L'Universo In Una Lacrima

di ImInAcOmA
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Watching The Flashbacks Intertwine ***
Capitolo 2: *** Apocalipse Please ***
Capitolo 3: *** Darkshines ***
Capitolo 4: *** Butterflies & Hurricanes ***
Capitolo 5: *** Ruled By Secrecy ***
Capitolo 6: *** S h i n e ***
Capitolo 7: *** Hate This & I'll Love You ***
Capitolo 8: *** Your Secret Is Safe Tonight ***



Capitolo 1
*** Watching The Flashbacks Intertwine ***


Mattina. Aprii piano gli occhi, la mia guancia in attesa di essere accarezzata da un tiepido raggio di sole. Con il viso immerso nel cuscino, però, riuscii solo a scorgere la semioscurità che proveniva dalla finestra. Poco dopo capii cosa mi aveva svegliata.
- Annael, è tardi, alzati, su…! –
La voce di mia madre proveniva dalla cucina, al piano di sotto. E’ tardi…?? Sbaglio, o prima di addormentarmi quella sera era sabato, e quindi la mattina non si doveva andare a scuola?...Poi un pensiero mi destò completamente dal torpore del sonno: quello era il giorno della partenza, saremmo dovuti andare fuori città, come tutti gli anni, per colpa dei miei soliti controlli. Come miglior ospedale ci avevano consigliato quello di una città chiamata Sparks, in Nevada, e per arrivarci si prevedevano circa otto ore di viaggio. Per questo consapevolizzai il fatto che fuori fosse ancora quasi completamente buio: stabilivamo di partire al mattino prestissimo, per poter arrivare a destinazione ad un orario decente e sistemarci con calma in albergo.
 
- E’ tutto pronto?... Michael? –
- Ce l’ho io mamma, è tutto a posto - , dissi, dando un’ultima occhiata alla casa stranamente in ordine. Anche se non dovevamo stare via molto, provavo sempre un po’ di nostalgia nel lasciare il mio “nido sicuro”. Sentii Michael, il mio fratellino, stringermi con la manina, e gli sorrisi, guardandolo intenerita, buffo com’era anche lui con il suo zainetto in spalla… un piccolo giramondo.
Saliti in macchina, Michael già si agitava nel suo sediolino. Si lamentava perché aveva fame. La mamma scartabellava buste e sacchetti pieni di roba per il viaggio, controllando per l’ennesima volta di aver preso tutto, e non risparmiandosi di fare i suoi ragionamenti ad alta voce. Tra i piagnucolii di Michael, e la frenesia di mamma, io e papà sembravamo gli unici a sentire l’insofferenza dell’esserci alzati alle sei del mattino, e se la mamma ci avesse osservati in quel momento sicuramente ci avrebbe presi in giro chiamandoci “musoni”.
Tirai fuori le cuffie dal mio zaino. Decisi di rilassarmi…fratello permettendo. Premetti il pulsante “riproduzione casuale” del mio I-pod.
A volte sembra che il destino corrompa persino le canzoni affinché ti tormentino. Note lente di un pianoforte, e una voce pulita, rassicurante, ad accompagnarle… quella del cantante del mio gruppo preferito.
Senza che io potessi fare nulla per fermarle, nella mia mente iniziarono a scorrere immagini, come un film…Ma quel film era stato realtà, ed io c’ero dentro, lo avevo vissuto da protagonista, ma allo stesso tempo stando dietro le quinte…Perché sapevo che quella era una storia che non avrebbe mai avuto un lieto fine.
Io in una spiaggia, il sole che illuminava il cielo e cospargeva il mare di piccoli diamanti luccicanti…Il calore che sentivo sulla pelle, l’odore estasiante dell’estate che respiravo…Circondata da una piscina, ombrelloni, gente e bambini che giocavano e correvano ovunque…
Ma il mio vero sole, quello per cui mi alzavo col batticuore ogni mattina, quello per cui mi veniva il torcicollo a furia di guardarmi intorno furtivamente per cercare di incontrarlo con lo sguardo, quello per cui sentivo un incredibile nodo allo stomaco anche solo quando ci scambiavamo una mezza parola o uno sguardo sfuggente, quello per cui ritornavo a casa la sera col sorriso, quello che non smetteva mai di brillare, anche se scottava parecchio, e alle volte faceva anche male…Era lì…lo vidi scendere dalla passerella verso giù, verso la battigia probabilmente, o verso qualche ombrellone…Era lì, e i secondi in cui rimaneva riflesso nei miei occhi sembravano durare ogni volta un’eternità…Lo vidi camminare in quel suo modo strano, inconfondibile, solo suo…Lo vidi passarsi una mano tra i capelli neri e spettinarli…Era lui…perfetto, misterioso, bellissimo…Rividi me che gli rivolgevo la parola, sentii nello stomaco quella terribile sensazione di quando mi accorgevo di aver detto qualche cavolata assurda, o di aver fatto la figura della deficiente, per colpa dell’imbarazzo…Rividi lui che mi dava la mano, per salutarmi…E mi ricordai di non averla più voluta usare per nessuna ragione al mondo, quella sera…Lo vidi soffiarmi il fumo della sigaretta in faccia…Rividi quel sorriso…quel sorriso per cui mi alzavo ogni mattina quell’estate, per cui una giornata l’avrei fatta ripetere anche un milione di volte…Rividi i suoi occhi, e risentii la sua voce…Quella voce che ora non riesco più a ricordare, ma che so che la mia mente ha ben conservato, perché una volta mi ha concesso l’estasi di risentirla in sogno…Lo rividi dentro al bar, a mangiare pizzette, lo rividi sempre con quella sua stramaledetta sigaretta in mano…Lo rividi dare la mano a mia mamma, facendole i complimenti per sua figlia…Lo rividi caricarsi sulle spalle il bimbo a cui facevo da baby-sitter, giocarci, farlo ridere…Rividi l’ultimo giorno in cui l’ho visto, quello in cui l’ho salutato, gli ho detto addio…perché da quando non c’è più lui i giorni sembrano durare un’eternità…Sembro aspettare solo lui, e lui non torna mai…Rividi quel cielo nuvoloso del 31 di agosto…quel cielo che a me, in quel momento, sembrava esplodere per quanto sole splendesse…Rividi me e lui parlare, lui buttarmi i sassolini addosso per scherzo, risentìì quella magnifica sensazione del peso sullo stomaco che volava via, e mi lasciava leggera, quasi completamente libera dall’imbarazzo…Rividi il momento del primo ed ultimo bacio, un semplice bacio sulla guancia, per salutarsi, il bacio che avevo aspettato con un’ansia e un’impazienza inspiegabile, perché finalmente avrei sentito il suo odore, il suo profumo…puzzo di sigaretta…Ricordo il calore improvviso che sentii in viso, in un momento in cui mi parlavano di lui…ricordo di essermi sorpresa di me stessa…perché di arrossire non mi capita mai…Ricordo lo schiaffetto sulla spalla che gli ho dato…prima di andarmene…prima di continuare il più possibile a fissarlo, finché la lontananza lo permetteva, tentando disperatamente di imprimere la sua immagine nella mente, di bloccare i secondi, ascoltando e subendo il suono di quella terribile voce che mi diceva “E’ finita…è l’ultima volta…”
E giunsi così a quello strano senso di annebbiamento, quel magone che da quel giorno si è piantato sullo stomaco ed è lì, nascosto…a volte non si vede, e col tempo le mura attorno a lui si alzano sempre più…ma c’è…e sa che deve aspettare un anno intero prima di essere finalmente libero…E intanto, le mura che ogni giorno si innalzavano attorno al suo nome, avevano il compito di riuscire a contenerlo…Nascondevano il suo ricordo, sempre più, ma allo stesso tempo creavano un rifugio sicuro…un posto segreto e speciale…il posto del mio cuore dove io lo amavo, e dove avrei conservato il suo ricordo, credo, a vita…
Le ultime note della canzone si dileguarono dolcemente…portandosi dietro tutte quelle immagini così maledettamente reali dalla mia mente…Era la canzone di quest’estate…La sua canzone…Che ascoltavo ogni pomeriggio, ogni giorno…la ascoltavo mentre due lacrime di amara consapevolezza mi scendevano giù per le guance…consapevolezza che non ci sarebbe mai stato niente di ciò che io passavo tutti i giorni a sognare…
NEUTRON STAR COLLISION…Collisione di stelle…

“Our love
would be forever
And if we die
we die together…
Lie, I said never
‘cause our love
would be forever…”

 
 

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Capitolo 2
*** Apocalipse Please ***


Con un tonfo la mia valigia toccò l’asfalto. La trascinai e il rumore delle rotelle risuonò nel parcheggio ampio e freddo dell’albergo.
- Mamma, quando si va a cena…? –
- Tesoro, siamo appena scesi dalla macchina, già pensi a mangiare? -, rispose mia madre con una risatina.
- Anche Michael ha fame…vero Micky…??  -. Mettere in mezzo mio fratello era sempre stata la mia arma migliore, ma Michael mi guardò dal basso dei suoi quaranta centimetri con aria ingenua e interrogativa.
- Ok, ho capito…dirò al mio stomaco di autodigerirsi ancora un po’…-, mi rassegnai, sospirando.
Saliti in camera e sistemati i bagagli, decidemmo di uscire. Erano appena le sette di sera, ma tanto dissi e tanto feci che convinsi i miei a trovare una tavola calda per rifocillarci. Era già quasi buio. Ancora facevo fatica ad abituarmi al fatto che facesse notte così presto, dopo tre mesi in cui si aveva goduto della luce del caldo sole d’estate fino alle otto e mezza passate. La città faceva sempre uno strano effetto, soprattutto a chi, come me, è abituato a vivere in un piccolo e tranquillo paesino di mare californiano. Le strade, i marciapiedi, tutto intorno a te, tutto sembra grande, uno spazio quasi sconfinato, ma allo stesso tempo caotico. Per chilometri all’orizzonte si scorgeva sempre lo stesso panorama: muraglie e file lunghissime di palazzi che sembravano grattacieli, e al centro un fiume luminoso di automobili.
- Papà, guarda! –
Indicai dritto davanti a noi. Vi era un lungo e maestoso ponte ad arco, e le luci posizionate lungo entrambi i lati davano un che di fiabesco al panorama. Papà annuì sorridendo, e prese per mano Michael.  Il fiume scorreva violento e tumultuoso sotto di noi, e mio fratello lo guardava estasiato, quasi impaurito, come se fosse un mostro pronto a inghiottire qualunque cosa incontrasse il suo passaggio.
E in effetti, l’impressione era proprio quella, se si ascoltava anche il sinistro rumore che sembrava provenire da lì sotto, cupo, simile ad un tuono prolungato, al vento quando soffia sui comignoli delle case…Ma quell’altro, quell’altro suono, ancora più strano, non apparteneva al fiume. Iniziammo a percepirlo in sottofondo…era un fischio, ma non un fischio normale… un sibilo che penetrava nel cervello, che stordiva, cresceva d’intensità. Voltandomi, mi resi conto che ogni persona si stava stringendo la testa con le mani. Successe tutto da un secondo all’altro. Un anziano a pochi metri da noi si tappava le orecchie, un ragazzo poco più lontano si guardava intorno spaesato, in cerca della fonte da cui proveniva quel suono, che aumentava… e non aveva assolutamente nulla di umano. La gente iniziava a buttarsi a terra, a rotolarsi in preda allo stordimento, urlare e imprecare, iniziare a correre ognuna in direzioni diverse, senza una meta. Quegli attimi furono i più veloci e confusi di tutta la mia vita. Ad un tratto, qualcosa mi afferrò e iniziò a trascinarmi via. Era la mano di papà che mi teneva stretta, correndo in mezzo alla folla, una marea di gente urlante, che si spingeva, disorientata, come impazzita, e faceva si che io non vedessi assolutamente nulla. Dovevo solo evitare continuamente di schiantarmi contro qualcuno…
“Oh Dio, ti prego, fa che smetta”… E la mia mano non stringeva più nulla. Papà non stava trascinandomi più con se, in salvo. Correvo avanti da sola, ero in balìa di quella valanga di gente che mi spingeva a destra e a sinistra, e non vedevo nulla, non sentivo nulla, neanche la mia voce che gridava “Mamma!! Papà!!!”, perché nell’attimo in cui tentai di emettere un suono, fui completamente sopraffatta da un tuono assordante, tanto terribile che per un attimo ebbi l’impressione che il cielo si fosse spaccato in due sopra la mia testa. Panico intorno a me.  La reazione a catena del terrore si era innescata ed era totale e irreversibile. Attraverso il mare di gente, all’orizzonte iniziò a splendere una luce rossastra, simile a quella del tramonto, ma che accecava, mentre attorno rendeva l’atmosfera buia, sempre più buia…ebbi l’impressione di trovarmi dentro un buco nero, uno di quei campi magnetici attraverso cui, nei film, accedi ad un’altra dimensione temporale…Ma questo non era un film, era una inimmaginabile realtà. L’aria era sempre più calda, asfissiante, i raggi di quella luce penetravano nelle ossa, e facevano male, tanto male…Le persone erano ormai ridotte ad essere formiche impazzite, che si contorcevano in modo raccapricciante sotto le torture di una mano sconosciuta, superiore…Perché l’unica cosa di cui riuscii con orrore a farmi capace, fu che quella forza, qualunque cosa essa fosse, non apparteneva di certo a questo mondo…
Io ero SOLA. Completamente sola. Quando me ne resi conto sapevo che ormai era già troppo tardi. Sapevo che non sarei riuscita più a ritrovare i miei genitori e il mio fratellino. Sapevo che c’era la probabilità che non l’avrei rivisti mai più…Le immagini riflesse nelle mie pupille dilatate al massimo trasmettevano impulsi al cervello. Ciò che vedevo non era di certo un qualcosa da niente, non un falso allarme…O era la fine del mondo, o al nostro mondo era giunto un qualcosa…un qualcosa che proveniva da molto, molto lontano…La verità l’avrei scoperta più tardi…
Le lacrime mi sgorgavano giù dagli occhi come un fiume in piena, ed io continuai a correre. Mi scontrai contro il muro di gente, spinsi, non sapevo neanche quale direzione avevo preso…ma corsi…chiamando disperatamente i miei genitori e mio fratello, e la testa mi girava a furia di guardarmi intorno freneticamente. Persa. Ero totalmente persa e tutto ciò che stavo facendo in quel momento era completamente inutile. Le ginocchia cedettero, come se tutte le mie ossa fossero sul punto di sciogliersi…e mi ritrovai a piangere, inginocchiata sull’asfalto, incapace persino di pensare…Un piccolo, minuscolo essere insignificante in balìa della vita, in attesa di ciò che il destino deciderà per lui, pronto a piegarsi a qualsiasi sua mossa. E pensai persino di restare lì, in attesa di qualunque cosa stesse per succedere, noncurante di reagire…
Fu la paura a riattivare un pizzico di adrenalina, quel tanto che bastava per darmi la forza di alzarmi da quell’asfalto febbricitante e cercare alla svelta un riparo: un tuono più potente e assordante degli altri fece tremare la terra, mentre una mandria impazzita di gente non era riuscita a travolgermi per una frazione di secondo.
Un buco, una porta, lì, sul ciglio della strada. In quel momento riusciva ad assumere un solo significato: salvezza.
Lì dentro, buio totale. Dopo pochi secondi riuscii a distinguere le sagome degli arredi dell’ambiente in cui mi trovavo. Un altro tuono assordante fece tremare le pareti. Lanciai un urlo, e terrorizzata sgattaiolai sotto la prima cosa in quella stanza che mi sembrava potesse dare riparo.
Forse non me ne ero neanche accorta, ma i miei singhiozzi non si erano mai fermati…continuarono a lungo, mentre, rannicchiata sul pavimento, non avevo la minima idea di cosa stesse succedendo lì fuori…ne di cosa sarebbe successo fra pochi secondi, minuti, o ore…ma questo pensiero probabilmente mi abbandonò…la consapevolezza di essere sola al mondo (forse tra non molto nel vero senso della parola), di aver perso la mia famiglia, le uniche mie vere ragioni di vita, e la paura inspiegabile che mi tormentava, mi facevano persino pensare che in fondo ciò che sarebbe successo non era poi così importante…che persino la morte ora mi avrebbe lasciata impassibile…E così, fu buio totale. Stremata, scivolai nel sonno, lentamente, un sonno buio e senza sogni…mentre due lacrime mi si asciugavano lente sulle guance…

 
 

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Capitolo 3
*** Darkshines ***


Un delicato raggio di sole filtrava attraverso una finestra. La sua tiepida carezza mi ricordava mamma. D’istinto sorrisi. Oh, mamma. Mamma che mi lasciava la porta aperta perché l’odore dei cornetti caldi e del caffèlatte mi svegliasse arrivando dalla cucina. Avevo voglia di abbracciarla. Si, sarei scesa giù con le mie pantofoline e i miei capelli arruffati e l’avrei stretta forte, forte.
- M-Micheal…Sparisci…la mamma è stata prima mia che tua…-  Mi svegliai con la mia risata. Smarrimento più completo. Cornetti sul tavolo, un esserino dal caschetto biondo affianco a me: non c’era nulla di tutto questo. Avvicinai le braccia l’una verso l’altra. Avrebbero dovuto stringere la mia mamma. Invece abbracciavo la gamba di un tavolo su un freddo pavimento di una casa sconosciuta. Una scossa violenta si impossessò della mia mente. Flashback spietati, veloci come un lampo, ma abbastanza nitidi e reali da farmi salire il cuore in gola. Mi rizzai a sedere, con il fiatone e gli occhi spalancati dalla paura, e quel terrore provato il giorno prima, in un attimo si ripresentò. I rumori, il fischio acuto e sovrumano che friggeva il cervello, tuoni, urla, pianti, gente completamente in preda alla follia, la mano di papà che mi scivolava via, poi quella strana luce, intensa, insana come quella di un sole malato, altri tuoni, terra e cielo che tremavano, una porta…e poi più nulla. Realizzai che, in preda al panico più totale, la sera prima dovevo essermi rifugiata in un’abitazione abbandonata, probabilmente poco prima che si scatenasse quel finimondo…di cui, adesso, avrei scoperto le conseguenze…
Lentamente mi alzai. Avanzai verso la porta, e strinsi tra le mani il pomello per aprirla…Esitai…Ciò che avrei potuto trovare lì fuori avrebbe potuto essere un qualcosa che mi avrebbe fatto dimenticare all’istante il mondo umano in cui ero vissuta sino ad allora…O magari ero già morta. Magari la sera prima il mondo era finito ed io non ne ero ancora consapevole.
Ciò che si presentò davanti ai miei occhi smentì ogni ipotesi sovrannaturale e priva di senso che mi ero prefissata. Il mondo era normale. Anzi, non era mai stato più normale di quella fresca e soleggiata mattina d’ottobre. Il marciapiede di fronte a me brulicava di gente. C’era chi faceva jogging, chi portava a spasso il cane, chi passeggiava per mano con dei bambini. Anche le strade erano trafficate. Le macchine andavano e venivano in modo monotono, come sempre.
Incominciai a camminare, guardandomi intorno, tentando di osservare ogni minimo particolare di ciò che mi circondava, per vedere di trovare qualche anomalia, qualche cosa di insolito che però, a quanto pareva, non c’era. Più mi guardavo intorno, e più iniziavo ad avere come la strana sensazione di essere l’unica al mondo ad essersi accorta che appena poche ore prima si era scatenata l’apocalisse, e di essere circondata da centinaia di persone che sembravano aver dipinta sul volto l’indifferenza, l’inconsapevolezza, e, peggio di tutto, la normalità…una cosa che iniziava a farmi seriamente paura. Ma intanto di normale non poteva esserci nulla, se i miei genitori e il mio fratellino non erano lì con me, e se ancora sentivo il ginocchio bruciare…era la ferita della sera prima, quando, disperata e abbandonata a me stessa, mi ero lasciata cadere sull’asfalto, terrorizzata alla vista dello spettacolo terribile che si mostrava ai miei occhi…pensando che quello era il peggio che potesse capitare all’umanità…ignara del fatto che il peggio sarebbe stato il dopo…e sarebbe stato ciò che si celava perfettamente dietro la normalità.
Se tutto era così regolare, io ero improvvisamente diventata insana di mente, e il mondo era ancora quello che da diciassette anni conoscevo, allora anche la mia famiglia era ancora lì, da qualche parte. Sperai che le allucinazioni almeno mi portassero a vivere qualcosa di bello, a ritrovare Michael e i miei genitori, e a tornare a casa felici e contenti, continuando a vivere la nostra vita come se nulla fosse mai accaduto. Se la pazzia era stata capace di farmi immaginare la fine del mondo, poteva benissimo illudermi anche di una realtà idilliaca…o no…?
 Iniziai così a cercare la mia famiglia, chiamando per la strada a gran voce
- Mamma!! Papà!! Sono qui, sto bene! - , mentre i passanti si voltavano guardandomi incuriositi
- Michael! Dove siete?? Possiamo andare a casa!! - , continuavo, imperterrita, quasi non vedevo le facce stranite della gente, quasi come se mi fossi già abituata al fatto che la mia mente aveva subito qualche duro colpo.
Avevo percorso già parecchia strada. Non vedevo persino più la casa in cui mi ero rifugiata, neanche da lontano. Ad un tratto, mi ritrovai di fronte ad un vicolo. D’istinto mi voltai per esplorare cosa vi fosse, a quale altra strada o posto portasse. Forse i miei si erano rifugiati in qualche posto nascosto e isolato come quello. Ciò che vidi, però, fu una figura intenta a gettare alcuni sacchetti nel bidone dell’immondizia lì affianco. Era un ragazzo, alto, moro…non lo vidi subito in viso, perché era girato di spalle, ma non so cosa mi trattenne lì, ancora per un millesimo di secondo, quel tanto che bastò perché ad un tratto si voltasse, e mi ritrovai i suoi occhi nei miei.
Non so cosa sia successo precisamente in quell’attimo. So solo che mi resi improvvisamente conto di sentire quel fastidioso blocco allo stomaco che appena un mese prima mi era diventato tanto familiare. So che nella mia mente si misero a scorrere veloci una miriade di ricordi…e, alla fine, si posarono lì: non era una cosa normale, continuavo a ripetermi “Non è possibile…”, perché due persone non possono essere così simili…Quel ricordo che da troppo poco tempo mi ero rassegnata a dover seppellire mi si ripresentò davanti, così reale come non avrei mai immaginato…E risentii di nuovo quelle emozioni pure, fresche, nuove, di quando quel giorno di estate e di sole, i miei occhi avevano visto un sole che brillava più di quello in cielo, e che avrebbe brillato nei miei occhi, e poi nel mio cuore, per un’intera estate. I capelli scuri un po’ spettinati, alto, e con il fisico che in confronto anche un palo sarebbe sembrato più in carne. E quell’espressione, quegli occhi, quel viso, tutto, tutto di lui…era maledettamente, inspiegabilmente, meravigliosamente IDENTICO a quel sole d’estate che avevo dovuto abbandonare, che ora brillava lontano da me, troppo lontano. Ma il suo calore, la sua luce, sembrava sempre raggiungermi, ed ora più che mai, sembrava essere penetrata in quel ragazzo sconosciuto, di cui non sapevo nulla…Sapevo solo che un secondo prima non ne immaginavo l’esistenza nel mondo, e il secondo dopo il mio cuore sussultava pericolosamente di fronte al suo sguardo.
- Ciao…-
Smarrimento totale. Ancora intontita lo salutai a mia volta, timidamente. Attimo di silenzioso imbarazzo. Poi trovai il coraggio di chiedergli:
- Sei di qua…? –
- Si… -
- Io…Io mi sono persa…Non trovo più i miei genitori… -
Lui annuì per un attimo, pensieroso. Probabilmente non sapeva cosa dire.
- Tu anche sei di qua? –
- No, io…Ero venuta in città per dei controlli…Non sono neanche del Nevada…-
- E come hai fatto a perderti? –
Mi paralizzai. Non avrei mai voluto entrare nel discorso. Le immagini della sera prima riniziarono a bombardarmi il cervello.
- Ecco…Ieri…-
Non riuscivo più ad andare avanti. Il fiato mi si strozzava in gola. Risentii quella sensazione di panico. Ma feci di tutto per sforzarmi di mantenere la lucidità. Dovevo pur tentare. Forse, lui sapeva qualcosa. Magari avrebbe potuto aiutarmi.
- Senti, io non so se anche tu mi guarderai con la stessa espressione di tutti quanti gli altri, come se fossi una pazza psicopatica o un alieno sceso sulla Terra, ma…Ieri sera qui è successo qualcosa. E’ successo qualcosa di terribile che in questo momento non vorrei neanche ricordare…ma purtroppo devo…Perché voglio ritrovare la mia famiglia, tornarmene a casa e dimenticare questo brutto incubo, realtà o allucinazione che sia –
Avevo buttato giù le parole tutt’ad un fiato. Due lacrime si preparavano a scendermi giù per le guance, ma le ricacciai indietro. Dovevo essere forte. Il peggio che mi poteva capitare, oramai, era solo che anche quel ragazzo mi guardasse con la stessa aria stranita di tutti quanti, strappandomi via, senza alcuna pietà, un’altra speranza. Tuttavia, la sua espressione non fu affatto quella che mi aspettavo. Il suo sguardo non era interrogativo. Improvvisamente, alle mie parole, fu come se si fosse per un attimo congelato: nei suoi occhi lessi per un attimo PREOCCUPAZIONE. Uno stato d’animo che non mi sarei mai aspettata. Riuscì però a mascherarla così rapidamente da mandare i miei sospetti in oblio sul nascere.
- Vieni con me –
Rimasi immobile. Fidarmi? Tanto ormai non avevo più niente da perdere. Solo la mia stessa vita, ammesso che fossi realmente cosciente.
Mossi un passo e lo seguii. Più osservavo i lineamenti, il suo modo di muoversi e di camminare, più mi convincevo che dovevo avere davanti un’altra delle mie tante allucinazioni..
-Dove andiamo?- , gli chiesi quasi impercettibilmente. Camminava veloce, facevo fatica a stargli dietro.
- In un posto dove sicuramente non ti sentirai sola. E’ un centro di aggregazione giovanile. Ma non ti conviene diventare troppo “di famiglia”, perché dopo iniziano a farti lavorare…a me stasera è toccata la spazzatura, per esempio! - , disse, ma si vedeva che parlava in tono ironico. Già dal modo di parlare, si capiva che era sicuro di se…Sicuro, ironico, con la faccia d’angelo ma misterioso quanto basta per ipnotizzarti…UGUALE  a LUI…Più continuavo ad osservarlo, con la coda dell’occhio, mentre mi portava a questo famoso “centro di aggregazione” di cui mi aveva appena parlato, più continuavo a ripetermi “Non è possibile…non può essere realtà…E’ un sogno…è una reincarnazione…”
Arrivammo di fronte ad un cancello verde, scorrevole, e lui mi indicò che quella era la nostra destinazione. Mi nascosi quasi dietro a lui, istintivamente, mentre entravamo, perché non conoscevo assolutamente nulla di quel posto, ne dei tanti ragazzi che mi trovai davanti, chi seduto su una panchina a chiacchierare o a fumare una sigaretta, chi si rincorreva nel cortile, chi faceva le acrobazie con lo skateboard…Seguìì “il mio sconosciuto” dentro a una porta a vetri. Sulla sinistra c’erano due distributori stracolmi di qualunque sorta di schifezze alimentari. Attraversammo un piccolo corridoio, e mi ritrovai in una specie di salottino con tanto di poltroncine e divanetto. Da una grande stanza lì affianco, sulla cui porta vi era un cartello con su scritto “Ludoteca”, sbucò una signora, alta, magrissima, con i capelli castani, una gonna blu e una camicetta a fiori. Appena mi vide, mi regalò un sorriso. Io ricambiai, ma sapevo di non essere stata abbastanza convincente a causa dell’imbarazzo, e soprattutto dello smarrimento più totale che provavo in quel momento.
- Ema, lei è…una ragazza –
- Si, lo vedo! - , la donna rise, e subito dopo anche il mio accompagnatore, la prima ed unica persona con cui avevo avuto un contatto umano dopo quell’incubo, sorrise, consapevole di non essere stato per niente esauriente nel presentarmi.
- L’ho incontrata per strada, dice che si è persa…magari potete aiutarla –
- Tu dove vai vai, finisci sempre con l’accalappiare ragazze. Adesso neanche mandandoti a buttare la spazzatura posso stare tranquilla! –
“No, anche marpione no, ti prego…”
Ogni minuto che passava, sembrava che fosse in corso un “copia-incolla” tra due persone…Quali, si sono capite…
Sorrise di nuovo…Un sorriso anche questo identico al SUO…un sorriso strano, particolare, quello per cui mi alzavo ogni mattina col batticuore, quell’estate…I denti non del tutto perfetti, con i due canini che sporgevano leggermente in avanti… ricordavano un po’ un vampiro…Ma era proprio uguale a quello di LUI, e per non so quale altra volta in appena cinque minuti, da quando l’avevo visto, quel fastidioso peso sullo stomaco si fece risentire…l’emozione salì fino a toccarmi il cuore, facendomi sembrare per un attimo, solo per un attimo, che stesse per scoppiare…O per prendere il volo, leggero, felice…Mi sembrava di rivivere tutto da capo, come se quel ragazzo lì di fronte a me mi fosse stato messo davanti a posta per farmi vivere ciò che mi era stato negato dal destino. Ed in quel preciso istante, tra tutte le mille domande che mi assillavano la mente, tutte le insicurezze che mi asfissiavano, tutte le paure che mi attanagliavano il cuore, di una, una sola cosa ero certa: non volevo lasciarlo andare.
Lo guardai allontanarsi, entrare in un’altra stanza proprio lì di fronte, dove scorsi altri ragazzi seduti intenti a strimpellare con la chitarra, e dalla quale proveniva della musica. Seguendolo con lo sguardo, capii che c’era un’altra porta lì dentro, sulla sinistra, dove entrò. Era un laboratorio musicale.
La voce della signora lì affianco a me mi distolse dal mio osservare.
- Allora, come ti chiami? –
- Ehm…Annael…-
- Ok Annael, allora…Quel mattacchione che ti ha portata qui ha detto che ti sei persa…E’ vero?-
Che fare…? Dire la verità? Se l’avessi fatto, speravo almeno in un’espressione confortante mentre mi ascoltava. Non del tutto assente ed anzi quasi canzonatoria come tutte le persone che avevo incontrato per strada, ma neanche gelida e ambigua come quella del ragazzo che avevo appena conosciuto. Anche se l’ultima cosa che volevo in quel momento era rivivere di nuovo tutto col pensiero, dovevo farmi coraggio. Tanto, oramai, non avevo più nulla da perdere.
- Voi siete di queste parti? -, chiesi, decisa a domandare con cautela.
- Si, siamo proprio di Sparks. Tu sei di fuori a quanto pare –
- Ehm…si, io…Sono della California. Ieri sera…ho perso i miei genitori –
- Com’è successo? Sei andata dalla polizia? –
- No…Non ho detto niente a nessuno…E’ complicato –
La donna mi guardò per un momento con aria interrogativa. Mi rendevo conto di parlare per enigmi, ma avevo intuito che neanche lei, come tutti quanti, ricordava o era a conoscenza di ciò che era successo la sera prima. Conclusione: non poteva aiutarmi. Lei, come tutti gli altri, fino adesso.
- Chiamiamo la polizia. Raccontagli come è andata, vedrai che si risolverà tutto, stai tranquilla…Per adesso puoi stare qui, se non hai dove andare –
Con aria mesta annuii. Più il tempo passava, più l’indifferenza dilagava, intorno a me…Ed oltre alla disperazione di fronte al continuo, martellante pensiero che non avrei mai più rivisto la mia famiglia, c’era un’ansia incessante che mi tormentava, l’angoscia di non sapere nulla, assolutamente nulla su cosa fosse esattamente accaduto la sera prima, quali conseguenze avesse portato, cosa sarebbe accaduto ora…Era realtà, o era tutto frutto della mia immaginazione? Ero viva, o il mondo era già finito? Se era un sogno, quanto tempo ancora sarei dovuta vivere nell’inquietudine prima di risvegliarmi? Le risposte, non mi era dato saperle. Ma per adesso, riflettendoci, l’idea di avvertire la polizia non era male. Dovevo tentare tutte le strade possibili, fare tutto ciò che era in mio potere, impegnare tutte le mie forze. Non mi sarei arresa, mai. Fino a che non avrei chiuso gli occhi per sempre in questo mondo, reale o immaginario che fosse, avrei cercato di rivedere i miei genitori e il mio fratellino almeno un’ultima volta, per sapere che erano vivi, che il mio dolore per loro era stato vano.
La signora mi mise premurosamente un braccio attorno al collo e mi accompagnò dentro la stanza dalla quale l’avevo vista uscire. C’erano almeno altre tre porte, lì dentro, e una di queste era quella di uno stanzino, dove, su due scaffali, erano disposte riserve di piatti e bicchieri di plastica, tovaglioli, e altri oggetti per la cucina. Sul lato destro, invece, c’era un lettino.
- Ecco, puoi dormire qui. Non è il massimo, però…ti devo dire che, quando mi capita, schiaccio un sacco di pisolini qui dentro e…non è niente male –
L’accoglienza di Ema era confortante. Il suo sorriso e il suo modo di fare mi mettevano sicurezza, e in quel momento, nonostante tutto, sentii la piacevole e delicata sensazione di non essere più sola.
Per il resto del pomeriggio, Ema mi tenne sempre vicino a se. Mi raccontò del Centro, di cosa facevano, del laboratorio musicale e del maestro che dava lezione, gratuitamente, a decine di ragazzi della mia età. Mi disse di come si sentivano uniti, delle attività che organizzavano, stage, gite, gemellaggi, serate, di come si sentissero un’unica grande famiglia, di come lei e il maestro avessero preso a cuore tutti i ragazzi, e li volessero bene come figli. Ogni giorno lì era un viavai continuo, tra musica, risate, scherzi e spensieratezza, si viveva praticamente assieme, ci si ritrovava tutti lì, il pomeriggio, a costruire ricordi di amicizia, felicità, a volte anche litigi…A volte anche amori…
- Domani i ragazzi dovranno esibirsi. Qui, nel nostro cortile, ci sarà un mini concerto di fine anno. Daranno prova del loro impegno di quest’anno, perché adesso, ad ottobre, inizieranno i nuovi corsi. Sono settimane che sono tutti indaffarati a provare, sentili…-
Ema fece un sorriso, protendendo l’orecchio in direzione della sala prove, rimanendo per un attimo in silenzio ad ascoltare, e poi canticchiando la canzone che i ragazzi stavano provando. Da lontano, mi sembrava si trattasse di un brano dei Gun’s ‘n Roses, “Knockin’ on heaven’s door”. Incuriosita, mi alzai dalla poltrona sulla quale ero seduta, e mi diressi verso la porta di fronte a me. Abbassai lentamente la maniglia. La musica mi travolse, chiara, forte. Non avevo mai sentito un gruppo suonare dal vivo così da vicino, e l’emozione di sentire il cuore battere assieme alla cassa della batteria, o il pavimento tremare al suono delle corde del basso, fu una sensazione irripetibile, che, anche se ancora non lo immaginavo neanche, avrei rivissuto tante e tante altre volte lì dentro. Lentamente mi avvicinai alla soglia del laboratorio, e feci appena capolino, per sbirciare. Quello che vidi fu un ragazzo alla chitarra, i capelli neri pettinati a cresta, ed una voce semplicemente da togliere il fiato…calda, profonda, leggermente graffiata…guardandolo in viso, si poteva scorgere solo una cosa in quel momento: passione per ciò che stava facendo, tutto se stesso solo per la musica, occhi e orecchie per nient’altro…Poi c’era un altro ragazzo, che suonava il basso. Era magro, con i riccioli neri, anche lui tutto concentrato a suonare. Lo stipite della porta mi impedì di avere la visuale completa, ma ce n’era sicuramente un altro alla batteria. Riuscivo a scorgerne solo le mani che tenevano le bacchette, e i polsi sciolti che viaggiavano velocemente da un tamburo e da un piatto all’altro. Estasiata, sorrisi. Quello era il mio mondo, sarei rimasta lì, così, ad ascoltarli suonare, per ore e ore, senza mai stancarmi…Perché, in un’intera vita, io della musica non sono mai riuscita a saziarmi.
Quando, verso le otto di sera, il Centro cominciò a spopolarsi, lentamente un pesante senso di angoscia iniziò a penetrarmi.
Ad un tratto, un raggio di luce. Il mio cuore fece un balzo, sentii il respiro fermarsi per un attimo. Brutto segno. Avevo incontrato il suo sguardo, quello del ragazzo che avevo appena conosciuto, quello strano scherzo della natura che in meno di due ore aveva avuto la capacità di annebbiarmi la ragione. Incontrò i miei occhi e mi rivolse uno sguardo intenso, per un secondo. Un secondo che mi sembrò durare un’eternità. Mi salutò con un cenno del capo e abbozzò un sorriso. Non so precisamente se lo ebbi ricambiato, non so quale fu la mia reazione. So solo che l’attimo dopo, quando lui era già sparito dietro l’angolo del corridoio, mi stavo schiaffeggiando da sola col pensiero, chiedendomi se mai ci fosse stata nella mia vita almeno una volta in cui l’imbarazzo mi avrebbe evitato di fare pessime figure.
 
Quando ebbi il coraggio di spegnere la luce e il buio mi avvolse, ogni ricordo confortevole di quella giornata si dissolse. Era come se le tenebre e i brutti ricordi, ancora terribilmente freschi e intatti nella memoria, risucchiassero via ogni speranza e ogni sorriso che con fatica avevo costruito, spietati, crudeli. Non ero più Annael che riprovava uno strano tuffo al cuore incontrando un ragazzo che era esattamente e inspiegabilmente uguale al suo amore impossibile, non ero più quella che forse, quel pomeriggio, aveva trovato conforto, sicurezza e sollievo, accolta in un luogo che avrebbe potuto darle, per il momento, una piccola speranza. Il volto del ragazzo sconosciuto non c’era più. Il calore del sorriso di Ema non c’era più. La musica che mi entrava nel cuore e mi strappava un sorriso in ventiquattrore di agonia non c’era più. Ora ero Annael che vagava correndo, in preda alla disperazione, perché aveva appena perso la stretta di mano del suo papà. Ero Annael che piangeva, che guardava il cielo e si chiedeva cosa stesse succedendo al suo mondo, al mondo che amava, alla sua casa, alla sua famiglia. Ero solo un piccolo essere insulso in balìa della vita. Era così che mi sentivo quella notte. Una sensazione terribile, che mi faceva sobbalzare nel letto all’improvviso, che mi avrebbe condannato a rivivere quell’incubo quella sera, e tutte le notti che seguirono.
 

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Capitolo 4
*** Butterflies & Hurricanes ***


Al risveglio la stanza era buia quasi come la notte prima, quelle ore di insonnia di cui ero reduce. Intuii che il sole era già sorto da un fascio di luce che si intrufolava dalla fessura sotto la porta. Mi alzai. Sentivo il corpo leggermente intorpidito, forse era l’effetto della tensione che avevo accumulato nelle ultime quarantotto ore. Aprii la porta della stanzetta, poi quella della ludoteca, e mi ritrovai in quella specie di salotto dove avevo passato la maggior parte del tempo il pomeriggio prima, accanto ad Ema. Mi buttai a peso morto su una poltrona, cacciando un sospiro. Il silenzio mi avvolgeva, ed ero l’unica a conoscerlo, in quel luogo che di solito era così pieno di vita ed era l’emblema della gioventù. Come al solito, l’aria che scorreva attorno a me senza fare il minimo rumore non poteva fare a meno di farmi scivolare nei pensieri. Pensieri tristi, purtroppo. Cos’altro potevo avere in testa in quel momento? L’ansia iniziò di nuovo a salirmi su per lo stomaco. No, non devo piangere. Presi un bel respiro e mi alzai di scatto. Ad un tratto, sentii un rumore ambiguo. Solo dopo un po’ realizzai che a provocarlo era stato il mio stomaco, a digiuno da ben due giorni. La paura era stata capace persino di togliermi lo stimolo della fame. Stavo pensando a come avrei potuto procurarmi qualcosa da mettere sotto i denti, quando un’immagine del giorno prima attraversò la mia mente. Appena entrata, proprio affianco alla porta d’ingresso, ero passata davanti ad un distributore pieno di qualsiasi sorta di leccornie. Frugai nelle tasche. Per fortuna non avevo perso gli spiccioli che usavo sempre portarmi dietro, per emergenza. E questa era decisamente un’emergenza, visto che il mio stomaco si era messo a fare un vero e proprio concerto. Scelsi una brioche e un succo di frutta, sarebbero dovuti bastare a tenermi in piedi almeno per tutta la mattinata. La signora Ema non mi avrebbe di certo negato una cena decente, una volta arrivata…
Ma quando sarebbe arrivata…? Iniziai a guardare l’orologio e a desiderare fortemente di poter mandare avanti le lancette, magicamente. Come un cucciolo smarrito, attendevo con trepidazione il momento in cui quella porta si sarebbe aperta, e qualcuno sarebbe venuto a prendersi cura di me. Avevo trovato un appiglio, una speranza, una piccola ancora di salvezza. Non ero più sola e tremante in mezzo ad un mondo della cui esistenza non ero neanche più certa. E non volevo esserlo mai più.
In qualche modo, però, dovevo pur passarlo il tempo, così aprii un’altra porta, quella del laboratorio musicale, la stessa stanza in cui avevo fatto capolino il giorno prima, ammirando di nascosto quei ragazzi della mia età che avevano il mio stesso sogno: nutrirsi instancabilmente di musica fino al momento in cui avrebbero esalato l’ultimo respiro. Il luogo era maestoso. La sala prove era stata realizzata a mo’ di platea. Un primo scalino portava su una piattaforma più estesa, un secondo, invece, su un’altra, e un terzo su un’altra ancora, sempre meno estese fino a terminare in un semicerchio, nella parte più alta. Non era affatto una sala di chissà quali dimensioni, ma gli strumenti messi lì, immobili e ordinati, davano quasi l’impressione di avere un’aria di formalità, come guardie svizzere. La loro vista mi suscitò un’emozione mista fra devozione, frenesia e commozione. Dovunque ci fosse musica, io mi sentivo a casa. E questa sensazione che dolcemente mi scorreva nelle vene e mi scaldava il cuore, fece sì che un sorriso sbocciasse sotto i miei occhi che brillavano. I miei passi risuonavano sulla moquette rossa e sul pavimento di legno, e per la centesima volta nella mia vita mi chiesi cosa ci potesse essere di più sublime del silenzio. Sfiorai con le dita i tasti bianchi e neri di un pianoforte, il mio compagno di vita. Salii il primo gradino e pizzicai le spesse corde di un basso, mi voltai alla mia sinistra e i miei occhi salutarono con entusiasmo una chitarra. Salii ancora e di fronte a me trovai un aggeggio strano, che non avevo mai visto prima. Solo osservando una scatolina nascosta lì dietro, e scorgendoci dentro qualche paio di bacchette, intuii che doveva trattarsi di una batteria elettrica, molto diversa da quella classica. Le dimensioni erano decisamente minori, i tamburi e i piatti avevano tutti una strana forma ovale, ed erano rivestiti di una gomma nera. Avevo capito una cosa dal momento in cui ero entrata lì dentro: d’ora in avanti, la noia non mi avrebbe tormentata così facilmente. Mi sedetti sullo gabellino del pianoforte, ed il mio dito fu una piuma che leggera si posò su un tasto bianco. Un suono così soave, sospeso nel nulla, che si fondeva col silenzio più totale e non lo rovinava, no…lo completava dolcemente…si fondeva con esso e provocava la mia estasi. Quando le mie mani furono un tutt’uno con quella musa che dall’età di otto anni aveva guidato ogni scintilla, ogni movimento della mia anima che, come il mare, con le sue onde mi guidava nell’oceano della vita…trovai finalmente la mia pace.
 
Un rumore in lontananza, rumore di una porta che si apriva, poi passi, veloci, sempre più vicini, ed ecco spuntare dal corridoio una figura conosciuta. Appena mi vide, la signora Ema non mi negò un sorriso.
- Ciao! Dormito bene? –
- Si, grazie - , ricambiai, felice di rivederla.
- Ti ho portato il pranzo. Io sono venuta un po’ prima perché ho da finire alcuni lavori qui al computer, altrimenti poi arrivano i ragazzi per le prove e non mi fanno combinare più nulla, come al solito –
- Oggi…hanno le prove? –
L’immagine nitida di un ragazzo dalla somiglianza impressionante con qualcun altro si materializzò rapidissima nella mia mente.
- Si, assolutamente! Stasera hanno il loro concerto di fine anno, ricordi? –
Annuii, sorridendo. Ma i miei pensieri vagavano in tutt’altra direzione.
- Sei ancora sconvolta…Ha chiamato qualcuno? Il comune, la polizia? –
Scossi la testa e abbassai lo sguardo. La terribile angoscia provocata dal benché minimo accenno di quell’argomento stava iniziando a tramutarsi in una sorta di meccanismo di autodifesa. Sentii la gola chiudersi completamente, ed ebbi la sensazione di aver dimenticato ogni parola, ogni pensiero, e persino il modo di sorridere. Ema si accorse di tutto, e mi venne vicino.
- Tranquilla, su…Vedrai che andrà tutto bene, la ritroveremo la tua famiglia. Ora ci siamo noi a prenderci cure di te. Non sarai mai sola...- , disse dolcemente, stringendomi a se. Dentro di me era freddo. Quella notte e la mancanza dei miei avevano congelato ogni emozione calda e piacevole che da quel momento avrei potuto provare. Solo tre cose erano riuscite e sciogliere un po’ quel gelo, soffiando sul mio cuore con un tepore leggero, che per ora mi faceva sopravvivere: il sorriso di Ema, la musica, e quella splendida reincarnazione il cui pensiero mi vagava nella mente, sempre più impaziente di riaverlo davanti, in carne ed ossa, e mi provocava un batticuore assurdo e quel nodo allo stomaco che odiavo così tanto…perché mi conoscevo, e sapevo che poteva significare soltanto una cosa...che mi stavo meravigliosamente e maledettamente innamorando.
 
Le sedie che avevamo posizionato riempiendo praticamente tutto il cortile erano già per la metà occupate. La maggior parte erano genitori, corsi a prendersi i posti in prima fila per non perdersi l’esibizione dei propri figli. Il palchetto che il maestro aveva fatto posizionare in fondo al grande spiazzo lì fuori era modesto, una semplice pedana di legno dove già erano stati collocati tutti gli strumenti. Molti ragazzi erano lassù, intenti ad accordare le chitarre o a collegare fili e cavi che a me, solo a guardarli, sembravano non avere ne capo ne coda. Avevo finito da poco di aiutare Ema a sistemare tutto il necessario, e decisi di mettermi in un angolino, vicino alla porta, per poter passare il più possibile inosservata e allo stesso tempo godermi lo spettacolo. Li avevo sentiti provare tutto il pomeriggio, il repertorio era abbastanza vasto, ma ero sicura che avrebbero fatto un figurone.
Il maestro salì sul palco e prese in mano il microfono.
- Salve a tutti! Io sono Leonard Keys e questi sono i ragazzi del Centro di Aggregazione Giovanile di Sparks. Questa sera, tutti loro vi daranno prova di come si può crescere insieme, con la musica…Di come la forza di volontà, l’impegno, la grinta e la passione abbiano fatto sbocciare in loro grandi emozioni…emozioni che non hanno voluto rimanessero rinchiuse lì, egoisticamente, dentro ai loro cuori… le hanno volute donare a voi. Questi ragazzi sono la voglia di vivere, l’amicizia, il coraggio, l’unione. Noi speriamo che con questi ingredienti essenziali della vita il Centro vada avanti, e che questo sia solo il primo anno di una lunga serie. Buon divertimento a tutti! –
Seguito da uno scroscio di applausi, lo spettacolo iniziò. I ragazzi cominciarono a suonare. Erano veramente tanti. Sul palco vedevo almeno tre o quattro chitarre elettriche, un basso, la batteria, e quattro o cinque cantanti che si alternavano di brano in brano, mentre ai piedi della pedana c’era un gruppo di chitarre classiche assai numeroso, i chitarristi tutti seduti, con le braccia che si muovevano al medesimo ritmo.  Ad un tratto, salirono sul palco dei ragazzi dal volto familiare. Mi ricordai, erano gli stessi che avevo visto nella saletta delle prove: quello ricciolino che suonava il basso, e quello con gli occhi di ghiaccio e i capelli neri che stava alla chitarra. Ma, a pensarci bene, ricordai che quel pomeriggio stava suonando anche qualcun altro, colui che avrebbe dovuto essere alla batteria, e che non ero riuscita a scorgere del tutto da dietro l’angolo della porta. Ed infatti, ecco una terza figura salire i quattro scalini al lato del palchetto. La connessione fra mente e cuore in quel momento fu rapidissima, come un fulmine che con la sua scarica elettrica mi attraversò e mi diede un brivido. I miei occhi erano fissi su quell’immagine perfetta e bellissima, quel mistero inspiegabile che come una forza magnetica mi spingeva a provare la frenesia di volerne a tutti i costi svelare i segreti. In quel momento, mi resi conto che anche se fosse stato uno scherzo della natura, o più semplicemente la più estrema e tangibile prova della mia follia, la mia scelta sarebbe stata quella di rimanere folle, e continuare a sognare.
Le sue braccia e le sue gambe erano energia, si muoveva come se fosse un tutt’uno con il suo strumento. Le note della canzone dei Guns scorrevano, come una colonna sonora che faceva da sottofondo a quegli interminabili minuti in cui il mio sguardo non riusciva fare a meno di lui.
Applausi entusiasti riuscirono a disincantarmi lentamente, come se mi stessi appena destando dal torpore del sonno. Riuscii ad intravederlo mentre si alzava e si allontanava dal palco, scendendo giù per gli scalini. Poi, come fosse stato solo un meraviglioso miraggio, si dissolse nella folla, e non lo vidi più.
- Annael!! – Anche se era passato soltanto un giorno, oramai la voce di Ema era un suono così dolcemente familiare che non sarei riuscita a confonderlo con nessun altro.
- Si…? - , risposi, guardandomi intorno per cercare di capire dove fosse. Credo mancasse poco alla fine della serata, ma la gente tutta accalcata ovunque, persino vicino alla porta d’ingresso, dove io mi trovavo, riusciva solo a confondermi e a farmi girare la testa. Nonostante tutto riuscii a captare la richiesta di Ema. Mi addentrai nel corridoio e raggiunsi il laboratorio. Lì accatastai tre sedie l’una sull’altra e ritornai in cortile, per poi posizionarle dove molta gente non era riuscita a prendere posto. Feci per tornare indietro a prenderne altre, ma sulla porta d’ingresso mi scontrai con qualcosa che me lo impedì.
- Oh…. –
Alzando la testa, mi resi conto che si trattava di un qualcuno. In particolare, di un qualcuno la cui vista mi provocò un salto al cuore, e un nodo allo stomaco, improvviso, quasi stroncante. I miei occhi nei suoi mi impedirono di pronunciare qualsiasi vocabolo di senso compiuto. Ci pensò lui a farlo.
- Ciao… -
- Ehm…ciao…-
Mi aveva colto così di sorpresa che non avevo neanche lo stimolo a reagire. Continuò a guardarmi con un mezzo sorrisetto sghembo dipinto sul suo viso pulito, ed io non sapevo veramente che volto mi trovavo davanti. Tentavo di trovare qualche differenza tra lui e il mio ricordo di quell’estate, che ancora riuscivo a conservare nitido nella mente, ma non ci riuscivo. Era straziante. Straziante e intrigante allo stesso tempo, la meraviglia causa del mio autolesionismo.
- Ho suonato bene? –
- Siete stati bravi, veramente grandi… –
- Lo so – Sul suo volto si dipinse una beffarda espressione di fierezza, che non poté fare a meno di farmi sorridere. Qualcosa dentro di me fece un lieve rumore sordo. Un altro pezzo di ghiaccio si stava sciogliendo.
- Faresti bene ad adottare un po’ di modestia nella vita, sai? - , lo stuzzicai. Lui rise.
- Sono fatto così –
- Sei sempre così presuntuoso? –
- Sono io, semplice il fatto - , continuò a sorridere, e mi fece l’occhiolino. – E scommetto anche che ti servirebbe un aiuto a portare tutte quelle sedie… -
Dove prima c’era ghiaccio, ora sentivo sorgere il fuoco.
- Tu non devi suonare? –
- Non ancora. Mi tocca il pezzo finale –
- Ah…Ok, allora ti permetto di aiutarmi…signor “so tutto io” –
- Non te l’avevo chiesto, era un’affermazione –
Risi, e ci avviammo verso il laboratorio. Mentre andavamo avanti e indietro trasportando sedie, gli chiesi da quanto tempo suonasse.
- Da poco più di un anno –
- E ti hanno insegnato qui? –
- Diciamo che il maestro mi ha dato le basi necessarie. Siamo in tanti, gli viene impossibile seguire attentamente ciascuno di noi. Così per la maggior parte del lavoro me la sono dovuta cavare da solo –
- Però… niente male per uno che se la tira fin troppo – Cercai di esprimergli una gentilezza sotto mentite spoglie provocatorie. Mentre lavoravamo, notai che in effetti la forza non gli mancava affatto. Nonostante avesse la costituzione fisica paragonabile a quella di un chiodo, dritto e magrissimo, riusciva a sollevare anche cinque o sei sedie tutte in una volta. Una fascia di muscolo appena accentuata si sollevava sul suo avambraccio, quando era sotto sforzo. Fisicamente dava la strana sensazione di essere così scarno, eppure così forte. A quella vista, un flashback inevitabilmente si insinuò nei miei pensieri. Mi pareva di sentirlo, il sole che picchiava sulla mia testa, e il dolce fruscio delle onde del mare limpido di agosto. Un ragazzo, assieme ad altri due, era sceso sulla battigia per salire un pattìno. A vedere quei due, non ti sarebbero di certo venuti dubbi sul fatto che fossero bagnini. E mentre i loro bicipiti si gonfiavano fieramente nello spingere il pedalò, il fisichino di quell’altro non faceva una piega. Al sole si vedevano luccicare solo le vene e i nervi sotto la pelle. Tentai di risvegliarmi, accantonando i ricordi, ma dovetti ammettere a me stessa che oramai tutto mi sarebbe stato alquanto impossibile. Perché lo stesso, quasi identico spettacolo, ce l’avevo davanti.
A un certo punto, ritornammo in laboratorio e ci accorgemmo che non avevamo più sedie da caricare.
- Ne mancano ancora almeno cinque o sei -, dissi, allargando le braccia. Per lui il problema fu pressoché subito risolto. Uscì con il suo solito passo svelto dal laboratorio ed entrò nella ludoteca. Io mi limitai a seguirlo solo fino alla porta, da dove mi affacciai.
- Ema, le sedie in laboratorio sono finite –
- Oh…Andate a vedere sul retro, ce ne dovrebbe essere rimasta conservata qualcuna –
Ema, seduta nel suo studio davanti al computer, mi vide fare capolino e mi sorrise, un attimo prima che il ragazzo uscisse e mi trascinasse da un braccio, dicendo
- Vieni, andiamo - 
Il suo tocco non durò che pochi secondi. Secondi che mi lasciarono interdetta, quasi lo seguivo come fossi un automa, come se lui emanasse un’aurea che gli permetteva di tenere in mano la situazione, che gli dava il diritto di annebbiarmi completamente la ragione. Sentivo uragani e farfalle nello stomaco. Mi rendevo conto di avere sempre meno via di scampo. Lui predatore, io preda.
Appena svoltammo l’angolo che dava sul retro del cortile, un buio pesto ci avvolse.
- Come facciamo a sapere dove sono adesso? Non si vede un fico secco… -
- Forse ricordo dove le ha messe Ema, devono essere qui per forza, non possono essere da nessun’altra parte –
Alle sue parole, non persi l’occasione per sfotterlo di nuovo.
- Ah già, dimenticavo…Se lo dici tu… -
Sentii un risolino, ma presto mi accorsi che la ragione doveva essere dalla mia parte, perché lì dietro non c’era traccia di nulla.
- Ma dove sono finite? Dove le avrà messe? –
Lo vidi girare su se stesso e guardarsi intorno, nel buio. Ad un tratto, grazie a quel poco di luce che proveniva da più avanti, dove si rispuntava dall’altra parte del cortile, i miei occhi scorsero qualcosa. Era piccolo e luccicante. Mi avvicinai stringendo le palpebre, per tentare di capire di cosa si trattasse. Solo quando fui ad un passo, un sorriso mi si allargò tra le guance.
- Oooooh..!! - , esclamai, chinandomi. Il ragazzo si voltò verso di me.
- Guarda! Una ranocchia! – Egli mi raggiunse, e si inginocchiò affianco a me.
- Che carina! E se la bacio e diventa un principe? –
- Ahahaha, provaci! –
Risi, e allungai una mano per cercare di afferrare l’animaletto. Lo sfiorai appena, e con un balzo si allontanò.
- Uh!! -, esclamai, sorpresa, e scoppiai a ridere. Era viscido e appiccicoso.
- Ho capito, la prendo io! - , disse lui, e fece un passo avanti impegnandosi ad acchiappare la ranocchia, ma senza successo. Ci ritrovammo a saltellare avanti e indietro, a ridere e giocare come due bambini, fino a che, nel buio, non ci rendemmo conto di aver fatto un balzo nella stessa direzione, e ci scontrammo con una spallata.
- Dov’è, dov’è? L’abbiamo persa –
- Nooo, è scappata! –
- Niente principe azzurro, mi dispiace –
- Troverò di meglio di una rana –
Ancora ridendo, sbucammo nella luce del cortile.
- Ops, ci siamo dimenticati le sedie…Ed ora? –
- Ed ora quelli rimasti in piedi mi faranno la standing-ovation per il mio ultimo pezzo –
Sul palco, gli strumenti smisero di suonare, e cantanti e musicisti si prepararono per darsi il cambio. Da lontano, vedemmo il maestro guardare su un foglio che teneva in mano, molto probabilmente la scaletta, e guardarsi intorno freneticamente. La fortuna volle che il suo sguardo cadde subito dritto davanti a se, nella nostra direzione, e si sbracciò, ricambiato subito da colui che avevo affianco.
- Vai - , gli sorrisi.
- Comunque piacere, mi chiamo Nathan. Nathan Falls –
Gli uragani e le farfalle tacquero. Il cuore si arrestò. Per un attimo temetti davvero che non si destasse più. Va bene, poteva trattarsi anche solo di un meraviglioso e maledettissimo sogno. Ma adesso, cominciava a farmi paura. Nathan Falls era un nome che avevo già sentito da troppo tempo. Inaspettata coincidenza, era lo stesso, identico nome che aveva cominciato a tormentarmi a partire da quell’estate.
 

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Capitolo 5
*** Ruled By Secrecy ***


Camminando per le strade di Sparks, quella mattina, mi rendevo conto sempre più di una cosa. Una nuova sensazione si stava annidando dentro di me, stava entrando piano, quasi senza neanche disturbarmi, persuadendomi in maniera automatica ad accettarla. Si chiamava “rassegnazione”, e, forse, era anche l’unica cosa che faceva scoccare in me la scintilla per convincermi ad andare avanti, perché tutto stava nel prendere consapevolezza del fatto che qualunque cosa fosse successa quella sera, era successa, si trattava della realtà, e niente era più come prima. In quei giorni, anche se con molta fatica, avevo compiuto questo passo, ed ora era arrivato il momento di farla finita con le giornate intrappolate nell’angoscia, immerse nei brutti ricordi, pitturate solo di buia paura e infelicità. Il cucciolo smarrito doveva alzarsi e combattere per diventare più forte, era il tempo di reagire e di affrontare il destino. L’avrei sfidato fino alla fine, fino a quando non avessi ottenuto ciò che cercavo. Senza neanche accorgermene, allora stavo imparando cosa fosse la vita. Un cielo immenso e infinito, cosparso di ingenue e innocenti nuvole. Quelle nuvole, devono perforza cambiare forma, per non essere spazzate via dal vento, e qualche volta devono anche trovare la forza di lasciarsi scivolare la pioggia addosso, perché dopo possa ritornare il sereno. La mia pioggia era pesante, incessante, e fredda. Sembrava un uragano. Ma sapevo che lasciare che mi scorresse addosso e cambiare forma era l’unico modo per raggiungere la felicità, se Dio mi avesse concesso di riceverla ancora una volta.
Uscire dal mio rifugio sicuro quel giorno era ciò che avrei dovuto fare per iniziare la mia partita a scacchi contro il destino. Avrei girato un po’ per la città in cerca di un lavoro, almeno non avrei più costretto Ema e il maestro Leo a mantenermi a loro spese. Avrei iniziato a cavarmela da sola. I marciapiedi brulicavano di gente, la maggior parte uomini in giacca e cravatta che sfrecciavano come avessero i pattini al posto delle scarpe. A guardarli mi veniva in mente il coniglio bianco della favola di “Alice nel paese delle meraviglie”, con il suo orologio da taschino che borbottava “sono in ritardo, sono in ritardo!”. Fino a quel momento scene del genere mi erano familiari solo perché erano praticamente degli stereotipi nei film, ma ora avendole davanti pensai bene che dovevano essere di routine nelle città. Effettivamente era orario di lavoro, mi ero alzata presto quella mattina, perché non ero riuscita a chiudere occhio, come tutte le notti. Passai davanti a bar che a quell’ora lavoravano a pieno ritmo, perché colmi di gente che si concedeva una buona colazione. Ad un tratto qualcosa attirò la mia attenzione. Una bacheca, sorretta da un palo sul bordo del marciapiede. Mi fermai, non feci neanche in tempo a schivare un signore che per scansare la folla mi diede una spallata, ma non ci feci caso. Ero troppo presa dall’osservare quel foglio appeso lì, una pagina stampata con una foto e, sotto, una scritta a caratteri maiuscoli: “SCOMPARSA PENELOPE. SE AVETE NOTIZIE, VI PREGO CHIAMATE: 3257994502”. L’immagine mi era totalmente familiare. Si trattava della mia gattina, che avevamo perso la primavera scorsa. Ricordai quanto Michael avesse pianto, quanta tristezza e dispiacere avessimo condiviso, quanti pomeriggi in cui abbandonavo i compiti di scuola, prendevo per mano mio fratello, e cercavamo insieme in ogni strada, chiamando Penny a gran voce, fino a quando non la trovammo rinchiusa in uno degli appartamenti in affitto di nostro nonno in compagnia, per di più, di quattro bellissimi cuccioli.
Ma in quel caso, la vista di quel manifesto lì, in quella città sconosciuta in cui andavamo soltanto tre volte all’anno, e in cui nessuno o quasi era di nostra conoscenza, mi fece semplicemente gelare. Cosa ci faceva la richiesta d’aiuto per la mia gattina scomparsa ben sette mesi fa, e poi tra l’altro ritrovata, a Sparks, in un posto lontano duemila chilometri da casa mia? E poi, quello lì sotto era il numero di mia madre. Già, un numero di cellulare. Con la potenza di una scossa, un lampo mi illuminò la mente. Ma come avevo fatto ad essere così stupida?! Era la prima cosa che avrebbe dovuto passarmi per la mente! Eppure ero stata lì, tutti quei giorni, imbambolata ad aspettare chissà che cosa, che tutto si risolvesse per mano propria, a vagare nel nulla. Mentre col cuore che mi pulsava in gola mi dirigevo quasi correndo verso un qualsiasi luogo in cui avrei potuto trovare una cabina telefonica, con la mente mi stavo potentemente prendendo a schiaffi da sola. L’argomento “telefono” mi fece anche ricordare che probabilmente il mio doveva essersi frantumato da qualche parte il giorno della catastrofe, visto che non ricordavo di averlo avuto addosso neanche quando mi ero nascosta dentro alla casa abbandonata quella stessa notte. Finalmente, guardando in un vicolo, scorsi un apparecchio telefonico. Mi ci precipitai, afferrando la cornetta e ficcandomi la mani in tasca per prendere qualche spicciolo. Con le mani che mi tremavano, inserii le monete ed iniziai a digitare il numero di mamma. I momenti essenziali della vita sono sempre fatti di secondi che sembrano interminabili. Ed in quei secondi io sentivo solo il mio respiro pesante soffiare sulla cornetta, e il mio cuore pulsare contro il petto opprimendomi il fiato. Ma quella risposta non arrivò. Il telefono non squillava neanche, era come se non ci fosse linea, o come se non esistesse. Riprovai con quello di papà. Stesso risultato.
Due ore dopo, mi trascinavo desolatamente verso il Centro, con una voragine nel petto e lo sguardo fisso sulle mie scarpe, sui miei passi che avevano appena dichiarato la resa al primo round della partita contro il destino.
 
Le mie dita che scivolavano leggere sui tasti del pianoforte, la mente avvolta nella musica, e l’anima nel buio. Così mi trovò il maestro verso le quattro del pomeriggio, aprendo la porta della saletta prove. Leonard fu immediatamente sensibile alla mia aria mesta, e nonostante non si trattasse di un tipo di molte parole, mi mise una mano sulla spalla, dicendomi amorevolmente:
- Hey…Cos’è successo? –
Non avevo voluto parlarne con nessuno. Nemmeno con Ema. Da quando ero rientrata non avevo spiccicato una parola. Sentivo che la mia mente era così vuota, ma allo stesso tempo così piena di domande…essa si rifiutava di rielaborare ciò che mi era appena capitato. Non sapevo se preoccuparmi di comprendere il mistero del cartello di Penelope, o se lasciarmi annegare nella tristezza più assoluta di fronte alla prova tangibile che dei miei genitori non avevo assolutamente più nessuna traccia, non ero in possesso di alcun indizio che mi portasse alla verità, e non riuscivo ad intravedere nessuna strada che mi ricongiungesse a loro. Sapevo solo che in quel momento mi andava bene essere triste. Preferivo essere triste piuttosto che assecondare quella follia che sentivo bruciare dentro, e cercava di aprire una voragine per poi esplodere, e urlare. Il maestro non disse più nulla. Mi strinse la spalla e poi uscì, richiudendosi la porta alle spalle lentamente, quasi non volesse disturbare il mio silenzio, o mancare di rispetto alle mie emozioni, in quel momento. Non resistetti ancora a lungo rinchiusa nella sala prove. Ad un certo punto fui costretta ad alzarmi da un’inspiegabile frenesia. La sentivo crescere dentro secondo dopo secondo, mi spingeva verso l’uscita, come se mi stesse preannunciando che sarei morta asfissiata da un momento all’altro se non avessi respirato un po’ d’aria pura. Appena messo il naso fuori dall’uscio, mi pervase una brezza leggera. L’aria di metà ottobre era fresca, ma quel sole che ancora non si era arreso di fronte all’inverno si posava sul mio viso accogliendomi nel suo abbraccio colmo di tepore. Mi voltai, e quell’ impavido destino che si divertiva a complicarmi la vita volle che quello stesso raggio di sole allungasse il braccio, e si andasse a posare su dei capelli scuri e due occhi che lanciandomi una scossa elettrica scintillarono. Mai avrei amato il SOLE così. Il sole era lui. I suoi raggi, come la scia di una cometa, si portavano dietro tutto, tutto ciò che di maledettamente meraviglioso avevo visto, provato e vissuto quell’estate. Era entrato dal cancello e stava venendo verso di me, e mentre io mi aspettavo un semplice e magari disinteressato “ciao”, lui continuava a venire avanti, fino a quando non me lo ritrovai a due centimetri con la guancia parata all’altezza delle mie labbra. Il suo paranormale potere di ipnosi aveva uno scopo, quello che io lo salutassi. Ed io gli diedi un bacio. Il secondo dopo la mia mente era ridotta peggio di un softwere impazzito.
- Oggi canto, giusto? –
- Si…però non c’è ancora nessuno –
- Ma perché, tu…Ah, giusto…Ti sei stabilita qui allora? –
Ecco. Sguardo che crolla in basso e completa incapacità di tener su una maledetta maschera, come sanno fare tutti. Io, mio malgrado, ero acqua. Trasparente, limpida, estremamente fragile.
-  Finché posso… –
Vidi il suo sguardo fisso nel mio, profondo, misterioso…indecifrabile. Ero ancora ignara di troppe cose allora, non sapevo che proprio quest’ultima parola sarebbe stata il mio tormento, e che per la seconda volta mi avrebbe fatto versare tante più lacrime per amore di quante non ne avrei volute mai più cacciare. Una voce stridula in un istante spezzò quella magia. Proveniva dal cancello.
- Nathan!! Facciamo un duetto oggi? –
Una ragazzetta, che poteva essere appena poco più piccola di me, ma che dall’atteggiamento dimostrava almeno quattro anni in meno, avanzò ancheggiando tra le pieghe della minigonna che portava, ravviandosi i lunghi capelli biondi con la mano. In un attimo mi ritrovai dal guardare dritto nei suoi occhi, al vederlo voltarmi le spalle. Cinse con entrambe le braccia la vita non proprio al massimo della forma della ragazza, e fece lo stesso identico servizio che aveva fatto con me appena qualche minuto prima. Parò la guancia, e lei lo salutò.
- Un duetto? Io non sono bravo a cantare, ma se vuoi possiamo rimediarlo in un altro modo, questo duetto –
La ragazza fece una risata sguaiata, rovesciò la testa all’indietro e lui mise la mano per sorreggerla, attirandola ancora di più a se. Lei non parve farsi scrupoli, e fece lo stesso.
- Sei un maiale! –
Quando li vidi aprire la porta e, abbracciati, sparire nel corridoio, iniziai a ricordarmi che quell’estate non aveva brillato soltanto il sole. C’erano state anche tempeste, fulmini, uragani. Bene, ricominciai a sentirli, forti e chiari…tentare di pugnalarmi il cuore.
- E queste che abbiamo appena imparato si chiamano figure di valore. La semibreve vale…? –
Un coro di voci si alzò.
- Quattro quarti! –
- La minima? –
- Due quarti! –
- Bene, la semiminima? –
Le basi di teoria musicale le sapevo a filastrocca, avendole imparate da piccola mi erano rimaste ben impresse nella memoria. Perciò le voci dei miei compagni principianti che soddisfatti davano le risposte al maestro divenne ben presto un suono lontano e indistinto. Alla mia destra, qualche sedia più in là, c’era una comprensibile, enorme distrazione. Ed io invece di pensare alle note e alla durata dei suoni tentavo di controllare il mio sguardo che inevitabilmente cadeva su di lui, quasi sdraiato sulla sedia con una gamba poggiata sull’altra e le braccia incrociate al petto. Studiava batteria, ma la ragazzetta in minigonna in quel momento era impegnata a far bella figura col maestro, senza dimenticare di lanciare a Nathan sguardi e sorrisi provocanti, di tanto in tanto, quindi lui, in mancanza di altro da fare, si era appostato lì, osservando ciò che si svolgeva nella stanza. Il maestro aveva suddiviso brillantemente la lezione in un quarto d’ora di teoria e il resto del tempo in pratica, il che significava che in quel preciso istante tutti si alzarono dalle sedie per filare dritti in saletta. Già li sentivo decidere tutti eccitati i brani che avrebbero cantato, e contendersi il microfono. Io raggiunsi la soglia senza fretta, perché il non farmi notare era il perenne scopo della mia vita. Evidentemente però, quella volta non mi riuscì abbastanza bene.
- Anna, che aspetti, vieni anche tu, dai! –
Era Donnie, una delle poche persone con cui c’era la possibilità che saremo diventate buone amiche.
- Non so cosa fare, Donnie…E poi, cantare davanti a tutti… - Scossi la testa in segno di disappunto, facendo un risolino, ma Donnie con passo deciso si avvicinò, mi prese da un braccio e mi trascinò in saletta, mentre io già sentivo gli occhi di tutti puntati addosso. Il cuore cominciò a pulsare forte. Ecco, se avessi potuto leggere le loro menti, il quel momento sicuramente stavano lamentandosi. “E’ arrivata la trovatella miss depressa e asociale”. Non avevo neanche la certezza che lo pensassero, ma se fosse stato vero, non l’avrei sopportato.
- Devi farti coraggio, nessuno è un cantante professionista qui. Vedi Giorgie? - , Donnie alluse alla bionda “miss universo” che a quanto pareva non suscitava antipatia solo a me.
- Se lei è qui perché sa cantare allora noi dovremmo essere già pronti per Sanremo-
La mia amica mi fece l’occhiolino, e una scintilla di buon umore sprizzò dai miei occhi color nocciola.
- Donnie, secondo te perché nessuno osa dirle le cose in faccia, a Giorgie? –
- Semplice, perché la reputano troppo stupida per darle importanza. Le tipe come lei si nutrono di egoismo puro. Bastano a se stesse, talmente tanto da escludere automaticamente gli altri –
- E chi le va dietro, allora? –
- Evidentemente è fatto della stessa pasta. Fra simili si comprendono –
Desolata, guardai Nathan seduto sullo scalino di fronte a noi, e Giorgie che si accomodava sulle sue ginocchia, accavallando le gambe. Gli occhi azzurri, languidi, tramutati nello sguardo da gatta sorniona più ben riuscito che mi fosse mai capitato di vedere.
 
Era troppo presto per uscire dal mio guscio di timidezza. Così ero rimasta a guardare i miei compagni saltellare ed esaltarsi davanti al microfono, svolgendo ognuno, a turno, una canzone. Nathan aveva finito i suoi giochetti con la gattina di turno, e ad un tratto lo vidi avvicinarsi a me. Quando me lo trovai di fronte, lo guardai dal basso dello scalino su cui mi ero accovacciata, un’occhiata quasi di rimprovero, ma lui certamente non avrebbe mai captato il perché io fossi arrabbiata. Ancora non sapevo così tante cose di lui. Per ora, la figura del tipo forte e autoritario che ha tutta l’aria di avere completamente in mano la situazione, e in più quell’aurea di mistero che lo circondava, bastavano a creare una sorta di incantesimo capace di annebbiarmi completamente la ragione. E così fu quando mi porse la mano e mi tirò a se. La sensazione era come trovarsi imprigionata nel corpo inerte di una bambola di pezza. Ero come un giocattolo, completamente in balìa delle sue mani.
- Balliamo? –
Non mi diede neanche il tempo di fiatare che già mi aveva sollevata da terra, mi aveva presa per mano, e aveva cominciato a saltellare avanti e indietro per la saletta, sotto gli occhi divertiti di tutti. Istantaneamente mi accorsi che un suono strano usciva dalla mia bocca. Mi sembrava di non sentirlo da così tanto tempo. Credevo persino che lo avrei dimenticato per sempre. Stretta, stretta tra le sue braccia, ridevo, presa da quel gioco stupido, ridevo come una pazza. E tutte le persone nella stanza si sollevarono in aria, perché troppo potente era l’esplosione di energia che sprizzò dal mio cuore, colorando l’aria di tenere scintille di felicità.
 
Quella notte, l’angoscia non si risparmiò di riaffiorare. Dopo essermi svegliata di soprassalto per l’ennesimo incubo, mi girai e rigirai sotto le coperte, nell’inutile tentativo di riprendere sonno. Ma l’immagine del cartello della mia gattina scomparsa con il numero di mia madre era diventata inchiostro indelebile nella mia mente. Era una fotografia su un interminabile sfondo nero che si decise a cambiare colore solo quando la tenue e opaca luce dell’alba iniziò a penetrare dalla finestra.
 
- Buongiorno, dormigliona! –
Con una mano mi coprii gli occhi, infastidita dal fascio di luce che entrò dalla porta.
- …’ngiorno… - ,risposi, con la voce impastata. Sentivo gli occhi pesanti, come se avessi due borse da tre chili attaccate alla faccia. Desideravo tanto poter buttare letteralmente la testa sul cuscino e riaddormentarmi profondamente, visto che col giorno, senza più quel maledetto silenzio che mi circondava e mi incuteva terrore, riuscivo a riprendere sonno. Non era quello il momento per dormire, però. Quel tornado di nome Ema aveva già cominciato a buttar giù parole peggio di un fiume in piena, lei era il genere di persona che anche se senti di essere in punto di morte ti trasmette una tale frenesia in corpo che ti viene immediatamente voglia di scattare come una molla.
- Ti va di venire con me in pasticceria? Oggi è l’onomastico di Leo, ma tanto nessuno se ne ricorderà... Poi torniamo qui a cucinare…Ed oggi pomeriggio non vi permettete assolutamente di varcare la soglia del mio ufficio perché ho da finire dei progetti… per voi, tra l’altro! E poi dite che non vi penso e vi sgrido soltanto! –
Non potei fare a meno di farmi scappare una risatina. Tutta questa voglia da parte di Ema di incuterci terrore non era altro che dimostrazione d’affetto…ed io l’avevo capito bene.
- Cornetto caldo al cioccolato per strada? –
La risposi con uno sguardo scintillante, e sorridendo la seguii, mentre afferrò alla ciecata la borsa e si diresse verso l’uscita, armeggiando con un mazzo di chiavi.
 
- Allora, hai fatto amicizie in questi giorni? –
- Ehm…si, qualcuna. Sembrano…a posto –
- A posto eh…Divertiti, non avere paura. Sono ragazzi della tua età, non puoi perderci assolutamente niente. Magari ti aiutano un po’ a distrarti –
- Non ne ho bisogno, sto bene –
La mia risposta arrivò fredda, così veloce che avrei potuto anticipare la sua affermazione. Ema era un’assistente sociale. Se lei non avesse saputo come prendermi e non avesse capito che in quel momento era meglio lasciarmi stare, non vedevo come qualcun altro avrebbe potuto farlo.
- Credo di aver trovato un lavoretto che potresti fare, visto che me lo hai chiesto. Lo scorso Natale abbiamo ottenuto lo sponsor da una grossa azienda di elettronica, e avevamo assicurato loro che in cambio i nostri ragazzi si sarebbero dimostrati disponibili per svolgere qualche lavoretto in caso avessero avuto bisogno. Tipo volantinaggio, o roba simile…Cosa ne pensi? –
- Per me è ok, l’importante è che mi faccia guadagnare un po’ di soldi per non costringervi a mantenermi a spese vostre. –
- Piccola, puoi rimanere qui tutto il tempo necessario. E quando ogni cosa tornerà a posto e questo brutto incubo avrà un lieto fine non dovrai sentirti in debito con noi per nessuna ragione. Fa come se questa fosse una tua seconda casa. Perché questo è il nostro obiettivo, farvi sentire a casa. Far si che varchiate la soglia di quella porta e siate felici. Che troviate svago, collaborazione, divertimento, sogni, unione, amicizia, amore, quello che vuoi…Ma che sentiate quel posto come vostro, unicamente e totalmente vostro. Noi ce la stiamo mettendo tutta per dedicarlo a voi. –
Incredibile come quelle parole riuscirono a scaldarmi il cuore. “Tranquilla Ema, ci state riuscendo…”. Un sorriso mi illuminava il volto. Si spense l’istante dopo, per lasciare posto ad un’espressione mista fra serietà e confusione alla vista di ciò che per poco non avevo calpestato sull’asfalto. Mi fermai di colpo, chinandomi a terra. Un modellino di Ferrari a giocattolo. Ma no, non poteva essere quello. Tra i migliaia di modellini nel mondo, perché proprio quello avrebbe dovuto essere il giocattolo di mio fratello?
- Annael, attenta! –
Ciò che si riflesse nei miei occhi fu il cruscotto di un Suv che si avvicinava a gran velocità. In un secondo, afferrai la macchinina giocattolo e corsi verso il marciapiede, dove Ema mi aspettava con sguardo allarmato.
- Cosa ti è saltato in mente? Fermarsi in mezzo alla strada, nel bel mezzo della città. Stavano per investirti! –
- Mi sono distratta, io…Dovevo controllare una cosa –
- Beh, non farlo più. Mi hai fatto prendere una paura…-
Abbassai il capo, dispiaciuta. Subito dopo mi avvicinai la mano al fianco, e mi assicurai che qualcosa di duro e piccolo fosse al suo posto dentro la tasca.
 
Avevo pochissimo tempo. Il maestro Leo o Ema mi avrebbero chiamata, o qualche ragazzo sarebbe entrato a momenti per le prove. La porta del laboratorio era chiusa, io con il respiro pesante e il cuore che mi batteva già a mille seduta su una sedia, e in quel momentaneo silenzio persino gli strumenti sembravano in attesa. In attesa come me di scoprire la verità. Papà aveva comprato delle letterine adesive e l’aveva regalate a Michael. Michael le aveva attaccate sulla macchinina e con l’aiuto di mamma aveva composto il proprio nome. Era impossibile. Fuori da ogni logica, troppo improbabile, persino dopo tutto ciò che di assurdo e irrazionale era successo. Presi un bel respiro e tirai fuori l’oggetto dalla tasca. Lo rigirai tra le mani…E non so dopo quanto tempo lo lasciai andare, quel respiro.
 
- Ragazzi, forza! Più grinta, proviamola un’altra volta –
Scorsi una leggera stanchezza su quei volti concentrati a suonare da più di due ore. Il maestro si voltò e mi fece l’occhiolino. Gli sorrisi, e mi allontanai dalla soglia del laboratorio. Sul tavolo del salottino c’era ancora il vassoio con un solo dolcetto superstite, ed io passando lo feci finire nello stomaco assieme a tutti gli altri. Uscii fuori, e dovetti stringermi da sola con le braccia, tanto la notte era fredda. Il mio respiro caldo usciva con la condensa e saliva su, dileguandosi. Io lo seguii, e mi ritrovai a fissare il cielo. A volte mi chiedevo se ci fosse qualcosa di sbagliato ad essere così sognatori, e mi domandavo anche se al mondo ci fosse qualcuno proprio come me. Come me che si incanta a guardare le stelle e in un attimo non è più sulla Terra, perché è già volato lassù. Che inizia a pensare a cento, mille cose contemporaneamente, che gli vengono in mente un milione di domande e l’attimo dopo si ritrova ad asciugarsi una lacrima, nata dalla commozione di quanto sia meraviglioso e infinito l’universo, dalla consapevolezza di essere piccoli e fragili, dalla paura di essere impotenti. Un tocco leggero sulla mia spalla. Sobbalzai.
No, non disse nulla, non una parola. Forse avrei dovuto iniziare ad abituarmi all’enigma del suo essere.
- Che ci fai qui? –
Quei due universi profondi e scuri penetravano nel mio sguardo. Ero in trappola, ci stavo solo inesorabilmente precipitando dentro.
- Stavo per chiederti la stessa cosa –
- Non dovresti essere sotto la bacchetta del maestro? –
- Ancora un solo minuto, e me la sarei dato in testa da solo per la disperazione, la bacchetta–
Risi. Ma non la smetteva di tormentarmi, con quegli occhi. Di nuovo mi costrinse così, senza il minimo sforzo, a tenere i miei fissi nei suoi.
- Non hai risposto alla mia domanda –
- Veramente, a fartela per prima sono stata io, e la buona educazione vuole che ad una domanda non si risponda con un’altra domanda –
- Ma chi ha mai detto che io voglio fare il bravo bambino…? –
- Attento a chi disubbidisci, però… -
Sfoggiò uno dei suoi sorrisi spavaldi, di quelli che dicono “niente mi può scalfire”.
- Dovrei aver paura? –
- Oh, paura no. Solo non aspettarti mai niente di quello che ti aspetteresti, con me…-
Tacque, continuò a guardarmi, e storse il muso da un lato.
- Me lo dici che ci fai qui fuori? – Ora il suo tono era quasi un sussurro, più gentile.
- Io sono venuta a vedere le stelle –
Con le mani in tasca, si strinse nelle spalle e poi spostò lo sguardo da me al cielo stellato e viceversa. Ad un tratto puntò il dito là, verso l’alto.
- Vedi quelle tre stelle laggiù, quelle in fila? –
- Si…-
- Quella è la costellazione del “Piccolo carro”…E vedi quelle altre che formano una specie di croce, lì a destra? –
Un sorriso timido iniziò a farmi battere più forte il cuore.
- Si, le vedo –
- Quella è la costellazione del cigno –
Quando mi voltai per guardarlo, i suoi occhi erano ancora persi nel cielo.
- Sirio è la stella più luminosa del cielo…Me l’ha detto la mia mamma –
- Spero che tua mamma abbia potuto cambiare idea –
- Cosa…? –
“Mascherare” era evidentemente il suo verbo preferito. Quello che utilizzava per farmi spremere il cervello nell’inutile tentativo di comprenderlo. Come la prima volta che l’avevo incontrato, ebbe un’abilità impeccabile nel cambiare istantaneamente discorso.
- Lo sai qual è la stella più luminosa dell’universo? Si chiama Elenie. Ma da qui è impossibile vederla –
- Vuoi dire che dobbiamo spostarci un po’ più lontano? –
Lui rise e a me parve di vederlo splendere. Poi scosse leggermente la testa.
- Neanche se ti portassi in capo al mondo potresti scorgerla. Però puoi vedere la sua gemella…Ti appare piccola, perché è molto lontana. È Elanor –
Indicò un punto in un angolino della volta celeste, dove i punti di luce si facevano più sporadici e più fiochi.
- E’ la più simile al Sole, infatti il significato del suo nome è “stella-sole”. Liggiù, vicino a quelle altre due più luminose, a sinistra…La vedi? –
Mi sporsi maggiormente di lato e tentai di aguzzare la vista, ma non riuscivo ad individuare Elanor.
- Non…non riesco a vederla…Forse… -
Non riuscii a finire la frase. Nathan mi aveva messo un braccio attorno al collo e mi aveva attirata a se. Ora stavo con la testa contro il suo petto caldo. Ora il cuore mi batteva all’impazzata e le stelle potevano anche esplodere.
- Si…Ora la vedo…-
La porta d’ingresso cigolò dietro di noi. Sbucò fuori Keeran, il prototipo di bellezza gentile e provocante allo stesso tempo. Vidi il suo sguardo cadere sul braccio di Nate attorno al mio collo, che sentii scivolare via... Mi erano bastati pochi giorni per inquadrare certi ambigui atteggiamenti di quella ragazza. Avevo notato che dovunque ci fossero due persone insieme, Keeran arrivava e tentava di separarle. Il suo scopo era perennemente quello di mettersi in mezzo, come se le persone dovessero stare con lei, oppure completamente sole. Lo sguardo che aveva appena lanciato aveva quest’intento.
- Perché te la sei svignata? - , si rivolse a Nathan, e notai un sottofondo di malizia nella sua domanda, quando per una frazione di secondo il suo sguardo si spostò verso di me.
- Mi ero stancato. Avete finito? –
- No, pausa –
Negli occhi di Keeran, fissi in quelli di Nathan, guizzò una scintilla e sulle sue labbra si allargò un sorrisetto furbo. Il secondo dopo era schizzata via in direzione del cortile, e Nate dietro di lei. Rimasi immobile a guardare la scena i secondi necessari per capire che le loro risate e quella loro aura di divertimento escludevano la mia presenza. Girai i tacchi e posai la mano sulla maniglia. La pancia, si sa, è il luogo delle emozioni. E le mie emozioni in quel momento si chiamavano frustrazione e disillusione. “E’ tutta opera della mia mente malfatta…”
- Oh…! –
Un Nathan scherzoso e ancora ridente mi aveva afferrato da un braccio e mi stava trascinando con se nel tentativo di sfuggire all’acchiapparello con Keeran. La ragazza gli si aggrappò addosso, ed io venni trascinata a mia volta tra le sue braccia.
- Prese, e ho vinto io –
Non volevo. Non dovevo ridere. Ma così come il cuore aveva preso di nuovo a pulsare velocemente, senza che io potessi far nulla per controllarlo, a causa di un semplice contatto, anche i muscoli delle mie guance sembravano essere involontari.
- Voglio la rivincita! Nate…Voglio la rivincita! –
Keeran tentava di divincolarsi dalla stretta del ragazzo, e il secondo dopo era già corsa via, voltandosi e facendogli la linguaccia. Nathan mi guardò. Alzò le spalle, allargò le braccia e sfoggiò un sorrisetto da bimbo, minacciando di acchiapparmi. Non me lo feci ripetere due volte. Gli passai di fianco, per poco non mi acciuffò, ma continuai a correre, a lasciarmi trasportare da quel riso che quasi mi faceva lacrimare gli occhi. A correre, e a sentire l’adrenalina riscaldarmi mentre l’aria era gelida, e la stanchezza farmi tremare le gambe, ma continuavo a correre…Correre, e fare quel gioco idiota da bambini perché bambini non lo si è più, correre…e dimenticarsi di tutto il resto. 
 
 

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Capitolo 6
*** S h i n e ***


- Donnie…! Donnie! –
- Uh…?! –
La mia amica dai boccoli neri si voltò con gli occhi sgranati, come se qualcuno l’avesse destata da uno stato di trans.
- Donnie, sta a sentire il maestro. Ti ricordo che fra una settimana abbiamo il seminario, cosa andrai a dire ai professionisti, quanti dread ha Zack? –
Vidi due rose sbocciare sulle guance di Donnie, seguite da un timido ma divertito sorriso. Si voltò avanti, e diede ascolto al mio consiglio. Cigolio di una porta. Mi volsi a destra, e donai un sorriso complice a quei due universi scuri che istantaneamente mi avevano trovato.
 
-  Cos’è questa vena di euforismo e di ironia ultimamente? Ho come l’impressione che io e te dovremmo fare un bel discorsetto…Mi sbaglio? –
Non avevo raccontato nulla a Donnie, giuro. Ma chissà come, aveva il dono di sondare la mia mente, e capire se qualcosa non andava, o qualcosa stava andando, ma…
- Nathan ti sta sempre addosso, ma…? –
- Ma non lo conosco ancora bene…Anzi, per niente direi. E non posso dire se lo fa con tutte, oppure solo con me –
- Quindi, quindi, quindi…Ti piace Nathan! –
- Ma…io…beh…Si…! -
- Raccontami tutto! Perché a ciò che sto vedendo in questi giorni mi pare proprio che debba essere data una spiegazione –
- L’altro pomeriggio siamo stati tutto il tempo insieme, qui, sulle poltrone. Giocavamo, scherzavamo… Ema usciva a sgridarci perché facevamo troppo chiasso, lui alzava le mani e l’attimo dopo mi riprendeva a mi rimetteva sulle sue ginocchia –
Le parole che utilizzai con Donnie erano solo l’un per cento di tutto quel sovrumano groviglio di emozioni, incertezze, estasi e dolore che il nome Nathan mi provocava. Era mia amica, forse l’unica persona che dall’inizio di aveva accolto, oltre a Nate –beh, per lui il discorso “accoglienza” è stato un po’ diverso, ed era ancora un mistero che non riuscivo a svelare- , le volevo bene. Ma che sapesse la verità, era già tanto.
- Quell’altro ragazzo, Donnie…L’ho visto passare quando io e Nate eravamo sulle poltrone. Mi ha guardata in modo strano. Anche in sala prove lo sorprendo a fissarmi. A volte mi giro, e lui distoglie lo sguardo. Gli ho fatto forse qualcosa? –
Donnie rise come se me ne fossi appena uscita con la freddura più divertente di questo mondo.
- Frank! Sai cosa hai fatto al povero Frank? Annael, non ho mai visto una persona più ingenua di te. Gli hai fatto solo prendere una gran bella cotta! -     
- Oh…-
E sfoggiai quegli occhioni da cerbiatto impaurito emblema delle cosiddette situazioni inaspettate.
- Ragazzi, venite, vi ho fatto la cioccolata –
- Cioccolataaaaa….! –
Donnie accanto a me sussurrò sfregandosi le mani, con lo stesso entusiasmo di una bambina.
- Annael, vai a portarla prima al maestro. E chiama gli altri ragazzi –
Obbediente, mi alzai dal divanetto e presi in mano il bicchiere pieno fino all’orlo di cioccolata calda e fumante. L’odore era estasiante, e poterne godere tutti i pomeriggi era per me segno che qualcuno si stava prendendo cura di noi. Entrai nel laboratorio e sentii istantaneamente dieci, quindici occhi puntati addosso. Oh, non a me…a ciò che stringevo in mano.
- Cioccolata - ,annunciai con un sorriso a trentadue denti. L’attimo dopo rischiai di essere investita da una mandria di golosi senza ritegno. Il maestro era intento a cancellare la lavagnetta nella stanza ormai vuota.
- Leo… -
I suoi lunghi ricci castani si smossero dal suo viso, e mi guardò con occhi sorridenti.
- Grazie, cara –
Gli sorrisi a mia volta, e ritornai nel salottino. Mi bloccai a guardare i divani completamente vuoti. Già, tutti dentro, a invadere la ludoteca di Ema per la cioccolata calda. Intravidi Donnie che era riuscita a beccarsi il posto in prima fila. Gli altri sembravano tante formiche intorno a quel tavolo, e mani e braccia si infilavano pronte a prendersi ognuna il proprio bicchiere. E poi vidi Nathan, evidentemente arrivato per ultimo, sbirciare oltre le teste degli altri –senza alcuna fatica, visto che in altezza li superava tutti-, e tentare di farsi largo. No, fermati. “Non devo essere sempre io ad avvicinarmi”. Da quella volta, iniziai la mia ardua e straziante lotta contro il mio istinto a farmi notare. Avevo un orgoglio, miseriaccia. E secondariamente, in questo modo avrei capito se il suo interesse per me era soltanto l’ennesima illusione. Girai verso sinistra, e il mio essere magra e minutina si rivelò per una volta utile nel riuscire ad infilarmi tra gli altri miei compagni, e raggiungere il tavolo. Tutti parlottavano creando un indistinto brusio di voci, ed io guardai dappertutto, ma a quanto pare ero arrivata troppo tardi. Brutti ingordi, si erano presi anche la mia cioccolata. Guardali, si erano arraffati tutti i bicchieri. Lì non ce n’erano più. Su quell’altro tavolo neanche. Nathan stava convincendo Elijah a cedergli la sua…o “persuadendo”…
- Oh…-
Un bicchiere pieno di liquido ancora fumante mi era apparso come magicamente davanti al naso. Poi mi resi conto che a tenerlo era una mano, una mano bianca, grande e affusolata. Mi voltai, e mi ritrovai davanti a due occhioni colore del cielo che mi guardavano sorridendo.
- Tieni –
Non so cosa di preciso sia successo in quel momento. Fu come se quegli occhi fossero volati dentro la mia anima, e l’avessero dipinta con lo stesso colore. I nuvoloni neri e minacciosi del mio cielo furono spazzati via da un vento fresco e dolce, e in un attimo tutto fu sereno, e i miei occhi ridenti si fusero indissolubilmente con i suoi.
- Grazie… -
Per un istante, solo per quell’istante, la presenza di Nathan a pochi metri da me aveva smesso di asfissiarmi. Il groviglio nello stomaco era sparito. Quella perenne tensione nel cercare il suo sguardo si era dissolta come neve al sole.
 
Ciò che aveva detto Donnie mi aveva lasciata davvero perplessa. La mia sensazione di essere percepita da tutti come il brutto anatroccolo in mezzo allo stormo di cigni non solo si era dimostrata un’inutile paranoia, ma la realtà mi stava dando prova del contrario. Se fossi piaciuta davvero a Frank, mi sarei sentita un essere ignobile nell’infliggergli la sofferenza di un “no” netto e irreversibile. Nathan era ormai un morbo che lentamente e inesorabilmente stava espandendosi e invadendo ogni parte del mio corpo… la mente, il cuore, la pancia, lo stomaco. Era una insana e nociva droga. Il suo odore che mi rimaneva impregnato sui vestiti la sera poteva anche prendere il posto dell’aria che respiravo. Mi nutrivo del suo sorriso, le sue mani, le sue braccia, i suoi capelli e il suo viso potevano anche divenire le uniche cose sensibili al mio tatto; LUI, poteva anche diventare la sola visione di cui i miei occhi potessero meravigliarsi. Ma cominciavo anche ad odiarlo, come si odia una sostanza velenosa che sai ti porterà alla morte. Lo odiavo per il semplice fatto che si era alleato col destino, e insieme mi stavano infliggendo la stessa sofferenza che avevo subìto quell’estate, quando vedevo LUI  crogiolarsi, al sole, circondato ogni giorno da cinque o sei sgualdrinelle che sembravano fare i turni nel contenderselo. Anche Nathan faceva così. Lo faceva con Keeran, con Giorgie, con Audrey, con Jessika. Un attimo lo avevo vicino, solo mio, mentre il resto del mondo si dileguava, e l’attimo dopo era già sparito con un’altra, lasciandomi lì, sola, inerme, come svegliata bruscamente da una secca pugnalata al cuore. Nathan era egoista, si nutriva delle illusioni inflitte alle sue vittime e godeva delle attenzioni che esse gli riservavano, tesseva una tela e vi si posizionava al centro, mentre tutte le altre gli giravano intorno. Nathan era un bambino, e gli piaceva giocare…E quando si stancava di un giocattolo, non aveva difficoltà a rimpiazzarlo subito con un altro. Nathan era IDENTICO A LUI. Probabilmente la differenza di età, che era l’unica cosa che li distingueva, aveva fatto si che nel maggiore dei due l’intelligenza avesse subìto un più elevato grado di maturazione. Quando il mio SOLE D’ESTATE  si era rivolto a mia madre dicendole “Signora, complimenti, ha una figlia stupenda”, capii che poteva non ricambiare i sentimenti che io non gli avrei mai svelato, ma di certo non mi considerava una stupida. La sua stima l’avevo conquistata. Poteva essere il più bastardo di questo mondo, ma era riuscito a guardarmi dentro e aveva capito tutto. E poi c’era Jake, e il suo potere di purificarmi l’anima con quel suo sguardo colore del cielo. Parlare con lui era facile come respirare. Con lui quel senso di angoscia chiamato “Mamma, papà, Michael, e Nathan”, spariva. Non ci eravamo incontrati che due o tre volte, da quel giorno della cioccolata, eppure sentivo il bisogno della sua presenza crescere inspiegabilmente, ogni giorno di più.
Gettai un lungo sospiro, e lo sentii risuonare nel silenzio di quello sgabuzzino a cui gentilmente avevo concesso l’onore di essere la mia stanzetta personale. Decisi che per quella sera avevo anche meditato troppo. Spensi la luce della abat-jour poggiata su un improvvisato comodino fatto di scatole di cartone affianco al mio letto, e fui ben felice di infilarmi sotto il piumone e di tirarmelo fin sopra le orecchie. Dormivo così a casa, fin da quando ero piccolina. Pensai con tenerezza a Michael, invece, che durante le notti d’estate si tirava giù le lenzuola fin sotto ai piedi, e dormiva in trasversale con le braccine e le gambette spalancate, come un pascià. Chiusi gli occhi, in attesa di scivolare nel sonno, pregando che per una notte, solo per una notte, il mio inconscio mi risparmiasse gli incubi. Ultimamente, accanto al ricordo della catastrofe, nei miei sogni appariva anche Nathan. E io mi estasiavo, e sapevo che di riflesso sorridevo nel mio stato di incoscienza. In quel momento, smisi ad un tratto di respirare. Perché respirando, avevo sentito qualcosa che non dovevo sentire, e che mi aveva fatto salire un brivido di emozione su, su per la gola. Avvicinai un braccio al naso. Si, era la felpa. La felpona di mamma che mettevo sempre per dormire, ma che avevo tenuto addosso anche quel giorno. L’odore di lui. Se fosse stata una di quelle giornate no, in cui passavo tutto il pomeriggio a sopportare lo stomaco che si autocorrodeva, a causa del suo giocare inconsapevolmente coi miei sentimenti, mi sarei sfilata all’istante quella felpa, sarei corsa in bagno e l’avrei strofinata con acqua e sapone fin quasi a consumarla. Ma quello era uno di quei giorni in cui mi innamoravo di più…E così mi addormentai cullata da quel profumo che sapeva di bambino, di protezione, di estasi… di Nathan.
 
- Mamma, non è giusto, avevi detto che mi aiutavi con i compiti! –
- Tesoro, non vedi che sto facendo mangiare tuo fratello? –
Due occhietti che si potevano dire i miei in miniatura mi guardarono. Michael mi fece un sorriso con quei suoi dentini da topo, muovendo le gambe su e giù dentro al seggiolone. Come ogni volta, la tenerezza mi costrinse a cedere. Presi il cucchiaio dalla mano di mamma e mi sedetti di fronte a mio fratello, che esordì con un gridolino eccitato. La mamma si alzò, oltrepassò la soglia del balcone e sparì in soggiorno.
- Signore e signori passeggeri, siamo pronti per il decollo! Fìììììììùùùùù…-
Michael sbatté le manine sul seggiolone, ridendo, mentre il boccone volava sul cucchiaio su e giù, a destra e a sinistra.
- May-day, may-day! Stiamo precipitandoooooo…Aaaammmh! –
Per mio fratello il momento della pappa quando c’ero io nei paraggi era una goduria. Ad un tratto, volse il capo biondo a guardare il cielo. Era una notte limpida e stellata. Un vero spettacolo.
- Tella, tella! Anna, guadda, tella! –
- Cosa, Michael? –
- Tella!! Tella buu! –
Il ditino di Michael si agitava indicando un punto preciso nel cielo. Quello. Dove c’era una “Stella Blu”.
Mi voltai. Il cuore sobbalzò e si fermò in gola. Iniziai ad ansimare forte, e indietreggiai con la sedia. Com’era possibile? Nathan. Cosa…diavolo…ci faceva in casa mia…E non riuscivo a spiegarmi il perché quel cuore che mi stava impazzendo non era emozionato nel vederlo. Batteva così forte perché avevo paura di lui. La sua espressione era congelata sul viso, immobile come una statua di marmo. I suoi occhi neri…Non fissavano me… “No…No, no, no! Non mio fratello! Ti prego, non Michael!” 
 Ad un tratto, la casa iniziò ad essere risucchiata. Tutto si deformava e veniva trascinato all’indietro. Ed io non potevo far nulla per fermarlo. Indietro, verso quell’inquietante figura apparsa improvvisamente davanti al mio balcone, ed io immobile, non potevo muovermi, mentre il mio mondo veniva spazzato via. Guardai Nathan, e i suoi occhi si fecero più vicini…più vicini, sempre più vicini…la mia casa e la mia famiglia indietro, mentre mi accorsi che il suo sguardo mi stava risucchiando…dentro di lui…Più vicino, più vicino…Il nero era quasi tutto ciò che ormai riuscivo a vedere…Urlai con quanto fiato avevo in gola.
Feci un salto talmente brusco che il letto sobbalzò. Seduta, ansimando forte, e con gli occhi sbarrati, tentai di ristabilire il contatto con la realtà. Ero zuppa di sudore e terrorizzata. Mi resi conto di avere fortemente bisogno della presenza della mia mamma. Ma mamma non c’era. “No, tranquilla Annael, non è stata risucchiata via insieme alla casa, e a Michael, e a papà. Era soltanto un sogno…soltanto un orribile sogno.”
Posai lentamente la testa sul cuscino, scossa ancora da qualche tremore. Si sa, lo choc fa si che i ricordi dolorosi vengano rimossi, automaticamente, come meccanismo di autodifesa. Il mio inconscio lavorò bene in quel momento, e mi fece scivolare in un sonno buio e senza sogni. Ma non avrebbe tenuto quell’incubo rinchiuso in cassaforte anche il giorno dopo.
 
- Frank comincia ad essere insistente –
Le chitarre, la batteria e gli altri strumenti coprivano il suono della mia voce, ma nonostante questo sussurrai all’orecchio di Donnie.
- Beh, provaci! Portatelo fuori e parlaci –
- Ma che, sei matta?! – Ora il tono della mia voce si era alzato di parecchio.
- Non ci penso minimamente…Non voglio dargli neanche una minima illusione - , continuai, ricomponendomi. Donnie storse la bocca rosea da un lato. Per un attimo sembrò essere concentrata sul pezzo che gli altri stavano suonando sotto la guida del maestro: “Tequila”.
- Secondo me dovresti parlargli lo stesso, a questo punto. Dirgli chiare e tonde le cose come stanno e stop, fine della storia. Lui ti leva dalla testa, e tu hai la coscienza a posto – La mia amica mi rivolse un sorriso soddisfatto e mi fece l’occhiolino. L’attimo dopo il maestro si girò verso di noi, e gasato al massimo, accompagnato dal coro degli altri ragazzi, fece
- Tequila! –
Io e Donnie ci girammo l’una verso l’altra nel medesimo istante, ci guardammo e scoppiammo a ridere. Si passò ad un altro brano. Anche questo era strumentale, si chiamava “La lambada”. Lo ricordavo perché era la musichetta registrata dentro una giostrina a forma di dinosauro con tanto di chitarra in mano nella villa vicino casa mia. Mamma spendeva i soldi per il gettone quasi ogni sera, per farmi cavalcare quella giostrina. Era la mia preferita in assoluto.
Mi guardai intorno nella saletta. Scrutai i visi uno per uno. Qualcosa iniziava a mancarmi…
- Donnie, torno subito –
Mi alzai e mi richiusi la porta alle spalle, ammutolendo quasi del tutto la musica.
- Ciao, Annael! –
- Ciao, Keeran –
La ragazza mi venne incontro con la sua andatura serpeggiante. I suoi capelli biondo scuro di media lunghezza erano raccolti in una coda fatta all’acqua di rose, ma lei sapeva benissimo che il conciarsi in maniera trasandata non intaccava la sua naturale bellezza, anzi.
- Vieni con me a prendere qualcosa al distributore –
E senza neanche lasciarmi dire “a” mi prese sotto braccio e ci avviammo verso il corridoio. Certo che quella ragazza era strana. Non disse più una parola. Mentre era intenta a scegliere la merendina e a mettere i soldi dentro al macchinario, si comportò come se io non ci fossi. In quel momento, ecco il rumore che inevitabilmente innescava in me una reazione di ansia. La porta d’ingresso si aprì. Mi voltai. No…Era solo l’amico sassofonista di Leo. Ritornai a dedicare l’attenzione a Keeran, nell’intenzione di capire se il mio mantello dell’invisibilità fosse qualche cosa di permanente oppure no. Qualcosa mi si posò sulla spalla. Sobbalzai. Nathan aveva riservato una mano a ciascuna delle due, a me e a Keeran. Sul viso aveva dipinto un sorriso beffardo, il che significava che aveva voglia di giocare. Come sempre. E come tutte le volte, il mio orgoglio, quella vocina flebile e lontana, mi ammoniva a non farlo, ed io mi tappavo le orecchie ed il secondo dopo ero completamente in balìa della sua volontà.
- Nathan, mi hai fatto cadere il soldino, mannaggia a te. Adesso riprendimelo –
La compostezza di Keeran in presenza di Nathan e il suo tono autoritario mi suscitavano una forte invidia. Cavolo, perché non riuscivo anch’io ad essere così?
- E’ finito sotto il distributore –
La ragazza continuava a dare disposizioni mentre il Nate era inginocchiato fin quasi con la faccia per terra alla ricerca del soldino perduto. Ad un tratto saltò su, soddisfatto, e glielo mise davanti al naso. Keeran fece per prenderlo, ma lui spostò il braccio, una volta, due, tre, fino a quando non mi ritrovai io la moneta in mano. Avevo capito. Premetti il tasto START al gioco, e scappai via, fuori dalla porta, inseguita da Keeran e Nathan.
- Eddai, ridammelo! Ti voglio bene! - , mi implorava la ragazza, mentre io e Nate ce la ridevamo compiaciuti.
- Passamelo, passamelo! –
Con un lancio il soldino arrivò a Nathan, e Keeran gli fu subito addosso.
- Guarda che se non me lo ridai morirò di fame! Mi avrai sulla coscienza! Vedi, sto già per svenire –
A quelle parole, vidi Keeran afflosciarsi come uno stelo appassito e Nathan, ridendo, trattenerla per poi cercare di tirarla su.
- Annael, aiutami! –
Sentirlo pronunciare il mio nome era una sensazione stranissima. Non sapevo se fosse positiva o negativa. Forse semplicemente perché ero incredula che LUI potesse pronunciare il MIO nome.
Andai verso di loro, e in quel momento Keeran si alzò e gli saltò letteralmente addosso, tenendosi aggrappata come una scimmia.
- Adesso devo vedere se ce la faccio con tutte e due –
Si rivolse a me: - Tu, salta –
- Ma sei pazzo?! –
Rise, piegandosi da un lato sotto il peso di Keeran.
- Non preoccuparti, ce la faccio. Ce la posso fare, salta! –
L’entusiasmo era lo stesso di un bambino che voleva dar prova di essere il più bravo di tutti. Il problema era che io non riuscivo a vederlo come un bambino. Mi sembrava dieci volte più grande di me, più forte di me, e lui aveva il potere di controllarmi. Gli sorrisi, e cominciai a indietreggiare per prendere la rincorsa. E uno…e due…e tre, e gli ero aggrappata al lato destro, mentre come tre deficienti non la smettevamo di ridere.
- Basta, basta, mi state uccidendo! –
- Ma che state facendo qui? –
Una terza voce era appena sbucata dalla porta d’ingresso, e quando realizzai che si trattava di Donnie mi venne da ridere ancora di più.
- Lasciatemiii, aaaaah mi stanno uccidendooo! - , Nathan imprecava, e io e Keeran decidemmo di porre fine alla tortura lasciandoci scivolare lentamente giù. Nate gettò la testa all’indietro e tentò di ricomporsi, la maglietta sgualcita con una manica che gli arrivava fin quasi al ginocchio.
- Questa me la pagate. Cominciate a scappare perché sto per vendicarmi…Uno…Due… -
Delle regole di questo gioco una l’avevo capita perfettamente. Non esisteva il TIME-OUT. Io sfrecciai via da una parte, e Keeran dall’altra, così Nathan si dirigeva a destra e a sinistra, facendo il doppio della fatica. Doveva scegliere chi acchiappare. E dal luccichio dei suoi occhi neri capii che aveva scelto me. Di nuovo corsi, corsi come una matta, in preda al riso che mi faceva lacrimare gli occhi, con lui dietro che mi stava inseguendo, ed era vicino, sempre più vicino…E sentii le sue braccia cingermi la vita e poi girarmi, e l’attimo dopo ero sulla sua spalla, a testa in giù, con l’osso della sua scapola conficcato dritto, dritto nello stomaco.
- Ahia! Nathan, mettimi giù! – strillavo, ma in realtà lo stavo implorando a non lasciarmi.
- Adesso non ti lascio più –
Capii che stava facendo il giro di tutto il cortile, davanti agli occhi divertiti degli altri ragazzi che nel frattempo avevano finito di suonare ed erano usciti per svagarsi anche loro. Lo stomaco faceva malissimo, soprattutto se continuavo a ridere. Ma come facevo a fermarmi… Ad un tratto, Nathan si bloccò.
- Mettila giù –
Nessuna risposta. Non riuscii a riconoscere subito il suono di quella voce, ma di una cosa ero certa: aveva tutta l’aria di essere una minaccia.
- Mettila giù, Nathan –
Istintivamente, mi aggrappai più forte a lui. E lui si mosse, facendo per andarsene, semplicemente raggirando il proprietario di quella voce, il quale però gli si mise davanti, continuando a ripetere di lasciarmi stare. Per un attimo ebbi seriamente paura che venissero alle mani. Ma Nathan era Nathan, la legge del più forte era insita nella sua mente, e sapeva che il miglior modo per vincere il nemico è l’indifferenza. Tenendomi sempre sulla spalla, scansò il tizio talmente tante volte che alla fine egli si arrese. Quando Nate gli voltò le spalle, io potei scoprire chi fosse. Un ragazzo tozzo e dai capelli spettinati mi guardava allontanarmi con uno sguardo ferito misto ad uno stato di confusione. Ferito non solo da me, ma ferito nell’orgoglio anche da Nathan. Quel ragazzo era Frank.
 
- Aaaaah!!! –
Per la seconda volta, quell’incubo. Mi rizzai a sedere sul letto. Il cuore batteva talmente veloce che sembrava stesse per scoppiarmi. Un quotidiano momento di spensieratezza a casa mia, poi Michael che indicava quella stramaledetta “Stella Blu”, ed infine Nathan. Non era più il ragazzo dal viso immacolato e circondato da un’intrigante aura di mistero, era un volto senza espressione che inghiottiva tutto ciò che avevo di più caro al mondo. Un mostro. Un assassino. Diversamente dalla notte scorsa, sognai nelle prime ore del mattino, il che significava che non potevo più addormentarmi e lasciare che la mia mente rimuovesse il tutto facendomi ritornare tranquilla ancora un per un po’. Mi ero svegliata con quel pensiero in testa, ed ora avrei dovuto conviverci per l’intera giornata. Tolsi di dosso le coperte e sentii un brivido di freddo salirmi dalle gambe fino alla schiena. Quello era il giorno del seminario, ricordai. Guardai l’orologio a parete appeso nella ludoteca: le otto e un quarto. L’appuntamento agli altri ragazzi era stato dato per le nove e mezza, ciò voleva dire che tra non meno di quindici secondi sarebbe arrivata…Ema.
- Buongiorno cantanteeee! – esordì, con un sorriso grande quanto tutta la faccia, arrivando con il suo solito passo da maratoneta e lanciando letteralmente la borsa sul tavolo. Si poteva descrivere Ema con una sola parola: svampita. Dalla porta semiaperta del suo ufficio la intravidi trafficare con alcuni oggetti in disordine sulla scrivania. Dal tic-tic capii che l’attimo dopo sarebbe uscita con la sua inseparabile sigaretta in mano. Qualcosa dentro quella piccola stanza attirò la mia attenzione, e un lampo mi balenò nella mente.
- Ema…Non è che potrei usare un attimo il computer? –
La donna mi guardò espirando una grossa nuvola di fumo.
- Ma certo. Solo non toccare i documenti, se si perdono è un guaio –
Quella doveva essere una delle giornate in cui Ema era di buon umore. In un’altra occasione, la sua risposta sarebbe stata: “Anna, ci sono i documenti nel computer! Se combini danni ti ammazzo”. Forse, semplicemente quella mattina era ancora presto, e nessuno era arrivato a metterle fretta. Entrai nell’ufficio ed accesi quell’aggeggio il cui modello era stato messo in commercio almeno dieci anni fa. Cliccai sull’icona “Internet explorer”, ed apparsa la schermata di Google digitai le due parole che mi ossessionavano: Stella Blu. Il motore di ricerca mi diede come unico risultato attendibile una pagina di Wikipedia. Solo una frase colse immediatamente la mia attenzione, e mi raggelò il sangue nelle vene: “Non appartenente al nostro Sistema Solare”.
 
Il laboratorio musicale era stato adibito ad una sorta di sala cinema. Le sedie rivestite di stoffa blu erano disposte in cinque o sei file, e qualcuno già aveva cominciato a prendervi timidamente posto. Di fronte, la visuale era su altre due sedie, riservate ai due professionisti, un uomo e una donna di giovane età, l’uno corista e l’altra attrice, e sull’intoccabile pianoforte di Leo. Scrutai con attenzione i posti liberi. Non avevo certo intenzione di sceglierne uno in prima fila. Poi, il mio sguardo si fermò con entusiasmo in un posto nella parte centrale.
- Jake! –
Il ragazzo si voltò, e i suoi occhi sorrisero assieme alle mie labbra.
- Hey! Pensavo di non trovarti qui - , mi disse, abbracciandomi.
- Ma scherzi? E chi se lo perdeva! –
La voce di Meach Clifford chiese il silenzio di tutti. Si presentò, assieme a Lya Heavensy, la sua collega, e continuò illustrandoci in che cosa consisteva il seminario con tono molto gentile e scherzoso. Io e Jake ci voltammo nello stesso istante e ci scambiammo un sorriso.
 
Il primo giorno fu meraviglioso. Meach ci insegnò le tecniche di respirazione per il canto e gli esercizi per scaldare la voce. Quando ci mostrò il modo migliore per svegliare le nostre corde vocali al mattino, emettendo un buffissimo suono gutturale e imitando con la voce la sirena di un’autoambulanza, le risate non volevano fermarsi più. Lya invece si occupò della parte teatrale, e condusse un esercizio in cui alcuni di noi, a turno, dovevano inventarsi la melodia di una canzone e cantarla a cappella girando intorno al resto dei ragazzi, seduti a terra in cerchio e in assoluto silenzio. Io e Jake riuscimmo in un solo giorno a guadagnarci la fama di “pecore nere” del gruppo. Fummo ripresi più e più volte dai maestri che ci pregavano di fare le persone serie, invece di continuare a guardarci in faccia e scoppiare a ridere. Jake era la mia felicità spontanea e primordiale, quella che si ha dentro da bambini e la si vive perché sembra non esserci nulla di più rilevante al mondo, nulla di cui preoccuparsi. L’unica cosa che importava, era che io, in quel momento, ero felice. Ma allora perché continuavo a percepire dentro di me, anche se molto più lievemente, quel fastidioso senso di vuoto? Lo sentivo dentro, fra il cuore e lo stomaco. Sentivo il mio inconscio tremare e scuotersi come un baule chiuso a chiave che contiene qualcosa di troppo enorme e sta per scoppiare. Jake stava riuscendo a trattenere il mio incubo rinchiuso nell’inconscio ancora per un po’. Ma, intanto, qualcosa mi mancava. E continuavo, talvolta, a guardare quella porta chiusa sapendo che per tre giorni LUI non sarebbe arrivato.
Il secondo giorno finimmo un po’ più presto. Meach e Lya si preoccuparono che fossimo stanchi, visto che eravamo lì dalle nove del mattino. Jake, affianco a me davanti alla porta della sala prove, tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans.
- Sei e mezza. Ci andiamo a fare un giro? –
Annuii con un sorriso. Gli altri nostri compagni salutavano a gran voce, e noi ci unimmo al via vai creatosi nel corridoio.
- Mi devi promettere una cosa - , iniziò Jake con aria seria, mentre ci incamminavamo verso il centro della città.
- Cosa? –
- Che domani non mi guarderai in faccia mentre faremo gli esercizi! –
Scoppiammo a ridere tutti e due. Ok, la buona volontà era da apprezzare, ma sapevamo entrambi che il non guardarci sapendo contemporaneamente di pensarci a vicenda avrebbe solo peggiorato la situazione.
- Meach ci terrà separati domani -
- Oh, no…Io devo sentirti cantare –
Lo guardai con gli occhi ridenti, pieni della più pura sincerità. Lui fece un sorriso timido, e abbassò il capo.
- Cosa c’è…? –
L’aria era gelida, e notai le sue guance tingersi di rosso non solo per l’imbarazzo di ciò  che stava per dirmi.
- La canzone che ho scelto…Non è legata a dei bei ricordi per me –
Il suo sguardo era fisso sui passi che muoveva sull’asfalto, e le sue labbra curvate in un angolo, in un sorriso che voleva nascondere la malinconia.
- E’ la canzone che ho dedicato ad una ragazza. L’ho conosciuta lì al Centro, e…me ne sono innamorato. Solo che lei non ricambiava. Stavo male, la pensavo giorno e notte, i suoi “no” erano netti e decisi, ma nonostante questo continuava a provocarmi, come se godesse a mettermi lo zuccherino davanti al naso e poi impedirmi di mangiarlo. Ad un certo punto imposi a me stesso di dimenticarla. Decisi che dovevo cambiare, e farmi forza, anche se combattere contro i miei sentimenti era la cosa più difficile che avessi mai fatto. E poi si aggiungeva anche un altro problema. Lei non piaceva solo a me…Ed ogni volta che io provavo ad andarle vicino per parlarle, un altro ragazzo si metteva in mezzo, e me la portava via. –
- Non è giusto. Perché non hai reagito? –
- Perché…Sono fatto così…E poi, non sono mai felice di litigare con un amico – 
L’anima di Jake era pulita e trasparente come vetro. Ed io, in modo del tutto naturale, sapevo che lui mi avrebbe lasciata guardarvi attraverso senza neanche aver bisogno di chiederglielo.
- Chi era questa ragazza, Jake? –
Lui tirò su col naso, ma finalmente ebbe la forza di guardarmi negli occhi.
- Era Keeran… -
- E lui? Quel ragazzo che te la portava via… -
- Era Nathan - 
Senso di delusione. “Oh, ti prego Jake, non cercare di avvertirmi che non è una brava persona…Non dirmi che mi farà solo stare male…Perché non ti ascolterei…e sceglierei di stare male”.
Cercai di azionare il meccanismo di “rimozione-autodifesa” anche per l’argomento Nathan. Avrei potuto esercitarmi a controllare e comandare il mio inconscio, sarei stata la rivelazione del secolo per la psicanalisi. Dovevo isolare Nathan e chiudere il suo ricordo dentro un baule. Come era stato rinchiuso il mio sogno. Già il mio sogno…Il mio sogno che non era un sogno. Era un terribile incubo. Ora lo sentivo, il baule tremare sempre più forte, fin quando non sembrò vittima di un terremoto catastrofico…Fin quando…BOOM…Scoppiò.
- Jake, ora ti devo dire una cosa non prendermi per una stupida so che ti sembro una stupida ma devo raccontartela se posso, se tu vuoi…Io devo raccontartela…! –
I miei occhi erano inondati di lacrime, forse non mi ero neanche resa conto di urlare mentre parlavo, tanto che Jake mi guardò con quegli occhi azzurri spalancati e con aria preoccupata, e l’attimo dopo mi prese il viso tra le mani e mi tirò a se, stringendomi tra le braccia.
- Sssh…Sssh…Va tutto bene…Puoi dirmi tutto quello che vuoi…Ora calmati… –
Come una bambina, singhiozzavo contro il suo petto, mentre la sua mano mi accarezzava dolcemente i capelli.
- Io…Non…L’ho mai raccontato a nessuno, Jake… -
Avevo paura. Ma sapevo che DOVEVO  liberarmene, o avrei finito col diventare pazza. E il calore di Jake…sentivo come se mi stesse dando il coraggio di fare qualsiasi cosa.
- Io…Jake…Io non mi sono persa come ti hanno raccontato quando avrai chiesto di me…Io…Sono stata io a perdere i miei genitori… -
Le iridi azzurre a profonde di lui erano concentrate nei miei occhi. Mi teneva per le spalle, come a voler trattenere quei singhiozzi che ancora non si fermavano.
- Continua… -
- Ho perso la mano di mio padre…Che mi stava trascinando in salvo, assieme a mia madre e… a mio fratello…Il mio fratellino…Ha solo tre anni…Mi stava trascinando via da…Quel giorno…quel giorno… -
- Cosa è successo? Cosa è successo quel giorno, Annael…? –
Strinsi forte gli occhi. No, non volevo vedere. Avevo la terribile paura che quelle scene mi si sarebbero ripresentate davanti.
- Quel rumore, quel fischio assordante che bucava il cervello…I tuoni, tanti tuoni…E c’erano tante…No, quelle non erano persone, erano formiche che fuggivano e si contorcevano sotto ai raggi del sole…E il sole bruciava, Jake…L’asfalto bruciava, e si spaccava, e l’aria era pesante, e piena di luce…Ma su in cielo tuonava…E’ possibile? E’ possibile secondo te che ci sia un temporale in un cielo così luminoso che sembra il paradiso? Forse, lo ero, in paradiso. Pensai così, pensai di essere morta. E da una parte forse era meglio. Avevo perso la mia famiglia. Ma non posso essere morta. Perché sono qui…Mi rifugiai in una casa abbandonata, e quando mi svegliai il mattino dopo, tutto era normale. Tutto sano, tutto ordinario. Non c’era assolutamente nessuna traccia di ciò che era successo la sera prima, tranne il fatto che mamma, papà e Michael continuavano a non esserci più. Allora pensai di essere pazza…Si, pensai, forse è solo la mia immaginazione e sto delirando, perché non è possibile che quel giorno non sia accaduto nulla ed io sono completamente sola…Vagherò come un fantasma in una città che non è neanche casa mia, cercando i miei genitori, e tutti mi guarderanno scioccati, e nessuno mi crederà…! Nessuno! Forse neanche adesso…Neanche adesso tu mi crederai…! –
Sentii il groppo in gola salire fino a farmi male, e le lacrime prepararsi a scendere come un fiume in piena per la seconda volta. Stavo per perdere un’altra persona. Stavo per sentirmi sola, e per prepararmi ad autoconvincermi di potercela fare con le mie forze. Jake mi guardava immobile, leggevo la paura nei suoi occhi, come se gliel’avessi trasmessa attraverso l’anima. Non aveva mai smesso di tenere il mio viso delicatamente fra le mani, lontani due respiri l’uno dall’altra. Ora, la tensione lentamente si dissolse. Mi alzò il viso costringendomi a guardarlo dritto negli occhi. Eccolo, il mio cielo che esplose di felicità e commozione…
- Io ti credo –
Portò via col pollice quella lacrima di solitudine posatasi sulla mia guancia e…l’attimo dopo, non avevo mai abbracciato qualcuno così forte in vita mia.
 
 

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Capitolo 7
*** Hate This & I'll Love You ***


La mattina del terzo giorno del seminario fummo impegnati con il recitare il testo di una canzone fingendo tre stati d’animo diversi. Gli sguardi tra me e Jake erano frequenti come i giorni passati, ma avevano un’intensità diversa. Io gli avevo donato un pezzo della mia anima, e lui aveva fatto altrettanto. Il legame che si era creato ci aveva reso entrambi consapevoli che avremmo potuto continuare a condividere qualsiasi cosa, insieme. Il giorno prima, avevo raccontato a Jake la mia vera storia, e lui si era fidato, e aveva scelto di stare dalla mia parte. Ora, rimaneva un’altra cosa da confidargli: il sogno che tanto mi turbava. Glielo raccontai quel pomeriggio, mentre aspettavamo in saletta l’arrivo di Meach e Lya per la parte conclusiva del seminario.
- E così, tu pensi che Nathan c’entri qualcosa con ciò che dici sia successo? –
- Io non dico, è successo, Jake. E comunque, potrebbe c’entrarci qualcosa come non potrebbe. Ci sono troppi indizi che non riesco a collegare. La “Stella Blu”, e poi anche quelle altre due prove che non fanno altro che confondermi. Ma come potrebbe Nathan avere a che fare con la mia famiglia o con quella catastrofe? E’ solo un comune e normale sedicenne… -
- Di quali altre prove stavi parlando, Annael? –
- Di due cose che mi sono successe…Che ho visto, e mi hanno davvero spaventata…Su una bacheca, a pochi isolati da qui, c’è un annuncio. Si tratta della mia gattina, Penelope, che scomparve sette mesi fa nella mia città, in California, e che poi ritrovammo. L’altro oggetto è una macchinina a giocattolo. L’ho trovata qualche giorno fa, proprio in mezzo alla strada. Ancora non riesco a crederci, Jake, ma te lo giuro, quel modellino è di mio fratello Michael. Sopra sono incollate delle letterine a comporre il suo nome nello stesso identico punto dove le ha attaccate mamma. E la cosa di cui sono più che certa, è che quel giocattolo non si è mai mosso da casa mia. Perciò non so proprio spiegarmi come sia mai potuto finire qui –
Jake mi ascoltava concentrato e sembrava preoccupato della situazione quanto me. E come me, non si capacitava di tutto ciò che gli avevo raccontato, tant’è che non riuscì a spiccicare una parola.
- Jake, da quanto tempo Nathan è qui? –
- Da sempre - , mi rispose lui come se fosse l’affermazione più scontata di questo mondo.
- E’ il figlio di Anthony e Marie Falls, suo padre è l’assessore al turismo. Nathan si è iscritto a batteria lo scorso anno, quando il Centro ha aperto –
Annuii. Non sapevo neanche il perché avevo fatto quella domanda, ne da cosa mai fosse potuta scaturire. Una figura di media altezza vestita con jeans e camicetta bianca fece il suo ingresso nella sala prove.
- Seduta di confessionale sospesa. Mi spiace interrompervi, ma Meach e Lya stanno già eseguendo la fanfara militare –
Donnie si congedò con un sorrisetto innocente, e i suoi lunghi riccioli neri le danzarono sulle spalle mentre si allontanava.
- Meglio che andiamo –
Presi sottobbraccio Jake e facemmo il nostro ingresso nel laboratorio.
 
Con i vetri delle finestre appannati, di certo la voglia di farmi due chilometri a piedi per andare a lavorare non era proprio alle stelle. Un segno trasparente disegnato su uno sfondo color della brina: un cuore, e una “N”, piccola, affianco. Risi al pensiero che queste cose le facevo fino a quattro o cinque anni fa, mentre adesso stavo per diventare maggiorenne.
Mi voltai, in compagnia solo del silenzio di quella ludoteca vuota, e sbuffai. “Ok, coraggio. Tanto ora che cammini ti riscaldi”.
I pini erano coperti da una spolverata di rugiada, e il vento gelido faceva dondolare leggermente le loro chiome. Il piacevole odore che sprigionavano era intenso, ed io lo lasciai entrare nelle narici con un bel respiro, sentendolo invadere e purificarmi i polmoni da quell’aria intrisa di traffico e polvere. Passai vicino alla Chiesa della città, una costruzione nuova di zecca, ma non pacchiana e imponente come la maggior parte dei luoghi sacri che detestavo. La ricchezza nella Chiesa mi faceva semplicemente rabbrividire. Qualche edificio e qualche traversa più avanti, ecco il mio luogo di lavoro. Entrai con l’aria di chi ha preso completamente sul serio la situazione –le circostanze mi avevano fatto comprendere che una maggiore sicurezza in me stessa era necessaria alla mia nuova vita -, e il proprietario mi diede la benvenuta. Fortunatamente devo fare volantinaggio, mi dissi, altrimenti non sarei riuscita a staccare gli occhi di dosso a tutti quegli accessori di elettronica: cellulari, i-pod, televisori a led, computer touch screen. Se tutto fosse stato normale, avrei usato parte del mio guadagno per togliermi uno di quegli sfizi, ma i soldi mi servivano per comprarmi qualche vestito, ed aiutare Ema a mantenermi.
Facevo così, la mattina lavoravo, e il pomeriggio rimanevo al Centro. Ora che il seminario era finito, fremevo, perché sapevo di rivedere Nathan. Lo aspettavo, mentre Donnie mi parlava delle sue avventure con Zack, il “rastino” protagonista dei suoi sogni amorosi. E quando alla fine la mia amica mi inchiodava con un “Allora, cosa mi consigli di fare?”, io le chiedevo di ripetere tutto da capo, perché non avevo capito un accidente di quello che aveva detto, e perché ero stata concentrata tutto il tempo solo a guardare quella porta. Fremevo ancora di più, perché lo stesso incubo non si decideva a smettere di angosciarmi, ed ero indecisa se mettere in mezzo lui oppure no, non sapevo se avrei trovato il coraggio di chiedergli delle risposte, ammesso che lui avrebbe saputo darmele, sempre se non si fosse messo a ridere e il suo ego non si fosse ingigantito di fronte alla confessione di averlo sognato. Ma nonostante ciò lo aspettavo. E quella porta non si apriva. Uno, due, tre giorni…E l’aria era vuota senza di lui, e la sua assenza cominciava ad asfissiarmi. Il quarto giorno:
- Ema, ho perso le mie bacchette! –
Arrivò portandosi dietro la luce, con la sua andatura da playboy e i capelli neri leggermente spettinati. Le altre ragazze si sarebbero divertite anche oggi a provocarlo ricordandogli che esisteva una cintura per i pantaloni… La maglietta a righe bianche e blu gli aderiva perfettamente al fisico magro e asciutto.
- Se non lo sai tu dove le hai messe, Nathan! –
Fui in pena per lui perché aveva beccato proprio una delle giornate no di Ema, e pregai che non continuasse a farle domande.
- Non le hai trovate per caso quando hai pulito la saletta? –
Ema, che fino a quel momento era rimasta dentro la ludoteca, ora uscì infuriata ed iniziò a sbraitare. Nate si rese conto di aver scatenato qualcosa più indomabile di lui e si tappò le orecchie con le mani, facendo per svignarsela. Nel girarsi, parve accorgersi finalmente della mia presenza, e di quella di Donnie.
Il rituale era ormai inviolabile.
- Ciao… - , gli dissi, e gli diedi un bacio sulla guancia che aveva già posizionato davanti alla mia faccia. Salutò, no, si fece salutare, anche da Donnie, e poi sparì oltre la porta del laboratorio.
Era martedì, e il maestro dava lezioni di chitarra. Donnie era dentro a suonare, e Jake non c’era. Mi aveva mandato un messaggio nel primo pomeriggio dicendo di avere la febbre, e che era dispiaciuto perché mi avrebbe lasciata sola. Da quando gli avevo raccontato tutto, il suo senso di protezione verso di me era cresciuto il doppio.
Ero seduta sullo schienale della panchina, fuori, nel cortile, e mostravo distaccato interesse per i discorsi divertenti degli amici di Frank. Fumandosi una sigaretta fatta a mano, o balzando avanti e indietro con lo skate, raccontavano delle pessime figure di cui si sarebbero ricordati a vita. Ad un tratto, Nathan sbucò dalla porta d’ingresso. Stette per un attimo immobile con le mani sui fianchi, come per sondare quanto la situazione fosse interessante. Evidentemente, non aveva niente di meglio da fare, così si sedette a un metro da me ed iniziò a prendere parte al discorso, prima limitandosi a ridere alle loro battute, dopo alzandosi in piedi e scherzando insieme a loro. Poi gli altri se ne andarono. Non sembrava procurargli il benché minimo problema tenere quegli occhi neri come la mezzanotte fissi nei miei, mentre, con le mani dentro le tasche, la sua posa pareva l’emblema della risolutezza.
- Riuscita a contare tutte le stelle? –
Forse voleva sfidare la mia capacità di reggere il suo sguardo. Sentii goccioline fredde sbocciare sui pori, ma ero fiera della mia determinazione a non dargliela vinta.
- Non le conto più. Ho smesso di guardare il cielo. Mi fa…paura –
I miei stati d’animo, in sua presenza, sgorgavano dalle mie labbra così, fuori controllo. Potevo farmi mille paranoie, ma nel momento in cui lo avevo davanti, non riuscivo a contenermi. Niente aveva più importanza. Chi fosse, come si comportasse, cosa pensasse. Me ne ero resa conto dal primo momento in cui l’avevo incontrato. Nathan sporse leggermente il capo in avanti, come a voler incitare le prossime parole che avrei pronunciato.
- Perché hai paura? –
Ora la sua espressione era seria. Non cattiva, ma seria. Tuttavia quell’incubo aveva influenzato troppo la mia visione della realtà. Dovetti distogliere lo sguardo, e con uno scatto scesi dalla panchina, voltandogli le spalle. Mi fermai, lo sguardo immobile su un puntino nel cielo. Ecco, un bel respiro. Angoscia mi soffocava i battiti, Lacrime si preparavano a corrodermi il sorriso, Paura, ne avevo sempre avuta, Domande…Non aspettavano più a ricevere una risposta.
- Nathan –
Ora erano i miei occhi a tenergli testa.
- Di che colore è Elenie? –
Congelamento. Si, in quel momento i suoi lineamenti disegnati con la perfezione di un chirurgo semplicemente mostrarono il viso di un bambino confuso…spaesato…
- E’…azzurra… -
Resistette solo un altro mezzo secondo faccia a faccia con la mia anima. Con uno scatto tornò dentro sbattendosi la porta alle spalle.
 
Erano giorni che Nathan non mi rivolgeva la parola. Adesso avevo ottenuto la chiarezza su un indizio, la Stella Blu era Elenie, ma a che pro? Non riuscivo a comprendere cosa diavolo c’entrasse Nathan in tutto questo. E’ vero che a volte i sogni possono essere lo specchio distorto della realtà, ma un insignificante e mortale sedicenne non poteva avere a che fare con un simile fenomeno sovrannaturale. Forse…anche lui ne era stato vittima…Forse era l’unico a ricordarsi come me di quella notte. Avevo paura. Terribilmente paura. Trovare il coraggio di parlare con Nathan, anche se lui mi guardava con la stessa rilevanza che si da a un moscerino che ti ronza intorno, forse ne valeva davvero della mia stabilità mentale. L’aggrovigliarsi delle domande era un’isteria che mi si insinuava nelle membra e mi scavava dentro. Non avevo neanche un’ipotesi su cui concentrarmi. Ero completamente a rischio di perdere il controllo. Ema aveva capito che era meglio non rivolgermi la parola, e persino Jake, a cui avevo raccontato ogni cosa, faceva fatica a sopportare i miei bruschi cambiamenti di umore.
Era capodanno, quel giorno. Il Centro era stato trasformato in una discoteca. Luci lampeggianti verdi, rosse e blu riempivano l’atmosfera di colore, tavoli imbanditi di patatine fritte, tartine, panini, dolci e bevande di ogni genere occupavano tutto il salottino, in sala prove era stato montato l’impianto stereo e la musica usciva così alta da far tremare le casse e il pavimento, e camminare era come essere sospesi in un’enorme nuvola fatta di palloncini rossi. Rispetto a noi ragazzi del Centro, la gente che non conoscevo era decisamente il doppio. E ciò non poteva significare altro che il miglior capodanno della mia vita, con Nathan che si strusciava ogni due minuti con una ragazza diversa. Avevo lo stomaco completamente chiuso. Sentivo che se avessi provato a mettere qualcosa sotto i denti, sarei dovuta correre di corsa in bagno. Dare ascolto al pensiero di avvicinarmi a quel tavolo ed iniziare a bere, come quelle protagoniste depresse dei telefilm americani, mi faceva sentire squallida. Ma mi avvicinai a quel tavolo, ed iniziai a scandagliare la varietà di cocktail messi in fila. Naaa, non volevo ubriacarmi…Il mio era una sorta di avvertimento per coloro che avrebbero anche solo voluto avvicinarsi: “Sono potente, e sarei anche capace di staccarti un braccio”. Ecco quello che cercavo. “Orange bloom”, decisamente un finto omicida. Allungai il braccio per prendere la bottiglia, e in quel momento, come in uno specchio, un’altra mano, liscia e affusolata, sfiorò la mia. Si ritrasse immediatamente. Quando mi volsi, uno sguardo profondo e scuro mi colse troppo fatalmente di sorpresa. Quella stilettata dritta al cuore fu un dolore che mai avevo provato e mai avrei voluto rivivere. “Oh, angelo mio, ho paura…Non so neanche cosa ti ho fatto perché ti susciti una tale indifferenza . Ma sono troppo orgogliosa, e sto troppo male, e fra noi finirà così senza che neanche qualcosa sia iniziato…Tu non parlerai, e ovviamente io non parlerò…Sto già abituandomi a questa cosa…Ed è questo che mi fa dannatamente paura…Questa cosa che si chiama Indifferenza…Odio…Si chiama Niente”.
Seduta sul grande divano marrone, mentre ogni altra persona in quella stanza trasudava di adrenalina, con un bicchiere di cocktail vuoto in mano, scorsi indistintamente una figura avvicinarsi. Media altezza, jeans a cavallo basso, maglietta color mogano e capelli neri tirati su a cresta. Dovevo avere un aspetto orribile, perché quando Jake si sedette accanto a me la sua espressione mutò in un qualcosa di funereo.
- Hey…Cosa c’è che non va? –
Dopo quasi quattro mesi, quella sensazione di aver dimenticato come si pronunciasse ogni parola ritornò. Ma sentivo qualcosa dentro… Ultimamente il mio corpo era una fortezza strapiena di ordigni pronti ad esplodere. E stava per succedere. Secondo dopo secondo la fiammella si stava consumando e la bomba avrebbe investito Jake con la sua scarica di energia.
- Sai cosa c’è che non va, Jake?  -, eruppi, - C’è che è capodanno. Si, è proprio capodanno! E lo vedi quell’alberello di Natale ancora lì, in piedi? L’anno scorso ci stava un bambino, in piedi sotto un albero poco più grosso di quello. Un bimbo piccolo, biondo, con gli occhi che luccicavano mentre scartava i regali, e con affianco la mamma, il papà e la sorella, che lo guardavano come se il cuore gli sarebbe scoppiato da un momento all’altro, se non fossero corsi ad abbracciarlo. Quel bambino era Michael, Jake…Ed io avrei trovato il mio regalo sotto il cuscino, la notte della Vigilia, nascosto da quel tornado di mio fratello, e sarei corsa ad abbracciare mamma e papà, e avrei pianto, tra le loro braccia, ma mi sarei asciugata le lacrime in tempo, un attimo prima che se ne accorgessero…C’è che è capodanno, Jake, e Nathan non mi rivolge la parola. C’è che sono pazza di lui e tutto questo mi uccide. E’ una spiegazione sufficiente?  -
Quelle iridi azzurre come il mare d’estate volevano cercare di alleviare il mio dolore. Lo sentivo. Stavano cercando di farlo. Ma c’era qualcos’altro…qualcos’altro che glielo impediva…
- Annael… -
Avrei voluto abbracciarlo forte. Sapevo che le sue braccia calde mi avrebbero tenuta al sicuro. Lui però non voleva. Il suo sguardo mi diceva di allontanarmi…almeno per un attimo…perché…dopo avrei sentito dieci volte più forte il bisogno di stare al sicuro.
- So che non è un bel momento. So che forse mi odierai dopo ciò che sto per fare…Ma devo dirti una cosa…Anche se ti farà stare ancora più male –
Avevo dimenticato come si muovevano le labbra. “Jake, parla”.
- L’altro giorno eravamo in sala prove. Tu non c’eri, eri andata a consegnare gli inviti per capodanno. C’eravamo tutti, c’era anche Donnie. A un certo punto gli amici di Frank si sono messi a punzecchiarlo per il fatto che…insomma, tu gli piaci…E Rocky ha detto una frese del tipo “Ma tanto non ci fai niente, Nathan è già più avanti di te”…E Nate…Oh, Annael…Lui ha detto… “Vi sbagliate, mi fa SCHIFO” –
Il dolore della stilettata al cuore fu un formicolio in confronto a ciò che in quel momento…me lo fece IMPLODERE.
 
…Trrrrr…Trrrrr…Trrrrr…Sul piccolo schermo incolore apparve l’ennesima scritta: “4 Chiamate perse da: Jake”. La cancellai dal registro premendo i tasti malfunzionanti di quel rude “cellulare d’emergenza” che mi aveva regalato Ema. Dopo neanche dieci secondi, un messaggio. “Vengo al Centro oggi pomeriggio. Ti abbraccerò forte, promesso”.
Oh, grazie, Jake, ma non ne ho bisogno. Lo odio. Mi vergogno di me stessa, di come ho fatto a sprecarci tutto questo tempo, di quei sentimenti buttati al vento, di…Tutto. Quanto maligne e ignobili riescono ad essere le persone? Perché esprimere così spudoratamente, senza alcun contegno e soprattutto senza alcun motivo, il disprezzo vomitevole che prova per me? Non so come potrò trovare il coraggio di guardarlo in faccia, d’ora in poi. Non si deve permettere neanche a rivolgermi la parola. Perché è capace che lo sputo in un occhio.
Ogni tanto mi invadeva il dubbio che si trattasse dell’ennesimo incubo. Ma era la realtà. A Nathan facevo schifo. Nathan mi aveva deluso. Nathan MI faceva SCHIFO. Guardare il mondo con l’ingenuità di una bambina a volte poteva essere fatale. Io l’avevo imparato. Ed ora dovevo rialzarmi e cacciare fuori la bestia. O mostri maligni e gonfi di presunzione come Nathan mi avrebbero mangiata viva.
Quando Jake arrivò, mi resi conto che l’accaduto doveva avermi abbassato di un bel po’ la soglia dei sentimenti. Le scintilline di felicità che sentivo crepitare dentro di me ogni volta che lo vedevo, erano ora solo un flebile sussurro. Egli, senza dire una parola, mi abbracciò.
- Come stai? –
- Per me può anche morire sotto un tram –
La serietà con cui pronunciai quelle parole, affilate come la lama di un rasoio, bastò a convincere il mio amico che la fase “autocommiserodepressione” era passata allo stadio b: “Tuguardaminegliocchietifulmino”.                                                                   
Passammo gran parte del pomeriggio in sala prove. Io avevo trovato finalmente il coraggio di mettermi alla tastiera, dopo le mille implorazioni di Leo, che mi aveva ascoltato suonare solo rinchiusa nella mia solitudine, e così ripassammo tre o quattro brani nuovi che il maestro voleva aggiungere al repertorio. Uno di questi, lo suonavo in una specie di stato di agonia nell’attesa che finisse, perché i ricordi a cui lo avevo legato erano oramai inutili e rivoltanti. “Starlight”, dei Muse. Il suo titolo significa “luce di stella”. Lui era la mia luce di stella, una cometa che si lasciava dietro una scia di polvere bianca e piena di magia. Ora sapevo che quella cometa era in realtà un’insignificante e informe ammasso di roccia, e la sua scia di luce soltanto un’illusione.
Alle sei del pomeriggio, Leo entrò in saletta.
- I ragazzi che devono fare chitarra, di là con me. Iniziamo fra due minuti –
Salutai Jake schioccandogli un bacio sulla guancia.
- A dopo –
Mentre mi dirigevo verso la porta d’ingresso, sapevo che di lì a poco mi sarei maledetta da sola ancora una volta per non aver ascoltato la voce di mamma nella mia testa che mi diceva: “Mettiti il giubbino!”.
Un vociare pacato era concentrato vicino alla panchina, mentre schiamazzi provenivano dal grande spiazzo ghiaioso che formava il cortile. Decisi di unirmi al gruppetto che discuteva sulle possibili date delle prossime serate. Fra loro vi erano alcuni amici di Frank, e in più Keeran.
- Ema la scorsa volta ha detto che organizzeremo un carro tutto nostro per la sfilata di carnevale - , disse Rocky, già gasato al pensiero.
- Sai che figata?! Tutti vestiti da strumenti musicali! –
- Che vergogna, ci guarderà tutto il paese –
- Io mi vesto da majorette –
“Il che significa non vestirsi proprio, Keeran…”, pensai, trattenendomi dallo scuotere la testa per il disappunto. Urla stridule misero in stato di allerta le mie orecchie. No, non dovevo girarmi. Poteva continuare a fare lo schifoso bastardo con chi voleva, continuare i suoi passatempi pomeridiani con chi voleva. A me non me ne poteva fregare di meno.
Uno sguardo con la coda dell’occhio mi sfuggì. Eccolo, a rincorrere una delle sue pollastrelle per l’aia. Bambino deficiente.
- Il travestimento da chiave di violino è prenotato già da adesso, ragazzi, mi dispiace –
- Oh, nooo, Tyler, lo volevo io! –
- Puoi sempre vestirti da trombone! O da pianoforte, vorrei proprio vederti camminare con una simile roba addosso!  -
Ora aveva appena acchiappato una gallinella, e la gallinella in questione era Giorgie, che continuava stupidamente a sgolarsi con quella sua voce stridula. Puttaniere.
- Ragazzi, scriviamoci ognuno il nome di una nota musicale in fronte, e non se ne parla più –
Adesso però gli sguardi con la coda dell’occhio mi stavano sfuggendo troppe volte. Ad un certo punto fu troppo vicino. Stava cercando di afferrare Giorgie che era scappata ed era saltata sopra l’altra panchina, situata alle nostre spalle. Rideva, il suo viso era perfetto, ma non brillava più. Mi voltai. Non avevo nessunissima intenzione di incontrare il suo sguardo. Ma sentivo la sua voce, la sua voce che avvertiva Giorgie che se fosse fuggita di nuovo lui se ne sarebbe trovata un’altra. E poi vidi Giorgie passare affianco a me, e correre. E sentii qualcosa afferrarmi per le spalle, così saldamente che quando sobbalzai di scatto per lo spavento non mi mossi neanche da terra. Se non ci avesse messo del suo, non avrei avuto abbastanza forza da voltarmi e trovarmi davanti…LUI. Tutti i buoni propositi frantumati come vetro che esplode. Mi ritrovai con i suoi occhi fissi nei miei, quei due aghi acuminati che tentavano di penetrarmi ad ogni costo, e mi tenevano prigioniera assieme alle sue braccia.
- Lasciami!!! Lasciami!! –
Rise. Le sue mani erano strette attorno alle mie braccia sottili come morse, e mi facevano male.
- Lasciami subito…Mi devi lasciare stare!! –
Mi muovevo come una biscia, cercavo di contorcermi per liberarmi da quella trappola improvvisa e inspiegabile. Cosa voleva da me??
- Ti ho detto di lasciarmi!!!  -
Con uno strattone, mi staccai da lui, e quasi non persi l’equilibrio e non caddi all’indietro. Ora non aveva scampo. Aveva voluto la guerra.
- Che cosa diavolo significa?? Credi di poter trattarmi peggio del tuo zerbino e rivolgermi la parola quando ti pare?!  Cosa vuoi da me, Nathan? Dimmelo!! –
Lui fece per avvicinare una mano, ma gliela allontanai con uno schiaffo prima ancora che potesse sfiorarmi.
- Non…toccarmi! Ti faccio schifo, attento, potresti insudiciarti o rischiare di autocorroderti!!-
Questa volta non fui così lesta. Mi bloccò dalle spalle di nuovo, ma ora la sua non era più una morsa senza via d’uscita. Era un tocco deciso…ma abbastanza leggero da lasciarmi libera di andare, se avessi voluto. I suoi occhi neri si acquietarono. Mentre prima sembravano infliggermi scariche elettriche, ora mi guardavano come se volessero implorarmi a fare qualcosa.
- Dobbiamo parlare –
 
 

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Capitolo 8
*** Your Secret Is Safe Tonight ***


Lo odiavo a morte per ciò che aveva detto di me. Lo disprezzavo come si disprezza un violentatore, un assassino. Lui aveva profanato la mia purezza di sentimenti, e aveva ucciso il mio cuore.Eppure lo seguii. Seguii il suo passo veloce verso il retro del cortile, dove cielo e terra erano uniti in un unico manto color della notte. Un automa. Fu lì che mi resi conto che quanto più si odia…più si ama. Ed io, scusandomi in ginocchio di fronte al mio orgoglio, dovetti ammettere a me stessa che la mia battaglia contro i sentimenti non era altro che una causa persa sin dal principio. Non avevo null’altro da fare se non arrendermi. LUI era più forte. E aveva vinto.
Si fermò, lì dove il muro formava un angolo. Nell’oscurità, era una sagoma immobile con le spalle rivolte verso di me, e gli occhi al cielo. Non fiatai. La mia farsa da ragazza forte e indifferente doveva perdurare il più a lungo possibile. Con le braccia conserte, attesi il momento in cui si sarebbe voltato e avrebbe provato a biascicare qualche inutile spiegazione per tutto ciò che aveva fatto. Ma quando lo fece, mi chiesi chi tra i due in quel momento avesse più motivi per mostrare l’espressione incupita e adirata che era impressa sul suo volto.
- Mi devi spiegare che cos’hai che non va, Annael –
La dissonanza tra la superficialità di certi suoi atteggiamenti e la sua incredibile abilità nel mandarmi in tilt il cervello parlando per enigmi mi lasciava sempre interdetta.
- Non è giusto. Non puoi farmi questo – , continuò, scuotendo leggermente il capo, gli occhi nei miei.
- Nathan…Non capisco –
- No! Sono io che non capisco!! –
Il suo cambiamento di voce fu così brusco che mi spaventò. Ora aveva preso a camminare nervosamente avanti e indietro, prendendo a calci i resti di una lattina vuota. Sentii il cuore accelerare i battiti…Più che altro perché non l’avevo mai visto così serio in vita mia.
- Ho cercato…Ho provato in tutti i modi…Ma non ci riesco, non…ci riesco! –
- Cosa? Non riesci a fare cosa, Nathan? –
Si stava alzando anche la mia, di voce. Tu-tum…Tu-tum…Tu-tum…Mi venne vicino e tre centimetri separavano i miei occhi, atterriti, dai suoi.
- Tu continui a fare quello che vuoi, Annael…I tuoi ricordi, i tuoi pensieri, la tua PAURA…Continuano ad esserci…Ed io non posso fare niente per fermarli  -
- Allora aiutami a capire. Aiutami a dare una spiegazione a tutto questo!-
- Non capisci…Non posso –
- Perché non puoi?! –
- Perché dovrei essere io a fare in modo che tu non abbia alcuna spiegazione, Annael!!! –
“Nathan. Il cuore sta per scoppiarmi. Mi fai paura. Ti prego…”
- Sta lontana da me –
Percepivo la tensione come un fremente e febbricitante campo magnetico. Ma non potevo restare inerme a fissare le sue spalle un minuto di più.
- Nathan –
Lo afferrai da un braccio e lo costrinsi a voltarsi. Mi trovai davanti un viso che sembrava fosse sul punto di piangere, in preda alla frustrazione.
- Ho una famiglia scomparsa chissà dove. Ho delle immagini che mi attraversano la mente e sono troppi mesi che lo fanno senza preavviso attanagliandomi l’anima. Ho degli incubi ricorrenti che mi fanno rischiare l’infarto ogni notte e degli oggetti comparsi misteriosamente senza che ne io, ne mio fratello, ne nessun altro ce li abbia portati. Ho paura e sto impazzendo perché qui tutti vivono nella normalità, ma di normale non c’è proprio un bel niente…Aiutami. Non so cosa gli stia succedendo a questo mondo –
Nero. Nero. Nero, nero, nero…Tutto l’universo sembrava concentrato dentro ai suoi occhi, e dentro quei respiri che nel silenzio scandivano i secondi. “Aiutami…Aiutami, Nathan”
- Io lo so –
Tum. Nel mio petto, il vuoto.
- Tu non dovresti neanche aver bisogno di una spiegazione. Perché…la tua mente…dovrebbe essere nelle mie mani…Assieme a quella di tutti gli altri –
No, non potevo parlare. Non adesso, non ora…che non intendevo neanche il senso di ciò che stava dicendo.
- L’aria bollente, la terra tremante, rumori assordanti in cielo…Queste sono le immagini nella tua mente che ti tormentano. E poi quel fischio…Te lo ricordi? Così sottile da lacerare il cervello come con la punta di un trapano…Quello…avrebbe cancellato ogni ricordo dalla mente umana…Ogni ricordo…tranne i tuoi. Loro ancora non sanno che tu sei qui. Ma…lo sapranno presto…  -
Uscire come non più di un flebile sussurro era tutto ciò che la mia voce era in grado di fare.
- L-Loro…Loro…chi… -
- Annael. Noi non siamo propriamente di questo mondo –
 Cosa…Cosa stava dicendo quella creatura così sovrumanamente perfetta e inspiegabile? Mi stava prendendo in giro. Ovviamente. Come poteva essere vera una tale affermazione…Ma lui aveva parlato di tuoni, di aria che bruciava…Aveva descritto quel fischio come se fosse stato anche lui provarlo…O come se fosse stato lui a…produrlo. No. No, no, no…Allontanati…Annael, allontanati da lui…
- Annael, aspetta. Fermati –
Le sue mani si chiusero per la terza volta attorno alle mie spalle, che tremavano.
- Ormai ci sono troppo dentro. Ciò che ti sto dicendo è la verità. Devi dirmi perché non riesco a controllarti la mente… -
- Nathan –
Se era vero tutto ciò che avevo appena ascoltato, avrei preferito centomila volte non essere l’unica superstite…e fare la fine che avevano fatto tutti gli altri.
- Hai ucciso la mia famiglia –
Non sapevo chi mi trovavo davanti. Di certo non era il normale, umano, misterioso e magnetico ragazzo di cui mi ero innamorata. Mi guardò come se gli avessi tirato una pugnalata dritta al cuore.
- Noi non abbiamo ucciso nessuno, Annael. Non ancora –
Disse ciò come se fosse l’affermazione più normale di questo mondo. E rabbrividii. Tuttavia, sul suo volto immacolato continuava ad albergare una sensazione di tristezza.
- Tutti loro… - , disse, alludendo alle quindici persone al di là di quelle mura e alle altre sei miliardi di questo mondo  - Sono convinti che noi siamo persone comuni, nate fra loro, vissute in mezzo a loro, presenti da sempre. Quando siamo arrivati, abbiamo immesso nelle loro menti tutti quei ricordi che ci avrebbero permesso di rimanere e agire indisturbati…Fino al Giorno Finale. E il momento del nostro arrivo è stato cancellato dalla loro memoria per sempre –
Vi erano tutte le condizioni favorevoli affinché si trattasse di un film, e non della realtà. Tuttavia, finalmente ora l’aggroviglio di domande si stava districando. Tutto stava cominciando a prendere una piega. Tutto aveva un senso assurdo, inconcepibile. Ma aveva un senso.
- Non tutti però sono stati destinati al giorno Finale - , continuò Nathan – Alcuni di voi sono stati prescelti e mandati in un’altra dimensione. Un universo parallelo. Narwain. È un mondo creato per assicurare continuità alla razza umana. In quest’ultimo periodo, come conseguenza a quella che tu definisci “catastrofe”, c’è stata qualche instabilità di linee energetiche, e quando ciò accade le linee di demarcazione fra le dimensioni spaziali si assottigliano, così è possibile che le menti di due persone con una particolare affinità e un legame molto forte si connettano, in un certo senso, e che i pensieri dell’una vengano proiettati nella dimensione dell’altra –
Seguire il filo logico di un discorso al di fuori della conoscenza umana non fu molto semplice. Ma compresi abbastanza da collegare immediatamente le parole di Nathan ad un nome: Michael.
- Annael, prima hai detto che hai trovato degli oggetti. Forse qualcuno della tua famiglia è stato mandato a Narwain, e sta cercando di comunicare. Quali sono questi oggetti? –
Ancora sotto shock, non riuscivo a parlare. Il mio cervello però fu ancora lucido quanto bastava per trasmettere alla mia mano tremante l’impulso di infilarsi nella tasca della felpa grigia da cui mai mi separavo, e tirare fuori un oggettino rosso fiammante. Lo porsi a Nate, che cominciò a rigirarselo fra le mani esaminandolo con una certa concentrazione. Poi, fece qualcosa che mi lasciò senza fiato. E da lì dovetti rassegnarmi al fatto che il “normale” non poteva più esistere. Io ero solo un’insignificante, piccolo atomo in uno fra i miliardi di granelli di sabbia sospesi nell’immensità dell’universo. Nathan strinse il giocattolo in una mano, ed esso si frantumò. Letteralmente, divenne polvere…che fluttuò per un secondo nell’aria prima di posarsi sull’erba, ai nostri piedi.
- Era solo un ricordo, non era reale. Annael, tuo fratello è salvo –
Guardò i miei occhi essere attraversati in un istante da cento emozioni diverse. Felicità, commozione, confusione, tristezza, paura…Specchiò quelle due iridi senza fine, luccicanti, inspiegabili, aliene, nel mio sguardo. E non mi sembrarono mai più dolci e umane di così.
Mi prese il viso tra le mani. Oddio, un brivido. Non so se aver paura di te. Dovrei averne…?
- Ti chiedo perdono se ti ho fatto del male. Non era quello che volevo… -
Avvicinò quelle labbra perfette alla mia fronte, e le mie guance divennero rosse sotto il suo bacio.
 
 

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