzandomi la testa.
“Sai, per un po’ ho pensato di essere gay” dico staccando la testa e guardandolo negli occhi.
“Cosa vuoi dire?” è allarmato.
“Ti ho sempre ritenuto speciale, sempre. Ti ho sempre voluto bene. Non sapevo spiegarmene il motivo, eppure è così. Forse sapevo inconsciamente che c’era qualcosa di profondo che ci lega, in fin dei conti siamo fratelli, più legati di così!”
“Mi dispiace di non averlo scoperto prima”
“Non fa nulla. È perfetto così. Non cambierei nulla. Solo una cosa, rimpiango di aver perso mio padre”
“Intendi …”
“Intendo Siger” dico. Lui si fa un pochino triste “Non prendertela. Arthur, per quanto sia il mio padre biologico, non potrà mai sostituire Siger. Mai”
“Ma ti picchiava!”
“Non importa” ripenso alla lettera che mi ha scritto prima di morire, accuratamente custodita nella tasca della mia giacca. È difficile da spiegare, ma sento che è così. Una voce inopportunamente irritante ci interrompe.
“Hey! Voi due! Niente atti osceni in pubblico!”
Ci stacchiamo quel che basta per capire chi ci sta parlando. È Janette, la vecchia fiamma di John. Ci guarda con odio. Anzi, mi guarda con odio.
“Insomma!” dico fingendomi altamente offeso. In realtà sono così felice! “Un po’ di privacy! Possibile che nessuno sappia farsi gli affari propri?”
“Vi siete messi insieme?”
“Janette, giusto? La noiosa insegnante! Cosa ci fai qui?” le chiedo tornando ad interpretare la parte del detective stronzetto.
“Te l’avevo detto, John” dice rivolta a mio fratello, ignorandomi completamente “Che Sherlock Holmes è un ragazzo veramente fortunato e che tu sei un fidanzato modello!”
Sembra gentile ma il tono della sua voce nasconde astio.
“Te lo dico fuori dai denti, John. Fatti una vita tua. Ti farà male stare vicino ad uno psicopatico come lui. Non te l’ho detto l’ultima volta ma quando ho letto cosa ha fatto questo pazzo ho capito che sarebbe stato meglio avvisarti”
“So badare a me stesso, grazie”
“Non mi pare. Quel tipo” si rivolge a me come se non ci fossi, grazie carina! “è uno spostato. Allontanati da lui, finché puoi”
Sospiro e faccio una faccia che deve sembrare molto buffa a John perché mi guarda e si mette a ridere.
“Uno spostato?” dice allontanandomi con le braccia per guardarmi meglio “Si, in effetti devo dire che hai ragione. Non ho mai conosciuto un tipo più strano di lui”
“Non è solo strano, è …”
“Non sai nulla di lui, quindi per favore evita di sputare il tuo rancoroso veleno su di noi, grazie. Inoltre, come ho avuto modo di far notare a parecchia gente, non sono gay!”
“Le apparenze suggeriscono ben altro …”
 “Tu non hai mai abbracciato tua sorella?”
“Be’, si!”
“Vi hanno mai chiesto se siete lesbiche?”
“Cosa … certo che no! Ma cosa centra?”
“È mio fratello, genio!”
“Tuo fratello?” gli chiede lei incredula “Avete cognomi diversi! Per di più non vi assomigliate per niente!”
“Non ho né tempo né voglia di spiegarti perché siamo fratelli. Ti basti sapere che lo siamo. Punto. Ora, se non ti dispiace, vorrei cercare di passare più tempo possibile con lui. Tra due ore devo tornare in clinica e vorrei mangiare qualcosa.”
Lei si allontana con un atteggiamento ostentatamente offeso che la rende ridicola.
“A proposito di ‘sorella’ e ‘lesbica’” dice sbattendosi la mano sulla fronte “Harry! Non hai ancora conosciuto Harry! Ti va se andiamo da lei per pranzo?”
Harry è la sorella di John quindi, di conseguenza, mia sorella. Me ne ha parlato, in passato, ma non l’ho mai conosciuta. So che è stata alcolizzata, in passato. Probabilmente era abbastanza grande da percepire la crisi matrimoniale dei suoi genitori e questo non deve averla aiutata a gestire il suo matrimonio con Clara. Già. Mia sorella era sposata con una donna. A parte questo non so quasi nulla di lei. Lo scoprirò presto.
 
L’appartamento dove Harry vive con la sua nuova compagna è piccolo ma dignitoso. La cosa che mi colpisce di più è l’ordine. John sostiene che questa parola, ‘ordine’, deve essere stata rimossa dal mio cervello con il sistema solare, ma si sbaglia di grosso. Il mio non è disordine. Ordine sparso, ecco cos’è il mio.
Nessun oggetto fuori posto, nessun orribile soprammobile, i piani sono ariosamente sgombri di oggetti inutili. Tutto è perfettamente simmetrico e pulito. La stanza è arredata con semplicità, con toni chiari che vanno dal bianco delle pareti al colore del legno delle sedie, anche questo chiaro. Tutto comunica pulizia e decoro. Mi fa rilassare. Non mi sarei mai aspettato una casa così bella, non da un’alcolizzata. No, ex alcolizzata. Quando mi avvicino non sento odore di alcool residuo. Le sue mani non tremano. Il suo sguardo è limpido e sicuro. Assomiglia tanto a John.
“Ciao Harry” le dice John salutandola con un bacio “Lui è Sherlock”
“Piacere” dico io allungandole la mano.
“Finalmente mi presenti il tuo fidanzato” dice lei osservandomi.
“Veramente non è il mio fidanzato. Mary è la mia fidanzata. Lui è …” si blocca. Come può dirle la verità? È mio fratello? È troppo difficile da spiegare.
“È …?” lo incoraggia lei, prendendo l’astuccio del tabacco. Pueblo. Buonissimo.
Con non curanza afferra una cartina e un filtro e si fa la sigaretta. Notando che la osservo mi porge il tabacco.
“Vuoi fartene una?” mi chiede “Io non fumo sigarette preconfezionate. Preferisco farmele da me”
Prendo l’astuccio che mi viene offerto sotto lo sguardo severo di John. Anche lei lo ha notato.
“Lascialo perdere” mi dice mentre con difficoltà mi rollo la sigaretta tra le dita. Caspita sono proprio fuori allenamento! “Sai com’è, è un dottore! Deformazione professionale! Non sopporta vedere la gente che si fa del male consapevolmente! Il tabacco, l’alcool …”
“La cocaina …” dico interrompendola. Arrossisco di colpo. Cosa mi è saltato in mente di dire?
“Cocaina?” mi chiede lei guardandomi con curiosità “Non l’avrei mai detto, tu John?”
Lui non risponde. Sa che è vero e sa perché l’ho fatto. Si limita a guardarmi.
“Purtroppo è così” confermo. Ormai mi sono fregato con le mie mani. Dovrò rispondere alle sue domande. Dovrò spiegarle tutto, ma penso che lei sia una delle poche persone che possa veramente capirmi. Abbiamo avuto ruoli speculari in questa storia. Lei, figlia di un padre infedele, costretta a vivere sulla sua pelle la sofferenza di un matrimonio che stava per disgregarsi. Io, frutto di questa infedeltà, inconsapevolmente oppresso dal peso di una colpa non mia. Ci troveremo, da qualche parte, per lenire le reciproche sofferenze?

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Harry ***









John mi guarda. Sa che sono a disagio. Sa che non parlo volentieri di me stesso. Sa anche, però, che dovrò farlo. Almeno con Harry. Se lo merita. Posso immaginare da dove derivi il suo alcolismo.
“Harry, c’è una cosa che devi sapere” comincia lui, titubante.
“Avanti, John, non avere paura” lo esorta lei “Qualsiasi cosa sia non penso che possa sconvolgermi”
“Ti ricordi che quando eravamo piccoli i nostri genitori hanno rischiato di separarsi?”
Lei non risponde. Stringe le labbra e annuisce. Deve aver provato molto dolore. Come avevo intuito, era abbastanza consapevole della situazione per soffrirne.
“Nostro padre aveva una relazione con un’altra donna”
“Lo sapevo” dice lei espirando una sottile nube di fumo.
“Sapevi che aveva avuto un figlio con questa donna?”
No. Non lo sapeva. L’espressione che assume è chiarissima. L’ha colta di sorpresa.
“Un figlio?” chiede sorpresa.
“Proprio così”
“Tu come fai a saperlo? Ah!” Ha posto la domanda ma si è già risposta da sola.
Mi guarda. Cerca di trovare i tratti di suo padre in me. Non ce ne sono. Assomiglio troppo a mia madre. È a bocca aperta, incapace di parlare. Guardando John, mi indica con due dita, impegnate a sorreggere la sigaretta.
“Quindi … lui …” cerca di dire, ma non trova altre parole.
“Si. È nostro fratello. Non dirò ‘fratellastro’, non mi è mai piaciuta questa parola. È nostro fratello. Punto”
“Va bene, va bene” dice lei tirando una consistente boccata dalla sigaretta. Non deve essere facile per lei avermi qui. È come riaprire vecchie ferite.
“Da quanto lo sapete?”
“Un paio di giorni” rispondo io “È troppo difficile da spiegare.
Lei è persa. Non sa cosa dire, non sa cosa fare. Spegne la sigaretta sul posacenere e si avvia in cucina.
“Ho un po’ di zuppa di zucca pronta. Possiamo mangiarla con dei crostini di pane, che ne dite?”
Io e John ci guardiamo e la seguiamo in cucina. La tavola è apparecchiata per uno, ma con velocità lei posiziona altri due piatti, due bicchieri e due cucchiai.
“Susan è al lavoro” dice lei, come per giustificarsi “Tornerà a casa per cena. Tanto meglio. Avremo più tempo per parlare”
Mi guarda. Sento il calore che si espande dai suoi occhi. Il calore di una sorella maggiore. Mannaggia, sono proprio il più giovane della famiglia! Assaggio la zuppa. È deliziosa. Mi scalda dentro, in tutti i sensi. Chiudo gli occhi, godendomi questa sensazione.
“Abbiamo un fratellino veramente grazioso” dice Harry guardandomi. Sento che sto arrossendo.
“Sembra grazioso” dice John con una risata “In realtà è meglio non fidarsi delle apparenze. Sa diventare piuttosto pericoloso. Hai letto il mio blog, no?”
“In effetti …” risponde lei con una risata “Comunque è pur sempre nostro fratello, non dimenticarlo”
 
Dopo pranzo, John ci ha lasciati soli. Doveva tornare in clinica. Aspettiamo in silenzio che la moka cominci a borbottare e intanto ci fissiamo. Io ho cominciato a tremare. Ho tanto freddo. Eppure la stanza è così calda … Non sappiamo come rompere il ghiaccio. Ci pensa lei, con una freddezza e una calma invidiabili.
“Cocaina, eh?” mi chiede a bruciapelo.
“Cocaina” confermo annuendo. Perché non riesco a smettere di tremare?
“Scusa se te lo dico apertamente, ma mi è sempre sembrata una scappatoia da persone deboli”
“Non ho mai detto il contrario” dico leggermente offeso “Anche l’alcool, d’altra parte …”
“Lascia perdere” dice lei agitando la mano “Non c’entra. Avrai pensato che sono diventata alcolizzata per le sofferenze che la quasi separazione dei miei hanno portato alla mia vita, vero? Be’, ti sbagli. Sono stati ben altri, i motivi. Pura dipendenza all’alcool. Semplice. Avevo iniziato a bere per darmi un tono, per cercare di far parte del gruppo. Ho finito col non poterne più fare a meno. Così ho perso tutto. Anche mia moglie. Ti avrà raccontato tutto John, immagino”
“L’ho dedotto quando ci siamo conosciuti. Dal tuo cellulare. L’unica cosa che non avevo capito era che ‘Harry’ sulla dedica stava per Harriet”
“Impressionante” dice lei prendendo nuovamente il tabacco “Che ne dici di una sigaretta?”
Lei si fa velocemente la sua e mi versa il caffè. Io sono troppo lento. Ho perso l’abitudine. Inoltre il freddo che sento mi fa tremare le mani e non riesco ad essere preciso.
“Dimmi di te, piuttosto. Non penso che qualcuno si dia alla cocaina per divertimento”
“No, decisamente no. È difficile da spiegare. Fino a poco tempo fa non lo sapevo neanche io. Il fatto è che mio padre mi picchiava, da piccolo. Ho sempre sofferto per questo e mi sono chiuso in me stesso. La cocaina è stata una conseguenza”
“Perché ti picchiava? Sapeva che non eri suo figlio?”
“Si”
Mi guarda con attenzione. Poi, inaspettatamente si alza e si avvicina. Mi afferra il braccio sinistro e sbottona il polsino. Non faccio in tempo a ribellarmi che lei ha già sollevato la manica fino al gomito. Piccoli puntini rosso scuro, le tracce delle ultime iniezioni, sono ben evidenti sulla mia pelle chiara. Lei mi guarda con un misto di disapprovazione e pietà. È terribile il suo sguardo.
“John lo sa?”
“Si” dico liberando il braccio e ricoprendolo di nuovo con la giacca “Ho ricominciato da poco, da quando ho ricominciato a fare certi incubi, da quando è morto mio padre … Siger”
“Hai intenzione di smettere?”
“Ho già smesso”
“Questa cos’è allora?” mi chiede riscoprendomi il braccio e indicando l’ultima cicatrice, più chiara delle altre.
“Sonnifero. Me lo sono iniettato ieri sera per riuscire a dormire. Ho smesso con la cocaina”
“Bene, meglio per te” sembra che non mi creda.
“Davvero! Da quando ho dovuto indagare sul conto di mio padre e mia madre non ne ho più avuto bisogno, sul serio!”
“Devo crederti?”
Deve credermi? Si, deve. È vero che ho smesso. Da troppo poco tempo, però. Non è passata neanche una settimana dall’ultima dose e già il mio corpo ne richiede altra. Speravo di essermene liberato, dopo il funerale di mio padre, invece è ancora qui. La dipendenza. Purtroppo è così. Per quanto mentalmente non ne voglia più sapere, non posso ignorare le esigenze del corpo, assuefatto da quel dolce oblio.
Affondo il viso tra le mani. Ha ragione lei. Non ho smesso. Ho bisogno di cocaina, ora, subito. Il mio corpo la reclama. Non voglio dargli ascolto. Come ho imparato a non ascoltare i morsi della fame posso mettere a tacere la richiesta di cocaina, no? No. Non è così semplice. Il problema, poi, è che non so come procurarmela. Le ultime dosi le ho finite. Forse ce n’è una nella mia cassaforte. Non ne sono sicuro e in ogni caso non posso raggiungerla. Sento la febbre salire.
Harry mi guarda e sospira.
“Ti accompagno a casa” mi dice. No, non voglio. Voglio stare con lei.
“Ti prego, lasciami stare qui”
Lei non mi risponde, va in bagno e torna con un termometro che infila nel mio orecchio. Un bip segnala che ha stabilito la mia temperatura.
“38 e 9. Devi metterti a letto. Immediatamente”
Mi prende per le spalle e mi accompagna in camera sua. Mi aiuta a spogliarmi e mi fa distendere sotto un piumone caldo e vaporoso. Già mi sento un po’ meglio. Esce dalla stanza e prende il telefono.
“Ciao, sono Harry. Ti disturbo? … Puoi liberarti? Hai qualcuno che ti sostituisca? … Bene. Vieni subito qui. È urgente … Lo so, lo so, ma si tratta di Sherlock … Ha la febbre alta … Crisi di astinenza, immagino … Vieni qui, subito”
Chiude la telefonata e mi guarda, preoccupata. Chi avrà chiamato? Spero non John! Chiudo gli occhi e mi lascio andare al sonno.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Confessioni ***





Piccola domandina ai lettori: che attrice proponete per il ruolo di Harry?
Ah, dimenticavo! Grazie mille a tutti quelli che leggono la mia storia, soprattutto a quelli che la recensiscono. i vostri commenti mi incoraggiano ad andare avanti e mi danno sempre nuove bellissime idee da sviluppare! Grazie! :)

  
  





La camera da letto di Harry è piacevolmente buia. Il piumone è caldo e spesso ma non riesco a smettere di tremare. Ho anche paura che John mi veda così. Sono stanco di essere debole, sono stanco di dipendere dagli altri, sono stanco di tutto.
Deve essere entrato qualcuno, vedo la luce dell’abat jour accendersi. Diffonde un alone giallognolo, dal quale emergono alcune ombre. Non riesco a distinguerle. La febbre deve essere piuttosto alta. Vedo solo sagome scure. Stringo gli occhi, per cercare di mettere a fuoco le immagini e provo anche a sedermi, ma il mio corpo non risponde. Riesco a sollevarmi di qualche centimetro ma poi ricado pesantemente sul materasso.
“No, Sherlock, no” dice una voce familiare. È John. “Devi stare giù. Hai la febbre alta”
Da come parla non sembra sorpreso. Forse se l’aspettava una ricaduta così da parte mia. Aveva già visto i segni delle recenti iniezioni. Non è sorpreso ma comunque sento la preoccupazione nella sua voce.
Si prende cura di me come un medico più che come un fratello. Sa che deve staccare le due cose. Non può pensare a me in termini familiari. Ora sono solo un paziente che ha bisogno delle sue cure e della sua professionalità. Lo ammiro per questo ma una punta di malinconia mi pervade.
Grazie alle sue cure ora sto un po’ meglio. La febbre è un po’ scesa e ora vedo con chiarezza. Riesco ad alzarmi a sedere, anche se sono ancora debole.
“Come ti senti?” mi chiede John, carezzandomi la fronte.
“Meglio, grazie. Scusa”
“Di cosa ti scusi?”
“Di essere così debole”
Abbasso lo sguardo. Non ho il coraggio di guardarlo in faccia. Lui mi afferra delicatamente il mento e lo solleva. Mi guarda fisso negli occhi.
“Non dirlo neanche per scherzo. Non sei debole. Nient’affatto. Non pensarlo mai”
Non riesco a non sorridere. Ora andrà tutto bene. Non sono più solo. C’è John, con me, e c’è Harry. Devo solo riuscire a superare questa crisi e tutto andrà benissimo. Ne sono certo. Chiudo gli occhi, finalmente rilassato.
 
Devo aver dormito un bel po’. È sera, ormai. La stanza è sempre buia. Sono totalmente immerso in questa oscurità. Sento delle voci, di là. C’è John, poi Harry. Una terza voce femminile che non conosco. Sarà Susan?
“Ciao fratellino” dice Harry entrando con un vassoio su cui è appoggiato un piatto di riso in bianco“Hai fame?”
“Si, grazie” dico mettendomi a sedere.
Lei mi posa il vassoio sulle gambe e si siede accanto a me. Nel frattempo l’altra donna è entrata. Ha i capelli rossi e lisci e gli occhi marrone scuro.
“Ciao” mi dice porgendomi la mano “Sono Susan”
“Sherlock” dico io stringendole la mano.
Mangio di gusto. La febbre è calata e ho molta fame. In pochi minuti il piatto è vuoto. Susan sposta il vassoio e mi osserva con attenzione.
“Certo che è proprio carino!” dice rivolta alla compagna “Non per niente è tuo fratello! Se non fossi già impegnata con te e mi piacessero gli uomini potrei farci un pensierino!”
“Non ci provare neppure” le risponde Harry dandole una spinta sulla spalla.
Cominciano a bisticciare scherzosamente per farmi ridere e ci riescono perfettamente. Sto ancora ridendo quando l’ingresso di due persone mi blocca. Li guardo imbarazzato. Sono mia madre e Arthur.
“Ciao papà!” dice Harry ridendo e cominciando a spingere Susan fuori dalla porta “So già tutto, non ti preoccupare. Ora avete solo bisogno di stare insieme. Da soli” dice rivolto a Susan che lotta per restare nella stanza. Alla fine entrambe escono, chiudendosi la porta alle spalle. Sento una nube di pensante imbarazzo scendere su di noi. Non riesco a guardarli negli occhi.
È mia madre a fare il primo passo. Si avvicina con cautela e mi prende il mento per farmi alzare lo sguardo.
“Sherlock, va tutto bene, va tutto bene. Non devi preoccuparti”
“Non sono preoccupato” mento.
“Ascolta bene” dice lei sedendosi al mio fianco “Noi siamo i tuoi genitori. Ti vogliamo bene, ti amiamo. Non potremmo mai pensare male di te. Se sei ridotto così è soprattutto colpa nostra, perché non abbiamo saputo ascoltarti e aiutarti quando ne hai avuto bisogno. Se penso a tutto quello che ti ha fatto Siger … che cieca sono stata! Potrai perdonarmi?”
“L’ho già fatto, mamma. Quando eravamo al cimitero. Non ho nulla contro di te. Neanche contro mio padre”
Gli occhi di Arthur si illuminano. Si avvicina di qualche passo. Ha capito male.
“Non parlo di te” dico cercando di non sembrare troppo freddo “Parlo di Siger Holmes. Mi dispiace, ma sarà per sempre lui mio padre. Non puoi cambiare le cose a tuo piacimento”
Lui si acciglia.
“Mi pare che tu sia riuscito ad accettare John e Harry come fratello e sorella, no? Perché non puoi accettare me come padre? Io e tua madre ci amiamo. Vuoi forse che continui a soffrire solo perché tu devi fare il bambino?”
“Non ho mai detto questo” ribatto secco “Non ho mai detto di voler ostacolare il vostro rapporto. Se vi amate, ben venga. Non ho intenzione di mettere bocca. Fate quello che volete. Questo non cambia che non potrò mai considerarti mio padre. Con John e Harry la cosa è diversa”
“Quello stronzo di Siger è morto, ormai, morto e sepolto! Devi dimenticarlo!”
“Non osare parlare di lui in questo modo!” dico, ora mi sto davvero arrabbiando. Mi sfuggono dei colpi di tosse. Sono ancora troppo debole per infuriarmi così.
“Come dovrei definire un uomo che picchia il figlio solo per punirlo di una colpa non sua?”
“E come dovrei definire io un padre, un padre biologico, che abbandona il proprio figlio a un uomo così?” gli sputo in faccia “Te l’ho già detto. Ho 34 anni. Hai avuto tanto, troppo tempo per farti vivo e non l’hai mai fatto. Cosa dovrei pensare?”
“Sherlock, non farmi arrabbiare!”
“Bene, benissimo! Arrabbiati! Sfogati anche tu su di me! Sappi però che non ho intenzione di raccogliere la tua frustrazione!”
Mi madre ci guarda con apprensione. Soffre vedendoci così.
“Vi prego, calmatevi. Arthur, cerca di capire, non puoi imporre la tua presenza nella sua vita da un giorno all’altro. Ha ragione lui. Siamo noi che abbiamo sbagliato. Dagli un po’ di tempo …”
“Non è necessario” dico cercando di calmarmi “Potrà passare un anno, due anni, puoi aspettare quanto vuoi, Arthur, ma non cambierà nulla”
Lui mi guarda e comincia a ridere. Scuote la testa, senza smettere di sorridere. Incrocia le braccia sul petto e mi guarda con odio.
“Dovevo immaginarlo” dice serio “Sei solo un bambino. No, che dico, sei solo un drogato. A dirla tutta ho provato ad andare d’accordo con te solo per non dispiacere tua madre. In realtà non ci tengo proprio ad essere imparentato con uno come te! Ho letto il blog di mio figlio. Sei solo un sociopatico, un pazzo. Hai idea di quanto abbia sofferto a causa tua, eh? Ne hai la minima idea? Dannato stronzo! Sei solo un egoista! Anche il modo in cui hai parlato a tua madre l’altro giorno depone a tuo sfavore. E io dovrei essere padre di un essere come te? Per carità! Meglio così”
“Arthur, ti prego” prova a fermarlo mia madre, ma lui la zittisce con uno sguardo fulminante.
“Per piacere, Violet! Ti sei già dimenticata cosa ti ha detto? Ha detto che avresti dovuto abortire! Guardalo! È uno spettacolo penoso! Mi vergogno di essere suo padre!”
Mia madre guarda alternativamente me e lui. Si starà chiedendo come reagirò? Non reagisco. Le parole di Arthur mi hanno fatto male perché so che, in parte, ha ragione. So anche che la maggior parte delle parole che mi ha rivolto erano dettate dalla rabbia. La rabbia di un padre che, sentendosi rifiutato dal figlio, decide di odiarlo invece di amarlo. Non è tanto diverso da Siger, dopotutto.
Nonostante tutto non voglio dargli soddisfazione. Lui continua a fissarmi con odio, con rabbia. Mia madre nota il mio turbamento e decide di agire.
“Arthur, per piacere, vattene” gli dice alzandosi in piedi e guardandolo con una sicurezza che mai nella mia vita le avevo visto dimostrare.
“Violet non ti ci mettere anche tu!”
“Vattene!”
“Hai visto cosa hai combinato?” mi chiede furente. Cosa c’entro io, adesso?
“Ascolta tu!” dico puntellandomi sulle mani per cercare di rimanere seduto “Io non ho mai detto di disapprovare la vostra unione. Inoltre immagino che non abbiate bisogno della mia benedizione per stare bene insieme, giusto? Tu ami mia madre, no? Cosa c’entro io? Voglio dire, ho una vita mia, vivo per conto mio. Non hai bisogno di ingraziarti me per poter vivere con lei. Il fatto che tu sia mio padre biologico non cambia nulla. Per me potresti essere anche un completo estraneo. Se mia madre è felice con te questo mi basta. Se fosse stata felice con una donna mi sarebbe andato bene lo stesso. Io amo mia madre e voglio che sia serena. Con chi, sono fatti suoi”
È stato faticoso esporre velocemente il mio pensiero. Ricado sui cuscini e tento di calmarmi. Sento il sudore bagnarmi il viso e la schiena. La febbre sta salendo di nuovo.
“Ha ragione lui” dice mia madre guardandomi con amore “Ha ragione. Io voglio essere felice. Voglio accanto a me una persona che si meriti la mia compagnia”
“Molto bene, allora” dice Arthur sistema dosi la giacca che si era sbottonata nel suo attacco d’ira.
“Quella persona non sei tu. Vattene.” gli ripete mia madre indicando la porta.
“Ma … Violet!”
“Vattene, ti ho detto” la sua voce è fredda e dura come l’acciaio “Mi ha deluso, Arthur. Non avrei mai pensato che volessi servirti di mio figlio per arrivare a me. Mai. Lui potrà anche soprassedere, potrà anche accettare la nostra unione, ma io no. Non posso permettere che l’uomo che mi sta accanto pensi queste cose orribili di mio figlio, il mio tesoro più prezioso. Vattene ora, prima che mi arrabbi sul serio. Tu non ti meriti il mio amore. Preferisco stare da sola piuttosto che avere al mio fianco una persona come te. Sherlock non è egoista e se lo è diventato è stato solo a causa nostra. Siamo noi i colpevoli, non te ne dimenticare mai”
Lui boccheggia. Sta cercando le parole giuste per difendersi. Non le trova.
“Uscite entrambi dalla casa di mia figlia” sibila alla fine.
“Ma Arthur!” dice mia madre accendendosi d’ira “Non fare il bambino tu, ora! Non vedi come sta? Ha la febbre! Inoltre questa è casa di tua figlia, deve essere lei a decidere, no?”
“Mi fate il piacere di andarvene tutti e due?” chiedo debolmente “Ho bisogno di dormire”
“Va bene” consente Arthur “Ma appena starai meglio dovrai andartene”
“Questo lo decido io, se non ti dispiace” dice Harry entrando “Lui è pur sempre mio fratello. Non mi dispiace averlo qui e voglio prendermene cura finché posso. Non mi interessa che tipo di rapporto c’è tra di voi” aggiunge quando il padre tenta di ribattere “Io lo considero mio fratello e questo mi basta. Ora uscite. Deve dormire”
Si avvicina e mi misura la temperatura.
“Mannaggia” dice osservando il display “La febbre è salita ancora. Hai 38 e 2. Riposa. Ne hai bisogno”
Esce qualche istante per tornare con una pastiglia e un bicchiere d’acqua.
“Prendi questo. È tachipirina. Farà abbassare la febbre”
Ingoio la pillola e bevo l’acqua. Mentre mi distendo lei mi carezza la fronte. Devo andarmene di qui.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Odissea sotto la pioggia ***






Su consiglio di Meramadia94, Harry sarà interpretata da Cameron Diaz!
 



 
 
Ho aspettato una ventina di minuti da quando mia madre, Arthur e Harry mi hanno lasciato solo. Ormai è notte tarda. Mi alzo a fatica. La febbre è sempre alta e mi sento debole, ma non voglio più stare lì. Harry ne sarà dispiaciuta, ma sento il bisogno di andarmene.
Scendo da letto e mi avvicino alla sedia dove sono appoggiate le mie cose. Con cautela mi spoglio del pigiama e mi infilo i vestiti e il cappotto. Riesco a indossarlo ma traballo un po’. Apro le imposte e guardo fuori. Piove. Una pioggerella leggera. Sarà il caso di uscire nello stato in cui mi trovo? Si, decisamente si.
Stando attento a non fare rumore, apro la finestra e mi calo sulla scala antincendio. Il rumore della pioggia sul metallo nasconde un po’ quello dei miei passi ma cerco ugualmente di fare piano. Non vorrei che mi scoprissero. L’appartamento di Harry è al secondo piano così, dopo aver faticosamente raggiunto il marciapiede, mi appoggio al muro dell’edificio, sfinito. Riprendo fiato e mi allontano.
 
Non avrei mai accettato Arthur come padre, ma le sue parole mi hanno comunque ferito. Quanto è capace di odiare la gente! Me lo sono spesso chiesto, durante le mie avventurose indagini. Quanti assassini, quanti morti ho visto per questo motivo. Ho visto l’odio sui suoi occhi. Sinceramente non mi va di sperimentarlo sulla mia pelle.
Arranco aggrappandomi al muro. Non so bene dove sto andando. Si, riconosco perfettamente la zona di Londra in cui mi trovo, ma non ho una meta precisa. Ho solo bisogno di muovermi. Lontano da tutti. Mi ero illuso che fosse tutto risolto, invece adesso sono qui, in mezzo a questa pioggia sempre più forte, senza una meta precisa. Mi sento allo sbando.
 
Mi gira la testa, sono bagnato fradicio, ma continuo a camminare. La pioggia scivola lungo il mio cappotto, si insinua sotto la camicia ed evapora sulla mia pelle bollente per la febbre. Mi verrà una polmonite, poco ma sicuro. Non mi interessa.
Cerco di camminare in luoghi riparati, così almeno evito di bagnarmi ancora di più. Alla fine mi arrendo alla stanchezza e mi accascio sul marciapiede.
 
 
“Spostati da qui, barbone!”
La voce di un uomo mi risveglia all’improvviso. Devo essermi addormentato. Più probabilmente sono svenuto. L’uomo che mi sovrasta comincia a picchiarmi con una grande scopa.
“Spostati, ti ho detto! Devo pulire, io!”
Annuisco e cerco di alzarmi facendo leva sulle braccia. I muscoli si tendono ma alla fine cedono alla debolezza. Cado a terra con un tonfo.
“Barbone e pure ubriaco! Devo portarti alla polizia?”
“No” dico riuscendo alla fine ad alzarmi “Non sono un barbone, ho solo litigato con mia moglie. Mi ha sbattuto fuori casa” mento spudoratamente. Non ho proprio voglia di vedere Lestrade stamattina.
“Queste donne!” dice lui, fingendo di essere comprensivo e continua il suo lavoro.
Finalmente in piedi, mi rendo conto che è l’alba. La febbre è sempre altissima, lo sento. Ho bisogno di mangiare qualcosa. Sono piuttosto lontano da Baker Street. Bene. Qui nessuno mi conosce.
Entro in un bar. Devo avere veramente un aspetto orribile perché l’uomo dietro il bancone porge la tazzina di caffè al cliente e si avvicina a me, scuro in viso.
“Mi dispiace, signore, ma non posso farla entrare. Non accettiamo ubriaconi, qui”
“Non sono ubriaco” Quante volte dovrò dirlo, oggi? “Ho solo un po’ di febbre. Ho bisogno di mangiare qualcosa”
Mi crede? Mi guarda storto. No, non mi crede. Mi afferra per la giacca e mi spinge fuori.
“Fuori di qui, barbone!”
Fantastico! Perfetto! Ho bisogno di mangiare e mi credono un barbone!
 
Sono indeciso sul da farsi. Cosa è meglio fare? Tornare a Baker Street? Andare da mia madre? No, nessuna delle due. Cerco il cellulare in tasca. Prima di tutto devo avvertire Harry e John. Glielo devo. Basterà un SMS.
 
Non preoccuparti per me, so badare a me stesso. Non voglio creare problemi tra te e tuo padre. SH
 
Non voglio creare problemi tra te e ‘tuo’ padre. Non ‘nostro’. Non sarà mai ‘mio’ padre. Avevo sperato che, col tempo, avrei anche potuto considerare questa ipotesi, ma dopo la confessione di ieri sera lo escludo a priori. Invio lo stesso messaggio a John. Non voglio che si preoccupino. Io, invece, sono preoccupato per me stesso. Ho fame, sono stanchissimo e sento che la febbre sta salendo ancora. Cercando di controllare i tremiti cerco nella cortissima rubrica (tre numeri appena) del mio cellulare quello di Irene. La chiamo. Dopo lunghi e interminabili squilli, risponde.
“Ciao Irene” le dico con un sospiro di sollievo.
“Sherlock? Sei tu? Stai bene?”
“A dire il vero, no. Ho bisogno di aiuto”
Lei esita. Sento il suo respiro farsi pesante. Cosa le prende? Mi hai detto che mi ami, no? Perché non puoi aiutarmi adesso che ne ho bisogno? Attendo che la sua voce torni a farsi sentire e intanto gemo piano. Mi fa male la testa.
“Tra un’ora a casa mia”
È tutto quello che mi dice. Dopodiché riattacca il telefono senza darmi la possibilità di controbattere. Chiudo gli occhi e sospiro forte. Perché mi sembra che mi stia prendendo in giro?
Non ho altra scelta. Devo fidarmi.
 
Vedo un taxi passarmi accanto. Mi raccoglierà? Alzo la mano mentre il dolore ai muscoli si fa sempre più forte. Lui si ferma. Almeno lui! Capisco non accettare un uomo sporco di sangue con un arpione ma un ubriaco! Dico ubriaco perché è sicuramente così che devo apparirgli. Mi guarda come mi hanno guardato lo spazzino e il barista. Con disgusto.
“Posso salire?” chiedo titubante.
“Certo, certo!” mi risponde lui preoccupato “Dove la porto, all’ospedale?”
Ospedale? Per carità!
“No, no, la prego”
Gli dico l’indirizzo e mi abbandono sui sedili posteriori. Per almeno una decina di minuti potrò godermi il tepore dell’auto. Non so cosa mi aspetta a casa di Irene. Quello che so è che devo stare all’erta. Ho così tanto sonno … Non posso chiudere gli occhi ora. Devo rimanere sveglio. Spero che lei possa aiutarmi a riprendermi.
 
Vedo la città scorrermi davanti agli occhi sfocata e incoerente. A causa della pioggia, che nel frattempo si è intensificata, il taxi procede a rilento. Il traffico ormai è già intenso e questo rallenta ulteriormente la sua corsa. I fari delle altre macchine, accese per la scarsa luce che il cielo concede, mi danno fastidio. Rimbalzano sulle superfici bagnate e mi feriscono gli occhi. Improvvisamente anche l’auto dove sono seduto mi sembra soffocante. Faccio fatica a respirare, ho bisogno d’aria! Mi irrigidisco sul sedile. Devo scendere da qui! Subito! Prima che il taxista possa fermarmi spalanco la porta ed esco, approfittando di un semaforo rosso. Richiudo la portiera alle mie spalle e comincio a correre sotto una pioggia fortissima.
Mi allontano presto dalle vie principali. La pioggia e lo stordimento mi impediscono di vedere dove sono. Non ho idea di dove mi trovo e questo mi spaventa. Odio non poter avere il controllo della situazione. In questo momento, però, è il mio corpo ad avermi in pugno.
Ormai sono solo. Mi sono allontanato dal centro e mi trovo in una stradina laterale. Mi appoggio con la schiena ad un muro e finalmente riesco a mettere a fuoco le immagini e scopro con piacere di trovarmi non lontano dalla strada dove c’è la casa di Irene. Manca poco, un altro piccolo sforzo.
Faccio per rimettermi  dritto e continuare a camminare quando improvvisamente mi gira la testa. Vedo dei puntini bianchi e poi più nulla.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Guarigione ***










Mi sveglio in un letto comodo. Quanto tempo è passato? Sul comodino, accanto alla mia testa, ci sono una sveglia che ticchetta piano e una bacinella. Sono le undici. La stanza è piacevolmente assolata. La pioggia ha lasciato il posto ad un tiepido sole. Mi fa bene vedere i raggi caldi che entrano filtrati dalle tende candide. I colori della stanza vanno dal bianco al panna. Mi sembra di essere in una nuvola.
Mi guardo attorno. Sono a casa di Irene? Si. È stata lei a portarmi qui? Provo a mettermi a sedere. Mi sento leggero. Un fazzoletto mi cade dalla fronte. Doveva essere bagnato ma ora si è seccato. Sento che la fronte scotta ancora. Facendo leva sul gomito mi sporgo verso l’acqua e inumidisco la pezza che mi rimetto in fronte. Ahh. Molto meglio. Chiudo di nuovo gli occhi. Mi sento riposato. Anche le articolazioni non mi fanno più male. Vedo che dietro la bacinella c’è anche un termometro. Mi misuro la temperatura: 37 e 4. Meglio, molto meglio.
Qualcuno mi ha cambiato. Sono in pigiama e ci sono dei vestiti puliti sulla sedia.
  
Ho ancora fame. Mi guardo il braccio destro e mi rendo conto che è legato da una flebo. Qualcuno si è preso molta cura di me, davvero. Da Irene non me lo sarei mai aspettato. L’unica cosa che mi domando ora è perché abbia esitato così tanto al telefono.
Con delicatezza mi stacco il tubo e cerco di alzarmi. Sono ancora debole per la forzata immobilità ma riesco a mettermi in piedi. Vicino al letto qualcuno ha appoggiato una stampella, come quella che aveva John quando ancora zoppicava. Scopro di non averne bisogno.
Con passi lenti mi avvio verso la cucina. Non c’è nessuno in casa. Tutto questo silenzio mi opprime. Apro il frigo in cerca di qualcosa da mangiare. C’è un pentolino con un po’ di zuppa di verdura. Guardo il tavolo. È già apparecchiato per uno. In fianco al bicchiere c’è anche il mio cellulare. Lo guardo. Non ci sono né messaggi né chiamate. Irene deve aver avvisato John di dove mi trovo. Un particolare, però, mi spaventa. La data! Ho passato qui quattro giorni! Non me ne sono reso conto! Ho dormito così tanto o sono semplicemente caduto in coma? Probabile. L’importante è che adesso sia sveglio e cosciente e che la febbre stia passando. Chissà se sono venuti a trovarmi mentre ero incosciente?
Scaldo la zuppa sul fornello e abbrustolisco anche qualche pezzo di pane. Non ho mai avuto così tanta fame in vita mia. Divoro letteralmente la zuppa e noto un altro pentolino con dello spezzatino. Scaldo anche quello e me lo mangio di gusto.
Pulisco pentole e piatti. Non mi va di stare inattivo. Ho bisogno di movimento, di azione. Sono solo, non ho nulla da fare. Potrei andarmene, ma ho ancora la temperatura troppo alta. È meglio che stia a riposo e poi … voglio incontrare lei. Non voglio che ritorni e non mi trovi.
 
Esploro la casa. Così, tanto per passare il tempo. Non ho sonno e mi annoio. Se almeno avessi il mio violino! Come se l’universo avesse ascoltato il mio desiderio, noto che sul tavolo in salotto c’è un violino. Non è il mio ma può andare bene comunque.
Lo accordo e comincio a suonarlo. Ah, che piacere! Mi sento in vena di musica allegra, oggi. Suono e mi muovo a tempo con la musica.
Ora che sto meglio, anche fisicamente, mi sembra  che niente possa andare storto. Vorrei uscire ma è meglio che mi trattenga.
 
Suono per buone due ore. Non mi sento stanco. La musica sembra darmi nuova energia, tanto che il mio ballo acquista sempre più vigore. Sono al massimo della mia performance quando mi blocco di colpo. C’è un biglietto per me sopra un tavolino. Non l’avevo notato. Appoggio il violino e mi dirigo lì come un automa. Lo afferro e con malagrazia lo squarcio. È un semplice biglietto di cartoncino su cui spicca la grafia seducente di Irene.
 
Ho pensato molto a noi due, insieme. Non nego di provare qualcosa per te, ma temo che non possa funzionare. Ho bisogno della mia libertà. Non posso restare legata ad un uomo per sempre. Non cercarmi più. Se lo farai, anche solo una volta, cambierò numero di cellulare. Ti ho avvertito.
Irene Adler
 
Quelle parole mi giungono come frecce incandescenti. Un addio piuttosto brutale, non c’è che dire! Maledetta! Dovevo aspettarmelo! Mi ha sfruttato e poi se ne è andata? Meglio così. Meglio adesso, che non sono ancora totalmente attaccato a lei. Nonostante questo, però, mi ha fatto male. Accartoccio con rabbia il foglio e lo scaglio lontano. Addirittura cambiare numero di cellulare? Una misura alquanto drastica, considerando tutti i contatti che ha!
Si è addirittura firmata per esteso! Quanta formalità! Mi ha ingannato! Lo sapevo! Lo sapevo! Eppure mi sono fidato lo stesso! Mi ha fregato per l’ultima volta, però! Non ho intenzione di correrle dietro. Mi ha obbligato a non farlo, tra le altre cose. Fantastico! Perché quando le cose sembrano andare bene, poi finisce sempre di merda?
Eppure la amo così tanto! Perché mi ha respinto senza darmi nemmeno la possibilità di difendermi? Lei è la sola che avrei potuto amare e mi ha respinto. Forse perché siamo troppo simili. Così simili che avevo sperato di riuscire a costruire con lei un rapporto nel quale saremmo riusciti a comprenderci!
Riprendo il biglietto e lo stendo di nuovo. Esamino l’inchiostro. È molto fresco. Stamattina, poco prima di svegliarmi, mi è sembrato di sentire un’ombra su di me. Era lei, dunque! Lo strappo in pezzetti piccoli e lo getto nel camino, in attesa che prima o poi venga bruciato.
Respiro profondamente una, due, tre volte. Cerco di placare la rabbia, ma sento che sale sempre di più. Comincio ad andare avanti e indietro per la stanza ma nulla sembra calmarmi.
 
Un rumore inatteso mi blocca. Impossibile. Non c’è nessuno in casa tranne me. È il rumore di una chiave che gira in una serratura. Sarà lei? La vigliacca si è degnata di dirmi addio dignitosamente? Mi nascondo dietro un mobile e, cercando di fare meno rumore possibile, cerco un rifugio più sicuro. Non mi fido della Donna, dopo quello che mi ha fatto non si merita un briciolo della mia fiducia.
Avrà mandato qualcuno a farmi del male? A minacciarmi? Non si può mai sapere, con lei. Cerco un oggetto che possa essere usato come arma di difesa. Niente. Maledizione. Se riesco ad arrivare in cucina posso prendere un coltello …
L’intruso, intanto, è entrato. Dalla corporatura deve essere un uomo ma non riesco a capire altro perché è completamente coperto da un cappotto nero e un cappello che gli oscura il viso. Dalla mia posizione, in cima alle scale, riesco a vederlo. Si guarda attorno con circospezione. Gli suona il cellulare. Cerca nelle tasche e risponde alla chiamata con una voce familiare. Evidentemente deve avermi drogato la Donna. È impossibile che possa sentire questa voce. Provo a fare qualche veloce ragionamento a mente e mi riesce. Bene. Sono sempre lucido. Allora … chi è quell’uomo?
“Si, sono arrivato … non ancora … si sarà svegliato, ormai … non lo so … dici? … lo spero, lo spero … ah, grazie ancora!”
Chiude la telefonata con un colpo secco della mano e si infila di nuovo il cellulare in tasca. Vedo che si dirige verso le scale. Non ho via d’uscita. Non posso raggiungere la cucina senza che mi veda, per ora. Se riesco a nascondermi e a scendere quando lui sarà passato oltre, forse riesco addirittura a raggiungere la porta e a scappare. Cerco di mantenere i nervi saldi. Non devo fare rumore. Intanto lui, inesorabile, sale i gradini che ci dividono. Mi sembra di essere protagonista di una di quelle fiabe che si raccontano ai bambini per farli addormentare. Questa non è una fiaba, però. Qui c’è la mia pelle a rischio. Non posso commettere errori.
Ormai la rabbia nei confronti della Donna ha lasciato posto al freddo ragionamento. L’istinto di sopravvivenza ha avuto la meglio sui sentimenti. Sono quasi certo che voglia farmi del male, così come sono quasi certo che la Donna la persona con cui parlava al telefono. Cosa vorrà farmi? Posso capire le minacce, perfino quell’insulso bigliettino di addio, ma questo! Chi sarà? Uno dei suo tanti amanti che le ripaga un favore?
Arretro fino alla stanza da letto. Sono in trappola. Si sta dirigendo proprio qui. Dannazione! Dove posso nascondermi, ora? Vedo la sua ombra avvicinarsi. Quando arriva davanti alla soglia si ferma. Sta esitando. Perché? Vuole farmi prendere ancora più paura? Sta pensando a cosa farmi? Approfitto di questo suo tentennamento e mi guardo attorno, in cerca di un nascondiglio. Sono di spalle rispetto alla porta, quando lui entra. La sua voce mi arriva come un colpo di pistola al cuore. È davvero lui.
“Sherlock!”

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Papà! ***





Per il ruolo di Siger Holmes ho pensato a Jeremy Brett (anche se, purtroppo, è morto). Che ne dite?
 
 
 





Respiro. Per un momento me ne sono dimenticato, tanta è stata la sorpresa. Penso che deve essere questa la sensazione che ha provato John rivedendomi. Stupore, rabbia, felicità. Mi giro lentamente e lo guardo.
Si è sfilato il cappotto e il cappello. Ormai riesco a riconoscerlo perfettamente. Non ci sono dubbi.
Apro la bocca per parlare ma non esce nessun suono. Lui mi sta osservando con uno sguardo che mai in vita mia gli ho visto. Tenerezza. Amore. Affetto. Boccheggio per un po’ e finalmente le mie corde vocali si decidono a collaborare.
“Papà …”
Mi sorride.
“Ciao Sherlock”
“Ma come …” mi zittisco subito. Sono l’ultimo che può recriminare su falsi morti. Inoltre non mi importa. L’unica cosa che conta è che lui è qui, adesso.
“Hai letto la mia lettera, immagino” mi dice sottovoce.
“Si, l’ho letta. Perché hai finto la tua morte? Io avevo un buon motivo per farlo, ma tu …”
“Anch’io ne avevo uno. Quell’avvocato, quel Brown, voleva uccidermi. L’ho scoperto solo dopo. Non chiedermi come ho fatto perché non lo so. Deve aver architettato tutto quella Adler. Io ero convinto che sarei morto, sul serio”
“Dove sei stato fino ad ora?” continuo a porgergli domande con lo stesso atteggiamento distaccato che ho avuto con lui per anni, mentre in realtà vorrei solo abbracciarlo.
“Non lo so. Circa cinque giorni fa mi sono risvegliato in una stanza buia. Ero incatenato ad un letto. A quel punto è comparsa la Adler. Mi ha detto che stavi poco bene e che avevi bisogno di me. Non sapevo nemmeno che fosse stato celebrato il mio funerale. L’ultima cosa che ricordo è di essere svenuto in una vecchia fabbrica abbandonata. Non so altro. So che non potrai mai perdonarmi per come ti ho sempre trattato, ormai saprai anche la verità sul tuo vero padre, tua madre te ne avrà parlato …”
Non mi serve sapere altro. Non voglio che parli oltre. Con due passi elimino la distanza tra di noi e lo abbraccio. Comincio a piangere senza freni. Lacrime di gioia, finalmente! Tra i singhiozzi cerco di mettere insieme le parole.
“Non importa papà, ti ho già perdonato. Il più bel regalo che tu mi hai fatto è di essere qui, adesso. Non sai quanto sono stato male quando ho pensato che fossi morto!”
Lui ricambia il mio abbraccio, dapprima con imbarazzo poi, finalmente, riesce a lasciarsi andare totalmente e mi carezza la schiena.
“Sono qui, Sherlock, sono qui”
Sono le parole più belle che abbia mai sentito in vita mia. Non mi serve altro, davvero! Se la Donna ha organizzato tutto questo per me, se è riuscita a difendere mio padre da chi lo voleva uccidere, le perdono tutto. Tra l’altro adesso lei è l’ultimo dei miei pensieri. Ho in mente solo lui, Siger, mio padre.
“Non sei cambiato per niente, mio caro” mi dice staccandosi da me per guardarmi meglio “Forse sei un po’ troppo magro, ma lo sei sempre stato, no?”
“Potrei farmi prestare qualche kilo da Mycroft, che ne dici?” azzardo.
Lui ride di gusto.
“Hai proprio ragione! Non gli farebbe male mettersi un po’ a dieta”
“Ci ha provato tante volte, ma le dolci tentazioni sono più forti di lui!” dico ridendo e asciugandomi le lacrime “Lui sa qualcosa di te? Sa che sei vivo? Sa sempre tutto, lui!”
“Non penso” dice lui pensieroso “C’è una remota possibilità che lo sappia, ma non ci giurerei. La Adler ha fatto le cose per bene”
“Cosa pensi di fare, adesso? Tutti ti credono morto!”
“Penso che farò la stessa cosa che hai fatto tu, no?” mi dice con un sorriso afferrandomi la spalla “Sono sicuro che il tuo stimato fratello troverà il modo di aiutarmi a tornare in società”
“Poco ma sicuro!” dico “Però c’è una cosa che voglio fare personalmente e nessuno potrà togliermi questo piacere” dico con un sorrisetto diabolico.
“Cosa?”
“Vedrai, vedrai … ah! Vorrai incontrare mamma?”
“Mi piacerebbe, ma non so se lei …”
“Andiamo a farci un tè” dico avviandomi verso la porta “Ti racconterò tutto”
 
Davanti ad una tazza fumante di tè bianco gli racconto gli avvenimenti degli ultimi giorni. Di Arthur, di John, di Harry. Sorride quando mi vede così felice di avere due fratelli e si rabbuia quando parlo male di Arthur.
“Non dovresti parlare male di lui. È pur sempre tuo padre”
“No, non è vero. Non mi importa che lo sia dal punto di vista biologico. Mio padre sei tu. Capito? Sei tu! Per chi ho sempre dato il massimo? Per chi mi sono sforzato di essere il migliore? Per chi ho pianto tanto? Per te! solo per te! Sai, provo anche un po’ di rabbia nei tuoi confronti, ma è nulla in confronto alla gioia di poterti parlare, di poterti abbracciare. Non serve che dici nulla” lo rassicuro vedendo la sua espressione preoccupata e colma di sensi di colpa “Ho letto la lettera. Conteneva tutto quello che avevo bisogno di sentirmi dire da te. Quello di cui ho bisogno ora sei tu, il tuo calore, la tua voce. Non le tue parole”
 
Sorride di nuovo e si alza. Si avvicina a me e mi abbraccia. Ah! Che bella sensazione! È valsa la pena aspettare tutti questi anni per questo. Qualcuno potrà dirmi che sono pazzo, che sbaglio a perdonare questo demonio che mi ha sempre maltrattato. Non me ne importa niente. L’ho perdonato e voglio, oggi come allora, il suo amore. La differenza è che oggi me lo sa dare.
Non so cosa mi riserverà il futuro. Ho capito che non posso sperare in un continuo lieto fine. La vita, la mia vita, è disseminata di ostacoli. Sta a me superarli. Capita, spesso, di ingigantirli. Allora ciò che può essere scavalcato con un semplice passo avanti sembra un muro altissimo e invalicabile. La mia visione, per troppi anni, è stata distorta dal dolore e dalla dipendenza dalla cocaina. Ora vedo tutto più chiaro. Qualsiasi saranno i problemi, in futuro, saprò andare oltre.
 
Il problema più immediato è far ‘risorgere’ mio padre. Dovrò chiamare Mycroft. Non lo vedo dal giorno del funerale.
Afferro il cellulare e trovo immediatamente il suo numero in rubrica. D’altra parte, come spesso mi ripeto, ho solo tre numeri! Anzi, prima di chiamare Mycroft cancello quello della Donna. Bene. Ora i numeri sono due. Quelli dei miei fratelli. Dovrò memorizzare anche quello di Harry. Ho dimenticato di chiederglielo.
Non ci mette molto, a rispondere.
Sherlock! Che sorpresa! Come stai?” mi chiede. Sarà passato anche lui mentre ero in coma?
“Sto meglio, la febbre è scesa, anche se è sempre presente. Puoi venire qui?”
Certo, ci vediamo lì tra dieci minuti” e sta per riattaccare.
“Mycroft, non ti ho detto dove!”
Ah! Già!” sta perdendo colpi?
“Lascia perdere. Ho capito che sai già tutto. Vieni qui. Ti aspettiamo”
Come sarebbe a dire ‘ti’ aspettiamo? C’è anche John?”
“Vedrai …” bene, c’è qualcosa che neanche Mycroft sa!
“Non sa nulla” dico a mio padre una volta interrotta la comunicazione.
Ci guardiamo e, dopo qualche istante, non riusciamo più a trattenerci e scoppiamo a ridere.
 
Dopo neanche dieci minuti arriva Mycroft con la sua solita macchinona di lusso. Scende come fosse una star di Hollywood, tipico. Lo accolgo da solo, non voglio traumatizzarlo più del dovuto.
“Ciao, caro fratello” dico con voce sincera. Lui mi scruta. Questo mio atteggiamento così benevolo nei suoi confronti lo insospettisce.
“Ciao Sherlock. Vedo che stai meglio. La febbre?”
“C’è ancora, ma sta passando. Non guardarmi così. Sono davvero felice di vederti!”
“Ah …. Scusa per lo schiaffo dell’altro giorno” mi dice. È pentito? Che oggi sia il giorno dei miracoli?
“Ti ricordi quello che hai fatto per me quando sono stato messo alle strette da Moriarty?” gli chiedo a bruciapelo.
“Certo che me lo ricordo e no, non lo farò di nuovo”
“Pensavo che mi avresti aiutato anzi, lo avresti aiutato?”
“Di cosa stai parlando?” chiede lui. È disorientato. Una cosa rara da vedersi.
“Papà, puoi venire!” dico girandomi. Siger entra in cucina con cautela.
“Papà!” urla Mycroft al massimo della sorpresa “Cosa … come …”
“A quanto pare la Adler è riuscita a fregarti, eh?” gli dico prendendolo in giro “È riuscita a fregare tutti. È stata lei a orchestrare la finta morte di papà”
“Perché avrebbe dovuto farlo?” chiede Mycroft leggermente arrabbiato. Gli scoccia essere tenuto all’oscuro di qualcosa.
“Mycroft, non sei l’unico uomo influente in Inghilterra” gli dice io padre ridendo “Mi doveva un favore. L’ho aiutata a rifarsi una vita. Praticamente l’ho liberata da tutti i suoi nemici”
“Come hai fatto?” chiede Mycroft sempre più disorientato “Tu sei solo un professore di liceo in pensione!”
“Non immagini quanti miei ex allievi oggi occupino posizioni di prestigio in molte istituzioni non solo in Inghilterra ma anche all’estero! Sono stati tutti ben felici di aiutare il loro vecchio professore!”
“Bene” dice Mycroft riacquistando la sua solita flemma “Ora pensiamo a te. Immagino che tu non abbia i collegamenti giusti per rimediare alla tua morte, giusto?”
Senza aspettare risposta prende il cellulare e comincia a fare una serie di telefonate mentre io e mio padre continuiamo a parlare, godendoci questa nuova intimità.

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Cinque giorni d'attesa, cinque sensi: Tatto ***










Improvvisamente mi ricordo di John. Devo assolutamente telefonargli. Mi congedo da mio padre e da Mycroft, che nel frattempo hanno cominciato a discutere sul da farsi. Mio fratello ha preso il controllo della situazione e questo sembra averlo calmato. Cerco il numero di John e lo chiamo. Il cellulare squilla. Ormai dovrà essere uscito dall’ambulatorio.
Sherlock?” mi chiede con il suo solito tono preoccupato
“Si, sono io. Sto bene” rispondo, anticipando la seconda domanda.
Bene, bene. Sono venuto a trovarti, ieri. Mi ha telefonato la Adler. Eri messo parecchio male! Come ti è saltato in mente di scappare da casa di Harry? Idiota!” la sua voce ora è più sull’arrabbiato. Devo averlo fatto preoccupare.
“Non lo so. Devono essere state le conseguenze della crisi d’astinenza. Non sapevo bene quello che facevo. Cerca di capire”
Lo sento sospirare dall’altra parte del telefono. Sono sicuro che sta cercando di trattenere la rabbia.
“Non ti preoccupare. L’importante è che adesso stai bene. Torni a casa?”
Esito un poco prima di rispondere. Guardo Mycroft. Sento che parla di tempi precisi di attesa. Cinque giorni? Perfetto. Se mio padre dovrà attendere cinque giorni per rientrare in società, sarò ben lieto di aspettare con lui.
“No, ho ancora la febbre. Preferisco restare qui tranquillo. Se Lestrade mi cerca digli che mi sono preso una vacanza”
Ne hai proprio bisogno, fratellino. Quest’ultimo periodo è stato veramente duro, per te. vorrei poter fare di più …
“Tranquillo. Ho solo bisogno di stare da solo”
Ho mentito. Non ho bisogno di stare da solo. Ho bisogno di stare con mio padre. Sta continuando a parlare con Mycroft. Lui gli descrive cosa dovrà dire, come dovrà comportarsi. Ogni tanto mi guarda e mi sorride.
 
Quando finalmente Mycroft se ne va, mi rendo conto che ho un bisogno urgentissimo di lavarmi. Sono stato sotto la pioggia torrenziale e a letto per cinque giorni. In effetti puzzo un pochino.
“Vado a farmi un bagno” dico salendo le scale. Lui non dice niente. Si limita ad annuire.
Mentre aspetto che la vasca si riempia mi rendo conto che non ho niente da mettermi di pulito. Per precauzione vado in camera e noto che sulla sedia è appoggiato un cambio completo, con tanto di scarpe lucide. Come quella volta a Buckingham Palace.
Porto tutto in bagno. Caspita! La Donna si trattava proprio bene! La vasca è immensa e ci vuole un bel po’ prima che sia tutta piena. È da una vita che non mi faccio un bagno! A Baker Street abbiamo solo la doccia!
Aspetto un po’ e poi, finalmente, mi immergo nella schiuma soffice e bianca. Ah! Che piacere! I capelli, normalmente ondulati, si fanno lisci sotto l’acqua. Li sento muoversi come alghe attorno alla mia testa. Resto sott’acqua qualche istante con gli occhi chiusi e quando riemergo trovo mio padre, seduto in fianco alla vasca, che mi guarda. Un momento di imbarazzo, subito scacciato. Che male c’è? È mio padre, no?
Senza chiedermi nulla, si toglie la giacca e si rimbocca le maniche della camicia. Prende il barattolo di shampoo e ne versa un po’ sulla miei capelli. Lo lascio fare.
Sento il freddo dello shampoo sulla testa e, subito dopo, le mani calde di mio padre che la massaggiano. Chiudo gli occhi e mi rannicchio con le ginocchia attaccate al torace.
Ha mani grandi, forti, che lavorano con energia, fino a creare una densa schiuma bianca. Che sensazione piacevole! Continua a massaggiarmi per alcuni minuti, poi prende una caraffa e, dopo averla immersa nell’acqua della vasca, la svuota sopra la mia testa. La schiuma, che sembrava tanto densa, si disfa e mi cola sulle guance, sul collo, sulla schiena. Prende di nuovo lo shampoo e ripete l’operazione.
“Non l’avevi mai fatto” dico guardandolo.
“C’è sempre una prima volta” mi risponde lui sorridendo, senza smettere di toccarmi la testa.
Lo fa con devozione. Tutti questi anni sembrano sparire di fronte a questo tocco. È così caldo, così rassicurante! L’acqua comincia a scendere di nuovo sulla mia schiena. I miei capelli, ormai perfettamente puliti, sono attaccati alla mia nuca. I ricci che di solito li muovono si riposano in attesa di essere asciugati. Per adesso va bene così.
Prende il sapone e comincia a strofinarlo su una imponente spugna gialla.
Lo appoggia poi sulla conchiglia di ceramica e comincia a strofinarmi la schiena. La spugna è morbida, mi piace. Mi carezza la schiena lentamente, con ampi movimenti circolari. È quasi ipnotico. L’acqua calda, la schiuma che lambisce il mio corpo immerso, i movimenti delle mani di mio padre, tutto mi porta ad uno stato di rilassamento totale.
Immerge la mano nella vasca e mi prende il polso per far emergere il braccio sinistro. Sulla pelle candida, appena arrossata dall’acqua calda, i segni delle iniezioni sono ben evidenti. Lui li guarda con dolore, come se ogni piccola cicatrice fosse un pugnale che lo dilania.
“Non sapevo niente della cocaina, l’ho saputo dalla Adler” mi dice poi, cominciando a pulirmi il braccio, quasi sperando di veder sparire, con lo sporco, anche quei puntini rossi.
“Mi dispiace”
“Non è a te che deve dispiacere. È stata solo colpa mia”
“Avrei dovuto essere più forte”
“Tutta la tua forza te l’ho rubata io. Hai buttato così tanta energia, per colpa mia! Nonostante tutto, grazie al blog di John, ho potuto constatare che ne hai ancora parecchia!”
“È stato difficile. Mi sono sentito così solo … Per fortuna ho conosciuto John. Senza di lui non so come avrei fatto”
“È anche a causa sua che hai finto il tuo suicidio, vero?”
“Si”
“Nonostante tutto, ci assomigliamo moltissimo”
Lo guardo con attenzione. Ripenso a come me lo ricordo. Ripenso a come sono io. In effetti ha ragione. Come posso biasimarlo se alla fine sono diventato come lui? Ripenso a tutte le persone che ho respinto, tenuto lontane. Non ho mai voluto legare con nessuno, mi tenevo sempre a distanza. Con il mio comportamento facevo in modo che tutti mi odiassero. Perché? Non lo sapevo nemmeno io, fino a poco tempo fa.
Quanto male mi sono fatto? Quanto male ho fatto agli altri? Riesco a comprendere appieno mio padre. Anche lui ha provato i miei stessi sentimenti.
“A cosa stai pensando?” mi chiede, risvegliandomi dai miei ricordi.
“Nulla di importante … solo … hai ragione. Anch’io mi sono comportato come te con gli altri. E questo, col tempo, mi ha completamente isolato. Ogni tanto penso che se fossi stato diverso non avrei dovuto buttarmi da quel palazzo”
“Non dire così” mi dice lui carezzandomi la spalla “Ogni esperienza contribuisce a formare quello che siamo ora. Non pensare al passato. Neanche il futuro è tanto importante. Pensa al presente. Per adesso ci siamo solo noi due”
“Vorrei che ci fosse anche mamma, con noi”
“Anch’io lo vorrei. Non sono sicuro, però, che lei mi voglia”
“Non lo so. Non so cosa pensi di te. Spero che possa perdonarti come ho fatto io e che tu possa perdonare lei. In questi due anni si vedeva con Arthur …”
“Guarda che puoi chiamarlo papà, se vuoi. Non sono nessuno per impedirtelo”
“Appunto. Non voglio chiamarlo così. Non è vero che non sei nessuno. Sei mio padre”
Sorride, chiude gli occhi e una lacrima gli solca il viso. Si è commosso.
“Un padre molto orgoglioso, figlio mio”
Si alza e si asciuga le mani.
“Finisci pure di lavarti. Io vado a preparare qualcosa per cena”
Si sistema la camicia e indossa la giacca. Mentre esce continua ad osservarmi con gli occhi lucidi. Ricambio il sorriso e torno ad immergermi nella pace in cui quest’uomo è riuscito a circondarmi.

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Cinque giorni d'attesa, cinque sensi: Udito ***










Ho mangiato proprio bene ieri sera. Mio padre ha cucinato una bistecca e le patate al forno. Sicuramente non è un abile cuoco, ma l’amore che ci ha messo l’ho sentito tutto.
Abbiamo dormito nello stesso letto, passando la maggior parte del tempo a parlare. Mi ha fatto raccontare tutti i casi che ho risolto. Li ha già letti nel blog di John ma vuole sentirli dalla mia voce, dalla mia esperienza. John ha colorito molto le nostre avventure. Dal mio punto di vista sono completamente diverse. Ero molto più freddo di lui. Ora anch’io le vedo in modo diverso. Se ripenso a quello che ho fatto, a quello che ho detto, cerco di capirne il perché e cerco un modo di migliorarmi.
Prima che iniziasse tutto questo non avevo mai pensato di mettermi in discussione. Con che scopo, poi? Sono o non sono perfetto? Perfetto, si … Lasciamo perdere. Ero una macchina. Un freddo computer senza sentimenti. Qualcuno me li aveva strappati via con la forza e quel qualcuno oggi me li sta restituendo.
Mi sveglio e scopro che mio padre è già sparito. Scendo in cucina e lo trovo a sistemare gli ultimi dettagli della tavola della colazione. È tutto perfetto. Le tovagliette all’americana, i piattini con i toast e la marmellata, i biscotti, il tè proprio come piace a me (lo sento già dal profumo), perfino dell’uva.
“Buongiorno” dico senza riuscire a trattenere uno sbadiglio.
“Buongiorno” mi risponde lui avvicinandosi. Dalla tasca della vestaglia estrae un termometro “36 e mezzo” dice trionfante quando il suono acuto dell’apparecchio lo avverte del risultato “Sei guarito, finalmente. Vorrai tornare a casa, immagino” conclude un po’ tristemente.
“Adesso voglio solo mangiare questa superba colazione” dico sedendomi “Per quanto riguarda tornare a casa, no. Non ne ho voglia. Voglio passare con te i giorni che ti restano di ‘esilio’. Se ti fa piacere, certo! Ho proprio bisogno di una vacanza e questa casa è grande abbastanza e sufficientemente silenziosa per permettermi di rilassarmi. Ne ho tanto bisogno!”
Lui mi guarda con gratitudine.
“Grazie, mi farebbe tanto piacere. Inoltre immagino che abbiamo tante altre cose da dirci, giusto?”
“Giusto”
Mangiamo in silenzio. Un silenzio bianco e leggero come una piuma. Aleggia attorno a noi e ci carezza. Non servono parole. Bastano gli sguardi. Cerco continuamente quegli occhi che per tanti anni mi hanno ignorato e scopro la loro bellezza. Sono scuri, profondi, sinceri. Degni di un uomo che non ha mai mentito. Non ci è mai riuscito. Per questo, quando ero piccolo, non ha saputo trattenere la frustrazione di non essere mio padre. Ora quegli occhi gioiscono nel constatare che, nonostante tutto, lo è.
Puliamo quello che resta della colazione, stando attenti al più piccolo rumore. L’acqua che si infrange sulla porcellana, il rumore umido della spugna imbevuta di acqua e detersivo.
 
Più tardi siamo tranquillamente seduti in soggiorno. Mi annoio. Se fossi a casa mia comincerei a sforacchiare la parete, ma qui non c’è gusto. Tamburello le dita sul ginocchio, nervoso.
“Ti annoi?” mi chiede mio padre alzando lo sguardo dal libro che sta leggendo “Se vuoi puoi uscire, niente ti trattiene qui”
“Senti papà, vorrei chiederti una cosa”
“Dimmi” mi risponde lui appoggiando il libro accanto a sé. Mi da tutta la sua attenzione. È la prima volta che succede e mi sento un po’ in imbarazzo.
“Sai, qualche tempo fa ho conosciuto una donna anzi, La Donna”
“Intendi Irene Adler? Ho letto di lei sul blog. Interessante! È stata brava a fregarti!”
“Già, mi ha fregato in tutti i sensi …” rispondo amareggiato.
“Non mi dirai …” prova a chiedermi lui cercando di trattenere una risata.
“Sedotto e abbandonato, si!” dico fingendo una disperazione esagerata. Lui scoppia a ridere.
“Come sarebbe a dire?”
“Pensavo che avremmo potuto formare una coppia, io e lei, invece mi ha lasciato. Con un biglietto. Patetico”
“Dov’è questo biglietto?”
“L’ho distrutto dalla rabbia. Ci sono rimasto molto male e adesso ho un po’ di paura”
“Di cosa”
“Che resterò per sempre da solo”
Sospiro. Lui mi guarda con attenzione. Sta scegliendo con cura le parole da dirmi. Si sta muovendo su un terreno delicato.
“John sicuramente si sposerà con Mary. Lo sento che sono fatti l’uno per l’altra. Lo capisco da come ne parla. E io? Resterò da solo a Baker Street? Sai, dopo quello che mi è successo in questi giorno ho cominciato a voler desiderare anch’io una famiglia tutta mia … ma sono troppi gli errori che ho fatto in passato. Con il mio comportamento ho ferito troppe persone. Mi sono isolato da solo e ora ne pago le conseguenze”
“Averlo capito è già un passo avanti, no?” mi chiede lui speranzoso.
“Si, hai ragione”
“Potresti farti avanti con quella ragazza che lavora al Barth’s … come si chiama? Molly?”
“Si, Molly e no, non intendo farmi avanti con lei”
“Perché no? Da come ne parla John deve essere una ragazza tremendamente carina! E poi a quanto pare è follemente innamorata di te!”
“Il fatto è che io non lo sono di lei. Non voglio fare l’ipocrita e assecondare i suoi desideri per pietà. So già che non potrei mai soddisfarla. Quando ho conosciuto Jim Moriarty e lei mi ha detto che stavano insieme, prima ancora di sospettare che lui fosse gay sono stato felice per lei. Si merita qualcuno di dolce, qualcuno che possa veramente apprezzarla per quello che è. Io non sono quel qualcuno e non lo sarò mai”
“Non ti preoccupare” mi dice lui stringendomi il braccio per darmi forza “Vedrai che un giorno troverai qualcuno da amare, ne sono certo”
Lo guardo con gratitudine. Non ho più niente da dire. Ho la gola chiusa per l’emozione così, prima di commuovermi totalmente, mi alzo e vado a prendere il violino.
Comincio a suonare le arie che so piacciono tanto a lui. Lui le ascolta con gli occhi chiusi e muovendo la testa a tempo di musica.
Poi comincio con dei brani composti da me. Quelli che ho creato per John, quelli scritti nei momenti di noia e quelli, più struggenti, composti durante i miei periodi più tristi, quelli in cui ho avuto bisogno della cocaina per andare avanti.
Per ultimo, visto che mio padre sta per addormentarsi, suono il suo brano. Quello che ho composto tanti anni fa proprio per lui. Quello che suono sempre quando le emozioni che provo – tristezza, noia, rabbia, ma anche gioia – sono così forti da non poter essere contenute.
Do il meglio di me. Alla fine sono stanchissimo. Anche mio padre, cullato dal suono del mio violino, si è totalmente rilassato e si è addormentato sul divano.
Ripongo il violino nella custodia e mi siedo accanto a lui. Avvolgo entrambi in una soffice coperta di lana e appoggio la testa sulla sua spalla, cercando di dormire.
Il suono del suo respiro, così forte e regolare, mi trasporta in un sonno profondo e senza sogni.

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Cinque giorni d'attesa, cinque sensi: Gusto ***










Senza contare oggi, mancano solo due giorni. Due giorni e potremo finalmente rivelare al mondo la verità. Dobbiamo però portare pazienza. Se qualcuno venisse a sapere qualcosa prima, sarebbe un disastro.
La sua presenza qui mi riporta alla mente ricordi sopiti, ricordi dolorosi. Vorrei parlare con lui per cercare di esorcizzarli, di vederli da un altro punto di vista.
Non ho idea di come affrontarli, però. Non voglio che si senta in colpa. Lo guardo con la coda dell’occhio. Mycroft gli ha portato parecchi libri, consapevole che la noia di questi lunghi giorni lo avrebbe tediato. Ecco un’altra cosa in cui ci assomigliamo. Ci annoiamo molto facilmente. La nostra mente non concepisce il riposo. Deve essere sempre attiva.
“Sherlock, se devi dirmi qualcosa fallo, altrimenti smettila di fissarmi così” dice all’improvviso, leggermente rosso in volto.
“Scusa, io vorrei …”
Prende il segnalibro e lo depone con cura tra le pagine del libro che, una volta chiuso con un colpo secco, appoggia sul tavolino. Si toglie gli occhiali e comincia a pulirli con uno straccetto azzurro. Senza smettere di fissare le lenti comincia a parlarmi.
“Di qualunque cosa tu voglia parlarmi, non ti fare problemi. Io sono qui apposta. Cerchiamo di sfruttare questo tempo per chiarire situazioni ancora aperte, va bene?”
Ripone gli occhiali da lettura nella loro custodia. È un modo per dirmi che ho tutta la sua attenzione.
“Lo sai perché ultimamente ho ricominciato a fare uso di cocaina?” gli chiedo a bruciapelo. Lo colpisco.
“No, dimmelo tu”
“Da qualche mese a questa parte, ma soprattutto dopo la tua finta morte, ho cominciato ad avere degli incubi. Incubi riguardanti la mia infanzia. Quando ho creduto ti averti visto morto in quel magazzino, poi, mi sono tornati in mente una serie di episodi che avevo cercato di dimenticare. È stato doloroso”
“Immagino a quali ricordi ti riferisci”
Mi tocco la spalla. Non mi serve cercarla con il tatto, so perfettamente dove c’è la cicatrice che mi ha procurato quel vaso.
“Non capivo, non capisco perché mi odiassi così tanto. Cosa ne potevo io se mamma ti aveva tradito? Sai cosa sono arrivato a dirle? Che avrebbe dovuto abortire. In quel momento proprio non desideravo essere nato. Mi sembrava di essere solo un problema. Anche a Scotland Yard tutti mi considerano un problema, un fastidioso psicopatico da gestire. Non serve a niente dirgli che sono sociopatico, per loro sono solo un pazzo amante dei delitti. Sono perfino arrivati a credere che li avessi inventati di sana pianta per attirare l’attenzione”
“C’è una parte di verità in questo?” mi chiede lui “È vero che hai bisogno di attirare l’attenzione?”
“Si, è vero. Non ho saputo attirare la tua, così ci ho provato con tutti gli altri. Con scarsi risultati, però. Finché non è arrivato John. È stato la mia salvezza, davvero. Scoprire poi che è mio fratello è stato meraviglioso!”
“Non finirò mai di chiederti scusa per come mi sono comportato, ma immagino che non è questo che tu voglia, adesso. Tu vuoi spiegazioni, giusto?”
Annuisco deciso.
“Ero molto insicuro. Io e tua madre litigavamo spesso a causa della mia gelosia. Quando questo accadeva, lei mi minacciava di andarsene, di lasciarmi per sempre. Così io, stupidamente, sfogavo la mia rabbia e la mia frustrazione su di te. Tu piangevi, ti nascondevi, non chiedevi pietà. Sembrava quasi ti aspettassi quelle violenze. Sembrava che pensassi di meritartele”
“È così. Pensavo davvero di meritarmele. Anche i miei compagni di scuola mi picchiavano spesso”
“Come mai?” mi chiede lui allarmato.
“Perché erano stupidi! Io non riuscivo a non dire quello che pensavo, quello che ritenevo vero. Così loro finivano con l’arrabbiarsi. Anche oggi non ho cambiato modo di fare. Mi comporto come uno sbruffone ma in realtà sono tanto insicuro. So di non avere molti pregi. L’unico degno di nota è la mia intelligenza, così faccio di tutto per metterla ancora di più in evidenza”
“Hai tante altre qualità che puoi far vedere agli altri, Sherlock”
“Non sono sufficienti. Suono bene il violino, sono abbastanza bravo a scherma (anche se dovrei allenarmi di più, sono un po’ arrugginito) ma a parte questo …”
“Hai molto più di questo … solo che non lo sai. Hai passato tanto di quel tempo osservando gli altri che hai completamente dimenticato di guardare dentro di te”
“È difficile guardare se stessi”
“Lo so, ma ci devi provare”
“In questo ultimo periodo non ho avuto scelta, ma è stato tanto doloroso. Per questo ho dovuto ricominciare a prendere la cocaina. Era tutto troppo forte per me”
“Non ti preoccupare” mi dice lui alzandosi “Vedrai cha adesso andrà tutto bene. Affrontare i tuoi brutti ricordi – tutti i brutti ricordi, non solo quelli legati a me – ti aiuterà a superarli. Ci sarò io, ci sarà John, ci sarà tua madre. Non sarai solo”
Lo guardo con gratitudine. So che non sarà facile. Sono solo all’inizio di un lungo percorso di liberazione, una strada che mi permetterà di fare luce sull’unico mistero ancora irrisolto: me stesso.
“Che ne dici di farci un tè?” mi chiede lui all’improvviso. Si, in effetti un tè ci starebbe, ma ho voglia di qualcosa di più dolce…
“Invece del te” comincio a dire arrossendo un poco “Che ne dici di una cioccolata calda?”
Da bambino preparava sempre la cioccolata calda per me e per Mycroft. Quello è l’unico bel ricordo che ho di lui. Quando, durante le lunghe e fredde sere d’inverno, ci sedevamo intorno al camino e ce la gustavamo tutti insieme.
“Non so se ho tutti gli ingredienti …” mi dice lui pensieroso.
“Non ti preoccupare” gli rispondo alzandomi “Se manca qualcosa posso andare a prenderlo io”
Lo so, odio andare a fare la spesa, ma per la cioccolata calda di mio padre questo e altro! In effetti mi tocca proprio andare a comprare gli ingredienti mancanti. Non mi serve scriverli su un pezzo di carta. Me li ricorderò a memoria.
 
La spesa è stata lunga e l’attesa alle casse noiosa. Non mi fido di quelle automatiche, tanto odiate da John, così ho preferito aspettare. La cassiera mi riconosce. Che noia!
“Lei per caso è Sherlock Holmes?” mi chiede con un sorrisone.
“Si” rispondo io piatto. Non ho voglia di intavolare discussioni con anonime ammiratrici.
“Ascolti, posso farle una domanda?” mi chiede e, senza aspettare la mia risposta, procede “La mia vicina di casa esce tutte le sere con fare sospetto. Ho provato a seguirla ma mi ha scoperta … Sembrava che si sentisse in colpa per qualcosa, così …”
Sbuffo. Che seccatrice. Non ho tempo per le paranoie della prima venuta.
“Lei, piuttosto, lo sa perché il suo fidanzato continua a tradirla?” le chiedo mentre raccolgo la busta della spesa e me ne vado, lasciandola di stucco e visibilmente arrabbiata.
Non ce l’ho fatta. È stato più forte di me. Anche se adesso voglio un po’ cambiare, provare ad essere più ‘umano’, non ho resistito. Rido tra me e me. Forse non se lo meritava, ma alla fine le ho solo detto la verità. La verità è qualcosa che va affrontato, prima o poi. Perché è così difficile farlo? Io lo so bene. Ci sono appena passato! Evidentemente non è un problema solo mio. Tutti sembrano molto timorosi nell’affrontarla. Io gliela sbatto con violenza in faccia e questo non sempre è gradito.
 
Quando torno mio padre ha già predisposto tutto per cucinare. Poso gli ingredienti che ho comprato sul tavolo e mi siedo ad osservarlo. Lui prende il cioccolato fondente e comincia a grattugiarlo su una terrina. Ci aggiunge la fecola e lo zucchero a velo. Il profumo si sente a metri di distanza. Versa tutto su un pentolino e ci aggiunge a filo il latte. Dopo qualche minuto il profumo del cioccolato si spande per tutta la cucina e, penso, per tutta la casa. Quando comincia a bollire lo versa sulle tazze già preparate. Mi ha fatto comprare anche dei biscotti secchi, che ho disposto su un piattino.
Lui posa le cose sporche sul lavello e mi raggiunge a tavola.
“Mi è mancata tanto la tua cioccolata calda” dico dopo aver gustato il primo sorso.
 “Forse l’unica cosa buona che ho fatto come padre, immagino” mi risponde lui con un mezzo sorriso.
“Una cosa buona è sempre meglio di niente, no?” gli dico io continuando a bere “Comunque smettila di parlare del passato. Non esiste più. Piuttosto … c’è ancora cioccolata?”
Me ne verso un’altra tazza e me la gusto in silenzio. Chiudo gli occhi. Insieme ai brutti ricordi riaffiorano anche quelli belli. Sono pochi e molto deboli, ma ci sono. Le vacanze a Saint Malo, i regali di Natale, la sua cioccolata calda. Neanche mamma è mai stata capace di prepararne una così buona. Neanche la cuoca di zio Sherrinford. Era l’unica cosa che bevevo solo se l’aveva fatta lui. Infatti ho smesso di prenderla da quando sono andato via di casa. Ora posso ricominciare a gustarmela. Chissà, magari un giorno sarò anch’io così bravo a prepararla.

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Cinque giorni d'attesa, cinque sensi: Olfatto ***










Piccola richiesta innocente: Mi piacerebbe trovare qualcuno in grado di fare delle fan art su questa storia. Le farei io ma non sono in grado! Secondo me ci sono buoni spunti per farne alcune carine (Siger che lava i capelli a Sherlock, i due che si abbracciano, Sherlock e John da piccoli, i ricordi di Sherlock… se qualcuno le facesse mi piacerebbe inserirle nella storia.
 
 
 
Mi sono alzato di buonumore, oggi. Tutto sta andando meravigliosamente. Fuori c’è un bel sole caldo. Mi fa voglia di uscire, di andare a cercare qualche crimine insoluto. Per adesso l’unico crimine che posso risolvere è quello banale di Cluedo, ma non importa.
Passando davanti allo specchio vedo un velo di barba che spunta sul mio viso. Non mi è mai piaciuto avere la barba. Mi fa sentire disordinato. Forse perché neanche a mio padre è mai piaciuta. Lo osservavo sempre radersi ogni mattina e non vedevo l’ora di poterlo fare con lui. Anche John si rade tutti i giorni.
Oggi non ne ho tanta voglia, ma mi fermo davanti al lavandino e comincio a farlo. Sento dei rumori in cucina. Mio padre starà preparando la colazione. Sono così allegro che mi viene voglia di cantare!*
Mi sciacquo il viso con attenzione e ci passo sopra una mano, alla ricerca di eventuali peli superstiti. Neanche uno. Perfetto.
Di solito non uso il dopobarba. Mi limito a mettere un po’ di crema per le mani inodore. Non posso permettermi di avere un odore riconoscibile. Non si sa mai che debba pedinare qualcuno all’improvviso.
Oggi, chiaramente non ne ho. Anche se questa casa ha tutte le comodità, non posso dire di essere veramente a mio agio. Non ho tutte le mie cose a portata di mano – sono tutte irraggiungibili, a Baker Street – così dovrò arrangiarmi in qualche modo.
Apro le ante dell’armadietto – specchio e trovo la colonia di mio padre. È sempre la stessa. Non l’ha mai cambiata. Me la ricordo fin da quando ero bambino. Me la giro tra le mani, indeciso se mettermela o no.
La apro la annuso. Che buona! Mi è sempre piaciuta. Sa di muschio. Un odore forte ma non pesante. Ne faccio cadere due gocce sul dito e me lo passo sulle guance. Lo annuso di nuovo.
 
Scendo le scale, continuando a cantare ed entro in cucina.
“Buongiorno” mi dice lui posando la mia tazza piena di caffè sul tavolo “Hai dormito bene?”
“Si, benissimo” rispondo sedendomi.
Lui mi annusa. L’ha notato.
“Hai usato la mia colonia?” mi chiede sorpreso”
“Si, ti dispiace?”
“No, figurati” mi risponde lui ridendo “Solo … non è da te!”
“C’è sempre una prima volta. Volevo provarla, tutto qui. Non penso di dover pedinare nessuno per i prossimi giorni, quindi un po’ di profumo non può farmi male”
“Lo sai? È stato il primo regalo che mi ha fatto tua madre”
Lo guardo attentamente. È triste, adesso. Anche lui ha dei brutti ricordi che stanno tornando a galla.
“Ti manca?” gli chiedo sedendomi e cominciando a bere il caffè.
“Moltissimo. Non solo da questi pochi giorni che ho passato nel limbo dei morti. Da parecchi anni”
Penso di capire a cosa si riferisca, ma voglio che sia lui a dirmelo. Non rispondo. Lo guardo solo. Lui capisce e va avanti.
“Non avevo idea che si vedesse con quell’Arthur da quasi due anni” mi dice sconsolato “Sentivo solo che si stava allontanando sempre di più da me. Anche negli anni prima che nascessi tu avevo la stessa sensazione. Non capivo, però, che era esclusivamente per colpa mia. L’ho troppo soffocata con il mio amore malato. Non si è mai sentita libera. Certe volte mi sono chiesto – e me lo chiedo ancora – se non mi abbia sposato solo perché era rimasta incinta di Mycroft”
È disperato. Si porta le mani al viso per nascondere le prime lacrime. Mi mordo il labbro. Ora tocca e ma consolarlo. Il problema è che non so cosa dire. Non sono mai stato bravo in queste cose, però voglio provarci.
“Il fatto che sia stata insieme con te anche dopo tutti questi anni non ti fa pensare a niente?”
“Pigrizia” mi dice lui trattenendo un singhiozzo “Pura pigrizia. Non sai quanti matrimoni sembrano felici e in realtà sono tenuti insieme da persone troppo pigre per ammettere che ormai non si amano più. È difficile disgregare una consuetudine. È più facile mantenere un’apparenza. Io e tua madre siamo persone conosciute. Io sono un ex professore, lei un’artista parecchio quotata. Tutti ci hanno sempre visti insieme. Avremmo dovuto distruggere il nostro castello di fiaba mattone per mattone. Sarebbe stato troppo faticoso”
“Non penso che sia solo per questo” dico riflettendo “In fin dei conti Arthur si è avvicinato a lei solo quando ha scoperto che io e John ci eravamo conosciuti. Lei non lo aveva mai cercato prima. Quello che l’ha spinta a tradirti di nuovo è stata la tua gelosia. Capisci?”
Lui annuisce e scoppia a piangere. Non riesce più a parlare, ma le sue lacrime sono eloquenti. Si sente in colpa, fragile, insicuro. Non lo avevo mai visto sotto questo aspetto. Per me lui è sempre stato un macigno, un uomo forte e prepotente. Ora lo vedo sgretolarsi sotto le mie dita come ghiaia di fiume.
“Ti capisco” gli dico porgendogli il fazzoletto che ha lasciato cadere a terra “Anch’io mi sento molto insicuro. Per questo ho creato una specie di ‘corazza protettiva’, dura e piena di spine. Mi protegge dal dolore ma anche da tutto il resto. Tiene tutti a distanza. Sono pochi quelli che hanno avuto il coraggio di avvicinarsi a me senza la paura di farsi male. Sono le uniche persone per qui valga la pena provare a liberarsene. John è uno di loro. Anche mamma lo è. Lei è più forte di quello che credi”
Lui mi guarda, gli occhi lucidi di lacrime che mai, mai avrei pensato di vedere.
“Se è rimasta con te tutti questi anni un motivo c’è, secondo me” dico serio “Lei ti ama per quello che sei, con i tuoi pregi e con i tuoi difetti. Non la vedo come una persona capace di stare insieme ad un’altra solo per convenzione. È troppo libera, troppo innamorata della sua indipendenza e troppo orgogliosa per farlo. Se è rimasta con te è perché ti ama”
Pronuncio queste parole con voce decisa. Lo penso davvero. Non mi ero mai soffermato tanto a pensare al rapporto tra i miei genitori. In fin dei conti per me è sempre stato un rapporto litigioso. Per questo sono letteralmente scappato di casa con la maggiore età.
Lui si soffia il naso e sospira, un po’ rassicurato.
“Non potrò mai saperlo se non me lo dirà lei. Non fraintendere. Non è che non mi fidi delle tue capacità di deduzione, ma il cervello è una cosa. Il cuore ha bisogno di sentirle direttamente, certe cose”
“Ne avrà il modo” dico con un sorriso “Domani è l’ultimo giorno. Sai come Mycroft ha organizzato il tuo rientro?”
“Si, mi ha telefonato stamattina mentre dormivi. Farà una conferenza stampa. Non di persona, naturalmente. Uno dei suoi uomini, dirà a tutti che ero in viaggio in Europa e che c’è stato uno scambio di persona. Non voglio che Violet lo venga a sapere così, però”
“Dovremmo farglielo sapere prima, allora” dico facendogli l’occhiolino “Sai, ho sempre amato mettere un po’ di drammaticità nella vita. C’è una cosa che voglio fare e penso si possa incastrare nel piano che mi è venuto in mente. Ti fidi?”
“Io …”
“Ti fidi?”
“Si, mi fido. Non fare niente di avventato o pericoloso, però!”
“Non ti preoccupare. A portare qui mamma ci penso io. Tu pensa solo a rilassarti e a scacciare quella stramaledetta gelosia!”
“Come faccio? Lei sarà ancora innamorata di quel Watson!”
“Sei duro d’orecchi?” gli chiedo scuotendo la testa “O semplicemente non vuoi capire? Te l’ho già detto che hanno litigato – per colpa mia, tra l’altro – Lei lo ha lasciato!”
Lui annuisce. Riesco a vedere ancora tutta l’insicurezza nel suo viso. Gli prendo una mano e la stringo.
“Cerca di essere forte, va bene?”
Annuisce di nuovo. Le lacrime si sono asciugate. Ha bisogno di sentire l’amore di sua moglie, ma penso che anche un po’ di affetto da parte dei suoi vecchi amici lo possa aiutare.
“Che ne dici se organizziamo una festa per domani?” gli chiedo con un sorrisone che non può non coinvolgerlo.
“Una festa?” mi chiede spaesato “Perché una festa?”
“Per te! Perché sei vivo!” rispondo ridendo “L’ultima volta che ci siamo riuniti a causa tua è stato per il tuo funerale … ora ci riuniremo per la tua ‘rinascita’! Che ne dici? Chiamerò qui i miei fratelli – tutti, eh? –, gli zii, i tuoi ex alunni che sono venuti al funerale, i tuoi amici … tutti!”
“Pensi che qui ci sia abbastanza spazio?” mi chiede lui, cominciando a entrare nello spirito.
“Penso proprio di si! “dico andando a recuperare il cellulare “Vedrai, ci divertiremo!”
 
 
 
 
*Mi immagino una scena così. http://www.youtube.com/watch?v=phY0WbePZuE Ditemi se non è carino qui!!

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Cinque giorni d'attesa, cinque sensi: Vista ***










Oggi è l’ultimo giorno. Da domani mattina potrà formalmente tornare in società. Farsi vedere.
Prima, però, c’è qualcosa che devo fare. Qualcosa che voglio fare. Una cosa che mi darà un’immensa soddisfazione. Indosso la giacca e la sciarpa,preparandomi a uscire.
“Ci metterò poco, te l’assicuro. Al massimo tra un’ora sarò di nuovo qui … con lei” dico cercando di tranquillizzarlo.
È molto teso. Va avanti e indietro per la stanza come una belva in gabbia. Vorrebbe fare qualcosa ma sa che non può. Lo capisco. Tante volte anch’io ho provato questa sensazione. Mi dispiace lasciarlo solo, ma devo farlo.
 
Quando arrivo in casa di mia madre la trovo in giardino. Sta scolpendo. Deve essere stato un periodo difficile anche per lei, così ha deciso di sfogarsi sul marmo. Non mi sente arrivare, troppo concentrata sul suo lavoro. quando le arrivo alle spalle la chiamo forte per sovrastare il rumore dello scalpello.
“Mamma!”
Mi ha sentito. Si volta di scatto, sorpresa. Appena mi vede si rilassa.
“Ah, sei tu figliol prodigo!” mi dice seccata “Mi hai fatto prendere un colpo la settimana scorsa! Andartene così da casa di tua sorella! Vergognati!”
Arrossisco. Mi merito i suoi rimproveri, ma adesso non c’è tempo.
“Hai ragione mamma, scusa. Non so cosa mi è preso. Sto meglio ora”
“Lo so” risponde lei riponendo gli strumenti e asciugandosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto “Sono anche venuta a trovarti, quando Mycroft mi ha detto dov’eri. Non hai più febbre, vero? John mi ha detto che volevi stare un po’ solo così non ti ho voluto disturbare …”
“Grazie” dico con un sorriso “Ora c’è qualcosa che devi vedere”
“Adesso” mi chiede lei guardandosi in giro “Devo sistemare qui e farmi una doccia …”
“Lascia stare qui fuori. Fatti solo una doccia veloce e torna qui”
Annuisce ed entra in casa. Ho svegliato la sua curiosità.
 
Dopo una ventina di minuti scende in giardino perfettamente vestita e truccata. Non sa dove voglio portarla. Ha solo intuito che è importante. La prendo per mano e la scorto in strada, dove chiamo un taxi. Non sto nella pelle. Il viaggio fino al cimitero è frustrante. Prima di andare a casa sua ho preparato tutto. Sono teso. Ho paura di lasciarmi sfuggire qualcosa. Amo essere melodrammatico, quando posso. Ogni tanto mi giro e mi sfugge un sorriso. Ha riconosciuto la strada. Sa dove voglio portarla. Non può saperne il perché, però.
Scendiamo dal taxi. Lei è disorientata.
“Ho portato dei fiori freschi stamattina, Sherlock” mi dice tentando di tornare indietro “Per favore. È ancora troppo presto. Già faccio fatica così. Vorrei chiedere a qualcuno di farlo per me perché è troppo doloroso …”
Ho sentito bene?
“Cosa intendi dire? Tu non lo amavi più, giusto?”
“No, Sherlock. Lo amavo. Sono sempre stata una sciocca. Lo amavo ma non volevo ammetterlo. Ne con lui ne con me”
“Ma non ti vedevi con Arthur da quasi due anni?!” le chiedo arrabbiato.
“Si, ci vedevamo, è vero. Il tutto è nato dal blog di John. Ha capito che voi due vi eravate per caso incontrati e aveva pensato che questo potesse in qualche modo unirci. Quando Siger ha sentito che mi vedevo con un altro uomo è tornato ad essere geloso, così io ho rifatto lo stesso errore di tanti anni fa. Scusa” si affretta a dire arrossendo “L’errore di tradire Siger. Tu non sei un errore. Sei mio figlio, la cosa più bella che mi sia capitata”
“Non devi giustificarti” le dico appoggiandole una mano sulla spalla. Allora avevo proprio ragione!
“No, voglio farti capire che per me sei importantissimo. Non mi importa chi è tuo padre. L’unica cosa che mi interessa è che io sono tua madre. A dire il vero non ero così convinta di tornare insieme ad Arthur e dopo quello che ti ha detto a casa di Harry ho capito che proprio non era il caso”
Rimaniamo in silenzio qualche istante poi, all’improvviso, le prendo la mano e comincio a tirare.
“Vieni” dico tirando in direzione della tomba di Siger.
“No, Sherlock, per favore” mi prega lei con gli occhi ormai lucidi di lacrime “Per me è troppo doloroso. Già l’aver portato i fiori stamattina mi ha snervata. Ti prego”
“Non te ne pentirai. Te l’assicuro”
 
La trascino verso la tomba. Il marmo risplende sotto il sole. Nascosta dietro la lapide c’è una mazza, da me opportunamente sistemata. Mi tolgo la giacca e gliela affido qualche minuto, giusto il tempo di afferrare la mazza e portarla allo scoperto.
“Che fai?” mi chiede lei allarmata.
“Elimino ciò che non serve più” dico enigmatico e, con un colpo secco e deciso, spezzo in due la lapide.
Lei grida.
“Che fai! Pazzo! La tomba di tuo padre!” urla cominciando a piangere.
La ignoro. Dopo qualche minuto della lastra di marmo rimane solo un mucchietto di pietre che disperdo con un piede.
“Bene” dico con il fiatone, appoggiandoci sopra la mazza “La fase uno è completata”
“Ma sei pazzo?” mi chiede lei strattonandomi un braccio.
“Vieni, non è ancora finita” le dico indossando la giacca e tornando verso la strada. Lei mi segue, stordita. Ormai ha imparato che deve fidarsi di me, ma ha paura. Il gesto che ho compiuto l’ha spaventata. Mi sarei spaventato anch’io. Chi, sano di mente, infierirebbe sulla tomba di un morto? Solo se questo non fosse morto. Per il momento, però, lo so solo io e quindi sembra che io sia pazzo.
 
Anche il tragitto verso Belgravia sembra interminabile. Finalmente il taxi accosta. Lo pago e faccio scendere mia madre, ancora sotto shock. Mi servirebbe una coperta, ora. Entriamo in salotto. È vuoto. Mio padre è in cucina e attende solo un mio segnale per farsi avanti. La faccio sedere, tremante.
“Mamma, ti ha sconvolto quello che ho fatto in cimitero?” le chiedo posandole una mano sulla spalla”
“Sherlock, certo che mi ha sconvolto! Non ne capisco il senso! Capisco che tu possa provare odio nei suoi confronti, dopo tutto quello che ti ha fatto da piccolo, ma arrivare a distruggere la sua lapide!”
“Ascoltami bene” dico guardandola negli occhi. Ci sono alcune cose che devi sapere. La prima è che non lo odio. L’ho perdonato. Totalmente. Davvero. La seconda è che in cimitero ho distrutto una cosa inutile …”
“Come sarebbe a dire inutile? Una tomba è importante! È l’ultima cosa che rimane di chi ci ha lasciato! È …”
“… Inutile, se quella persona non ci ha lasciato” concludo sorridendo.
“Sherlock, per favore. Ti ho già detto che per me è doloroso …”
“Puoi venire” dico girandomi verso la cucina.
Guardo mia madre. Quando Siger entra nella stanza si alza di scatto. Ha già provato questa sensazione con me. Ora la prova con il marito. Lo guarda come ha guardato me quando sono tornato. Poi guarda me. Le sorrido, incoraggiante.
“Siger!” grida, portandosi le mani alla bocca e soffocando un singhiozzo.
“Violet” la chiama lui, con voce dolce e sensuale.
Lui fa qualche passo verso di lei ma lei lo precede. Si alza e gli corre incontro, incontro alle sue braccia spalancate. Piange, si scioglie sul suo petto.
“Com’è possibile?” gli chiede piangendo “Sei vivo? Sei proprio tu amor mio?”
“Sono io, Violet, sono proprio io. Potrai perdonarmi?”
“Di cosa devo perdonarti?” gli chiede lei come se si trattasse di una domanda assurda.
“Della mia gelosia, della mia cattiveria, del fatto che, anche se non per colpa mia, ti ho fatto credere di essere morto”
Mi guarda. Se io l’ho perdonato può farlo anche lei. Può ritrovare in fondo al suo cuore quell’amore che, tanti anni fa, l’ha spinta a sposarlo. A scegliere proprio lui.
“Ti amo, Siger” gli dice. Questo basta.
“Anch’io ti amo, Violet” gli risponde lui.
Io rimango lì in mezzo, mentre i due piccioncini si consumano di baci. Che scena commovente! Quei due si sono dimenticati della mia presenza. Ora esistono solo loro due. Bene, vado in cucina a farmi un caffè!
 
Dopo un’ora e mezza, più o meno, mi raggiungono. Mio padre ha un bottone fuori posto e mia madre non ha più il rossetto. Si sono appartati di sopra e ora sorridono come due adolescenti alla loro prima esperienza.
“Scusaci, Sherlock” mi dice mia madre mentre le porgo una tazza di caffè appena fatto “Sai, avevamo molte cose da dirci …”
“Si, lo immagino” dico passando una tazza a Siger “Da dirvi. Mi fa piacere che vi amiate ancora, nonostante tutto”
“Più di prima” sottolinea lui circondandola con un braccio “Molto più di prima”
Si guardano negli occhi e sorridono. Anch’io, di riflesso, sorrido. Sta andando tutto nella direzione giusta. Sono sicuro che, da adesso in poi, niente potrà andare storto. Ci saranno altre difficoltà. Non avrei scelto il mio lavoro se avessi voluto una vita tranquilla. Mi piace così. Una costante sorpresa. Ora, però, sono più forte. So che nulla potrà farmi male.

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Raccomandata con ricevuta di ritorno ***









È quasi passato un anno da quei giorni così terribili che hanno cambiato la mia vita. Dieci mesi, per la precisione. Ho ancora vivo dentro di me il ricordo di quelle sensazioni. Penso che non mi abbandoneranno mai del tutto. In fin dei conti è passato così poco tempo! Dieci mesi sembrano tanti, ma volano! Ah! Come passa il tempo!
Sono solo, ora. John e Mary si sono sposati e chiaramente, vivono insieme. Sono stato più che felice di fargli da testimone. Adesso aspetto solo il primo nipotino.
 Fortunatamente ora sono in grado di pagare l’affitto da solo. La signora Hudson ha insistito perché mi cercassi un altro coinquilino. Impossibile. Preferisco starmene tranquillo, da solo. Inoltre non riuscirei mai a trovare qualcuno paziente come John. Non potrei mettere a rischio la vita di qualcun altro a causa del mio lavoro. Lavoro che, tra parentesi, va a gonfie vele.
Anche grazie agli ex alunni di mio padre, sono riuscito ad allargare il mio giro anche all’estero. Viaggio parecchio, soprattutto nel continente. Ogni tanto mi viene la tentazione di chiamare la Donna, ma so che lei non lo gradirebbe.
Arthur si è fatto vivo diverse volte. Ogni volta ha cercato di chiedermi scusa per il comportamento che ha avuto nei miei confronti, non solo quando ha detto di vergognarsi di essere mio padre, ma anche negli anni precedenti!
Tutto inutile. Non è riuscito a farsi perdonare ne da me ne da mia madre. Neanche tre mesi dopo la sua ricomparsa nel mondo dei vivi, Siger Holmes ha chiesto a Violet Sherrinford in Holmes di sposarlo di nuovo. Il tutto in modo molto romantico. Lei, neanche a dirlo, ha accettato. Io e Mycroft siamo stati gli unici invitati a quello strano secondo matrimonio. Hanno voluto lì solo i loro figli. Nessun’altro. Gli abbiamo anche fatto da testimoni. È stata una cerimonia semplice ma molto commovente.
Per quanto riguarda me, sto molto meglio. Ho avuto ancora qualche crisi d’astinenza, ma ora posso dire che è tutto superato. Sono perfino andato, su insistenza di John, dalla sua analista. Un paio di volte, prima di rendermi conto (ma già lo sospettavo) che è un’incompetente. Tutte le lauree che è riuscita ad ottenere non sono servite a molto, visto che ha imputato la mia dipendenza da cocaina alla voglia di farmi notare. Povera sciocca. Ho ben altri metodi per farlo! Il mio lavoro, per esempio.
Così sono andato a parlare con la fruttivendola che ha un negozietto vicino a casa mia e mi ha aiutato più lei di qualsiasi altro medico o psicologo consigliato da Mycroft o da John. Adesso vado sempre da lei a comprare frutta e verdura. Visto che vivo da solo sono costretto, per quanto sia noioso, ad andare a fare la spesa. Per la maggior parte delle volte preferisco andare per negozietti. Li cambio spesso, per provare cose nuove e per conoscere, o meglio, analizzare, persone nuove. Anche andare al supermercato è stimolante. Eccezion fatta per quelle stupide casse automatiche. A volte penso sarebbe più produttivo discutere di filosofia con Anderson.
 
La cosa positiva di non avere John tra i piedi è che, finalmente, posso fumare. Ogni tanto invito Harry a bere un caffè così poi possiamo chiacchierare e fumarci qualche sigaretta, più o meno sofisticata. Harry, non lo sapevo, ha una florida coltivazione di marijuana in un posto che conosce solo lei. Parliamo e fumiamo molto. È lei la sorella maggiore, ha un anno in più di Mycroft e mi dà spesso ottimi consigli. È una delle poche persone che valga la pena ascoltare.
 
Mi sto preparando la prima sigaretta del giorno, quando suonano alla porta. Guardo l’ora. È troppo presto perché possa essere un cliente. A meno che non sia un’urgenza. La signora Hudson è partita per andare a trovare suo nipote, quindi tocca a me fare gli onori di casa (anche se lei in realtà non è la mia governante).
Sono ancora in vestaglia. Cerco di rendermi presentabile e vado alla porta.
“Buongiorno signore” mi dice il ragazzino che mi si presenta davanti appena apro “Devo consegnarle questa”
È un corriere. Parcheggiato pochi metri distante c’è il suo fugone. Mi porge una busta gialla piena di timbri e francobolli. La prendo riluttante. Non so perché, ma ho un brutto presentimento.
“Deve firmare qui, è una raccomandata con ricevuta di ritorno”
“Dia pure” dico allungando la mano verso il blocco che il ragazzo mi porge. Mi presta la penna e, ottenuta la firma, mi saluta con un cenno della testa prima di raggiungere il furgone e ripartire. Resto ad osservarlo qualche istante e rientro in casa.
 
Mi siedo sul divano e poggio la busta sul tavolino. Non so perché ma ho paura di aprirla. Perfino di toccarla. Mi sporgo in avanti con le mani appoggiate sotto il mento, per vedere meglio. Sotto il timbro di Londra ce n’è un altro. Venezia. Anche i francobolli sono italiani.
Non è segnato il nome del mittente e questo mi preoccupa alquanto.
Il mio indirizzo è scritto con una graziosa grafia femminile che non riesco a riconoscere. Molto probabilmente si tratta di una donna anziana perché in alcuni tratti, soprattutto nelle elle e nelle ti, la linea è leggermente tremolante.
Sospiro e la prendo con cautela. Non sembra contenere oggetti pericolosi. Nel mio mestiere sto sempre attento alla posta che mi arriva, soprattutto quando non c’è il mittente.
La inclino in diverse angolazioni, davanti ai miei occhi. Dallo spessore dovrebbe contenere solo una pagina, al massimo due. Provo a piegarla. Una pagina e una foto, probabilmente. Si, da come si flette dovrebbe esserci una fotografia, dentro.
Basta, è ora di aprirla. Mi alzo con la busta in mano, scavalco il tavolino e mi avvio verso il caminetto, dove c’è il pugnale che uso per aprire la corrispondenza. Con cautela rompo il margine superiore e faccio cadere i fogli nella mano aperta. Guardo la foto. Non capisco. Sinceramente. Non capisco.
La poso con attenzione sul caminetto e apro la lettera allegata. Viene da Venezia. Leggo quelle poche righe con apprensione. Data l’intestazione, non so cosa aspettarmi.
La firma della donna, la stessa che ha scritto l’indirizzo, è chiara e decisa. Io, invece, mi sento uno straccio. Non posso credere a quello che ho letto. Rileggo la lettera due, tre volte. Voglio essere sicuro di aver capito bene.
Con una mano mi appoggio al camino spento e scarico lì tutto il peso del corpo, le gambe hanno perso ogni possibilità di sostenerlo. Da chi posso andare, ora? A chi posso chiedere consiglio? Cosa devo fare? Ah! Maledizione! Ci mancava solo questa!
Ripiego la lettera. Ci sono tutte le indicazioni necessarie su come comportarsi. La poso con cura vicino alla foto e tutto mi appare chiaro. La prendo in mano e la guardo con attenzione. Potrà aiutarmi? Potrà farmi capire come agire? Ma, dovrò agire? Nella lettera mi hanno dato un termine preciso. Dal momento in cui riceveranno la ricevuta di ritorno, il che probabilmente avverrà tra meno di una settimana, io avrò un mese per decidere.
Un mese? Di solito, per queste cose si dà più tempo! Insomma, come posso fare io? Mi sento così incapace, in questo momento! Rimetto tutto dentro la busta e vado in camera. Butto la vestaglia sul letto e indosso giacca e cappotto. Infilo la sciarpa al collo e, mentre esco di casa, afferro al volo la busta. Vado dall’unica persona che possa darmi un consiglio sensato.

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Un consiglio ***









Le strade di Londra mi sembrano estremamente silenziose, stamattina. Il traffico è lo stesso, sono io che sono turbato. Non so bene come dovrei sentirmi. È una cosa tutta nuova, per me. Cerco di mettere in ordine le idee e i sentimenti. Sono ancora qui a Londra, lontano dal ‘problema’. È giusto chiamarlo così? ‘Problema’? Scaccio in fretta questa parola dai miei pensieri. No, non è un problema. È una cosa che è successa e che adesso devo imparare a gestire. Devo? E se fosse una bugia?
La mia vecchia casa non è vicinissima a Baker Street ma evito di prendere il taxi. Ho bisogno di camminare, di pensare. Ho bisogno di prendere la rincorsa perché sarà difficile parlarne a lui. Dovrò farlo. Meglio, lascerò che sia la lettera a spiegarsi per me.

Senza rendermene conto sono già arrivato. Mia madre è in giardino. Sta curando le sue bellissime rose.
“Ciao mamma” le dico entrando.
“Ciao tesoro” mi risponde lei coprendosi gli occhi con una mano per vedermi meglio “Cosa ci fai qui?”
“Passavo …” mento “Papà è in casa?”
“Si, deve essere nel suo studio. Un suo ex allievo è venuto a trovarlo”
“Capisco. Posso farti compagnia mentre aspetto?”
“Penso che tu possa entrare lo stesso. Non farti problemi!”
“Preferisco aspettare. Devo parlargli in privato”
Devo essere arrossito perché mia madre mi guarda con tenerezza, poi si alza e viene ad abbracciarmi.
“Ciao” dice dandomi un bacio sulla guancia “Ti fermi a pranzo?”
“Va bene”
In quel momento esce mio padre, seguito dal suo ex allievo. Mi pare di conoscerlo. Deve essere uno dei dirigenti della banca dove lavora Sebastian.
“Arrivederci professore” gli dice salutandolo con un gesto della mano. Anche mio padre ricambia il saluto con lo stesso gesto e fa per rientrare in casa, quando mi vede.
“Sherlock! Che bella sorpresa! Cosa ci fai qui?”
“Posso parlarti?” chiedo. La mia voce ha una certa urgenza ed entrambi se ne accorgono. Lei gli fa l’occhiolino e lui sorride.
“Prego, vieni dentro. Andiamo nel mio studio. Staremo più tranquilli”

Lo studio di mio padre. Quanto l’ho ammirato, da piccolo. Per me è sempre stato il luogo della cultura, dell’elevazione intellettuale. Un piccolo santuario del sapere. Tutti quei libri, tutte quelle carte! Ora mi rendo conto che è solo una stanza con una libreria. È incredibile come certi ricordi siano così tenaci a scomparire. Forse per me simboleggiava l’inaccessibilità a mio padre. Qualcosa di proibito, il cui accesso bisogna meritarsi superando molte prove.

“Dimmi, ti ascolto”
“Io … a dir la verità non so da dove cominciare. Penso che sia meglio che tu legga questa. Mi è arrivata stamattina”
Gli porgo la lettera già aperta. Lui la osserva qualche secondo prima di prenderla. Fa scivolare il contenuto sulla scrivania e sobbalza alla vista della foto.
“Sherlock, che scherzo è questo?”
“Nessuno scherzo. Leggi la lettera, ti prego”
Mi torco le mani. Sono così teso! Lo guardo prendere gli occhiali e indossarli con una calma estenuante. Mi guarda da sopra le lenti prima di abbassare gli occhi sulla lettera, che spiega con estrema cura. Mi sembra di essere uno studente sotto esame.
Aggrotta la fronte, concentrato nella lettura. Mi mordo il labbro inferiore, sempre più teso. Non è lunghissima quella lettera. Quanto gli ci vuole per leggerla? Ecco, ha finito. Solleva lo sguardo su di me, poi sulla lettera. Poi di nuovo su di me. Infine torna alla lettera. Da come muove gli occhi vedo che la sta rileggendo. Non ci crede nemmeno lui.
Distende la fronte e contrae le labbra. Cosa penserà di me adesso? Trattengo il respiro. Pian piano, dalle sue labbra contratte spunta un sorriso che, pochi istanti dopo, sfocia in una grassa risata.
“Hahahahahah!Sherlock! Questo non me lo sarei mai aspettato, davvero!”
Si asciuga una lacrima sotto il mio sguardo scandalizzato.
“Ma … papà!” dico arrabbiandomi un po’ “Non mi sembra il caso di ridere!”
“Perché no, scusa?” mi chiede lui, sempre sorridendo “È una splendida notizia, no?”
“Dici?”
“Certo! Tu non ne sei convinto?”
“Ho un po’ di paura …”
“Non averne, non è il caso”
Abbasso lo sguardo e sospiro. Mi pare il caso, invece. Lui legge in me il turbamento.
“Hai paura di non essere all’altezza della situazione?” mi chiede gentilmente, smettendo finalmente di ridere.
“Si”
“Dimmi, perché sei venuto proprio da me a chiedere consiglio?”
“Perché tu sei mio padre, no? A chi altro avrei dovuto chiederlo?”
“Forse non posso essere considerato il miglior aiuto, in questo momento”
“Per me lo sei. Questo mi basta”
“Ti ringrazio per la fiducia. Cosa vuoi sapere da me? Quanto sarà difficile? Quanto cambierà la tua vita? Posso dirti quello che voglio. Non c’è nessun modo per prepararsi a tutto questo. Nessuno. È un po’ come fare il cammino di Santiago. Non c’è allenamento che tenga. L’unica cosa che puoi fare e cominciarlo e viverlo giorno per giorno. Ogni tanto avrai problemi, ti chiederai perché ti sei cacciato in quella situazione, ma andrai sempre avanti, perché non c’è soddisfazione più grande. E questa” dice sventolandomi la lettera davanti agli occhi “è certamente un’avventura che vale la pena vivere. Te l’assicuro”
“Non credo di esserne all’altezza” dico scuotendo la testa poco convinto “Insomma, lo sai anche tu, no? Sono un sociopatico!”
“Non è vero, Sherlock, lo sai meglio di me. Hai solo bisogno di lasciarti andare, tutto qui. Io sono fermamente convinto che tu non abbia problemi, come gli altri si ostinano a dire. Tu hai solo troppa paura di vivere. Ultimamente, te ne do atto, sei riuscito a sorprendermi. Forse quello di cui avevi bisogno è quello che io ti ho sempre negato e, ora che ce l’hai, vedi tutto in modo diverso, no?”
“Si, credo di si”
“Per rispondere alla tua domanda posso fartene un’altra. Prova a guardare al futuro e pensa come sarebbe la tua vita se non accettassi questa situazione. Te ne pentiresti? Adesso non puoi saperlo, ma ti assicuro che avverrà. Te ne pentiresti amaramente e sarà troppo tardi. Il mio consiglio? Buttati! Io e tua madre e, suppongo, anche i tuoi fratelli, ti staremo sempre vicino e ti aiuteremo. Sono sicuro che la tua non sarà una situazione facile, ma sono altrettanto certo che ce la farai”
Mentre pronuncia queste parole è serio, è convinto di quello che dice. Sentirlo dire da lui mi ha dato un po’ più di sicurezza. Si alza, posa gli occhiali sulla scrivania e mi raggiunge. Anch’io mi alzo. Ci abbracciamo a lungo.
“Ricordati che, qualunque cosa farai, sarò sempre orgoglioso di te”
Usciamo in giardino e faccio leggere la lettera anche a mia madre. Lei all’inizio è un po’ sconvolta. In effetti non è una cosa da poco. Poi, però, si calma. Mi sorride e mi abbraccia.

Dopo pranzo vado subito alla prima agenzia di viaggi che trovo e prenoto volo e hotel per Venezia.
Prima ero così pieno di dubbi! Un mese mi sembrava così poco per poter decidere! Adesso non vedo l’ora di arrivare, non vedo l’ora di scoprire cosa mi accadrà.

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Violet ***









Piccola nota: non so se funziona proprio così ma non ho voglia di documentarmi. Per gli scopi della mia storia facciamo finta di si! ;)


L’aeroporto Marco Polo è scandalosamente piccolo. Non posso certo avere paura di perdermi, qua dentro! Nonostante la sua scarsa ampiezza è arredato bene. Mi piacciono quei laghetti artificiali all’ingresso. Qui tutto comunica che ci troviamo vicino ad una laguna. L’ho vista mentre l’aereo atterrava. Quella distesa di acqua e terra sotto di me. Tra poco ne sarò completamente circondato.
Per arrivare in città devo prendere un autobus che, dopo un breve tragitto, mi scarica al Tronchetto. Per un momento vaglio la possibilità di prendere un traghetto ma alla fine decido di andare a piedi. Voglio godermi questa città così bella e che, fino ad ora, no ho mai visto.
Durante il volo ho letto e riletto il libro di grammatica italiana e ho cercato svariate parole sul dizionario. Spero di cavarmela bene. D’altra parte qui è pieno di stranieri. Troverò pur qualcuno che sappia parlare inglese?
Dalla cartina che ho comprato dovrebbe essere semplice raggiungere la meta, invece mi ritrovo circondato da orde di turisti sudati che cercano come possono di racimolare informazioni, foto e souvenir. Mi sembra di soffocare! Non ho mai potuto sopportare la folla! E dire che vivo a Londra!

Finalmente, dopo quasi due ore, arrivo a Santa Maria della Pietà. Busso con discrezione e mi accoglie una suora giovane. Mi sorride e con un ampio e aggraziato movimento del braccio mi invita ad entrare.
Con un italiano stentato riesco a farle capire che voglio parlare con Suor Margherita. La suora mi ascolta con attenzione e, capita la mia difficoltà, comincia a rispondermi in un inglese quasi perfetto.
“Suor Margherita è nel suo studio, adesso. Chi devo annunciare?”
“Sherlock Holmes” dico dopo aver preso un profondo respiro.
“Sherlock Holmes? Ah, ora ricordo! Non ci aspettavamo di vederla così presto! A dire il vero, personalmente non mi sarei aspettata di vederla”
“Come mai?” chiedo nervosamente.
“Leggo sempre il blog del dottor Watson” mi risponde lei con un’alzata di spalle “Qui la vita è piuttosto monotona, mi diverto come posso. Amo molto i gialli e quando ho scoperto che c’era un blog che raccontava storie vere, ho cominciato subito a leggerlo con passione!”
“La ringrazio” dico con un veloce sorriso.
“Mi segua, Suor Margherita sarà felicissima di vederla”

Lo studio di Suor Margherita è piccolo e arredato con semplicità. I pochi mobili sono di legno scuro, lucidi e privi di soprammobili. Dietro di lei un’imponente libreria da sfoggio di un’invidiabile collezione di libri. Lei è come l’ambiente in cui vive, semplice e pulita. È lei la donna che mi ha scritto. Quella grafia senza dubbio le appartiene. Non è vecchissima, qualche capello bianco spunta dal velo ma gli occhi, di un pallido azzurro, comunicano tutta la sua giovinezza interiore. È graziosamente paffuta e, quando si alza mi circonda con un abbraccio.
La suora giovane, Suor Chiara, ci ha seguiti. Farà da interprete perché Suor Margherita non conosce bene l’inglese.
“Suor Margherita dice che è contenta di vederla. Neanche lei se l’aspettava e le fa tanto piacere”
“La ringrazi”
Suor Chiara continua diligentemente a tradurre le parole della Superiora.
“Prima di tutto, però, dobbiamo svolgere qualche formalità. Vede, non possiamo procedere alla cieca. Inoltre, se il test risultasse negativo, dovremmo aprire una procedura burocratica piuttosto lunga. Lei ha già prenotato il volo di ritorno? No? Bene. Innanzitutto può seguire Suor Chiara in infermeria. Lì la aiuteranno per il test. Poi dovrà attendere uno o due giorni per il risultato. Va bene?”
Annuisco quando Suor Chiara finisce di tradurre. Mi alzo e la seguo.
La procedura è stata semplice e veloce. Ora devo solo attendere. Io, però, non ho dubbi. Mi chiedo ancora come sia potuto succedere, però. È stato voluto o anche lei ha avuto un piccolo incidente di percorso non preventivato? D’altra parte, se le conseguenze sono state queste … Quella donna non finirà mai di stupirmi! Ha fatto il mio nome, perciò non mi ha del tutto dimenticato.
Consegno il biglietto da visita dell’hotel dove alloggerò ed esco dall’edificio.
Sono sicuro che non riuscirò a godermi Venezia, non finché non avrò i risultati. Non ho nemmeno fame. Passo davanti a vetrine piene di ogni ben di Dio: dolci, cioccolato, pane, pizza, tramezzini, caramelle, frutta, verdura, carne … tutto insomma! Eppure non mi attirano. Sono a Venezia per la prima volta, eppure tutta la mia attenzione è rivolta altrove.
Tiro fuori la fotografia dal portafoglio e la osservo a lungo. È bellissima. Ne sarò degno? Mi cerco un posticino tranquillo, una panchina ai Giardini, e mi godo la vista della laguna. Resto lì tutto il giorno, fino al tramonto. I gabbiano volano indifferenti sopra la mia testa, cercando di sfruttare gli ultimi raggi di sole per cercare un po’ di cibo. Quando vedo che sta diventando troppo buio e l’aria si è fatta troppo umida, mi alzo e mi avvio verso l’hotel.
Sarà una lunga notte, questa! E se domani non saranno ancora pronti i risultati del test? Come farò? Riuscirò a resistere? Contrariamente alle mie previsioni riesco a dormire pacificamente. Mi distendo e chiudo gli occhi e, quando li riapro, è già mattina.

Scendo al ristorante per fare colazione. Finalmente riesco a gustarmi una buona brioche italiana e un vero cappuccino con tanto di schiuma! Chiudo gli occhi e con la lingua pulisco il labbro superiore, sporco di schiuma e in quel momento qualcuno mi sfiora la spalla. È il receptionist.
“Mi scusi signor Holmes” mi dice in perfetto inglese “La vogliono al telefono”
Mi alzo di scatto. Ringrazio velocemente il ragazzo e mi fiondo nella hall. Lì ad attendermi c’è una ragazza che, appena mi vede, mi porge il telefono.
“Pronto, sono Sherlock Holmes” dico, cercando di non mangiarmi le parole per l’emozione.
Signor Holmes, sono Suor Chiara” mi risponde la voce della ragazza che ho conosciuto ieri “Le analisi sono pronte. Può venire a consultarle
“La ringrazio molto. Arrivo subito”

Ignorando la colazione non ancora finita, mi precipito fuori dall’albergo. Il cuore mi batte fortissimo, non solo perché sto letteralmente correndo per le calli per raggiungere il più velocemente possibile l’orfanotrofio. Busso nervosamente e Suor Chiara, con la sua invidiabile flemma, viene ad aprirmi.
“Buongiorno signor Holmes” mi dice accogliendomi a braccia aperte “Venga pure. Abbiamo aspettato per leggere i risultati del test. Volevamo che fosse lei il primo”
“La ringrazio”
Arriviamo nello studio di Suor Margherita, che mi fa accomodare nella sedia di fronte a lei. Suor Chiara resta rispettosamente in piedi e attende di poter svolgere il suo ruolo di interprete.
La Madre Superiora mi guarda. Devo essere parecchio agitato, ma anche lei è emozionata. Con mano tremante mi consegna un’anonima busta bianca.
La tengo tra le mani qualche istante, incapace di aprirla.
“Allora, cosa aspetta?” mi chiede Suor Chiara sfiorandomi gentilmente un gomito “Quella busta non si aprirà da sola”
Giusto. Non è sigillata. Mi basta infilare il dito nella fessura e far uscire un paio di fogli. Uno dei due è pieno di scritte e di numeri. Saprei benissimo decifrarli, ma adesso non ne ho il tempo. Ho bisogno di una risposta pratica e concisa, che trovo sull’altro foglio.
Dopo le classiche formule di presentazione, leggo chiaro e tondo, scritto in grassetto, il responso delle analisi.
Positivo.
Mi lascio andare in un largo sorriso e butto indietro la testa, sollevato. È vero! Sono così felice! Qualche lacrima di felicità comincia a scendere prima che possa fermarla. Non l’ho ancora vista e già so che la amo.
“Immagino che adesso voglia vederla, giusto?”
Annuisco, incapace di parlare. Mentre ci dirigiamo verso la stanza giusta, Suor Margherita, aiutata da Suor Chiara, continua a spiegarmi la situazione.
“Per le pratiche burocratiche con l’anagrafe di Londra non si deve preoccupare. Ce ne occuperemo noi. Resta una cosa da decidere. La bimba ha poco più di un mese, quindi le abbiamo dato un nome provvisorio. L’abbiamo chiamata Irene, come la madre. È un peccato che l’abbia abbandonata, ma è stata premurosa e fornirci il suo nome. Ora che lei ha deciso di riconoscerla, potrà cambiarle nome. Se lo vuole, naturalmente”
“Si, penso proprio che lo cambierò” dico, mentre un nome, l’unico nome, già si materializza nella mia mente.
“Non si spaventi” mi dice poi guardandomi preoccupato “All’inizio piangerà un po’. Non capiamo come mai, ma da quando è qui non piange solo quando è sola. Se qualcuno la prende in braccio o si ferma a guardarla troppo a lungo scoppia in lacrime e non c’è modo di calmarla”
Deglutisco a fatica. Ce la farò?

Arriviamo in una stanza accogliente. È dipinta di verde pastello e arredata con semplicità. I mobili sono pochi, giusto un fasciatoio, una sedia, un piccolo tavolo e, al centro, la cosa più importante. La culla.
Mi avvicino lentamente. Mi affaccio al di sopra della culla e la osservo. Non ho la minima idea di come prenderla. Suor Margherita capisce la mia difficoltà e lo fa lei per me.
Quando la suora la tocca, lei si sveglia. Dopo un momento di disorientamento si accorge che qualcuno l’ha presa in braccio e comincia a strillare. Mi spezza il cuore sentirla piangere. Suor Margherita mi guarda e si stringe nelle spalle. Mi passo la mano sul mento, indeciso sul da farsi. Alla fine raccolgo tutto il coraggio che possiedo e allungo le braccia verso la vecchia suora. Lei capisce e mi porge la bimba che sta ancora piangendo.

La prendo tra le braccia come fosse un tesoro inestimabile e lei, tutto ad un tratto, smette di piangere. Mi guarda. Con la coda dell’occhio vedo Suor Margherita stringere le spalle di Suor Chiara e le sento sospirare, felici. Ora la mia attenzione è tutta per questo piccolo esserino che pulsa tra le mie braccia. Ha dei meraviglio si occhi grigio-azzurri. È ancora troppo presto per capire che colore avranno, ma già riconosco il taglio dei miei. Mi osserva per qualche secondo e, mentre io mi sciolgo di commozione, lei mi sorride. Mi sorride! Sono ammutolito. È bellissima. È perfetta. È mia. Riesco a dire solo due parole, prima di scoppiare a piangere dalla felicità.
“Ciao Violet”

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Mia figlia ***











Non mi sembra vero. Tempo di sbrigare le ultime formalità burocratiche e io e Violet abbiamo potuto andarcene. Le suore mi hanno regalato un porte-enfant usato, un pacco di pannolini e qualche tutina di ricambio. Ah, anche un ciuccio e un biberon e una scorta di latte sufficiente per il viaggio che ci aspetta fino a Londra. Quando saremo tornati potrò, insieme a mia madre, andare a comprare un corredo come si deve.
Mentre le donne sistemavano le loro e le mie carte, ho prenotato il volo di ritorno. Ora siamo in perfetta regola. Ho anche i documenti di mia figlia: Violet Holmes. Sono solo provvisori. Dovrò aspettare un po’ prima che mi arrivino quelli definitivi, ma per adesso va bene così. Francamente non me mi interessa neanche. L’importante è avere lei tra le braccia. Il resto non conta.
 
Violet Holmes. Fino ad adesso è sempre stata solo mia madre. Ora è anche mia figlia. La neo nonna non sa ancora che ho scelto di donare alla nipotina il suo nome. Avrei potuto chiamarla Irene, come la madre che probabilmente non conoscerà mai, ma non me la sono sentita. Non so ancora come gestirò la situazione. Dovrò parlarle di sua madre, un giorno. Del perché l’ha abbandonata. Come farò a darle delle risposte che nemmeno io conosco?
Una cosa potrò capire perfettamente. Il senso di abbandono. Da piccolo, nonostante avessi mio padre vicino, mi sentivo abbandonato, solo. Irene ha deciso di sparire totalmente. Non so perché abbia deciso, nonostante le sue conoscenze, di non abortire. Sarebbe stato da lei. Se è scappata da me in quel modo così freddo, sarebbe stata capacissima di uccidere nostra figlia. Sono domande a cui non potrò mai dare risposta. Né mi interessa.
Capisco solo ora i sentimenti di mia madre. Non avrei mai potuto perdonarla se l’avesse fatto. Mi basta guardare il viso di Violet per capirlo. Non c’è niente di più importante, di più prezioso, per me. Ucciderei, per lei. La stringo appena tra le braccia. Mi sembra così fragile … eppure sarà lei che mi aiuterà ad essere più forte. Per lei, per me.
 
Mentre passeggio per queste calli affollate, penso al futuro che ci aspetta. Dovrò cambiare leggermente il mio stile di vita. Tanto per cominciare dovrò dire di nuovo addio al tabacco. Una rinuncia difficile ma necessaria. Dovrò anche riconsiderare il mio lavoro. Finché Violet sarà piccola potrò anche spostarmi, ma quando comincerà ad andare a scuola dovrò limitare i miei viaggi. Naturalmente potrò accettare solo casi non troppo pericolosi. Non voglio correre il rischio di metterla in pericolo.
Sono sicuro che la signora Hudson mi aiuterà. Nonostante continui a ripetermi di non essere la mia governante, quando sa che un viaggio di lavoro mi tiene lontano per lungo tempo mi pulisce sempre la casa e, al mio ritorno mi fa trovare qualcosa da mangiare. Sono certo che non rinuncerà ad un ruolo di baby-sitter.
 
 
Il volo è lungo e noioso. Non vedo l’ora di arrivare. Violet dormicchia rilassata tra le mie braccia. Tutti i passeggeri, in attesa con me per il check in, mi hanno fatto i complimenti. Ho intuito anche una leggera commiserazione nei loro occhi. La pietà per un padre costretto ad occuparsi da solo della figlia. Non sanno che, in realtà, non potrei essere più felice.
 
Da quando l’ho vista, da quando lei mi ha sorriso, non faccio altro nemmeno io. Il mio viso è increspato da un costante sorriso. Tra i passeggeri ho riconosciuto alcuni miei concittadini. Non che li conosca, ma è fin troppo evidente che sono di Londra. L’espressione perennemente estasiata che la visione di mia figlia mi ha donato deve avermi del tutto trasformato, tanto che nemmeno mi riconoscono. Meglio così.
 
Sono arrivato a Londra. Per prima cosa mi dirigo a casa dei miei genitori. Sono gli unici, per adesso, a conoscenza della situazione. Violet, tra le mie braccia, è sempre calma e serena. Un po’ dorme, un po’ mi guarda. Anche quando ho dovuto cambiarla (le suore mi avevano fatto vedere come si fa) non ha pianto. Ha solo attirato la mia attenzione con una serie di gorgoglii e basta. L’ho anche fatta mangiare. Alcune mamme, vedendomi con il biberon mi hanno fatto delle foto, intenerite. Certo che devo sembrare ben strano!
 
Quando suono il campanello sento mia madre che chiama mio padre, eccitata. Non sapevano quando sarei tornato, quindi immagino che ogni scampanellata possa essere quella buona. Lo è. Mi apre e si porta le mani alla bocca, sconvolta dal vedermi con in braccio una bimba così piccola. In qualche modo riesce a riaversi e mi fa entrare.
“Oh, Sherlock, tesoro, hai fatto presto! Sono passati solo quattro giorni!”
“Si, abbiamo fatto presto. Nonna Violet” dico girando mia figlia verso di lei “Questa è la tua prima nipotina … Violet”
“Come … Violet?” mi chiede lei guardandomi negli occhi
“Non c’è nome più perfetto, secondo me” dico sorridendole con maggiore intensità.
“Lo penso anch’io” dice mio padre, raggiungendoci “Ciao Violet” le dice porgendole un dito “Sono nonno Siger”
Lei, che fino a quel momento era rimasta in osservazione, regala ai nonni alcuni dei suoi sorrisi più belli. Mentre mi riposo, i due si passano la nipotina, estasiati. La riempiono di coccole, di attenzioni, di sorrisi. È bellissimo vederli insieme. Poi mio padre decide di uscire con la nipotina per farle vedere il giardino, così io e mia madre andiamo in cucina a preparare un po’ di latte.
“Per oggi è meglio che ti riposi” mi dice appoggiando una mano sulla mia spalla “Ma domani andiamo a fare un po’ di spese, va bene?”
“Preferirei andare il prima possibile. Non sono stanco. Se ti va possiamo andare anche oggi”
“Per me va benissimo. Certo che è propri strano” mi dice guardandomi con tenerezza “Non mi sarei mai aspettata di diventare nonna. Né da parte tua né da parte di Mycroft. Ormai mi ero rassegnata, invece …”
“Invece sei nonna di una meravigliosa bimba. Davvero, è perfetta. È bellissima”
“Hai proprio l’atteggiamento di un papà” mi dice lei dopo un lungo sospiro.
 
Mangiamo insieme poi andiamo a fare spese. Mi porta in un grande centro commerciale fuori città. Un posto immenso dove troviamo tutto quello che ci serve. Grazie alla spaziosa macchina di mio padre riusciamo a portare tutto a Baker Street.
Con l’aiuto dei miei genitori sono riuscito a portare tutto al piano di sopra e ora aspetto solo che la signora Hudson torni a casa. Non sa ancora nulla. Le ho detto del viaggio ma avrà pensato ad un caso. Nel frattempo ho mandato SMS a Harry, Mycroft e John. Hanno risposto e tra poco saranno qui. Naturalmente a ognuno ho mandato un messaggio personalizzato.
Per Mycroft
Ho deciso di accettare il caso che mi hai proposto, passa da me alle sette.
Per Harry
Ho comprato a Venezia un nuovo tipo di tabacco. Ti va di provarlo insieme? Sono libero alle sette.
Per John
Ho una sorpresa per te. Ti aspetto qui da me alle sette.
Incredibile come ci sono cascati tutti. D’altra parte anch’io faccio fatica a credere che, beatamente addormentata in una culla in camera mia, c’è mia figlia.
 
Alle sei è tornata la signora Hudson. Si è spaventata vedendo una bambina in casa mia. Mi ha subito detto di riportarla ai genitori. Le è quasi venuto un infarto quando ha scoperto che è figlia mia.
“Com’è successo?” mi ha chiesto con una mano sul petto, cercando di calmarsi.
“Come vuole che sia successo?” so benissimo cosa intendeva con quella domanda, ma non ho voglia di spiegarle nulla “L’importante è che Violet sia qui con noi, no?”
Lei ha annuito. Avrebbe voluto coccolarla un po’ ma per adesso dorme e voglio che non la svegli. Allora ha abbracciato me come se fossi suo figlio.
 
Per primo arriva John. Per lui non ho dovuto inventare scuse. È venuto e basta. Per Harry e Mycroft è stato più difficile, ma alla fine sono qui. Si guardano con facce smarrite. Non capiscono questa riunione di famiglia.
“Avevi detto che avresti accettato il caso” mi dice Mycroft guardandomi storto, comodamente seduto in poltrona con l’immancabile ombrello.
“Quale caso?” chiede Harry, impegnata a imboscare il fiorellino che ha portato per rendere più saporito il tabacco che non ho comprato.
“Che sorpresa ci stai preparando, Sherlock?” mi chiede infine John, l’unico che ha capito qualcosa.
“Tra poco lo scoprirete. Ah, per piacere, non urlate.” dico muovendo i primi passi verso la camera. Cammino piano, non voglio svegliarla all’improvviso.
Mi affaccio alla porta. Ormai dorme da più di due ore. Invece no, è sveglia. Osserva le api sospese alla giostra che ho attaccato sopra la culla. Quando sente la mia presenza si volta verso di me e sorride. Com’è bella quando fa così.
Con delicatezza la sollevo e le faccio appoggiare la testolina sul mio petto. Rassicurata dal suono del mio cuore, chiude gli occhi. Con movimenti lenti torno in soggiorno. Non saprei ancora sostenere lo sguardo dei miei fratelli, perciò lo tengo fisso su Violet. Alla fine trovo un po’ di coraggio così, quando arrivo nel centro della stanza, vedo le loro facce sbalordite.
“Sherlock …” comincia Mycroft ma non riesce più ad aggiungere nulla.
Harry neanche ci prova a parlare. Rimane a bocca aperta e fissa prima me, poi Violet, con uno sguardo trasognato. Come al solito è John a rompere il ghiaccio.
“Sherlock, non mi dirai che questa è … no, non è possibile”
“Invece è proprio possibile” dico io orgogliosamente girandola verso di loro “Lei è vostra nipote Violet”
Rimangono ammutoliti, così ho il tempo di spiegargli com’è andata.
“Avevi detto” dice John incrociando le braccia al petto “che non sarei diventato zio! Sono parole tue o sbaglio?”
“Ti giuro che non so nemmeno io cosa sia andato storto. Probabilmente la Donna voleva cha andasse così. Comunque non mi interessa, sono felice e questo mi basta”
“Pensi di riuscire a crescere una bambina da solo?” mi chiede Mycroft.
“Perché non dovrei, scusa?” gli chiedo senza neanche guardarlo. Le mie attenzioni sono tutte per Violet.
“Infatti” dice Harry in mia difesa, allungando le braccia verso la nipotina. La prende in braccio e la guarda affascinata “È bellissima, Sherlock, davvero. Hai visto John? Alla fine è successo! È da quando mi sono sposata con Clara che mi tormenta sul fatto che non lo avrei fatto diventare zio! Invece eccola qui!” dice sollevandola sopra la testa per guardarla meglio.
“Fa’ attenzione” la sgrida John prendendola in braccio “Quanto hai detto che ha, Sherlock?” mi chiede porgendole il dito, che lei afferra con una manina.
“Poco più di un mese” rispondo mentre scaldo il latte su un becco bunsen.
Appoggio momentaneamente il biberon sul tavolo e riprendo Violet in braccio. Riprendo il biberon e glielo avvicino alle labbra. La temperatura del latte è perfetta, infatti lei comincia a mangiare di gusto.
“Mi sembra che te la cavi bene” mi concede Mycroft
“Più che bene, mi sembra” aggiunge John guardandomi cullare Violet “Mycroft, non vuoi prendere in braccio tua nipote?”
Mycroft lo guarda come se avesse detto un’assurdità. Sicuramente non lo attira minimamente l’idea di toccare un essere che ha tutte le potenzialità di rovinargli il completo nuovo. Alla fine, inaspettatamente, cede.
“Va bene” dice allungando le braccia.
Appoggio il biberon, ormai vuoto, sul tavolo. Violet, sazia, fa il suo ruttino. Mentre l’appoggio sul petto di mio fratello, lei chiude gli occhi e si addormenta. Mycroft la guarda terrorizzato. Ha forse paura di romperla? Tiene le braccia sollevate, non la tocca. Lei è lì, pacificamente appoggiata che dorme come se fosse nel suo lettino e lui ha ancora paura di toccarla.
“Puoi abbracciarla” gli dico incoraggiandolo “Non morde mica!”
Lui, poco convinto dalle mie parole, comincia ad accarezzarle la schiena. Poi, pian piano, ci prende gusto. La sistema meglio tra le sue braccia e comincia addirittura a cullarla.
 
I miei fratelli se ne sono andati. Sono disteso sul letto. Violet è al mio fianco e mi guarda pacifica. La luce del sole che tramonta entra discretamente attraverso le imposte socchiuse. Ci illumina senza disturbarci. Ogni tanto sorride. Il suono delle sue prime risate riempie l’aria, la satura di gioia. Io la guardo come si guarda un miracolo.
Guardandola mi chiedo se sarò veramente in grado di badare a lei. Le parole di Mycroft hanno risvegliato in me molti dubbi. In fin dei conti io sono solo un sociopatico. Per quanto intelligente possa essere, sono solo un uomo e non so nulla di come si cresce un figlio. Ripenso alle parole di mio padre. Imparerò. Giorno per giorno. Mi insegnerà lei come fare.
Non voglio commettere lo stesso errore di Siger. Non voglio rinunciare ad essere padre. Me ne pentirei. Adesso non lo so, posso solo immaginarlo, ma un giorno mi pentirei se la lasciassi. Non posso, non voglio abbandonarla.
Non è da me, non è nel mio carattere, ma voglio provarci. Il suo sguardo così pieno di fiducia in me mi fa sentire più sicuro. Io sono tutto per lei, adesso, come lei è tutto per me.
Non so che vita ci aspetterà, ma sono fiducioso. Fiducioso e felice. Le carezzo piano il viso con un dito e al mio tocco si rilassa ulteriormente. Sbadiglia. Ha sonno. Anch’io.
Lentamente mi scollo dai suoi occhi sonnolenti e la poso sul suo lettino. Anch’io sono stanco, ho bisogno di dormire. Le carezzo la fronte con un dito e mi distendo sul letto. Finalmente in pace.
 
 
 
 
FINE
 
 
 
 
Ebbene si, miei cari! La storia è finita! Questa parte, almeno! Perché la mia mente malata ha già escogitato un seguito e una serie di missing moments, quindi per un bel po’ continuerò a tormentarvi! Bwahahahaha!
Besos a todos!


Un piccolo aggiornamento: ecco a voi un disegno STUPENDO, MAGNIFICO, MERAVIGLIOSO realizzato da Frida Rush ( 
https://efpfanfic.net/viewuser.php?uid=551613)
Esatto! Sono proprio Sherlock con la sua piccola Violet!! 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1014039