Il riflesso delle lacrime

di Loda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Fuori tempo ***
Capitolo 3: *** Senza lacrime ***
Capitolo 4: *** La sete ***
Capitolo 5: *** Ideali di fantasma ***
Capitolo 6: *** L'eroe ***
Capitolo 7: *** Perdizione ***
Capitolo 8: *** Bestie ***
Capitolo 9: *** La realtà nello specchio ***
Capitolo 10: *** Segreto ***
Capitolo 11: *** Doppio ***
Capitolo 12: *** Regina ***
Capitolo 13: *** Maestri di polvere ***
Capitolo 14: *** Scegliere ***
Capitolo 15: *** La leggenda ***
Capitolo 16: *** Isteria ***
Capitolo 17: *** Vittima e oppressore ***
Capitolo 18: *** Assente ***
Capitolo 19: *** D'incanto e d'inganno ***
Capitolo 20: *** Fulgida stella ***
Capitolo 21: *** Dimenticare ***
Capitolo 22: *** Parole magnetiche ***
Capitolo 23: *** Didone ***
Capitolo 24: *** Luna ***
Capitolo 25: *** Catene ***
Capitolo 26: *** In pezzi ***
Capitolo 27: *** Il sole non cambia ***
Capitolo 28: *** All'origine ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
PROLOGO
 
 




Sentiva la pioggia scivolarle addosso, e ogni goccia di pioggia sembrava qualcosa che le si spezzasse dal cuore e che fuggisse via. Per quanto ancora avrebbe dovuto sentirlo battere quel cuore? Non ne aveva abbastanza? Il suo cuore non ne voleva sapere di morire davvero, e sentire dentro di sé l’amore e il dolore era la cosa più orribile. Perché se avesse potuto vivere duemila anni ancora, senza il cuore, oh sì, l’avrebbe fatto. Ma allora da cosa stava scappando? Non l’aveva sempre desiderata?

La vera morte…
Correva talmente veloce da non sentire il terreno sotto i propri piedi, sorpassava alberi, fiumi, case isolate e andava avanti. Non sarebbero mai riusciti a raggiungerla.
Non voleva dare loro quella soddisfazione, far pensare loro che avessero vinto. Non voleva lasciare il mondo in mano al caos più marcio, ma era quello che stava facendo. Stava fuggendo, e stava lasciando il baratro dietro di sé. Stava fuggendo da lui? La vergogna, era sempre stata un’irresponsabile e lei, nonostante fosse vecchia di quasi duemila anni, ancora non la conosceva la saggezza.
Il suo sogno era quello di essere accettata, un giorno, ma come era possibile essere accettata dopo tutto quello che aveva fatto?
Il corpo di colui che avrebbero chiamato eroe era caduto a terra, sul caldo cemento di sangue. E lei era di nuovo la cattiva.
Non era sempre stata lei l’oppressore?
Tutte le cose che aveva fatto… Aveva fatto anche cose buone, sì, glielo dicevano in continuazione. Ma ora come ora ricordava solo quelle brutte, quelle malvagie, quelle che la divoravano.
Uccidere non è abbastanza, Jacque, non è abbastanza per definire quello che ho fatto.
Anche se erano talmente lontane da sembrare le terribili cose di qualcun altro, era stata proprio lei a compierle.
Si fermò, stanca. Avrebbe dovuto nutrirsi, altrimenti avrebbe rallentato e la distanza tra lei e loro sarebbe diminuita. Si buttò per terra, sulle ginocchia.
Lei odiava mangiare.
La pioggia cadeva feroce sulla sua testa e le impediva di pensare. Era terribile, sembrava che la sua testa potesse scoppiare da un momento all’altro, come se fosse soprassatura, come se non ci fosse più spazio per niente. Era tutto occupato, tutto colmo di amore, odio, ricordi avvelenati che le squarciavano il cuore che si ricomponeva, un pezzo alla volta, ogni volta, mentre le lacrime, quelle non sarebbero mai più venute fuori e standosene all’interno di quell’inferno la consumavano, lentamente la uccidevano. 
Si portò una mano al petto mentre un’idea che aveva sempre avuto ma che la spaventava troppo tornò a galla nel mare tempestoso della sua mente. Sarebbe rimasta lì, sdraiata tra l’erba e il fango, sotto la pioggia, che l’avrebbe rasserenata e fatta sentire parte della natura. Si sarebbe ricordata le cose belle della vita, avrebbe pensato all’unico uomo che aveva davvero amato e l’avrebbe stretto a sé e l’avrebbe scaldato nel gelo dei suoi ricordi. Finché non fosse venuta l’alba.
E lasci tutto così com’è…  
Allora avrebbe guardato il sole come se lo vedesse per la prima volta, avrebbe sentito il suo calore accarezzarle la pelle, come il calore dell’amore che non voleva dimenticare.
E poi sarebbe bruciata, all’inferno.












Prologo molto breve, lo so. Non mi aspetto particolari pareri ma spero di aver dato un piccolo assaggio di quello che questa storia sarà, per chi vuole proseguire nella lettura il primo capitolo arriverà a breve :)
 

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Capitolo 2
*** Fuori tempo ***


Capitolo 1
CAPITOLO I
FUORI TEMPO
 
 
 

“Hai la faccia di chi vuole dimenticare qualcosa” scherzò lui, dopo un sorso di birra.

Lei si riscosse e lo guardò. Non era solo bella, aveva un velo di tremendo e inquietante fascino poggiato sul viso.
“Cosa?” domandò, con l’esatta faccia di chi vuole nascondere qualcosa. Del resto, le cose che nascondi, le vuoi dimenticare.
Eppure dimenticare doveva essere una cosa da niente, per lei, così giovane.
“Non dimostri l’età che hai, sai” proseguì lui.
“Mi dicono che sembro più grande” ribatté la ragazza. Non sorrideva, sembrava stesse sulla difensiva.
“Non è quello” insistette l’altro “La tua espressione… è adulta”.
La giovane donna sbatté le palpebre, come se fosse confusa. Ancora non c’era segno di sorriso o divertimento sulle sue labbra, che pure dovevano saper flirtare bene, e ciò la rendeva ancora più intrigante.
Ma lui doveva pensare al suo dovere, prima di tutto.
“Troppo sofferta per una ragazza” continuò. Bevve un altro sorso e tornò a fissarla. Oh, si sarebbe perso in quei suoi meravigliosi e freddi occhi. “Perché non mi racconti la tua storia, Emily?”.
 
 
 
Germania, 1939
 
È la tua natura, gli aveva detto. E ora lui la guardava con gli occhi iniettati di sangue, così rossi e paradossalmente gelidi, che non riflettevano più il ricordo della sua bambina, e mai più l’avrebbero fatto.
“Fermati, ti prego” gli sussurrò le sue braccia.
Una volta era lei a tenerlo così, per proteggerlo o dannarlo, chissà.
Ma lui aveva quello sguardo cattivo e non demordeva, e lei sentiva tutte le sue energie scorrerle via, velocemente, come il sangue che colava da sempre e non si fermava…
“Ehi, Aci, svegliati… Svegliati!”.
Acilia aprì gli occhi nella confortante oscurità del sotterraneo. Si sentiva tirare per un braccio.
Irritata si voltò e stringendo gli occhi riuscì a vedere dei lineamenti da bambino.
“Che vuoi, Eike?” sbottò.
Il visetto di Eike si corrucciò. “Ho fame”.
Acilia si guardò intorno. Era stesa sul pavimento ed era sola con Eike. Jacque non c’era.
Ma quanto ho dormito?
Quel maledetto la stava trattenendo ancora una volta nel sonno, la teneva prigioniera dei suoi stessi sogni…
Si ricordò che aveva Eike al suo fianco, e che aveva fame.
Lo guardò arrabbiata. “Perché vieni a dire a me che hai fame? Non sono mica tua madre, dov’è Jacque?”.
Jacque era un irresponsabile, non ce l’avrebbe mai fatta ad allevare Eike da solo, e purtroppo ne era consapevole. E Acilia si era ritrovata irrimediabilmente un moccioso in più tra i piedi.
“Ha detto che aspettava te per andare” tentò di difendersi Eike.
L’altra alzò gli occhi al cielo. Sbuffando si alzò, risalì in fretta la scaletta, aprì la botola e riemerse come ogni sera dopo un lungo sonno di morte tra i tappeti impolverati di una casa vecchia ormai da buttare.
Jacque era in piedi, davanti alla finestra e Acilia lo raggiunse in un attimo.
“Perché non porti Eike a mangiare?” gli chiese, alzando la testa e guardandolo dritto negli occhi.
Il ragazzo esitò per un momento. “È il suo compleanno, volevo andassimo insieme”.
Acilia sgranò gli occhi.
Compleanno?
“Oh, Jacque, ma quanto sei stupido”.
L’altro non sembrò offendersi. Guardava al di là delle spalle di Acilia e lei si voltò, riscontrandosi negli occhi azzurri di Eike, quegli occhi fanciulleschi che le dicevano che lui ancora non aveva accettato quello che era.
Acilia neanche ricordava il giorno del suo – di lei – compleanno, non sapeva neanche quanti anni avesse. “Quanti anni compi, Eike?”.
Non sapeva se fosse giusto che Eike tenesse il conto. Jacque avrebbe dovuto impedirglielo, avrebbe dovuto dirgli che non esistevano più compleanni.
Ma il bambino sorrise, quasi fosse contento, e le sue guance lisce e morbide si distesero.
“Ventuno”.
 
 
 
Roma, 81
 
Acilia indossava per l’occasione una stola ornata da una striscia di porpora sopra la tunica bianca. Mentre la serva la aiutava a legare stretta la cintura intorno alla vita, provò un moto di stizza. Poteva benissimo vestirsi da sola, ma quello era un giorno speciale e doveva essere vestita bene.
“Quali gioielli volete indossare, signorina?” chiese la serva, dopo aver finito. Si chiamava Decia, era nuova ma era obbediente e servizievole.
Acilia amava i gioielli, ma non vedeva il motivo per cui avrebbe dovuto indossarli quella sera. Quella sera Damiano non ci sarebbe stato, come non ci sarebbe mai potuto essere.
Vedendo che la ragazza esitava a rispondere, Decia si azzardò a prendere l’iniziativa e aprì il cofanetto dei gioielli posto sul tavolo. “Questo vi donerebbe tantissimo” disse, estraendo un nastro ornato di smeraldi “Risalterebbe i vostri occhi e darebbe luce a…”.
“Osi troppo” la zittì Acilia. Decia chinò il capo mortificata.
Mi dispiace, pensò subito dopo la ragazza, senza proferire parola. Non voleva comportarsi in maniera troppo molle con la sua nuova serva. Col tempo poi, una volta che Decia avesse imparato a rispettarla completamente, avrebbe potuto trattarla con più affetto e l’avrebbe potuta rendere quasi un’amica.
Fece un passo verso di lei osservando il nastro che teneva tra le mani.
Una volta l’aveva indossato per uscire con Damiano e lui, vedendola coi capelli mori intrecciati a quel verde lucente che anche era nei suoi occhi, era rimasto senza fiato. Al ricordo le venne da sorridere e sentì il suo cuore farsi un po’ più leggero.
“Va bene” disse, rivolta a Decia, che la guardò sbigottita “Acconciami i capelli con quel nastro, poi voglio una spilla sulla stola, in prossimità della spalla, e l’anello con lo smeraldo”.
Mentre sentiva le mani della serva che, obbedendo prontamente, le prendevano i capelli cercò di farsi forza. Dopotutto si trattava di resistere ad un’ennesima festa in cui suo padre, suo fratello, il suo promesso sposo e tutti gli altri uomini presenti avrebbero mangiato e bevuto fino a scoppiare e a vomitare, mentre lei, la sorella più piccola e loro madre avrebbero assistito alla scena con dignitosa pietà dando indicazioni agli schiavi per la pulizia. Solo che quella era la festa per il suo compleanno, e lei non si sarebbe divertita per niente.
Sentì dei passi veloci e sua sorella apparve sulla soglia della camera.
“Sono già arrivati quasi tutti gli ospiti” disse, trafelata.
Acilia alzò gli occhi al cielo. “Lia, non devi correre per casa”.
“Ma…”.
“Non c’è fretta, Decia deve ancora acconciarmi i capelli e truccarmi. Non ho intenzione di lasciare a metà l’opera” disse Acilia, con fermezza. La verità era che voleva rimandare il più possibile il momento in cui avrebbe incontrato Vito, il suo futuro sposo.
Sentì le mani di Decia smettere di lavorare e capì che i capelli erano pronti. Senza neanche curarsi di guardarsi allo specchio per osservare il risultato si voltò verso la serva con gli occhi chiusi, pronta per il trucco. Sentì subito le mani della serva cospargerle sul volto quella che sicuramente era biacca mentre Lia brontolava qualcosa sul fatto che lei odiava quella roba.
Acilia trattenne il sorriso che le stava nascendo sul volto per evitare di ostacolare le mani di Decia ma subito dopo qualunque voglia di sorridere le scomparve dalla mente. Sua sorella, che aveva appena dodici anni, poteva permettersi di fare la schizzinosa e di snobbare le pratiche femminili ma ancora per poco. Presto la madre sarebbe stata più severa e il padre le avrebbe trovato un fidanzato, allora lei sarebbe dovuta essere sempre impeccabile. Un triste destino l’attendeva, ma ancora più triste forse era quello di Acilia. Acilia sperava che la sorella più piccola non si innamorasse mai, cosicché le sarebbe stato più facile piegarsi alla volontà del padre. Lei era fidanzata a Numerio Aemilio Vito, della famiglia Aemilia, da quando aveva undici anni ma lo conosceva appena e il suo cuore si era inevitabilmente legato a qualcun altro, a quel Damiano che non avrebbe mai potuto sposare.
Le mani di Decia si spostarono dalle labbra e agli occhi e Acilia si sforzò di tenerli chiusi. Ancora qualche istante e sentì la serva allontanarsi, e lei poté aprire gli occhi. Questa volta si guardò allo specchio, più per fare un piacere a Decia che per rimirarsi veramente. Una ragazza dalla carnagione bianchissima, gli occhi verdi cerchiati di grigio, le gote colorite grazie alla feccia di vino rosso, labbra ridipinte di ocra e i capelli raccolti su una pioggia di fili lisci, neri mischiati a smeraldi ricambiava lo sguardo triste e assente che si sentiva pesare sul volto ogni istante che passava in quella casa. La spilla d’argento si faceva ben vedere sulla stola e lei capì che non poteva più indugiare.
Guardò Decia che la guardò con comprensione e fece un inchino, poi si rivolse verso Lia e insieme uscirono dalla stanza trovandosi nell’ampio porticato che si affacciava sul loro giardino ben curato. Acilia fu presa  per un momento dalla tentazione di rifugiarsi lì, nel verde, come faceva da piccola, quando lei e il fratello Spurio giocavano a rincorrersi e si nascondevano dietro le colonne e le statue.
“Sono nel tablino?” chiese Acilia, riferendosi agli ospiti.
“Sì” rispose Lia, mentre camminando faceva attenzione a non pestare la tunica. Non era abituata a portare tuniche così lunghe.
Si diressero verso l’atrio e scostarono le tende che lo separavano dal tablino.
Il tablino era la sala dove di solito ricevevano gli ospiti e difatti li trovò tutti lì, chi impegnato a parlare, chi impegnato a guardare i dipinti dei loro antenati e gli oggetti di lusso.
Acilia pensava che con tutte le stanze inutili che avevano era proprio assurdo non poter mai invitare a casa chi voleva lei.
Fu il padre il primo ad accorgersi di loro. “Oh!” esclamò, trionfante e ilare “Ecco Acilia Maior e Acilia Minor”.
Lia fece una smorfia, odiava l’appellativo minor, mentre Acilia si sforzava di sorridere, ringraziando uno per uno gli ospiti che le venivano incontro per gli auguri.
Il primo fu Spurio e Acilia, vedendolo così alto e lo sguardo distaccato, provò una stretta al cuore. Ormai stava per completare il suo percorso di studi alla scuola dei retori e ogni volta che apriva bocca era peggio che ascoltare un sermone. Quel ragazzino con cui giocava sempre ormai ostentava superiorità da tutti i pori, e le parlava solo in rare occasioni. Dopotutto Acilia era una donna, e conversare con le donne non era poi questo granché.
Dopo Spurio fu il turno del padre Senecio e poi – Acilia avrebbe voluto sotterrarsi – di Vito accompagnato dai genitori. Si scambiarono due parole formali, di pura cortesia mentre la signora, entusiasta, non finiva più di dire di quanto si fosse fatta bella Acilia.
Poi c’erano gli zii, i cugini, altri amici di Senecio, e ad Acilia già girava la testa. Fu quasi un sollievo quando il padre propose di mettersi a tavola.
Tutti si avviarono verso l’uscita ed Acilia rimase indietro con Lia e la madre. Quest’ultima le si avvicinò con sguardo severo: “Vedi di comportarti bene con Vito e i suoi genitori, e cerca di conoscerlo e rendertelo simpatico, adesso che ci siamo quasi”.
Acilia la guardò con gli occhi sgranati. Non aveva fatto niente di male, avrebbe forse dovuto mettersi a civettare? Poi si rese conto delle parole della madre. Adesso che ci siamo quasi.
“Volete forse dire che il matrimonio è vicino?”.
La madre sospirò. “Hai già diciotto anni, penso tu sia l’unica ragazza di buona famiglia in tutta Roma nubile a diciotto anni! Non so più cosa inventarmi con tuo padre per rimandare ancora le nozze”.
Acilia sentì il suo cuore sprofondare. La festa in suo onore stava andando ancora peggio di come si era immaginata. Sua madre l’aveva sempre coperta, aveva indotto suo padre a posticipare il matrimonio dicendo che Acilia era interessata al canto, poi al disegno, poi ancora alla danza. Ma le scuse erano finite e la condanna dei diciotto anni le era sopra come una spada affilata pronta a calare su di lei.
La voce della madre continuò, crudele, riducendosi ad un bisbiglio: “Quindi comincia a pensare di dire addio a chi devi”.
Quelle parole furono come una pugnalata. Acilia aveva già finito il tempo a disposizione che aveva per godersi la vita, anzi, doveva essere grata che fosse finito così tardi.
Non riuscì a dire niente e si limitò a seguire la madre fuori dal tablino, affianco a Lia, che la guardava preoccupata.
Passarono ancora di fronte al giardino e ancora Acilia, guardando quel pezzo di cielo sopra il verde, provò il desiderio di fuggire via, verso un’altra vita. Ma entrarono nel triclino e l’oppressione si impadronì ancora di lei. Tutti gli ospiti erano già seduti sui letti disposti lungo la tavolata. Un posto era stato riservato a lei di fianco a Vito. Acilia si diresse verso di lui con un macigno nel petto. Ricordò le parole di sua madre: cerca di conoscerlo e rendertelo simpatico. Si sedette e lo guardò. Non lo aveva mai conosciuto, magari era un ragazzo simpatico, magari non sarebbe stato male vivere con lui.
Ma lui non si voltava a guardarla, impegnato com’era in una conversazione con Spurio sulle tecniche di retorica più adatte. Ma certo, a lui non interessava niente di lei, come lei di lui, magari anche lui aveva una fidanzata o un fidanzato segreto, con cui scivolava dolcemente nella passione ed era costretto a rinunciare a tutto quello per sposare un’altra persona. E chissà come doveva odiarla.
No, sicuramente non sarebbe stato bello vivere con lui.
Acilia alzò lo sguardo sugli altri presenti. Alla sua sinistra c’erano solo donne, alla sua destra solo uomini. Sentiva le sue cugine parlare di argomenti frivoli, di trucco forse, di matrimoni. Alla sua destra invece sentiva parlare di arte retorica, di politica, dell’imperatore Tito gravemente malato.
Suo padre si era steso sul letto a capotavola, con la pancia ingombrante rivolta verso il tavolo, mentre mangiava un chicco d’uva dopo l’altro.
Acilia decise di fare uno sforzo con Vito, dopo aver incrociato lo sguardo eloquente della madre. Tossicchiò, per cercare di catturare l’attenzione del ragazzo.
Quello non si voltò allora lei decise di parlare, sentendosi piena di rabbia, forse addirittura sbottò: “Allora, si hanno notizie sulla salute dell’imperatore?”.
Vito si voltò con aria sorpresa.
“È grave” disse poi, parlando con un lieve sdegno “Dicono che morirà”.
“Ma è terribile” fece Acilia, sincera. Era turbata all’idea che un imperatore mite e generoso come Tito morisse per essere rimpiazzato da chissà chi.
Vito annuì. “Gradirei che non mi interrompeste più in tal modo” disse poi, voltandosi nuovamente verso Spurio.
La ragazza si sentì come se l’avesse schiaffeggiata.
Voltò subito lo sguardo altrove e incrociò quello della madre in cui le parve di vedere quasi una dolorosa rassegnazione e in quel momento capì che sua madre davvero ci teneva che lei facesse amicizia col suo futuro sposo.
Gli schiavi cominciarono a portare il cibo in tavola ma ad Acilia si era chiuso lo stomaco in maniera terribile. Cominciava a rendersi conto che avrebbe dovuto davvero dire addio a Damiano per sposare quell’uomo dal naso adunco e pieno di sé.  Sentiva un gran vociare, delle risate, i primi sintomi del vino e le voci cinguettanti delle cugine che ancora parlavano di matrimoni.
Come fate a sopportare tutto questo?!
Nella confusione e tra un portata e l’altra i discorsi degli uomini si fecero sempre più fuori luogo e volgari e quelli delle donne sempre più timorosi. Il padre, rosso in faccia e sempre più ilare, faceva commenti indecenti sul loro schiavo greco scatenando le risate generali. Acilia guardò la madre e la vide a braccia conserte, labbra serrate, il piatto vuoto proprio come il suo. Era quello il destino che l’attendeva, quello l’inferno che avrebbe passato, guardare suo marito ubriacarsi, guardarlo flirtare con gli schiavi, sentire di non valere niente, per tutta la vita.
 
*
 
 
Lo sfortunato uomo che avevano scelto li stava guardando ammirato.
Era stato Jacque ad incantarlo, e ora l’uomo era davanti a loro con quello sguardo di adulazione che ogni volta lo incuteva. Guardò Eike incoraggiante. “Vai per primo” gli disse.
Il bambino si avvicinò alla preda che volse lo sguardo verso di lui.
“Calmati, non ti agitare” fece Eike, alzandosi in punta di piedi e costringendo l’uomo a piegarsi verso di lui. Quello lo assecondò e gli mostrò il collo. Eike si piegò su di lui e lo morse. L’uomo lanciò un urlo terribile ma dopo pochi istanti si mise a ridere, mentre il colorito che aveva sul volto cominciava piano piano a sparire. “Basta così” disse Acilia, dopo un po’, risoluta “Jacque, digli di smettere”.
Jacque obbedì. “Eike, fermati”.
Eike non si fermava e il ragazzo fu costretto a prenderlo per il colletto della camicia.
“Quando ti dico di fermarti, ti devi fermare”.
Il bambino si pulì la bocca sporca di sangue senza replicare. Doveva ancora imparare a controllarsi, Jacque lo capiva, ma sentiva su di sé lo sguardo severo di Acilia e voleva fare una buona impressione su di lei, voleva che lei lo considerasse un buon creatore.
Continuò a guardare negli occhi – e ad incantarlo – l’uomo che, incredulo, si tastava il collo ricoperto di grumi di sangue con la mano.
Poi Jacque si piegò su di lui, prendendogli il polso, il battito del cuore si sentiva ancora distintamente e lui si lasciò andare serenamente all’attizzante odore del sangue che gli stava penetrando con forza le narici. Un lieve dolore nell’arcata dei denti superiori, qualcosa che spingeva, la prima volta che gli erano comparse le zanne aveva urlato e cercato di piangere perché quei denti così lunghi, affilati e orribili non potevano essere i suoi…
Cercò di colpire la pelle dell’uomo con le zanne negli esatti punti colpiti da Eike. Non voleva sfigurare ancora ulteriormente quel collo, non era cattivo, non voleva essere cattivo. Acilia diceva che erano dannati, come se avessero un orribile marchio sulla pelle e non potevano fare nulla per cambiare le cose.
Mentre l’uomo urlò di nuovo Jacque succhiò avidamente e sentì il sangue scivolargli giù per la lingua e la gola. Da vivo non avrebbe mai pensato che il sangue avesse un sapore così buono, non avrebbe mai pensato neanche di assaggiarlo.
Sentì il corpo dell’uomo fremere per un attimo e Jacque lo lasciò andare. Guardò Acilia, era il suo turno, ma lei scosse la testa. “Morirebbe” disse solo, e sparì in un attimo, probabilmente alla ricerca di qualcun altro.
Erano in un vicolo stretto, tra due palazzi. La gente non si sarebbe mai avventurata in un posto simile, con le storie che circolavano sui vampiri. Probabilmente quello era un ebreo che cercava rifugio da una SS, aveva pensato Jacque. Avrebbe voluto succhiare il sangue a quei tedeschi ignobili, l’avrebbe succhiato fino a prosciugarli, e li avrebbe lasciati, morenti e vuoti, secchi, con l’espressione smunta, terrorizzata e urlante di chi ha visto un vampiro. Ma Acilia diceva che se avessero bevuto il sangue delle SS non sarebbero di certo passati inosservati. Dovevano nascondersi e dovevano farlo bene. Bastava solo qualche prova e un po’ di coraggio dalle persone giuste e sarebbe stata rivolta anche contro di loro.
Eike si stava succhiando un dito su cui era rimasto del sangue, mentre Jacque ancora teneva sotto controllo la psiche dell’uomo che aveva offerto inconsapevolmente loro il suo sangue.
“Perché non lo beviamo tutto?” chiese Eike.
Jacque lo guardò sorpreso. “Vuoi uccidere?”.
“Non è ciò che fanno i vampiri?”.
“Vuoi uccidere?”.
Eike lo guardò, ostinato. “Io non vorrei neanche succhiare il sangue alle persone, ma ho fame, sempre fame”.
Jacque sospirò, senza sapere che dire. Cercavano di limitare i danni, per quanto fosse brutto succhiare il sangue delle persone, ucciderle sarebbe stato peggio, anche se a volte non ne era poi così sicuro.
“Grazie” disse, rivolgendosi all’uomo “Ora non ricorderai niente di quello che è successo”.
L’uomo annuì, con un sorriso da ebete e Jacque continuò: “Quella che hai sul collo è una brutta ferita, faresti meglio a coprirla quando vai in giro”.
Ancora l’altro annuì. Era sulla trentina, forte e robusto. Si sarebbe presto ripreso. Li sceglievano sempre corpulenti e giovani apposta.
“Andiamo a casa” disse Jacque, ancora attento a non distogliere lo sguardo “prima che si svegli”.
Sparirono entrambi in un soffio, prima di sentire gli affanni spaventati del giovane di cui si erano nutriti.
 
*
 
 
Acilia si faceva largo tra le persone, il mantello che la copriva dalle spalle ai piedi. Sentiva i cocci del sentiero sbattere contro i sandali, aveva voglia di correre e di urlare, ma cercò di mantenere la calma che le era stata insegnata finché non si ritrovò davanti a quello che sembrava un gigantesco magazzino. Era lì che abitava la famiglia di Damiano.
Spinse con delicatezza la porta centinata e si ritrovò nella bottega. Si aspettava di vedere il padre di Damiano dietro il lungo bancone di pietra invece trovò Damiano stesso, che appena la vide esplose in un sorriso.
“Aci! Cosa ci fai qui? Non dovevamo vederci domani?”.
Acilia si avvicinò al bancone. “Devo parlarti” disse, sentendo un grosso peso sullo stomaco.
La porta si aprì di nuovo e altre persone avvolte nei mantelli entrarono in uno scalpiccio di sandali.
Damiano assunse un’aria preoccupata. “Ora non posso, devo occuparmi dei clienti”.
La ragazza sentiva di non poter aspettare ancora neanche un secondo ma annuì. “Tuo padre?” chiese solo.
Damiano accennò alla scala di legno alla sua sinistra. “È malato e si sta riposando”.
Una donna dai capelli grigi e il viso magro si avvicinò al bancone ma Acilia chiese ancora, turbata: “È grave?”.
Il ragazzo scosse la testa frettolosamente e si rivolse alla signora. “In cosa vi posso essere utile?”.
La donna disse di volere del pane e Damiano scomparve nel retro.
Acilia si guardò intorno: dietro la donna c’erano altre due persone. Il suo cuore non avrebbe retto a tant’attesa.
Damiano ricomparve con del pane nero scaldato e Acilia pensò che era molto diverso dal pane bianco di farina finissima che lei aveva in tavola tutti i giorni.
Attese pazientemente che il ragazzo servì tutti i clienti presenti nella bottega. Quando l’ultimo uscì, sentì che stava per scoppiare in lacrime e Damiano se ne accorse. “Che cosa succede?” chiese, cauto, con lo sguardo di chi già immaginava.
“Si tratta del matrimonio” disse lei “Non si può più aspettare”.
Capì che Damiano aveva immaginato bene quando lo vide sospirare e abbassare lo sguardo. “E tu hai intenzione di assecondarli, immagino”.
Acilia si sgranò gli occhi. Non si aspettava una reazione del genere. “Che altro dovrei fare?” disse, sgomenta “Sono i miei genitori!”.
“Quindi preferisci mollare me piuttosto che mollare loro” disse l’altro, con lo sguardo duro.
La ragazza si sentì come se le mancasse l’aria, quelle parole la ferivano profondamente. “Ma come ti permetti… Io non preferisco affatto, io non ho scelta!”.
“Si ha sempre una scelta!” esclamò Damiano, alzando la voce.
Acilia pensò improvvisamente a sua madre come la vedeva a tavola, muta e col volto della rassegnazione, pensò a sua sorella che ancora non sapeva cosa l’attendeva.
“Noi donne no!” esplose “Non abbiamo mai una scelta!”.
Vide Damiano deglutire e si accorse che si stava trattenendo dal piangere. Stava nascondendo il suo dolore dietro la rabbia.
Ma Acilia non avrebbe sopportato di vederlo piangere. “Non devi essere triste” disse, con la voce rotta dal pianto “Sono io quella che soffrirà enormemente, con un uomo orribile accanto che non ho scelto io, mentre tu potrai innamorarti di un’altra donna e…”.
Damiano la guardò coll’angoscia che traboccava dagli occhi scuri. “Non mi innamorerò mai di un’altra donna”.
Acilia si portò una mano alla bocca, scossa dai singhiozzi, mentre sentiva le lacrime percorrerle le guance. Erano le parole più belle che una donna potesse sentirsi dire, eppure le stavano facendo male, malissimo, sentiva il suo cuore lacerarsi. Avrebbe forse potuto sopportare la sua stessa sofferenza, ma quella dell’uomo che amava no, l’avrebbe uccisa.
“Ti sto chiedendo di fuggire, Aci” continuò Damiano, con un luccichio tra le lacrime degli occhi “Vieni via con me”.
Acilia lo guardò, stranita.
Lui continuò: “Tuo padre non accetterebbe mai il figlio di un bottegaio per sua figlia, non so neanche cosa sia la grammatica” accennò ad un sorriso “L’unica mia possibilità di vittoria è che tu gli volti le spalle e vieni via con me”.
Fu un attimo in cui Acilia pensò alla rabbia che avrebbe provato il padre, il disprezzo di suo fratello, il dolore di sua madre perché non l’avrebbe potuta vedere mai più. Non avrebbe più rivisto neanche sua sorella.
La testa le girava e il peso allo stomaco non si era allentano neanche un po’. Damiano aspettava una risposta e lei non sapeva cosa dire. Non sapeva se ce l’avrebbe fatta, non aveva mai osato tanto in tutta la sua vita.
La porta si aprì e Damiano volse la sua attenzione a quel cliente che entrando non aveva idea di quello che aveva interrotto.
 
*
 
 
Ormai sarebbe sopraggiunta l’alba ed Acilia era seduta in veranda.
Tra poco sarebbe dovuta andare a stendersi nel sotterraneo, ma non era stanca. Il vento le accarezzava la pelle e chiuse gli occhi, consapevole del fatto che quella era la loro ultima notte in quel posto.
Jacque era seduta accanto a lui, Eike già era andato a riposare.
Doveva dirglielo.
“Domani ce ne andiamo” disse, senza preamboli.
Jacque la guardò, visibilmente sorpreso. “Perché?”.
Acilia continuò a tenere lo sguardo sull’orizzonte, in attesa del sole.
“La Germania sta diventando un posto pericoloso, te ne sarai accorto”.
“Sì”.
Ci fu qualche momento di silenzio, poi Jacque aggiunse: “Qualsiasi posto è pericoloso, sta per scoppiare una guerra”.
Acilia si lasciò sfuggire una risata. “Le guerre per noi non sono pericolose,  anzi, è per noi il periodo migliore. La gente non sta di certo a pensare ai vampiri durante le guerre”.
Si rese conto dello sguardo di disapprovazione di Jacque. Il ragazzo si sentiva ancora attaccato alla sua vita d’umano, e sentire parlare bene delle guerre non doveva fargli piacere.
“Invece qui ci sono le SS” continuò Acilia “e quelle scrutano in ogni angolo, sono insopportabili”.
Jacque non replicò, ma neanche assentì. Una volta lui le aveva confidato la voglia che aveva di proteggere la gente da quello squinternato di Hitler. Avrebbe potuto raggiungerlo in un battibaleno, avrebbe potuto conficcargli le zanne nel collo, ucciderlo in una frazione di secondo…
Ma i vampiri non potevano interferire nelle faccende umane, non era giusto e sarebbe stato oltremodo pericoloso. Avrebbero salvato la vita a tantissime persone, ma, una volta venuti allo scoperto, nessuno avrebbe risparmiato la loro di vita.
“E dove vorresti andare?” chiese Jacque, riluttante.
Acilia aveva la risposta pronta. “Inghilterra”.
Il ragazzo, da bravo francese, fece una smorfia. “Perché proprio lì?”.
Lei scrollò le spalle. “Non ci sono ancora stata”.
La verità era che confidava molto nell’Inghilterra. Era un paese all’avanguardia, e forse un giorno gli inglesi avrebbero cominciato a temere meno i vampiri e ad integrarli. Sapeva che era impossibile quanto il sogno di Jacque di fermare i nazisti, ma non poteva fare a meno di sognare. Se solo i vampiri avessero trovato un altro modo di nutrirsi…
“Dovrò imparare anche l’inglese” disse Jacque, sbuffando “Avevo appena cominciato a parlare decentemente il tedesco”.
Acilia rise. “Non è difficile imparare le lingue, io ne ho imparate tantissime”.
Jacque la guardò scettico e lei continuò: “Le grammatiche delle varie lingue sono molto simili tra loro, immagino che sia perché abbiamo tutti lo stesso cervello”.
Il ragazzo era stralunato, ma disse solo: “Non so neanche cosa sia la grammatica”.
Acilia sorrise, lasciandosi andare a ricordi lontanissimi. Anche Damiano le diceva che non sapeva cosa fosse la grammatica, però… il suo volto ormai neanche lo ricordava più.
Sperava stesse bene, lassù, nel cielo, dove meritava di essere.
Sentì Jacque sbuffare ancora ed alzarsi, dato che lei non rispondeva più. “Vado a dormire, buonanotte”.
Il cielo si stava colorando di rosa per le prime luci dell’alba, e anche Acilia si alzò, rassegnata.
 

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Capitolo 3
*** Senza lacrime ***


Capitolo 2
CAPITOLO II
SENZA LACRIME
 
 
 
Jacque era uscito appena era calato il sole ed aveva comprato il giornale.
Camminava nella via principale di Horfield, rigido nel cappotto e attento a non urtare nessuno dei passanti che gli venivano incontro. Ogni volta che incrociava qualcuno gli sembrava lo fissasse talmente tanto da penetrargli la pelle, ma sapeva benissimo che non era vero. Era una cosa stupida, nessuno avrebbe capito che era un vampiro solo passandogli accanto su un marciapiede. Non aveva niente di strano, era uguale in tutto e per tutto a tutte le persone, solo un po’ pallido, ma d’altronde tutti gli inglesi lo erano, e chi lo era particolarmente non destava certo clamore.
Acilia diceva che era pericoloso e che era meglio stare tra la gente il meno possibile, ma Jacque non ce la faceva a vivere come un eremita, e d’altronde lei non era nemmeno coerente con quello che diceva. Pretendeva di tenere lui sotto una campana di vetro, mentre di lei stessa le importava sempre meno.
Jacque rallentò il passo. Si era accorto di star andando un po’ troppo veloce.
Erano arrivati in Inghilterra settantatré anni prima, e da allora avevano cambiato spesso città, cercando ogni volta una casa fuori mano e diroccata.
Settantatré anni prima le cose erano diverse. La gente credeva ai vampiri quanto ai fantasmi e agli alieni, e nessuno si sarebbe mai sognato di andarli a cercare. Le persone che si ritrovavano dei buchi sul collo senza aver nessuno ricordo al proposito sospettava ma non osava credere, e nascondeva il collo dietro foulard o girocolli per non essere guardate con occhi strani o interrogate. Negli anni ’80 invece avevano cominciato a parlarne sui giornali e alla televisioni, c’era sempre più gente che sosteneva di aver visto dei vampiri o addirittura di essere stata attaccata, e, la cosa peggiore, venivano trovate persone morte e svuotate. Jacque aveva seguito ogni cosa, i documentari, le discussioni, i consigli su come tenerli lontani dalle proprie case, le pubblicità che raccomandavano di non dare ascolto agli estranei e di non infilarsi in strade buie che negli ultimi vent’anni avevano riempito ogni canale. Solo una decina d’anni prima però si era creato un mini esercito della corona, persone che si allenavano duramente, che venivano pagate fior di soldi, e che andavano a cercare nelle zone dove c’erano stati degli avvistamenti. Tantissimi uomini valorosi, che dopotutto Jacque ammirava, avevano perso la vita nel tentativo di scoprire quale fosse il modo per eliminare i vampiri, immortali ma non invincibili. In dieci anni solo due vampiri erano passati a miglior vita con un paletto di legno nel cuore, mentre il conto degli umani che erano stati uccisi, dissanguati o semplicemente che erano dispersi, Jacque l’aveva perso da tempo.
Lui non biasimava nessuno, gli umani cercavano di salvare la propria specie, e i vampiri di salvarsi la pelle. Per quanto aderisse, al contrario di chissà quanti vampiri, al partito di Acilia – cacciare per vivere, non vivere per cacciare, e soprattutto non uccidere – se si fosse trovato braccato da un cacciatore di vampiri avrebbe pensato a se stesso.
Tra le autorità dei vampiri non c’era una voce comune, c’erano vari partiti, ma da circa trent’anni al governo c’era quello che era stato fondato da Acilia stessa. Le cose erano migliorate, ma non erano perfette. Del resto, anche se tutti i vampiri del mondo avessero seguito quella linea non sarebbe certo cambiato niente. Le persone avrebbero temuto lo stesso i vampiri, non avrebbero voluto farsi succhiare il sangue, era comprensibile.
Bisognava che gli umani non li temessero più, questo voleva Acilia, Jacque lo sapeva. Lei voleva che vampiri e umani convivessero pacificamente, ma era una cosa assolutamente impossibile, lui glielo diceva spesso e rimaneva basito nel vedere lo sguardo contrariato e sorpreso di Acilia che gli chiedeva perché.
Perché noi ci nutriamo di loro, Aci.
Acilia allora abbassava lo sguardo sconsolato, come se solo in quel momento se lo fosse ricordato.
Jacque non aveva idea di come si sarebbe potuto risolvere quella guerra tra umani e vampiri, probabilmente ci sarebbe stata per sempre. Lui era troppo giovane per esprimere un’opinione al riguardo, forse neanche ce l’aveva davvero.
Arrivato in un punto nascosto, fuori dal centro del paese, si mise a correre, il giornale stretto sotto il braccio. Sentiva il vento quasi entrargli in ogni poro della pelle, lo sentiva tra i capelli castani scomposti, sentiva il profumo dell’erba, il rumore dell’aria che gli veniva incontro, tutto amplificato.
Si fermò.
Tra gli alberi c’era una casa in mattoni, come quella dell’ultimo porcellino più furbo che vinse il lupo.
I mattoni però erano anneriti, e nell’aria c’era un odore di vecchio che forse solo lui riusciva a sentire.
Aprì la porta e trovò Acilia seduta su un divano logoro, intenta a macchinare col suo cellulare in mano.
Si era decisa a comprare un cellulare solo da qualche mese e ancora non capiva bene come funzionasse.
Jacque le sedette accanto senza una parola e spiegò il giornale.
La prima cosa che lesse fu la data. Non riusciva ad evitarlo: per quanto lo angosciasse, voleva vedere il tempo che scorreva. Era una sorta di masochismo e fu con una stretta allo stomaco che lesse 2 gennaio 2012.
Era passato un altro anno.
L’inglese ormai lo masticava bene da parecchi anni, ma leggerlo era un’altra cosa. Al momento della sua morte, Jacque era completamente analfabeta anche per quanto riguardava la sua lingua nativa ed Acilia, nel corso degli anni, gli aveva pazientemente insegnato le lettere dell’alfabeto, la grammatica, gli faceva leggere i giornali e scrivere dei dettati. Jacque non capiva perché, ma Acilia mostrava un certo entusiasmo nel vederlo apprendere. Ormai lui sapeva leggere il francese e anche scriverlo abbastanza correttamente. Ad Acilia però non bastava, gli aveva fatto leggere autori classici come Flaubert e Zola dicendo che la letteratura francese non poteva non essere conosciuta, specie da un francese.
Jacque scorse i primi titoli scritti in grande sul giornale.
L’inglese era molto più difficile. Non aveva regole fonetiche precise e non riusciva ad associare in modo immediato una grafia a un suono.
Più si invecchia più diventa difficile imparare, gli diceva Acilia. E lui ne aveva più di cento, di anni.
“Leggi ad alta voce” disse Acilia di punto in bianco, in inglese.
Jacque sospirò e lesse i titoli che aveva prima assimilato nella mente e la ragazza non ebbe da obiettare.
Lui andò avanti, sfogliando le pagine. C’era scritto qualcosa a riguardo della crisi, a cui Jacque non importava molto, ma nella pagina affianco una scritta nera e grande attirò la sua attenzione.
Capodanno di sangue: vampire a Londra?
Jacque lesse frettolosamente l’articolo, senza curarsi del fatto che Acilia gli diceva sempre di leggere ad alta voce.
“Hanno trovato sei morti a Londra la notte di Capodanno” disse.
Acilia alzò lo sguardo verso di lui, con la chiara espressione di chi temeva esattamente quello che avrebbe sentito.
Jacque andò avanti, confermando i suoi sospetti: “Morsi e senza sangue”.
La ragazza sbuffò. “I vampiri hanno approfittato dei festeggiamenti dei mortali. Migliaia di spuntini che si aggiravano ubriachi per le strade  nel cuore della notte” disse, tagliente.
Parlava come se i vampiri fossero una specie a parte, che non li riguardava.
Jacque non sapeva cosa dire.
“Dov’è Eike?” disse dopo un po’.
“È uscito”.
“E non hai fatto storie?” fece Jacque, risentito. Dopotutto lei brontolava sempre quando lui si assentava da casa per stare tra i mortali.
Acilia lo fulminò con lo sguardo. “Eike non mi appartiene”.
Il ragazzo, a quelle parole, che sottolineavano che alla sua creatrice apparteneva lui solo, si sentiva sempre irretire, suo malgrado. Acilia era molto bella dopotutto, e lui era un uomo.
Lei si accorse del suo sguardo insistente e fece una smorfia. “Che c’è?”.
Jacque scosse la testa e si alzò. Aveva deciso molto tempo prima che avrebbe smesso di farsi trattare male da lei.
Percorse la sala a grandi passi, senza sapere che dire. Sperava che Eike tornasse presto, non gli piaceva molto stare da solo con Acilia. La sala era ampia, c’era un solo divano e vari quadri che avevano chissà quanti anni. E soprattutto c’era un sacco di polvere.
La porta si aprì e Jacque sentì dei passi trascinati.
Si girò e vide Eike, un rivolo di sangue che gli usciva dall’angolo sinistro della bocca.
Jacque sgranò gli occhi. “Ma sei matto a farti vedere così per strada? Pulisciti!”.
Eike lo guardò per un momento senza capire, poi si strofinò via il sangue con la mano.
Acilia stava guardando la scena, col viso duro, dal divano. “Spero avrai usato le giuste precauzioni”.
“Oh sì” rispose il ragazzino, gli occhi grandi che scintillavano di malizia “L’ho morsa in un punto dove non batte il sole”.
Jacque lo guardò perplesso, provando a immaginare un ragazzino di dodici anni che rimorchiava una donna adulta. Poi si rese conto che Eike doveva averla incantata.
“Era sotto incanto vero?” chiese.
“Certo” rispose l’altro.
Acilia si alzò dal divano con un’espressione indecifrabile sul volto. Si mosse come una furia verso di loro e Jacque capì che sguardo era, era disgusto e il ragazzo sapeva bene che tutto quel veleno era per lui soltanto, lui che lei non aveva mai considerato all’altezza di allevare un vampiro come si deve.
Acilia non aveva nessun diritto di fare così, e Jacque rimase impassibile al suo sguardo crudele che s’infiltrava sotto la sua pelle e gli arrivava fino al cuore, se ce l’aveva. Non sgridò Eike, non mosse un muscolo, e Acilia se ne andò sconfitta.
 
*
 
Acilia stava camminando per strada. Era sera inoltrata ormai, i piedi nei sandali le facevano male, ma lei non voleva ancora tornare a casa, non finché non avesse preso una decisione definitiva. Se fosse tornata a casa senza ancora sapere che fare i suoi genitori avrebbero preso il sopravvento su di lei, lo sapeva bene. Avrebbe guardato sua sorella e sua madre e non avrebbe avuto il cuore di separarsi da loro.
Ma come poteva ora separarsi da Damiano?
Il giorno prima lui le aveva chiesto di scappare insieme. Ma che cosa avrebbero potuto fare insieme, loro due? Dove sarebbero potuti andare?
Tentò di immaginare le due prospettive di vita. Una insieme a Vito, in una casa bellissima, con bei vestiti, con dei servi, con un futuro stabile davanti a sé. Una insieme a Damiano, e non sapeva altro. La vita che avrebbe vissuto con Damiano era imprevedibile, sarebbe stata fuori da ogni schema, ma solo una cosa contava, che lui e lei fossero insieme e quando ci pensava le sembrava che il cuore le scoppiasse di gioia.
Aveva già vissuto diciotto anni della sua vita soffocata dalle abitudini e dalle imposizioni, ma se avesse sposato Vito sarebbe stato tutto dieci volte peggiore. Non avrebbe più avuto la sua casa, le sue cose, sua sorella. Non avrebbe più avuto Damiano.
Le parve che il suo cuore le saltasse un battito mentre rivedeva davanti a sé l’immagine di Damiano, coi suoi folti capelli castano chiaro, lucenti, i suoi occhi scuri, i lineamenti marcati, le spalle robuste, le mani forti di chi era abituato a lottare per ottenere qualcosa. Lo vide mentre tendeva quella mano verso di lei, chiedendo anche a lei, per una volta, di lottare.
Si dovette premere una mano sul petto perché le mancava l’aria e in quel momento seppe che quella era la sua decisione, quella che sentiva ribollire nello stomaco, quella che cercava di risalire per la gola bloccandole il respiro.
Strinse i pugni. Sarebbe tornata a casa, avrebbe chiesto a Decia di prepararle dei vestiti mentre lei prendeva in disparte Lia per dirle addio…
Qualcosa le toccò la spalla.
Era talmente concentrata nei suoi pensieri che quasi urlò per lo spavento e si voltò immediatamente. Un uomo era davanti a lei e la stava squadrando.
Acilia si guardò intorno a disagio.
La strada era piena di gente, quell’uomo non poteva avere cattive intenzioni.
“Cosa volete?” chiese lei, cauta.
“Seguimi” fece lui.
Aveva una voce melodiosa e Acilia si accorse che era anche molto bello.
Portava una tunica bianca lacerata in più punti, che lasciava vedere due braccia muscolose. Le pelle del viso era molto chiara, quasi brillante, gli occhi neri e profondi erano come ipnotizzanti.
Acilia non poté fare a meno di seguirlo. Dopotutto era quella la decisione che aveva preso.
Un momento, si disse, io devo scappare con Damiano, e questo non è Damiano.
L’incanto si ruppe per un momento e Acilia si rese conto che stava seguendo quello sconosciuto in una stradina angustia e piena ai lati di mendicanti.
Si accorse che lui la stava tenendo per mano.
Si fermò. “Che fate, che volete?” chiese, tentando di controllare la voce e ritraendo la mano.
L’uomo si voltò a guardarla e di nuovo lei si perse inspiegabilmente nel torpore dei suoi occhi, con quel caldo colore che faceva a pugni con la trasparenza del suo volto.
“Come ti chiami?” chiese lui.
Acilia notò che quelli che pensava fossero mendicanti si stavano avvicinando a loro.
“Acilia” disse, serenamente.
Gli altri stavano facendo qualcosa di strano. Stavano ansimando, sembravano dei cani.
“Acilia” ripeté l’uomo che l’aveva condotta in quel posto bagnandosi le labbra con la lingua e avvicinandosi a lei.
La ragazza sentì un tremito che le percorse il corpo, ma era un brivido di piacere, e fece per avvicinare la sua bocca a quella dell’uomo.
Ma lui non puntava alla sua bocca, no, altrimenti non le avrebbe preso saldamente nella mano la mascella protesa e non l’avrebbe fatta girare scoprendole il collo…
Acilia lo lasciò fare, divertita, ma ben presto non lo fu più perché qualcosa di terribilmente pungente si infilò nella sua carne e allora si mise ad urlare, per essere poi ancora più eccitata. Era una sensazione strana, la testa le girava, sentiva qualcosa di liquido bagnarle la gola e scendere giù sotto la veste, percorrerle il solco tra i seni. Lo sentì arrivare all’ombelico e annaspò.
Provava un gran dolore e urlò di nuovo, mentre sentiva di nuovo qualcosa di affilato tra le carni del suo collo, e delle labbra, che succhiavano e succhiavano. Le stavano succhiando via l’anima, e lei si sentiva sempre più debole.
Al suo urlo si unì l’urlo di qualcun altro.
“Camelio!”.
Il bell’uomo che la teneva tra le braccia si fermò e si voltò verso destra, Acilia lo vedeva tra la nebbia. I suoi occhi le stavano giocando un brutto scherzo, sembrava che non ci vedesse più… E poi c’era quel dolore allucinante al collo…
“Marco” biascicò l’uomo chiamato, a denti stretti. Acilia notò che quelli non potevano essere denti, erano lunghi, ed erano rossi.
“Così la ucciderai” disse Marco avanzando verso di loro. I cani ora si erano messi a ringhiare.
“È la mia cena” rispose quell’altro “Non si è mai sentito dire di una cena viva”.
“Sei un ingordo! Ti sei già sfamato abbastanza, puoi lasciarla andare”.
Acilia si sentì cadere a terra e capì che Camelio doveva averla mollata. La strada era fredda e dura, ma le parve così comoda che non si alzò più. No, la verità era che non ci riusciva ad alzarsi.
Girò la testa e notò che delle facce erano sopra di lei. Erano i cani che aveva sentito latrare e ringhiare, ma avevano volti umani, bianchi e terribilmente inquietanti.
Si tastò il collo con la mano e sentì ancora quel liquido appiccicoso. Si guardò la mano e capì che quello era il suo sangue. Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre si rendeva conto che faceva fatica a respirare e che, davvero, quella sarebbe stata la sua ora.
Faceva così male…
“State fermi” stava dicendo Marco alle facce inquietanti “Dovete obbedirmi, compreso te, Camelio”.
Camelio fece una smorfia di disprezzo.
Acilia sentiva il suo cuore decelerare. Forse lo spavento era passato, o forse semplicemente stava morendo.
Sentì dei passi rimbombare in modo angustiante nelle sue orecchie, dei sandali entrarono nel suo campo visivo e capì che qualcuno si stava chinando su di lei. Chiuse gli occhi, non le importava più niente. Quegli strani esseri che l’avevano attaccata l’avrebbero finita e lei sarebbe stata libera.
Damiano…
Il cuore riprese dolorosamente a battere, come se si rifiutasse di spegnersi.
“Cosa vorresti fare?” esplose Camelio “Rubarmi la cena?! Non ne hai il diritto!”.
Qualcosa, probabilmente due braccia, la stavano sollevando da terra e poi Acilia sentì solo del gran vento sulla pelle, i capelli appiccicarsi al viso. Aprì un occhio e non vide altro che cielo, e le stelle dipinte su di esso si rincorrevano velocissimamente. Capì che era in movimento, eppure non sentiva neanche il terreno sotto i piedi. Stava volando, sì, doveva essere così, stava volando in cielo.
Ma poi non vide più nessuna stella e sentì qualcosa di solido che la raggiungeva dietro la schiena.
Non era in cielo, era appoggiata sulla terra. Aprì di nuovo gli occhi e vide un volto che non aveva mai visto davanti a sé. Era un viso pallido dai lineamenti morbidi, che spiccava lì, intagliato nella notte. Forse era il viso di Marco, l’uomo che l’aveva salvata.
Acilia sgranò gli occhi e prese a respirare con avidità tutta l’aria che aveva intorno. Era viva, Marco l’aveva portata in salvo. Però provava ancora un gran dolore e ancora non riusciva a muoversi, mentre Marco la guardava con quegli occhi strani…
Poi vide spuntare dalla bocca di Marco dei denti uguali a quelli di Camelio e, mentre sentiva, di nuovo, il suo collo strapparsi in più punti e mentre riecheggiava, di nuovo, nelle sue orecchie il suo stesso urlo agghiacciante, capì che per lei era davvero finita.
 
*
 
 
Per Eike il tempo si era fermato a dodici anni.
Non conservava un ricordo nitido dei suoi genitori, e neanche pensava a loro con nostalgia. Era stato strappato a loro così presto e aveva vissuto troppo, troppo, tempo senza di loro per poterli rimpiangere.
Sapere della morte del loro figlio più piccolo doveva averli distrutti, Eike sperava fossero riusciti ad andare avanti ma poco importava. Loro dovevano essere morti già da tempo. La vita dei mortali era breve, fulminea. Eike si sentiva potente al pensiero di essere immortale, gli sembrava di avere il mondo ai propri piedi, gli sembrava che avrebbe avuto il tempo per fare qualsiasi cosa. Poi si ricordava di essere alto un metro e cinquanta, di avere un viso liscio e dai lineamenti morbidi, si ricordava che non era un uomo.
Invidiava Jacque. A lui era stato dato più tempo, gli era stato concesso di diventare adulto prima che il tempo si bloccasse e lo incatenasse in quel corpo, quel corpo cresciuto che sarebbe rimasto tale e quale per sempre, come prigioniero di un incantesimo di eterna giovinezza. Invece Eike era prigioniero nella fanciullezza mentre all’interno di lui niente si era fermato e i pensieri si erano fatti sempre più grandi, sempre più instabili, sempre più vogliosi. Dentro ormai era un vecchio di oltre novant’anni, eppure non sentiva stanchezza né saggezza. Non riusciva a capire come funzionassero le cose all’interno del suo corpo, se pur rimanendo all’apparenza un dodicenne aveva raggiungo la mentalità di un adolescente perché ora non raggiungeva la mentalità di un vecchio? Ogni volta era un tormento, si perdeva nella libidine dei sogni e nello sfogo di lacrime inesistenti. Avrebbe voluto vedere Acilia nuda, avrebbe voluto toccarla, stringerla e baciarla. I pensieri galoppavano e non si fermavano. Non avrebbe mai avuto una ragazza che non fosse incantata e non avrebbe mai goduto davvero, nel suo piccolo corpo.
Chiuse gli occhi e ripensò alla ragazza a cui aveva succhiato il sangue poco prima. Si era dimenata e aveva strillato per il piacere, ma ora non conservava alcun ricordo di lui e se mai se lo fosse ricordata ne sarebbe rimasta disgustata. Chissà, forse avrebbe voluto anche… innamorarsi?
Scrutò Jacque, che stava leggendo il giornale accanto a lui. Acilia se n’era andata, e lui non l’aveva seguita.
“Ti sei mai innamorato, Jacque?” chiese Eike.
Gli occhi bruni del ragazzo apparvero sopra la pagina di giornale ed assunsero un’espressione sconcertata. “No” rispose, secco.
“Intendo, quando eri umano”.
“Che differenza fa?”.
“Magari non te lo ricordi”.
Jacque piegò il giornale e lo buttò per terra. “Quando ero umano no, non lo so”.
“Che cosa vuol dire non lo so?” insistette Eike.
L’altro sospirò. “Qualunque storia abbia avuto, con il passare degli anni ha perso tutta l’importanza che aveva”.
Eike non trovò da ribattere. Allora se lui avesse avuto il tempo di innamorarsi quando era vivo, a quel punto non gliene sarebbe importato più niente? Perché sarebbero passati tanti anni, o forse perché loro stessi erano morti, e i morti non provano sentimenti. 
“Perché questa domanda?” chiese Jacque.
Eike esitò. Poi disse: “Pensavo che… che mi sarebbe piaciuto”.
Il suo creatore aveva uno sguardo comprensivo, molto di più di quello di Acilia. “Non ti sei perso niente” disse. Eike non rispose.
Non sapeva se quello che lo legava a Jacque era affetto vero o solo rispetto impostatogli dal sangue che scorreva dentro di lui ma sentiva di non averlo mai odiato neanche un secondo da quando l’aveva morso procurandogli quell’esistenza a metà. Non aveva senso, era consapevole che sarebbe stato meglio morire. Eppure gli era riconoscente e più guardava la sua espressione triste più pensava che non era vero che loro non provavano sentimenti. Dopotutto non erano mica morti, non del tutto. Erano solo condannati a vivere per sempre, l’immortalità faceva sì che nulla avesse importanza, e proibiva loro di essere felici o addolorati. Nessuno disse più niente, finché Jacque non si alzò dichiarando di avere fame.
 
*
 
 
Qualcuno le aveva ordinato di bere ma lei non aveva capito cosa dovesse bere.
Allora aveva sentito della pelle tra le labbra e qualcosa infilarsi sulla sua lingua e lei aveva succhiato con avidità tutto perché era buono e più ne beveva più si sentiva meglio. Non si era fermata neanche quando aveva capito che era sangue.
Quel tale poi aveva ritratto il polso tagliato e lei si era ritrovata col viso sporco di sangue a respirare affannosamente.
Lo guardò, ancora spaventata, ritrovando a poco a poco le forze. “Che cosa sei?”.
“Mi chiamo Marco”.
Il suo pallore spiccava nel buio, insieme agli occhi rossi e i canini terribilmente lunghi, macchiati di sangue. Era una specie di mostro, e con quelle zanne l’aveva morsa, Acilia se ne rendeva conto a fatica. Era terrorizzata, sentiva tutto il suo corpo tremare.
“Hai capito cosa intendo” disse lei, con voce fioca, soffocata dal terrore.
“Non so io stesso come definirmi, mi spiace” rispose quell’altro.
Acilia cercò di capire quella risposta, ma non ci riuscì. La stava prendendo in giro?
Si pulì la bocca con la mano, sentendo che stava per vomitare.
Marco vide la sua espressione e disse: “Non farlo, quel sangue che ti ho dato è la tua unica salvezza”.
Quel sangue che ti ho dato…
“Mi hai dato da bere il tuo sangue?” disse lei, allibita, con la nausea che cresceva.
Lui sembrò dispiacersi. “Era l’unico modo”.
Acilia si guardò intorno. Erano in un vicolo scuro, e lei era in compagnia di un mostro.
Guardò di nuovo Marco ma la paura stava diminuendo, così come la debolezza che aveva avvolto nel torpore la sua mente. “L’unico modo per salvarmi?”.
L’altro annuì.
Acilia si rilassò, ma solo per un momento. Il dolore al collo non si placava.
“Perché mi hanno fatto questo?”.
“Perché avevano fame”.
È la mia cena. Quell’uomo che aveva seguito, aveva detto così…
Ma quell’uomo aveva le zanne come Marco.
“Sei un mostro buono?” chiese Acilia, non capendo. Non credeva all’esistenza dei mostri, forse stava solo sognando. Eppure se fosse stato un sogno non avrebbe provato tutto quel dolore.
Marco sembrava sorpreso da quella domanda. “Diciamo che sono meno cattivo di altri”.
Acilia tornò per un momento ad avere paura, ma poi pensò che se quello strano essere avesse voluto ucciderla l’avrebbe già fatto. Ad ogni modo voleva andarsene. Quello che aveva davanti era un mostro, e avrebbe potuto cambiare idea.
“Quindi sono salva?” disse, con la nausea che si placava e cercando di alzarsi in piedi.
Marco si alzò in un attimo e le tese la mano per aiutarla.
Acilia esitò, poi gli prese la mano. Era fredda come la morte.
“Più o meno” disse lui.
La ragazza lo fissò stralunata e per un attimo pensò di essere ancora sul menù di Camelio, e che lui l’avrebbe cercata ancora. Il suo cuore prese a batterle forte nel petto per la paura e il senso di nausea tornò ad affliggerla. L’odore del sangue era forte e si insinuava con ferocia nelle narici.
“Cosa vuoi dire?”.
Marco la guardava con una strana aria solenne, ma sembrava esitare, o forse cercava le parole giuste. Acilia capì che lui non aveva nessuna voglia di dirle quello che stava per dirle.
“La salvezza ha un prezzo”.
“Mio padre ti pagherà profumatamente per avermi…”.
“Il prezzo è la dannazione”.
Il cuore della ragazza saltò un battito. Ma lei non comprese, cosa poteva voler dire dannazione?
Marco non parlava e lei si sentiva paralizzata ancora una volta dal terrore. Gli occhi di lui erano diventati castani e la guardavano intensamente.
“Non farlo, ti prego” disse lei, sentendosi vicina alle lacrime, senza neanche sapere a cosa si riferisse.
“L’ho già fatto” disse l’altro.
Acilia si premette una mano sulla bocca mentre le lacrime presero a solcarle il viso e andavano a mescolarsi col sangue. “Che cosa… che cosa mi hai fatto?”. Aveva sempre pensato di essere condannata a un’esistenza infelice e piena di sacrifici, cosa poteva esserci peggio di questo?
“Più il cuore non ti batterà, più lacrime non avrai…” disse Marco, dopo qualche istante. Sembrava recitasse qualcosa di imparato a memoria, e lo faceva con un’espressione addolorata, con la voce che tremava. “La fame incalzerà e il sangue verserai…”.
Acilia lo fissava attonita. Vedeva i suoi angoli della bocca incurvati, gli occhi quasi colmi di supplica.
Ma lui andava avanti, con la voce rotta da un pianto che non usciva. “Sposa delle tenebre, nemica della luce, mai ti si chiuderan le palpebre, mai fu più la vita truce…”.
“Basta…” biascicò Acilia, arretrando “Basta, non è vero…”.
Ma Marco le si avvicinava, col viso pallido sempre più deforme, che al chiaro di luna sembrava si stesse per sciogliere. “Questa notte morirai” continuò, sforzandosi di alzare la voce. E mentre avanzava alzò le braccia davanti a sé, come se volesse prendere la ragazza . “Torna al tuo creatore, quando risorgerai!”.
Acilia urlò e senza pensarci un attimo si voltò e corse. Era stupido, lo sapeva quanto lui era veloce, l’avrebbe inseguita e ripresa ma lei continuò a correre, tenendo sollevate la veste per non inciampare, con tutte le forze che aveva, con tutto il fiato che riuscì a trovare. Non sapeva dove stesse andando, voleva soltanto andarsene da quell’incubo e dirsi che non era vero niente, che quello era solo un pazzo furioso.
Ma aveva quei denti…
Mi hai dato da bere il tuo sangue?
Acilia rallentò il passo, fino a fermarsi e prese fiato. Marco non l’avrebbe più raggiunta. Se avesse voluto farlo le sarebbe già piombata addosso.
Mi hai dato da bere il tuo sangue?
Aveva bevuto il suo sangue, aveva il suo sangue all’interno, il sangue di quel mostro.
Era l’unico modo.
Il suo cuore batteva forte e lei si mise una mano sul petto. Sì, lo sentiva distintamente contro il palmo.
Più il cuore non ti batterà…
Il cuore accelerò ancora di più il battito e lei inspirò a fondo. Erano sciocchezze, non sarebbe certo potuta morire così, all’improvviso, lei stava bene.
Ma si era imbattuta in dei mostri, era stata morsa, morsa.
Più il cuore non ti batterà…
Aveva ripreso a camminare senza neanche rendersene conto. Se fosse stata ferma ancora un solo secondo di più ad ascoltare il martellare del suo cuore sarebbe impazzita.
Più il cuore non ti batterà, più il cuore non ti batterà, più il cuore non ti batterà…
Acilia accelerò il passo sempre di più mentre le parole di quel mostro senza definizione le percorrevano la mente e il petto, le facevano salire il cuore in gola, lo facevano battere più forte, ma non lo arrestavano. Il suo cuore non avrebbe cessato di battere.
Si fermò di nuovo, doveva capire dov’era.
Si guardò intorno nel buio e quasi rivide davanti a sé il viso di Marco, quel bianco intagliato nella notte e quei denti ancor più bianchi, e i rivoli di sangue… E il suo sguardo mentre diceva…
Basta, basta, basta!
Acilia aveva le lacrime agli occhi. Si strinse tra le braccia per proteggersi dal freddo e da una morte immaginaria che non poteva arrivare. Continuò a guardarsi intorno, cercando di concentrarsi.
Più lacrime non avrai…
Le lacrime le percorrevano ormai feroci le guance, come fiumi in piena che sgorgavano e annacquavano ogni cosa. Si asciugò gli occhi, pregando.
Giove onnipotente, ti prego…”.
Torna al tuo creatore quando risorgerai!
“Basta…”.
Alzò di nuovo lo sguardo un pelo più asciutto e questa volta vide distintamente delle case, delle botteghe che conosceva. Quella strada non le era nuova, era vicino a casa.
Quasi pianse di gioia. Le sembrava ovvio pensare che una volta arrivata a casa sarebbe stata al sicuro da ogni pericolo. Si mise in cammino, col cuore che le batteva ancora vivace nel petto, ma pieno di speranza.
Marco forse aveva voluto solo spaventarla. Ora era lontano, che rideva, rideva perché aveva recitato bene la sua parte. Poi ripensò alla disperazione sul volto mentre le diceva quello che sembrava non volerle dire…
C’è riuscito eccome a spaventarmi.
Eppure se davvero era così angosciato e costernato avrebbe versato almeno una lacrima. Invece i suoi occhi erano lo specchio della serenità, secchi e asciutti come panni stesi al sole.
I piedi le facevano male ma Acilia si trascinò avanti, attenta a non pestare la tunica ormai tutta sporca. Pensò di andare da Damiano e raccontargli quello che le era capitato ma ormai era tardi, e i suoi genitori sicuramente erano in pensiero.
Se però davvero stanotte muori…
Acilia prese a camminare più velocemente, il cuore ancora più furioso, ignorando i piedi che pulsavano, come se volesse correre via da quel pensiero.
Per Castore, lei quella notte non sarebbe morta.
 
*
 
 
Qualcosa nello sguardo di quella ragazza gli ricordava la notte in cui era stato creato. Gli occhi verdi, e rossi, affamati di Acilia lo avevano ipnotizzato e lui si era abbandonato a lei. Forse era tuttora vittima di quell’incantesimo, lo sentiva scorrere in ogni parte del suo corpo, soprattutto quando lei lo guardava. Quella notte lei l’aveva morso svuotandolo di ogni forza, poi gli aveva fatto bere il suo sangue e lui, come un burattino ormai fatto a pezzi, aveva obbedito. Poi era fuggito, spaventato, mentre lei gli gridava delle cose assurde, delle cose in rima e lui aveva tanta paura ed eccitazione mescolate insieme…
“Che cosa vuoi?”.
Jacque si riscosse. Si ricordò di essere davanti ad una preda e si rese conto anche di aver interrotto l’incanto. Gli occhi della ragazza erano diversi da quelli di Acilia, erano più piccoli e più scuri, dietro i larghi vetri di un paio d’occhiali dalla montatura nera. Sembravano più profondi, dopotutto dietro avevano sicuramente un’anima, quell’anima che in Acilia Jacque non aveva mai potuto vedere. Eppure qualcosa nella sua espressione le aveva ricordato Acilia, forse l’espressione severa e autoritaria.
“Che cosa vuoi?” chiese di nuovo la ragazza, spazientita. Non sembrava spaventata, non si era accorta del pericolo che correva.
Jacque si guardò intorno. Erano in una via poco affollata ma qualche persona c’era, qualcuno passava guardandoli circospetto. E lui non aveva più voglia di incantarla per farsi seguire in un vicolo buio.
Però aveva fame.
“Scusami” disse, prudente “Ho sbagliato persona”. Era consapevole di star parlando a denti stretti, consapevole che gli occhi gli stavano diventando rossi, per la fame.
Forse ne era consapevole anche lei, perché si era ritratta con uno sguardo angosciato.  
“Lasciami andare, ti prego” disse, con la voce che tremava appena.
Jacque imprecò dentro di sé. Se lei non avesse detto niente e se ne fosse andata, lui l’avrebbe lasciata andare. Ma ora si vedeva chiaramente quello che lei pensava, Jacque quasi riusciva ad avvertire il turbine di pensieri terrorizzati che le girava nella testa, era sempre quello il turbine della gente, quello che lui non sentiva dentro di sé già da un pezzo, e ora non poteva più lasciarla andare. Non poteva lasciare andare un essere umano che sapesse la sua natura, era la legge. Le prese un braccio, pronto ad attaccare, l’avrebbe costretta a guardarlo negli occhi e a piangere, mentre a lui non sarebbe scesa neanche una lacrima, e non perché era felice di fare quello che stava per fare.
“Sono una giornalista” sussurrò lei all’improvviso, lo sguardo piantato in terra.
Era profumata, Jacque non sapeva quanto avrebbe potuto resistere ancora. Ma l’idea di ucciderla non gli piaceva, non aveva mai ucciso una ragazza, bevuta sì, un po’, ma uccisa no.
“Sono una giornalista” ripeté lei.
Jacque capì improvvisamente cosa volevano dire quelle parole. Fu allora che le prese il viso nella mano costringendola a guardarlo.
“Seguimi”.
Lei annuì, docile. Era parecchio più bassa di lui e aveva i lineamenti morbidi. Poteva avere venticinque anni come poteva averne quindici, Jacque non era molto bravo a capire l’età. Acilia era il suo unico mezzo di paragone, ma Acilia aveva diciotto anni da duemila anni e la sua pelle non dichiarava più nessun’età.
La portò in un vicolo, vicino a dei bidoni della spazzatura.
Jacque sentiva la puzza infiltrarsi in maniera atroce su per il naso ma cercò di non farci caso. Interruppe l’incanto, semplicemente distogliendo lo sguardo.
La ragazza respirò come se riemergesse dall’acqua. Lo fissò stralunata per un attimo poi, all’improvviso, gli diede un calcio in mezzo alle gambe e si diede alla fuga.
Jacque avvertì una lieve fitta di dolore ma ormai qualunque tocco gli sembrava una piuma e si voltò in un lampo per afferrare la ragazza. “Se sei una giornalista sei pericolosa sai” bisbigliò.
Lei tremava, Jacque sentiva il suo corpo caldo tremare tra le sue braccia. E lui aveva fame…
“Fammi parlare un secondo, ti prego” supplicò lei.
“Parla” disse lui, senza lasciarla andare.
Per un momento pensò di trasformarla. Non voleva ucciderla, l’unica alternativa era farla diventare come lui. Erano quelle le opzioni di un vampiro, uccidere o dannare.
Pensò di morderla, subito, in quel momento, avrebbe bevuto quasi ogni goccia di sangue – la fame galoppava furiosa – e poi le avrebbe dato da bere il suo di sangue e il loro sangue si sarebbe mescolato, se ne sarebbe formato uno nuovo e lei sarebbe stata per sempre legata a lui. Avrebbero potuto cacciare insieme, fare l’amore insieme, mordersi l’un l’altro, col loro sangue che ancora, incessantemente, si mescolava…
“Io posso parlare bene di voi” stava dicendo la ragazza.
Jacque sbatté le palpebre e mollò un po’ la presa.  Avrebbe fatto a lei quello che Acilia aveva fatto a lui? Non si trattava solo di condannare e dannare, si trattava di trasformare una persona in un burattino. Quella ragazza l’avrebbe guardato come non aveva mai guardato nessun altro e lui avrebbe smesso di sentirsi così insignificante, di sentirsi nelle mani di Acilia. Si sarebbe sentito potente, e Acilia avrebbe smesso di tormentare i suoi pensieri. La cosa lo allettava.  
“Io non sono contro di voi, posso scrivere articoli che vi mettano in buona luce”.
Jacque la fissò di nuovo e lei distolse subito lo sguardo.
Nonostante il freddo la vedeva sudare. Aveva le guance rosse, la sciarpa intorno al collo allentata per far passare un po’ d’aria, gli occhi lucidi, li vedeva quasi vibrare, era la sua anima che stava vibrando…
“Lo sai che qualunque persona nella tua situazione direbbe la stessa cosa?” fece. Si risentì per un attimo. Come poteva augurare ad una persona il suo stesso destino? Lei avrebbe finito per odiarlo, lui lo sapeva bene. Quegli occhi marroni avrebbero riflesso solo gelo, morte, odio. Proprio come i suoi, proprio come quelli di Acilia, non c’era amore in nessuno di loro, era sangue, solo sangue, che urlava loro quello che dovevano pensare, quello che dovevano provare.
La ragazza scoppiò a piangere. “Non so che altro fare, ti giuro che non ti denuncerò, non ti darò la caccia, io…”.
“Non piangere” disse lui.
Lei lo ignorò, probabilmente non riusciva a smettere.
“Non lo sopporto” insistette lui “Non sopporto quando la gente piange”.
Lei si diede una calmata. Voleva assecondarlo, sicuramente. Da qualunque cosa poteva dipendere la sua vita.
“Non lo sopporto perché io non piango più” continuò Jacque “Non so più come si fa”.
La ragazza era attonita. Forse non credeva che i vampiri potessero anche parlare, oltre che mangiare, o forse non credeva davvero che i vampiri non piangessero.
“E hai voglia di piangere?” chiese.
Fu Jacque che si stupì questa volta. Certo, nessuno gli aveva mai chiesto una cosa così strana, forse neanche quando era vivo.
La guardò e di nuovo pensò che non voleva ucciderla, né trasformarla. La fame però c’era, era quella che l’avrebbe fatto piangere. “Sì” rispose.
“E se piangessi” continuò l’altra, parlando piano, come se ponderasse ogni parola “cosa uscirebbe?”.
A Jacque sembrava ovvio, ma forse non lo era. “Niente”.
Lei annuì, e non disse più nulla. Lui sentiva ancora il turbine di pensieri che l’avvolgeva, quasi lo vedeva, era fitto, terribilmente fitto, probabilmente non sapeva se restare, se scappare, se gridare. Ricordò quando lui, piccolo e fragile umano, era di fronte ad Acilia, col cuore che batteva furioso i suoi ultimi colpi.
“Lo scriverai davvero quell’articolo?” chiese.
La ragazza spalancò gli occhi, poi annuì.
Ora o mai più. Jacque sapeva che non aveva avuto senso chiederglielo, non ci sarebbe stato nessun articolo, forse lei neanche era una giornalista. Avrebbe dovuto morderla. Poi avrebbe dovuto farle bere il suo sangue. Poi mormorare quelle terribili parole di rito.
Più lacrime non avrai…
Le avrebbe avute tutte lui quelle lacrime, le avrebbe versate tutte per lei, per Acilia, per Eike e per chiunque altro.
“Vattene” disse.
“Cosa?”.
Poi lei avrebbe urlato e pianto, sarebbe corsa a casa ripetendosi che non era successo niente.
“Vattene”.
Lui aveva fatto così la notte della sua trasformazione, si era buttato sul letto di paglia di una locanda e aveva cercato di prendere sonno tra le lacrime. Era stato tormentato dai sogni per tutto il tempo, aveva sognato Acilia ma non solo, era come se la sentisse dentro di sé e sentirla dentro di sé gli faceva un dannato male. Dopotutto stava morendo, non poteva non fare male.
La ragazza si era voltata e se n’era andata di corsa, lasciandolo solo.
Quella notte che ricordava era stata l’ultima notte in cui aveva sognato, la sua ultima notte prima di svegliarsi morto.
 
*
 
 
Una volta a casa Acilia si sentì più calma.
Sua madre era piombata furiosa su di lei chiedendole dove fosse stata. Fu allora che Acilia si ricordò di essere tutta sporca di sangue. Disse di aver avuto un incidente e sua madre chiamò Decia per aiutarla a spogliarsi e a mettersi abiti puliti.
Poi Acilia vide Lia. Era nel peristilio, seduta sotto una colonna. Era una bella serata e lei contava le stelle.
Il suo visetto allegro la rasserenò e contò insieme a lei.
Era incredibile pensare che solo pochi minuti prima credeva di morire.
Lia arrivò al numero quarantotto e Acilia scoppiò a ridere.
“Perché ridi?” fece sua sorella.
La ragazza si strinse nelle spalle. “Perché sono felice”.
Lia divenne perplessa. “Non devi più sposare Vito?”
Acilia si sentì per un attimo sprofondare. Ma quella sera lei aveva preso una decisione, aveva visto la morte in faccia e l’ultima cosa che voleva era essere sopravvissuta per poter condurre una vita orribile e degradante. Pensò di dirlo a Lia, ma poi forse si sarebbe messa a piangere e non voleva rattristarla. Quindi si limitò a dire che non lo sapeva ancora e a darle il bacio della buonanotte.
Quella notte si agitò nel letto. Aveva caldo e si sentiva sudare dappertutto. Vedeva continuamente il volto di Marco davanti a sé, non sapeva se era realmente lì con lei o se lo stava solo sognando ma era tutto tremendamente reale. Sognò i suoi denti, sentì ancora una volta male al collo, più sognava, più si agitava, più la ferita si riapriva e faceva male, forse il sangue aveva anche ripreso a fuoriuscire, non lo sapeva. Sognò Marco nudo, non sapeva bene perché, ad un certo punto pensò di averlo nudo accanto a lei nel letto e la sensazione le piaceva. Lo avrebbe abbracciato e baciato. Poi ripensò a Damiano, pensò che doveva scappare con lui e che non vedeva l’ora. Ma il male aumentava, sempre di più, e allora tutto si fece strano, tutto girava, la sua camera girava, il suo letto vagava e lei si doveva tenere aggrappata per non cadere, perché sotto c’era il fuoco e quindi anche la morte. Forse cadde perché ad un certo punto si sentì il petto in fiamme e il caldo si stava facendo insopportabile. Scalciò e annaspò, aveva sete, parecchia sete. Marco attraversava tutti i suoi pensieri e la sua voce si faceva sempre più forte, sempre più insistente.
Più il cuore non ti batterà…
Si pentì di non essere andata da Damiano perché forse era l’ultima occasione che aveva di vederlo.
Più il cuore non ti batterà…
Il cuore pulsava furioso, troppo furioso, sembrava stesse per scoppiare. Forse si sarebbe fermato.
Più il cuore non ti batterà.
Dopo un po’ sentì di non avere più le forze e di voler dormire e basta.
Mai ti si chiuderan le palpebre…
Eppure lei le aveva chiuse, sì, le sentiva talmente pesanti che le aveva chiuse. Forse le avrebbe chiuse per sempre. Non ha senso, non ha alcun senso morire ed avere gli occhi aperti, questo fu il suo ultimo pensiero.
 
La mattina dopo la prima che entrò in camera di Acilia ed urlò fu Decia.
Era il terzo giorno prima delle none di settembre dello stesso anno in cui morì l’imperatore Tito, il giorno in cui Acilia Maior, figlia di Flavio Acilio Senecio della famiglia Acilia, fu trovata morta nel suo letto.










Stella Swan
, grazie mille per la tua recensione al prologo, spero tu andrai avanti a leggere :) Sì nel prologo ci sono delle ripetizioni, hai ragione, ma era una cosa fatta apposta per dare drammaticità.. ma magari non mi è riuscita XDXD 
Nene_92, oh cara grazie mille, spero continuerai a leggere <3 

Per il terzo capitolo ci vorrà un po', sono molto impegnata T_T ma chi mi segue abbia fede e, soprattutto, mi dia dei pareri :)) 
Alla prossima!

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Capitolo 4
*** La sete ***


Capitolo 3
CAPITOLO III
LA SETE
 
 
 


Giorno 1

 
Non mi sono ancora capacitata bene di quello che è successo, ma penso di aver incontrato un vampiro.
Era davanti a me, aveva gli occhi rossi e uno sguardo strano. Non so perché ho deciso di scrivere queste parole, suppongo che sia perché ho paura che mi venga a cercare e che mi uccida. E allora voglio lasciare uno scritto, qualcosa che testimoni quello che mi è successo.
Ho scritto giorno 1 in cima al foglio perché è il giorno in cui l’ho incontrato, e il giorno in cui lui non mi ha ucciso. Non so se mi faccia bene scrivere queste cose o contare i giorni che lentamente e inesorabilmente trascorreranno da questo maledetto giorno 1, ma scrivere è l’unica cosa che mi tranquillizza, è la mia terapia. Riesco a scindermi in tutte le mie parti, il superio è in alto, vigile, che controlla ciò che scrivo e io mi proietto dentro di lui, e non mi sento più io.
Non so perché Vampiro – non so come altro chiamarlo – non mi abbia uccisa, mi ha lasciata andare e io non ci ho capito più niente. È una sensazione bellissima quella di poter fuggire da morte certa. Ma ora ho paura, tanta paura.
Mi ha detto che lui non piange, è stato strano. Sembrava umano mentre parlava. Non mi voleva far del male, forse. Mi sembra di star scrivendo tanti pensieri alla rinfusa, la mia mente vaga e non riesco più a tirarla indietro.
Lui aveva i capelli castani, un po’ più scuri dei miei. Era alto e magro. Il volto era pallido, dai lineamenti pungenti. Non aveva neanche un filo di barba, sembrava così perfettamente lindo e pulito, quasi lucente. E non so se è per questo che mi sembrava quasi un ragazzino, o se lo era davvero quando è morto. Gli occhi erano grandi, marroni forse. Ma poi sono diventati rossi e io non lo volevo più guardare, perché avevo capito.
Gli ho detto che avrei scritto un articolo in favore dei vampiri, ma dubito che mi abbia ascoltata, dubito che mi abbia lasciata andare per questo motivo. E allora perché l’ha fatto?
Vorrei tanto saperlo, forse mi piacerebbe parlargli di nuovo, chiederglielo, ma rivederlo, risentire quei fanali rossi puntati addosso e risentire il mio cuore che si accartoccia nel petto, è l’ultima cosa che voglio.
 
*
 
 
Per un momento pensò di essere stata sott’acqua per tantissimo tempo. Fu così che si sentì quando riprese il respiro, come se fosse riemersa dall’acqua, un’acqua torbida e gelata.
Intorno era tutto buio e ci mise un po’ a ricordare cos’era successo quella notte. Era stata attaccata da dei mostri e lei era stata maledetta. Ma ora era viva e neanche sentiva più dolore al collo.
E se fosse stato tutto un sogno…
O forse era morta e ora si era svegliata all’inferno.
Era scomoda. La sua schiena poggiava su qualcosa di duro che non poteva essere il suo letto. Impiegò qualche secondo a capire che tutto intorno aveva delle pareti.
Dove cavolo…
Sentiva distintamente tutto, il legno sulle sue mani, la puzza di chiuso, la terra che si muoveva sopra la sua testa, la fame. Non poteva essere morta, eppure era chiusa in una bara, sepolta sotto terra.
Quando si rese conto di dove era tantissime immagini le percorsero la mente, Camelio  che la mordeva, Marco che la dannava, Lia che contava le stelle e quel senso di freddo bruciore che provava rigirandosi più volte nel letto, quel tormento che sentiva dentro di sé e quel fuoco sotto di lei, dove era caduta…
Urlò con tutto il fiato che aveva e cominciò a battere furiosamente i pugni sulla porta della bara.
“Aiuto! Aiuto! Tiratemi fuori di qui!”.
Pianse e nel farlo sentì tutta le pelle tirarsi e deformarsi. Gli occhi rimasero secchi mentre lei picchiava il legno senza pietà per le sue mani.
Si fermò per un istante.
Più lacrime non avrai…
Si passò una mano sugli occhi, non c’era niente, non c’era una sola lacrima.
Come folgorata trascinò la mano dagli occhi al petto e stette immobile, in attesa. Non sentiva niente ma non si diede per vinta. Premette con più forza la mano sul suo corpo e si sforzò di non muovere nessun muscolo. Niente, il suo cuore non batteva.
Annaspò. O credette di annaspare, in realtà l’aria che c’era in quella bara le bastava, le bastava tutta.
Sono morta?
Il suo corpo prese a tremare. Come poteva essere morta, pensare e gridare contemporaneamente?
Non ha senso, si disse, non ha senso, è solo un incubo, solo un incubo…
Mai ti si chiuderan le palpebre…
“Non è possibile” fece, con un filo di voce “Non è possibile!”.
Ritrovò la voce e urlò ancora e ancora, continuando a picchiare ogni centimetro della sua bara, dove era stata sepolta e dimenticata, in attesa della decomposizione e allora chissà se sarebbe morta o avrebbe dovuto aspettare di essere mangiata dai vermi…
“Aiuto! AIUTO!”.
Non si era accorta che il legno che stava colpendo si stava crepando finché non sentì pezzi di legno e terriccio che le cadevano sul corpo. Fu veloce a chiudere gli occhi ma continuò a sgretolare ogni pezzo della bara, come posseduta da un’incredibile forza accompagnata da un’immensa speranza. Scavò nella terra che le stava sopra, mentre tutto le cadeva addosso, il mondo le cadeva addosso, un pezzo alla volta, andava a infilarsi tra i capelli, sulla bocca, le scivolava lungo il corpo ma lei continuava, tutta sporca, sentendosi sempre più arrabbiata e feroce, come un animale che tentava la fuga.
Sembrava un’impresa disperata, la terra avrebbe finito col seppellirla nuovamente e allora ogni tentativo di uscirne sarebbe stato inutile, eppure ce la stava facendo. La terra le si appiccicava in faccia, le andava su per il naso, le si poggiava sulle labbra, quasi ne sentiva il sapore, e sputava, e sputava ma sputando la bocca le si riempiva di nuovo e allora riprovò a piangere, con gli occhi serrati, e muovendo le mani frenetiche che sembravano, almeno loro, andare sempre più su. Dopo quelle che sembravano ore riuscì a ergersi in piedi mentre tutta la terra che aveva smosso le finiva ai piedi e riempiva la bara senza coperchio. La sentiva scivolare giù per le gambe, fredda e fastidiosa. Le sue mani erano diventate pugni selvaggi che colpivano e spingevano continuamente mentre le ginocchia stavano attente a non vacillare, Acilia non voleva cadere, e ricominciare tutto da capo. A un certo punto la sua mano toccò qualcosa di diverso che non era terra e la ragazza si rese conto con gioia che doveva essere aria. La sentiva, così piacevolmente fresca e pungente sulla pelle, e allora le braccia si mossero ancora più convulsamente in cerca di quello sprazzo di aria e luce che tanto agognava. Spinse su tutto il corpo e sentì il vento sulla fronte e tra i capelli. Si decise ad aprire gli occhi ed era ancora tutto buio, ma questa volte era notte e non terra. D’istinto respirò a pieni polmoni, poi uscì dal suolo con l’addome, poggiò le mani per terra e si diede un’ultima spinta per far uscire le gambe. Cadde a terra stremata e per un po’ rimase lì, godendosi tutta l’aria che sentiva potentissima, la sentiva fischiare nelle orecchie. Probabilmente si trovava al cimitero, quindi tornare a casa non sarebbe stato difficile.
Tornare a casa.
Acilia ci mise un po’ a capire cosa c’era di strano. I suoi genitori, tutta la sua famiglia, la credevano morta.
Ma io sono viva, saranno felici di rivedermi.
Immaginò la paura di vedere qualcuno che era stato seppellito, e poi immaginò la gioia, quella doveva essere fortissima.
Poi si ricordò che il suo cuore non batteva e che i suoi occhi non piangevano.
Si ricordò che i morti non potevano tornare in vita, perché lei era morta. Sua madre non l’avrebbe mai fatta seppellire se non ne fosse stata sicura.
E allora, lei cos’era?
Si alzò di scatto e si scrollò più terra possibile dal corpo, poi si guardò. Si guardò le mani, le braccia, le gambe, si toccò in ogni punto del corpo per capire cosa le era successo, cosa era diventata, come poteva essere morta e viva allo stesso tempo. Più scrutava ogni centimetro di lei stessa più si rendeva conto che lei ci vedeva, ci vedeva abbastanza bene, nonostante fosse buio. Ricordò come aveva sentito bene il vento sulla pelle, come ancora lo sentiva, come sentiva scricchiolare ogni sasso e frusciare ogni foglia.
Presa da un vago capogiro si leccò un braccio. La lingua a contatto con la sua stessa pelle quasi si congelò.
Non sapeva poi se era solo un effetto giocato dalla luna che splendeva alta e piena sopra la sua testa o se davvero la sua pelle era così mortalmente bianca. Era sempre stata piuttosto pallida, come si addiceva a ogni ragazza di buona famiglia, ma ora lo era in maniera angustiante. Beh, certo, era morta.
Si mise ancora una volta una mano sul petto, ascoltando, quasi pregando ma di nuovo rimase delusa. Sì, era morta.
Emise un singhiozzo e capì che voleva piangere.
Forse quello era il regno di Plutone, ma allora qualcuno non sarebbe dovuto venirla a prendere? Scortarla nel mondo degli inferi, dirle quale era il suo posto?
Eppure quella su cui era poggiata era terra, quello era lo stesso cimitero dove erano sepolti i suoi nonni, quella era la sua città.
“Come posso essere morta…” fiatò “Come posso essere morta…” alzò la voce “Come posso essere morta!”. Batté i pugni sul terreno e diede sfogo all’orrore che aveva dentro, che le stava lacerando il cuore che più non aveva, che le stava percuotendo il cervello che inspiegabilmente ancora funzionava, urlò, neanche pensava a quello che stava urlando, neanche saprebbe dire che cosa effettivamente abbia urlato quella notte. Smise quando la sua voce si incrinò in un pianto che non poteva uscire.
“Che cosa sono… che cosa sono…”.
Chiuse gli occhi e la sua mente fu attraversata dalle parole di Marco.
Non so io stesso come definirmi, mi spiace.
Lui le aveva dato da bere il suo sangue, lui le aveva recitato quella strana formula che sicuramente era magica! Lui le aveva fatto questo…
Acilia si premette una mano sulla bocca mentre ricordava tutto quel sangue che aveva perso, tutto il sangue che aveva bevuto, i denti che Marco aveva, così mostruosi e irreali…
Allora io sono come lui…
La mano che aveva vicino alla bocca tremante tastò i denti. Non c’era nulla di strano e lei provò un gran sollievo.
Forse sarebbe dovuta andare a cercare Marco ma lui stesso e quello che avrebbe potuto dirle la spaventata un sacco. Avrebbe tanto voluto andare a casa ma non le sembrava una buona idea. Se non poteva vedere Lia perché l’avrebbe terrorizzata allora forse avrebbe potuto vedere quella persona che più le mancava e che più avrebbe capito, che non sarebbe fuggita di fronte al suo ritorno nel mondo dei vivi: Damiano. Al pensiero del ragazzo che amava Acilia si sentì subito confortata e un coraggio che proveniva da chissà dove le invase al corpo. Per un momento pensò che ora che tutti la credevano morta la sua fuga con Damiano sarebbe stata più facile…
Si alzò in piedi e cominciò a camminare. Si stupì nel constatare che le sue gambe non dolevano e andavano pure spedite. Era stata chiusa in quella bara per del tempo, non sapeva quanto, e il suo corpo stava bene.
Avvertiva però una gran fame, ma era del tutto normale.
Continuò ad avanzare, sicura della strada che l’avrebbe portata da Damiano. Si sentiva più leggera, davvero forse le cose sarebbero potuto andare bene, c’era solo quella fame terribile, ma era qualcosa di perfettamente rimediabile.
Magari Damiano le avrebbe dato qualcosa da mangiare.
 
*
 
Dubris percorreva la sala a grandi passi pensieroso senza dire niente ed era una cosa che Jacque non sopportava. Non soffriva la sua stessa presenza in casa loro, come non sopportava il fatto che Acilia si fosse vestita di tutto punto solo perché sarebbe arrivato quell’individuo allampanato e rosso di capelli. Chissà, magari se lo portava a letto, Jacque non ne sarebbe rimasto stupito.
“Secondo te cosa può voler dire?” chiese Acilia, seduta sul divano.
Si riferiva all’articolo dell’ultima pagina di un giornale che non leggeva quasi nessuno. L’autrice era una certa Emily Dixon, una persona che aveva evidentemente deciso di esporsi a rischi enormi scrivendo un articolo che parlasse bene dei vampiri.
“Rileggilo un po’” rispose Dubris.
Jacque sbuffò piano, senza farsi sentire. Era un’ora che stavano rileggendo quell’articolo.
Acilia alzò lievemente il sopracciglio ma obbedì.
“Sono creature brutte, malvagie e spaventose, così parlano tutti dei vampiri. I ragazzini li disegnano con una faccia enorme, le sopracciglia marcate, due lunghe zanne che insieme alla lingua sbucano sotto il labbro superiore. Quei denti servono per mordere, è così che nasce un vampiro, una persona, uno di noi, può essere morsa ed ecco che  improvvisamente si trova catapultato oltre la linea di confine tra amici e nemici senza potere fare nulla. Sembra un racconto di fantascienza ma è questo che accade. Noi continuamente facciamo la guerra contro noi stessi, contro i nostri morti. La differenza è che noi possiamo uscire al sole, loro solo di notte, noi possiamo mangiare gli spaghetti e il gelato, noi possiamo essere felici oppure piangere, loro possono solo uccidere ed essere tristi, senza mai poter versare neanche una lacrima.”
Dubris accennò ad un sorriso. “Ha avuto del coraggio la signora”.
“Non credi ci sia qualcosa sotto?” replicò Acilia “È un articolo che non ha senso”.
“Potrebbe essere stata obbligata a scriverlo, da un vampiro”.
“A che scopo?”.
“È buona pubblicità”.
Acilia non sembrava per niente convinta, Jacque lo capiva.
Lui si chiedeva se quella Emily Dixon fosse quella stessa ragazza che lui aveva incontrato, qualche giorno prima. Quante probabilità c’erano che fosse solo una coincidenza?
Senza mai poter versare neanche una lacrima.
Quello era un chiaro riferimento alla loro conversazione. Emily voleva che lui sapesse che quello era il suo articolo. Forse era da qualche parte spaventata e credeva che con quell’articolo si fosse salvata.
Come se me ne fregasse qualcosa di quell’articolo.
“O magari è davvero amica di un vampiro” continuò Dubris.
Jacque non sapeva se dire loro quello che sapeva. Si sarebbero arrabbiati?
“Se fosse amica di un vampiro” ribatté Acilia “starebbe ben attenta a non attirare l’attenzione su di sé in questo modo. La prima cosa che le avranno chiesto sicuramente sarà stata questa: ma scusa, conosci un vampiro?”.
“Come sei esperta” commentò Dubris “hai avuto un vampiro per amico da umana?”.
“Forse ho avuto un umano per amico” rispose l’altra con una smorfia.
Attirare l’attenzione…
Jacque si sentì per un momento pietrificato.
“E quindi che dovremmo fare?” chiese, lentamente. Una giornalista che scriveva pezzi in favore dei vampiri avrebbe potuto essere considerata una squinternata certo, oppure avrebbe potuto essere interrogata…
Acilia lo guardò, sorpresa che lui avesse parlato.
“Indagherò sulla faccenda” disse Dubris.
L’altra stava zitta ma continuava a guardare Jacque con uno strano sguardo fisso e penetrante. Era raro che Jacque prendesse la parola in conversazioni di quel tipo e Acilia doveva essersi insospettita.
“Se è stata davvero obbligata da un vampiro quel vampiro dovrà essere punito, ma sarà come cercare un ago in un pagliaio” proseguì Dubris, sospirando.
“E se è amica di un vampiro?” chiese Jacque, lo sguardo di Acilia come una lama sul collo.
“Se è amica di un vampiro, o di più vampiri” rispose l’altro “dovremo darci da fare”.
“In che senso?”.
Anche Dubris cominciava ad essere sorpreso dalla curiosità di Jacque. Educatamente rispose: “In quanto prefetto, è mio compito proteggere tutti i vampiri della mia zona”.
“Quindi i vampiri che Emily Dixon conosce sono in pericolo” disse il ragazzo, piano.
“Insomma, Jacque” sbottò Acilia “cosa sai?”.
Jacque la guardò, ansioso. Si sarebbe infuriata, forse anche preoccupata?
Lui pensava fosse meglio non parlarne ma a quel punto aveva bisogno di protezione, e solo il vampiro prefetto dell’Inghilterra poteva dargliela.
“Qualche giorno fa” disse “ho incantato una ragazza perché mi dovevo nutrire… Solo che, non so cosa sia successo, mi sono distratto, e lei ha capito cos’ero”.
Acilia si portò una mano alla bocca e socchiuse gli occhi.
Dubris invece si sedette, ascoltando con attenzione.
Jacque si fece coraggio e andò avanti. “Lei ha cominciato a supplicarmi di lasciarla andare, ha detto che se non la uccidevo lei non mi avrebbe denunciato e che avrebbe scritto un articolo a favore dei vampiri”.
“E tu l’hai lasciata andare” completò Acilia, con la voce che tremava appena.
Il ragazzo sentì un impeto di rabbia. “Cos’altro avrei dovuto fare? Ucciderla? Non sei tu quella che predica la non-violenza contro gli umani?!”.
Lei sembrò non ascoltarlo. “Come hai potuto distrarti durante l’incanto?!”.
“Non avresti dovuto lasciarla andare” aggiunse Dubris.
Jacque lo guardò incredulo, guardò incredulo entrambi. “Voi dite sempre di non uccidere!”.
Acilia aveva distolto lo sguardo, ma tornò a parlare, calma e pensosa: “C’è pur sempre la trasformazione”.
Lui passò lo sguardo veloce su di lei, lo stesso sguardo sempre più attonito. “E che differenza fa?” fece.
La sua creatrice si mordicchiò il labbro e Jacque continuò a parlare, cercando una qualche approvazione: “Andiamo, i tempi sono cambiati! Cosa volete che succeda se un umano oggi vede un vampiro? Sono in tanti che lo dicono e magari neanche è vero, sono in tanti che…”.
“Se un umano oggi vede un vampiro” lo interruppe bruscamente Dubris “dice ai cacciatori dove l’ha visto e fornisce loro una descrizione accurata”.
Jacque tacque.
“Io non voglio più creare nessuno” disse poi a voce bassa.
“Come scusa?” fece Dubris.
L’altro alzò la voce. “Io non volevo trasformarla!”.
Dubris troneggiava sopra di lui, che era seduto, con uno sguardo che non aveva nulla di compassionevole. “Preferisci vivere per sempre fuggendo dai cacciatori piuttosto che creare un vampiro?”.
Jacque non sapeva che dire. Lo sapeva che Dubris aveva ragione, ma lui non se la sentiva di dare vita ad un altro mostro che avrebbe camminato morto sulla terra dei vivi.
“Preferisci uccidere decine di umani che ti daranno la caccia piuttosto che creare un vampiro?” stava continuando Dubris “Preferisci morire piuttosto che…?”.
“Ho capito!” ruggì Jacque, spazientito “Ma ormai è troppo tardi”.
L’altro scosse la testa. “La troveremo, e te la porteremo” disse, e a Jacque quasi pareva minaccioso.
Acilia si alzò in piedi di scatto. “Cosa vuoi che le faccia?” chiese, ansiosamente.
“È ovvio” rispose Dubris, mentre Jacque si sentiva svuotare dentro di ogni goccia di sangue “voglio che la trasformi”.
La ragazza tentennò, sembrava avere un’altra espressione rispetto a qualche minuto prima. “Non lo può fare qualcun altro? Qualcuno della corporazione?” provò.
“Sarà la corporazione che cercherà l’umana perché non posso permettere che un vampiro semplice – Jacque –  corra questo rischio” disse Dubris, pomposamente “ma non posso chiedere loro di addossarsi la responsabilità di allevare un vampiro infante per colpa di qualcun altro”.
“Quindi lo deve fare Jacque” concluse Acilia, parlando lentamente.
“È bene che si assumi le sue responsabilità”.
A Jacque sembrava di stare per impazzire. Non aveva mai provato tanto odio per Dubris.
“Ma è solo un ragazzo” tentò di nuovo la sua creatrice.
“È già diventato creatore mi pare” ribatté il prefetto “è perfettamente in grado di darci un altro vampiro”.
Certo che sono in grado, pensò Jacque con disprezzo, è che non voglio. Ripensò per un momento a quella Emily Dixon, a quella ragazza terrorizzata che lo guardava supplicante, ripensò a quello che aveva provato lui stesso mentre Acilia lo svuotava di tutto il suo sangue, a quando si era trovato sotto terra, sepolto e abbandonato, senza più nessuno da cui poter andare, ripensò a quanto aveva sofferto davanti ad Eike, quel bambino dallo sguardo spento che per colpa sua non poteva più crescere. No, non avrebbe sopportato un nuovo giro nel ciclo dell’orrore.
“E se mi rifiutassi di farlo?” disse, lo sguardo abbassato.
“La uccideremo” rispose Dubris semplicemente, mentre Acilia, al suo fianco, socchiudeva gli occhi sospirando.
“Bella campagna contro la violenza” scherzò Jacque, senza l’ombra di un sorriso.
“Se te la portiamo e tu non la trasformi” spiegò Dubris “avrà visto tutti noi, non potremo più farla tornare a casa”.
“Non fa una piega” disse l’altro alzandosi e guardandolo negli occhi “quindi potete anche non prendervi il disturbo di portarmela, non ti pare?”.
Sentì un lieve dolore all’interno della sua bocca e capì che i suoi canini si erano allungati. Non l’aveva fatto apposta, era la rabbia.
“Jacque!” lo ammonì immediatamente Acilia.
Dubris era scuro in volto come non mai. “Ritira subito i denti”.
Jacque vide con la coda nell’occhio lo sguardo esasperato di Acilia e fece uno sforzo. I denti gli tornarono normali, ma gli occhi sperava sprigionassero lo stesso identico sentimento.
“Mi spieghi che ti importa? Sono io che corro il rischio, se non lo voglio fare sono fatti miei” disse, giocando la sua ultima carta.
“Se trovano te” rispose Dubris, a denti stretti “trovano Acilia, trovano Eike, magari trovano anche me. È mio dovere proteggere tutti i vampiri”.
Jacque non trovò più niente da ribattere. Non avrebbe mai voluto mettere in pericolo Acilia ed Eike, ma neanche voleva porre fine alla vita di una donna innocente.
Aprì la bocca in modo stupido, senza sapere cosa dire ma Dubris non dava segni di soddisfazione.
“Impara a portare rispetto per i tuoi superiori, Jacque” disse “e ringrazia che ho a cuore la tua creatrice, se no non so cosa ti avrei fatto” aggiunse a bassa voce avvicinandosi al suo orecchio.
Ho a cuore la tua creatrice.
Jacque trattenne l’impulso di prenderlo a pugni e soprattutto bloccò con tutte le sue forze la fuoriuscita dei suoi denti, già pronti all’attacco.
“Ora devo andare, ho molto da fare” si congedò l’altro, ignorando l’espressione furiosa sullo sguardo del ragazzo. Prese la mano di Acilia e la baciò,  fece un breve cenno di saluto a Jacque poi sparì in un lampo, come solo un vampiro poteva fare, dietro il portone di casa.
Per qualche attimo nessuno parlò poi Acilia sbottò, di nuovo col suo solito sguardo duro e autoritario: “Non ti permettere mai più, Dubris è il prefetto!”.
Jacque ignorò la rabbia che gli saliva di nuovo per la gola e arrivava alla bocca, spingendo dalle gengive e disse, con calma: “Aci, cosa dovrei fare?”.
La ragazza esitò un momento, poi disse: “Fare quello che ti è stato detto”.
“Ma prima mi hai difeso!”.
Acilia alzò gli occhi al cielo. “Ho provato a chiedere che qualcun altro lo faccia al posto tuo”.
“Io vorrei proprio che non si facesse e basta”.
Jacque si sentì squadrare dentro mentre lei lo guardava sospettosa. “Perché ti interessa così tanto la vita di quella ragazza?”.
Lui deglutì, intimorito dallo sguardo di lei. Che diavolo voleva dire quell’insinuazione? “Non mi interessa la vita di quella ragazza” rispose, dopo un po’ “Mi interessa la vita e basta”.
Non voleva che da lui dipendesse la vita di qualcuno, non voleva interrompere il percorso di una ragazza che poteva farsi una famiglia, che poteva vivere, proprio come aveva fatto con Eike. Non voleva che le capitasse la stessa cosa era capitata a tutti loro, vivere per sempre senza mai una lacrima o una risata, col cuore spento, accartocciato dal terribile giorno che segue il momento della creazione
Acilia aveva qualcosa di morbido nel volto quella sera, Jacque quasi la vedeva in una luce più umana e si sentì vicino a lei, forse per un momento quasi felice. Sentiva la sua compassione e quasi non ci credeva. Era contento di quello sguardo, anche se quello stesso sguardo voleva dire che lei non poteva fare proprio niente per aiutarlo. 
 
*
 
 
Acilia arrivò trafelata alla bottega di Damiano.
Aveva paura ad entrare, quasi il panico. Cosa mai avrebbe potuto dirgli? Lui la credeva morta, o forse non sapeva niente, di certo nessuno della sua famiglia si sarebbe preso la briga di avvertirlo…
Se avesse avuto il cuore lo avrebbe sentito in gola. Si sentiva sempre più strana, come vuota d’emozioni, eppure la paura e l’ansia ce le aveva, non se lo sapeva spiegare. Forse era tutto nel cervello, tutto lì, intricato ed ingarbugliato, perché il cervello c’era ancora, lo sentiva pesante nella sua testa, con mille pensieri alla rinfusa…
Bussò al portone prendendo un gran respiro.
Nessuno le aprì né tantomeno le rispose, allora lei provò a spingere e la porta si aprì. Entrò nel buio. Si orientava bene, forse ricordava perfettamente ogni cosa dov’era o forse davvero ci vedeva.
“C’è nessuno?” disse, alzando un po’ la voce per farsi sentire. Non voleva svegliare tutti nella casa, ma Damiano, Damiano sì…
Ancora qualche secondo interminabile e sentì dei passi che scendevano giù dalle scale, e una voce, quella voce: “Chi c’è?”. Sembrava intimorito.
“Damiano sono io, sono Aci!” lo rassicurò subito lei. Passò un lungo attimo di silenzio prima che lei si rese conto di averlo spaventato ancora di più.
“No, non è possibile…” lo sentì dire, con una voce strana.
Acilia si fece coraggio. “Ti hanno detto che… No, Damiano, sono viva, sono io!”.
“Se questo è uno scherzo non è divertente! Ora vattene, chiunque tu sia!”.
La ragazza cercò di controllarsi. Le faceva male sentirsi dire quelle parole, ma lui era spaventato, era normale, era tutto così buio… Lei doveva solo farsi vedere, e allora tutto sarebbe andato bene.
“Accendi una candela, per favore”.
“Vattene!”.
“Per favore!” supplicò Acilia, sentendo la voce che le si incrinava “Damiano… Non riconosci la mia voce?”.
Per un po’ niente si mosse e nessuno parlò, poi la ragazza vide una luce e un gran calore sulla pelle. Strano, era solo una candela. Vicino ad essa comparve un volto galleggiante bello nitido, e poi due spalle, un torace. Alla vista di quegli occhi color nocciola, che le sembravano così meravigliosamente pieni di sfumature diverse in quel momento le venne voglia di gridare e corrergli incontro per abbracciarlo.
Ma l’espressione che lui aveva in faccia la fece desistere. Aveva la bocca spalancata e la mano che reggeva la candela stava tremando.
“Cosa… cosa sei…” boccheggiò.
Acilia lo guardò implorante. “Sono io, non mi riconosci?”.
Damiano sembrava tentato di fare qualcosa, forse di sorridere. “Sei uno spirito?”.
“No!” gridò l’altra. Almeno, non credo…
Il ragazzo la scrutò, senza che la paura l’avesse abbandonato. “Io ti ho vista d’accordo? Ho visto la tua bara che veniva messa sotto terra e ricoperta…”.
“Sono uscita da lì” lo interruppe Acilia “Sono… sono viva, non so perché mi abbiano messo in una bara!”.
Neanche lei credeva alle sue stesse parole, eppure Damiano sembrava quasi convinto.
“Cosa?” fiatò “Come… come hanno potuto… come sei sopravvissuta una settimana sotto terra?”.
Acilia sgranò gli occhi. Una settimana?
“U-una settimana?” balbettò.
Damiano assentì, con la paura che di nuovo prendeva il posto di qualunque altra cosa sul suo viso. “Come hai fatto?!” esclamò.
Acilia voleva tanto scoppiare in lacrime, ma non poteva. La verità che aveva cercato di nascondere non solo a Damiano, ma anche a se stessa, la invase completamente. Lei non era affatto viva.
“Non lo so!” gemette “Non lo so… Aiutami, Damiano, ho tanta paura…”.
Si sentiva patetica, ma sperava con tutta se stessa che Damiano non l’avrebbe abbandonata.
Lui esitò ancora un po’, poi poggiò la candela sul bancone e corse verso di lei.
La prese tra le braccia e la strinse e Acilia si sentì felicissima.
“L’ho sempre detto che eri speciale…” bisbigliò lui, e stava piangendo, lei lo sentiva “Non riesco a crederci che tu sia qui… Io… ero disperato…”.
Acilia lo abbracciò forte mentre sentiva l’odore di lui perforarle le narici. Era un odore buonissimo. “Damiano, ho paura…”.
Il mio cuore non batte più.
“Andrà tutto bene, Aci, andrà tutto bene…”.
Sentiva un battito cardiaco, lo sentiva distintamente. Non era il suo, era quello di Damiano, quasi le rimbombava nella testa, mentre quel suo odore, così buono, persisteva nel suo naso.
“Ho fame…” biascicò.
Damiano si staccò da lei, continuando a tenerle le mani sulle spalle. “Hai… ma certo! Ti do subito qualcosa da mangiare!”.
“Grazie…”. Ma cosa stava succedendo? Acilia sentiva quasi di non riuscire più a parlare. Forse invece era viva e se avesse passato ancora un istante senza mangiare sarebbe morta…
Damiano fece per allontanarsi ma Acilia, quasi senza rendersene conto, lo bloccò con le braccia, tenendolo fermo.
“Aci, devi mangiare” disse lui, severo.
“Sì” esalò lei, sempre a fatica “Devo mangiare…”.
“Ti prendo qualcosa, lasciami andare…”.
“Ho fame…”.
“Lasciami ho detto!”.
La fame la stava dominando e Acilia non capiva perché ma non aveva voglia né di pane né di formaggio né di nient’altro. Voleva solo Damiano, voleva baciarlo, voleva morderlo, voleva mangiarlo…
“Aci, lasciami!”.
Si riscosse. Come poteva volerlo mangiare? Aveva un odore così buono, cos’era che stava emanando quel profumo?
I suoi occhi videro qualcosa sul collo di Damiano. Era una vena, una vena grossa, la vedeva quasi pulsare. Ma certo, si disse, è il suo sangue.
L’odore la stava inebriando e lei socchiuse gli occhi, mentre Damiano non riusciva a liberarsi dalla sua presa. Buffo, non sapeva di essere così forte.
“Aci” stava dicendo lui “che ti succede…”.
Acilia sentiva il cuore di lui che aumentava il battito, e il sangue stava pulsando nella vena che aveva sul collo, ne era sicura. La bocca cominciò a farle male, era come se qualcosa stesse crescendo tra le gengive.
Lanciò un’esclamazione ma non lasciò andare Damiano. Quel qualcosa che era cresciuto dall’arcata dei denti superiori aveva raggiunto il labbro inferiore. Sentì un lieve dolore e il sangue che scorreva sul suo stesso labbro la riempì d’eccitazione.
Sangue…
Aprì gli occhi e vide che Damiano aveva gli occhi sbarrati, una goccia di sudore gli stava scendendo dalla fronte, le sue labbra calde e morbide si stavano muovendo in un urlo terrorizzato. “Tu non sei Aci!” gridava, dimenandosi.
Acilia gli prese il volto tra le mani. Lui urlava ma con le sue urla non riusciva a ricoprire quel tamburellare furioso del suo cuore.
“Cosa vuoi fare… Mostro! Cosa vuoi fare?!”.
Mostro…
Anche lei aveva definito Marco un mostro.
Damiano era sconvolto e atterrito, Acilia non voleva che lui lo fosse, lei non era un mostro, lei aveva solo un po’ di fame, gli avrebbe preso un po’ di sangue, solo un po’… Quella vena era terribilmente invitante e quel bellissimo collo altro non aspettava che essere morso.
Acilia gli si avventò contro, lo azzannò proprio lì, dove il sangue era più appetitoso, e le urla del ragazzo riecheggiarono dentro di lei, ovunque, erano come amplificate, e si mescolavano al battito del suo cuore, tutto così dolorosamente forte. Ma nella sua testa – di Acilia – non c’era più niente, non avvertiva più alcun pensiero, non capiva più niente di quello che stava succedendo, mentre succhiava e succhiava senza pietà. Allora forse stava finalmente morendo, insieme al ragazzo che amava. Sì, perché lei lo amava, era per questo che voleva il suo sangue. Voleva che fossero uniti, insieme, in un unico corpo, ma più di ogni altra cosa aveva fame e mentre Damiano le urlava di fermarsi, forse insieme alla sua coscienza o forse insieme al suo cuore che da morto piangeva, lei non ci riusciva e mandava giù ogni millilitro di sangue, sentendolo sulla lingua, assaporandolo, sentendolo giù per la gola, caldo e gustoso.
Ben presto le urla di Damiano si dissolsero in un affannoso lamento, e poi si spensero. Poco dopo Acilia capì che succhiare non serviva più a niente perché non c’era più neanche una goccia di sangue. Mentre gli teneva sospesa la testa si staccò dal collo e lo guardò in viso. Damiano non si lamentava più eppure lei gli leggeva tutto il suo dolore negli occhi, quegli occhi ancora spalancati, confusi, atterriti che le chiedevano perché l’aveva fatto.
“Damiano…?” fiatò lei, sentendosi d’un tratto pesantissima, mentre il ragazzo che lei reggeva era così leggero.
Lasciò andare il corpo del ragazzo all’improvviso come se bruciasse e quello cadde rovinosamente a terra, ai suoi piedi.
La testa di lui era rivolta verso di lei, il volto sconvolto bianco come la morte, la bocca semiaperta, gli occhi vitrei e con una ferita mortale sporca di sangue sul collo.
Damiano…
Acilia si portò una mano alla bocca e sentì sporca anche quella, ma soprattutto sentì i suoi canini lunghi e pungenti, proprio come quelli di Marco, quelli che lei non voleva.
Nonostante la forza che sentiva in corpo, crollò sulle ginocchia davanti a Damiano con qualcosa di simile alla nebbia dentro alla testa. Il suo corpo prese a tremare e lo sentiva distintamente stavolta il suo cuore morto, che non c’era, che non batteva ma che piangeva, e si disperava, mentre lei non poteva farlo.
Tu non sei Aci!
La cosa peggiore era che era proprio lei.
L’ultima espressione che Damiano aveva avuto sul volto – quella che aveva tutt’ora – era di terrore, ed era stata colpa sua.
Ancora quel dolore tra i denti e questa volta le venne da gridare per il dolore. Portò veloce la mano alla bocca e sentì che i canini erano tornati normale.
Poi, finalmente, urlò, urlò tantissimo, fino a farsi del male alla gola, fino a farsi scoppiare la testa.
 
*
 
 
Giorno 8
 
Forse è vero che i vampiri non sono così mostruosi. Nessuno è ancora venuto a cercarmi e io sono più tranquilla. Davvero quel mediocre articolo che ho scritto ha agito da calmante? Oppure Vampiro è sulle mie tracce come un segugio? La notte per riuscire a dormire mi ripeto che se Vampiro avesse voluto uccidermi, l’avrebbe fatto quella sera, invece mi ha lasciata andare.
A lavoro mi hanno tutti preso per una folle. Il direttore non voleva farmi pubblicare un tale articolo ma alla fine ha ceduto, inserendolo nelle ultime pagine. Tanto il nostro giornale non lo legge mai nessuno, ha detto, forse questa storia attirerà qualcuno che lo comprerà per uno sghiribizzo. Però mi ha anche consigliato di farmi vedere da uno psicologo. Non ho intenzione di dire a nessuno la verità, non voglio mettermi nei guai. La polizia ha letto il mio articolo e mi ha chiesto se conosco dei vampiri. Ho detto loro di no, e questa d’altronde è la verità, io non lo conosco Vampiro. Loro hanno detto che probabilmente i cacciatori di vampiri verranno informati dell’articolo, e che verranno a farmi qualche domanda. Beh, io sono pronta a non proferire parola. Voglio protezione e loro di certo non me la saprebbero dare. Voglio uscire il più in fretta possibile da questa storia. Credo che forse mi dispiacerebbe anche un po’ se Vampiro venisse catturato. Lui è stato così gentile da lasciarmi andare, perché io ora dovrei denunciarlo? Spero che la pensi così anche lui, spero che capisca che io non voglio denunciarlo, è come se ci aiutassimo a vicenda e ci difendessimo l’uno dall’altra.
Anche i miei amici hanno pensato che mi fossi ammattita, per non parlare dei miei genitori. Quando mi fanno delle domande in proposito scrollo le spalle con indifferenza dicendo: “Volevo solo scrivere qualcosa di diverso”. Dopotutto di giorno riesco a simulare benissimo noncuranza, è la notte che sono spaventata.
Quando esco con gli amici mi guardo spesso intorno, cerco di non allontanarmi mai, evito gli angoli bui. Nessuno ci fa caso perché da quando esistono i vampiri – o forse è meglio dire da quando noi sappiamo della loro esistenza, perché chissà da quant’è che esistono – molte persone prendono cautele su cautele.
Mi sono documentata sui vampiri. Ho cercato su Internet informazioni su come vivano il loro modo di nutrirsi, se è impossibile per loro trattenersi davanti a un umano, se lo è solo quando hanno fame o se possono trattenersi quando vogliono. E mentre leggo che per i vampiri il sangue non è come per noi il bacon o le patatine, ma è una vera e propria droga, che dà dipendenza senza neanche averla mai provata – il vampiro appena creato che non ha mai bevuto sangue dicono sia il più pericoloso – mi chiedo perché Vampiro mi abbia lasciata andare e come abbia fatto a trattenersi. Forse il mio sangue non ha un buon odore, forse lui si era già nutrito e non aveva fame… Non lo so, non capisco e più non capisco più è  un’ossessione ma contemporaneamente va a contraddire il mio desiderio di uscire da questa storia. Non ne voglio sapere dei vampiri eppure mi documento su di loro, cerco chiarimenti e motivazioni. Forse è perché ho paura. In ogni riga di ogni pagina di Internet cerco rassicurazioni, cerco quella frase che mi dirà che Vampiro non verrà a cercarmi.
 
*
 
 
Si era chiesta perché nessuno fosse accorso con tutto quel rumore. Damiano aveva urlato, lei stessa aveva urlato poco prima, sì, lo ricordava bene, per quello le faceva male la testa, però nessuno aveva sceso le scale. La madre di Damiano era morta quando lui era molto piccolo ma il padre dov’era? Acilia si ricordò che era malato. Che fosse morto anche lui?
La cosa la confortò per un momento perché pensò che ora la famiglia di Damiano era riunita. Sì, sarebbero stati felici.
Guardò il coltello che aveva in mano. L’aveva trovato nel retrobottega.
Non sarebbe dovuta andare da Damiano, avvolta com’era nella sua sciocca presunzione che sarebbero fuggiti insieme. Come aveva potuto osare lei, morta, camminare nel mondo dei vivi?
Non sarebbe mai potuta tornare a casa, mai, se era quello il destino di chi la incontrava. L’immagine di Lia morta e ricoperta di sangue le attraversò la mente e lei si sentì mancare il respiro.
Stringeva occhi, pugni e bocca ma ciò che otteneva erano solo urla di frustrazione. Non riusciva a piangere sopra quel corpo puro del ragazzo che aveva voluto aiutarla.
“Non lo dimenticherò mai…” fece, con una voce strana, bassa e impastata, forse neanche stava parlando, forse stava pensando e basta “Non ti dimenticherò mai, Damiano…”.
Lui era morto e lo era anche lei. Allora perché non erano insieme? Era tornata forse dal mondo dai morti per uccidere il suo amore e portarlo via con sé?
“Allora perché…” gemette Acilia “Perché ti vedo morto davanti a me?!?”. La sua voce si era alzata, forse aveva addirittura strillato.
Doveva tornare subito nel regno dei morti, da dov’era venuta. Lì l’avrebbe trovato, e chissà se lui l’avrebbe perdonata…
Come aveva potuto osare lei, morta, camminare nel mondo dei vivi? Era ovvio che fosse stata punita per essere uscita dalla sua tomba, doveva tornarci subito, subito!
Tenne più saldamente il coltello che aveva in mano mentre tutto il suo corpo tremava. Con lo sguardo fisso su quello di Damiano si costrinse a non avere paura. Lui non ne aveva avuta, lui aveva cercato di aiutarla e ora lei avrebbe pagato per quello che aveva fatto. Con un urlo premette la lama contro il petto e spinse. Spinse, spinse sempre più forte, digrignando i denti e tenendo gli occhi spalancati su Damiano, che la guardava e l’aspettava.
“Muori…” fece Acilia spingendo il coltello dentro di sé senza pietà “Muori!”. La sua anima era morta ma il suo corpo no, e ora sarebbe dovuto morire anche esso. Sentì la pelle come strapparsi e vide il sangue uscirle dal petto. Sentiva un gran dolore ma non era nulla in confronto a quello che aveva provato Damiano e continuò a spingere urlando tutte quelle lacrime che non poteva piangere.
Immerse a fatica nella pelle il coltello fino a metà poi, esausta, strisciò tra il sangue – chissà quale era il suo e quale era di Damiano – fino al corpo dell’infelice ragazzo e lo abbracciò. Si sentiva ancora tremare ma una strana calma la stava prendendo. Sarebbe morta definitivamente lì, sopra al ragazzo che amava e che aveva ucciso. Come era potuto accadere ancora non lo sapeva, lei era una morta, un mostro che non avrebbe mai potuto stare con i vivi. E ora lei e Damiano sarebbero stati insieme per sempre.
Si sdraiò con la testa sul suo torace e si preparò dolorante a estrarre il coltello insanguinato dal suo corpo. Con un grosso respiro cercò di ricordare tutte le cose belle della sua vita. Damiano appariva nella maggior parte delle gocce di quella pioggia di ricordi e lei quasi sorrise. Afferrò con una mano il coltello e cercò di ricordare i baci di Damiano. Ripensò alle sue labbra sopra le sue, quasi le sentiva, ma subito dopo ebbe la sensazione di avere sopra le labbra la pelle del suo collo, col sangue che scivolava tra i denti e sulla lingua…
Cosa diavolo le aveva fatto perdere la testa così?
Cosa ho fatto?!
Al ricordo del sangue il suo corpo fu percorso da un brivido di piacere e subito dopo lei si sentì disgustata, nauseata da se stessa.
Tirò il coltello con un urlo agghiacciante e fu subito percossa da fremiti e spasmi. La sua mano cercò la mano fredda di Damiano e mentre urlava la strinse, fino a quasi inventarsene il calore.
Il sangue usciva ma dopo poco smise. Anche il dolore si stava placando, stava quindi per morire davvero finalmente? Poi il male si fece più forte e lei provò una stranissima sensazione. Lasciò andare la mano di Damiano incapace di stare ferma e si contorse tra le grida.
Basta…
Perché non moriva? Perché continuava a dimenarsi soffrendo sentendo quasi le fiamme tutto attorno, come quella notte, l’ultima notte che ricordava sul suo letto…
Poi il dolore si attenuò fino a cessare. Affannata Acilia capì che sarebbe riuscita a mettersi seduta. Lo fece e si guardò il petto cosparso di sangue. Si tastò e tra il sangue cercò la fuoriuscita, per capire cosa le era successo, perché non aveva più male…
Non c’era alcuna ferita.
Eppure io ricordo di essermi colpita…
Il sangue c’era, il coltello insanguinato c’era, non aveva alcun taglio sul petto.
Come si era risvegliata morta nella sua tomba, ora il suo corpo aveva rimarginato la sua ferita mortale, proprio come quella che aveva sul collo. Lei era morta e i morti non muoiono.
Quando si rese conto della verità in un impeto di rabbia calciò il coltello che si avvicinò al corpo di Damiano e lei lo guardò, ancora una volta, e questa volta capì sul serio che non avrebbe mai più potuto vederlo perché lui era morto e lei era bloccata in una strana esistenza che non era né vita né morte.
Piena di odio urlò per la collera e mentre la testa le girava si alzò di scatto e corse fuori dalla bottega senza più guardarsi indietro. Continuava a ripetersi che ci doveva pur essere un modo, non poteva, non doveva vivere così, con la consapevolezza di quello che aveva fatto, con quei denti che le facevano male e che facevano del male alla gente, che avevano tolto la vita a Damiano…
Sarebbe tornata al cimitero e sarebbe tornata nella sua tomba. Se non avesse più mangiato niente sarebbe pur morta no? Altrimenti poteva gettarsi nel fiume più vicino e lasciare che la corrente la portasse via.
Il pensiero la stava vagamente rincuorando quando si sentì prendere per un braccio e la sua veloce e affannosa corsa fu interrotta, e lei quasi precipitò a terra. Per un momento cielo e terra si invertirono, poi riprese l’equilibrio.
Rimise subito a fuoco e vide davanti a sé l’ombra di un uomo.
“Damiano?” fece, con la convinzione di essere finalmente nel mondo dei morti e di averi rincontrato il suo amore.
Ma l’ombra si avvicinò e lei si vide costretta a tornare alla realtà. Quell’uomo era Marco.
“Ti ho trovata finalmente” disse lui.
Lei sgranò gli occhi. “Tu” fece poi, la voce ansante di collera “Tu! Sei stato tu!”.
Provò ancora quel dolore all’interno della bocca e capì che le erano cresciuti di nuovo i canini. Sentiva un tale odio dentro di sé che si sentiva pronta ad azzannare, di nuovo.
“Io ti ho salvata” disse Marco, pacatamente.
“Mi hai trasformata in un mostro!” gridò Acilia “Dimmi come posso morire” aggiunse poi, a bassa voce.
Lui la ignorò allora lei ripeté a voce più alta, disperata: “Dimmi come posso morire!”.
“Non si può” rispose finalmente Marco.
Acilia pensò di non aver capito bene. Non sarebbe mai potuta morire? Avrebbe dovuto vivere per sempre così?
“Non ti credo” sbottò.
“E’ così” ribatté Marco.
“Io non ti credo!” strillò lei, fuori di sé.
“Io sono immortale!” gridò l’altro e Acilia tacque. Lui continuò, ricalibrando il tono di voce: “E ora lo sei anche tu”.
La ragazza stava tremando. Non capiva, non aveva senso…
“Avresti dovuto lasciarmi morire!” urlò “Io… Io ho fatto…”. S’interruppe, incapace di proseguire. Non riusciva a dirlo alla voce, non ce la faceva.
Marco mutò espressione. Sembrava dispiaciuto.
“Avrei dovuto trovarti prima” disse in un soffio.
Acilia fece per andarsene. Voleva solo andarsene e starsene da sola, lo avrebbe trovato un modo, lo avrebbe trovato un modo per togliersi la vita!
Ma Marco la bloccò per un braccio.
Acilia cercò di strattonarsi ma lui era più forte. “Lasciami andare!” gridò.
Lui aumentò la stretta e lei si dimenò furiosamente, disperata. “Lasciami! Lasciami ho detto!”. Continuò a urlare e si trovò circondata da un braccio. Lei ripensò agli abbracci di Damiano e grondante di frustrazione e avvilimento fermò la sua furia e si lasciò andare ai ricordi. Sognava il calore del corpo di Damiano ma in realtà sentiva solo freddo. Marco era freddo, come lei stessa, come tutto quella notte.
“Vorrei piangere” vagì “Vorrei tanto piangere…”. Le lacrime non uscivano e lei sentiva tutto, tutto l’odio e tutto il dolore intrappolati dentro di lei, che piano piano la uccidevano.
“Ti capisco” fece Marco “Ti capisco bene”.
Acilia urlò ancora. Non poteva piangere e tutto quello che poteva emettere lo faceva uscire in grida. Era un incubo e lei non sapeva come uscirne.
Marco la teneva ferma e parlò ancora: “L’unica persona che può aiutarti sono io, pensaci bene. Io sono come te, solo che lo sono da molto più tempo”.
Acilia si sentì per un momento più calma. Aveva male alla bocca e capì che anche i suoi denti si dovevano essere calmati.
Alzò lo sguardo verso Marco.
“Quanti anni hai?” disse, con la voce che vacillava un poco.
L’altro esitò. “Più di settecento” disse infine.
Acilia si impressionò. “Non invecchierò mai?” domandò.
L’altro scosse la testa.
Com’è possibile…
“Ti mostrerò che è possibile vivere anche per noi” continuò Marco.
Acilia non lo credeva affatto. Lei aveva ucciso Damiano e questo l’avrebbe perseguitata per tutti gli anni a venire, fossero stati pure mille.
Non ha senso…
“Il sangue” biascicò “Io volevo il suo sangue… Io… perché…”.
“Ci nutriamo di sangue umano” spiegò Marco “Non devi incolparti di niente. Sei appena stata creata e non avevi esperienza, sarebbe stato impossibile per te controllarti”.
“Controllarmi?”.
Acilia non ci aveva proprio pensato. Avrebbe potuto controllarsi?
“Non sto dicendo che ti insegnerò a non nutrirti di sangue umano. Ci ho provato, ma è impossibile. Puoi però imparare a controllarti”.
“Ma che significa?” esclamò Acilia. Lei non voleva nutrirsi di sangue umano, rabbrividiva alla sola idea… Eppure pensandoci risentiva il sapore del sangue di Damiano. Era buono e lei era così dannatamente sporca.
“Significa che potrai nutrirti senza uccidere. Non è necessario svuotare una persona per sentirsi sazi” spiegò Marco.
Svuotare una persona…
Acilia tremò, rivedendo davanti a sé il volto secco di Damiano, con gli occhi spalancati, accusatori, proprio rivolti verso di lei.
“Ma se noi non bevessimo neanche una goccia di sangue” disse, tentando di mantenere la calma “non ci indeboliremmo talmente tanto fino a morire?”.
“No” rispose mesto l’altro “Saremmo sempre più deboli, e avremmo sempre più dolore… Ma saremmo sempre coscienti del nostro male”.
Acilia capì da quelle parole che Marco doveva averci provato e si sentì un po’ più vicina a lui.
Non diceva niente e Marco parlò ancora: “Non possiamo esporci alla luce del sole”.
“Cosa?”.
“Tra poco sarà l’alba, dobbiamo rientrare”.
“Rientrare dove?!”.
“Starai nel mio nascondiglio”.
Acilia sbatté le palpebre più volte, confusa.
Sposa delle tenebre, nemica della luce…
“Non possiamo uscire di giorno? Perché?!”.
“Siamo creature della notte” rispose Marco “Al sole bruceremmo”.
Bruciare? Acilia si spaventò per un momento ma poi un’idea la colpì. “Allora hai mentito, un modo per morire c’è”.
“È molto, troppo doloroso” ribatté l’altro “Soprattutto per te. Più un vampiro è giovane più tempo impiega prima di bruciare completamente. Ci metteresti tantissimo tempo”.
“Non importa!” sbottò la ragazza, euforica. La testa vuota, si sentiva proprio come impazzire… “L’importante è morire alla fine”.
Marco scosse la testa. “Non ti lascerò morire”.
Acilia lo guardò con odio. Non aveva desiderato lui stesso morire? “Perché?”.
“Perché so come ti senti e voglio aiutarti, non avrei mai voluto trasformare nessuno in quello che sono io ma mi ci sono trovato costretto. E ora ho qualcuno da allevare, qualcuno che cresca secondo i miei principi e che li diffonda”.
“Ma che stai dicendo? Che principi?”.
“Te l’ho spiegato prima” rispose Marco, quasi infervorato, con una strana luce negli occhi “Nutrirsi senza uccidere. Ci sono troppi come noi che uccidono e fanno cose orribili, io vorrei che capissero che non è necessario comportarsi così… Potremmo vivere pacificamente con gli umani se…”.
“Tu sei pazzo” lo interruppe bruscamente Acilia. Non le importava nulla di quello che lui stava dicendo, lei voleva solo il sole, disperatamente il sole, che l’avrebbe riportata da Damiano. “Noi siamo morti e non dovremmo essere qui!”.
“Non è colpa nostra” sbottò l’altro “Non è mai colpa nostra!”.
Acilia non si chiese in quel momento cosa fosse successo al Marco umano, in quale circostanza fosse stato trasformato. Ci pensò in seguito, quando ormai non avrebbe più potuto chiederglielo.
Dopotutto lei voleva solo morire.
“Non mi puoi impedire di starmene qui ad aspettare il sole!” gridò.
“Sì che posso” fece Marco con un sorriso “Perché io sono il tuo creatore. E tu mi appartieni”.
Acilia indietreggiò, spaventata. Voleva fuggire, andarsene da quel pazzo che l’aveva trasformata, voleva correre finché non fosse sorto il sole, e allora sarebbe successo quello che doveva succedere.
 
Ora però avrebbe tanto voluto poterlo rivedere, Marco…









Ci ho messo un po' ma eccomi qui XD

RedTears! Grazie per le tre recensioni! Dunque, il nome Acilia l'ho trovato in una versione di latino mentre tutti gli altri prenomi nomi e cognomi li ho creati grazie a Wikipedia (tranne per Marcus e Lucius perché non ne avevo più voglia ._.) Ehm beh ecco riguardo alla tua riflessione dell'ultima recensione "Chissà se Acilia rivedrà mai Manlio.." sì, l'ha rivisto come vedi XD  L'articolo "Ho cavalcato Nessy!" è fantastico! Sì beh, Jacque dubitava proprio che lei fosse una giornalista.. XD

Bene, aspetto recensioni da quelle poche che avevano cominciato a seguirmi e, perché no, anche da nuove persone ^^ E se sbaglio qualcosa a livello storico non esitate a dirmelo, io tendo a documentarmi il più possibile prima di scrivere ma non si sa mai XD
Alla prossima :) 

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Capitolo 5
*** Ideali di fantasma ***


Capitolo 4
CAPITOLO IV
IDEALI DI FANTASMA
 
 
 

Berlino, 1932

 
“Hindenburg… lo dicevo io, che non doveva nominare cancelliere quello là!”.
“L’ha rovinata, ce l’ha rovinata la Germania”.
“Come se non fosse rovinata già da tempo…”.
Fin da quando era nato Eike non aveva mai sentito parlare bene della Germania. Non capiva perché, a lui piaceva molto. Gli piacevano le strade affollate, gli edifici altissimi, andare con la mamma per le botteghe, giocare con gli amici nel parco dopo la scuola.
Ma gli avevano spiegato che lui era nato dopo la guerra, e dopo la guerra nessun posto è bello.
“Dovrebbe dare ascolto ad Hitler” stava dicendo il padre, il signor Lehmann, portandosi alla bocca il bicchiere pieno di vino.
Quella sera a cena c’era suo fratello – lo zio di Eike – con cui parlava animatamente. La mamma si intrometteva timidamente qualche volta, come se si sentisse in dovere di farlo.
“Vuole ancora della carne, signorino Eike?”.
“Sì, Hilka, grazie!” farfugliò il ragazzino a bocca piena.
La cameriera gli servì con un sorriso una seconda porzione di carne nel piatto, per poi passare allo zio Serge.
“Diventerai un grassone”.
Eike alzò lo sguardo e vide sua sorella Imma con un sorrisetto provocatorio. Si sentì arrossire mentre il suo sguardo cadeva sul braccio paffutello.
La ragazzina gli si avvicinò e disse a bassa voce: “Saresti proprio un buon spuntino per un vampiro”.
Tutto il corpo di Eike tremò e lui si sentì le lacrime agli occhi.
Spavalda e crudele, Imma prese ad attorcigliarsi una ciocca di capelli biondi intorno al dito ed Eike non toccò più cibo. Guardava il bicchiere di suo padre, pieno di vino rosso. Pensò ai suoi denti colorati dal vino, rossi, come se avessero appena succhiato del sangue.
“Sei un fifone!” sibilò la sorella.
“Piantala” fece lui.
“Fifone fifone fifone fifone…”.
“Piantala!” gridò Eike.
La signora Lehmann fece scattare il suo sguardo verso di loro, mentre i due uomini interruppero la conversazione. “Cos’è questo trambusto?” sbottò, guardando feroce Eike “Non si urla a tavola!”.
“È lei che mi parla dei vampiri!” esplose lui. Si sentiva rosso paonazzo, col cuore in gola.
Lo zio Serge scoppiò a ridere. “I comunisti, parla dei comunisti…”.
“I vampiri non esistono, Eike” fece la mamma, esasperata.
“Ma lui ha paura anche del buio” dichiarò Imma, gongolante “Tiene pure una catenella d’argento sul comodino per…”.
“Zitta, sta zitta!” urlò Eike “O dico a tutti quello che ti ho visto fare!”.
Imma tacque, con uno sguardo velenosissimo ed Eike andò avanti, con la voce sempre più alta: “L’ho vista che si baciava con Gunth…”.
“Non è vero! Non è vero!” strillò Imma.
“Adesso basta!” proruppe il signor Lehmann alzandosi da tavola mentre la moglie era rimasta a bocca aperta. Imma aveva uno sguardo fiero tradito mentre il padre si avvicinava pronto a schiaffeggiarla, ed Eike si sentì mortalmente in colpa mentre il viso della sorella, contratto dallo sforzo per non piangere, veniva colpito più volte.
“Ora andate a letto, tutti e due” disse il padre, autoritario “E non voglio sentire una sola parola provenire dalle vostre camere!”.
“Sì, papà” dissero entrambi a testa china.
Poi si alzarono lentamente e presero a salire le scale, senza dirsi niente.
 
*
 
 
Jacque navigava ormai veloce tra le pagine di Internet Explorer. Quel computer gli era stato generosamente regalato da un commerciante incantato.
Sospirò. Aveva trovato ben poco di interessante. Emily Dixon compariva nella pagina ufficiale del giornale, Il capriccio, per cui scriveva e in poche altre pagine, dove il giornale veniva malamente insultato. Nulla che lo aiutasse a capire dove trovarla.
Forse l’unica soluzione era andare proprio sul posto di lavoro e cercarla.
Il sole era appena calato, Il capriccio doveva essere ancora aperto, anche se, dato il nome assurdo del giornale e la scarsa considerazione che avevano i lettori di esso, Jacque non era del tutto sicuro che là dentro avessero molto da fare.
Con un click tornò alla pagina ufficiale e una schermata gialla piena di scritte di tutti i colori lo accolse. Non aveva ben capito che genere di articoli trattasse Il capriccio ma sicuramente non dovevano essere cose troppo serie. Cercò con lo sguardo l’indirizzo della sede e una volta letto lo ripeté un paio di volte per memorizzarlo. Se aveva ben presente la via, doveva essere appena fuori Horfield. Con uno scatto si alzò dalla sedia e fece per andarsene quando trovò Eike sulla sua strada.
“Quando sei arrivato?” esclamò.
“È vero che dovrai trasformare un’umana?” fece l’altro.
“Non è detto” rispose Jacque.
“Cos’hai intenzione di fare?”.
“Non ti riguarda” disse risoluto Jacque. Eike era debole, avrebbe detto ogni cosa ad Acilia.
“Stai andando da lei?”.
“Eike, piantala”.
“È bella?”.
“Ma che razza di domanda è?”.
Eike aveva una strana espressione in volto. Scrollò le spalle. “Se è bella potresti trasformarla. Ce la spasseremmo”.
Jacque scosse la testa. “Non ho intenzione di uccidere per spassarmela”.
“Oh andiamo Jacque” disse il ragazzino “da quant’è che non lo fai?”.
“Che non faccio che cosa?”.
“Hai capito”.
Jacque era allibito. Non poteva essere davvero lì, sul punto di andare a salvare una persona, bloccato a parlare di esperienze sessuali con un ragazzino che dimostrava dodici anni.
“Non ho tempo per queste stronzate, Eike”.
“Pensaci” insistette Eike “questa è un’occasione per avere una donna in casa, potrebbe non ricapitare mai più”.
Jacque aveva una dannata voglia di schiantarlo per terra. “Abbiamo già Acilia in casa” disse con odio “Sfoga la tua libido repressa con lei, non si farebbe problemi”.
L’altro fece una smorfia. “Tu mi uccideresti”.
“Ti uccido ora, seduta stante, se non ti levi immediatamente”.
Eike non mosse un solo muscolo. “E se la trasformassi io questa Emily?”.
“Non mi sembri maturo abbastanza per diventare creatore”.
“E se la trovassi prima io di te?”.
Jacque alzò un sopracciglio. Eike era strano e lui non sapeva gestirlo. Forse Acilia aveva ragione quando diceva che lui non era un buon creatore.
Eike lo stava guardando intensamente, anzi, sembrava fissare un punto proprio dietro di lui. Poi uscì di corsa dalla stanza, senza più dire una parola.
Jacque si voltò e vide il computer ancora acceso, con la pagina ufficiale de Il capriccio ancora aperta.
Imprecando partì all’inseguimento di Eike, sulle tracce di Emily Dixon.
 
*
 
 
“Lui si sentì impietrire mentre quello si avvicinava, con sguardo famelico… In un attimo capì che doveva correre, correre subito, il più veloce possibile”.
Eike deglutì mentre la voce di Imma andava avanti, alla luce sommessa di una candela.
“Corse. Ma in un attimo lui gli fu addosso, e allora sentì due cose entrargli nella pelle del collo come due chiodi, il sangue usciva e veniva trascinato via e…”.
“Basta” pigolò Eike, risentito.
“Basta? Non vuoi sentire il finale?”.
Il ragazzino scosse la testa. “È tardi, se mamma scopre che sei ancora in camera mia s’arrabbia”.
Imma sbuffò. “Non come quella volta che le hai detto che ho baciato un ragazzo”.
Eike abbassò il viso, contrito. “Beh, aveva ragione, sono cose che non si fanno” disse, a mo’ di scusante.
La sorella lo guardò tagliente. “E perché sono cose che non si fanno?”.
Lui ci pensò un po’ su. “Non lo so” ammise infine.
“Sei solo un burattino in mano alla società” sibilò l’altra, velenosa “Diventerai come papà”.
Eike non capiva, ma il tono della sorella lo feriva. “Che c’è di male nell’essere come papà?”.
Papà aveva forse paura dei vampiri? Era questo che intendeva Imma?
Ma Imma inaspettatamente lo guardò con dolcezza per un attimo. Poi disse: “Riprendiamo la storia?”.
Perché mi fa questo?
Eike non si trattenne più. “Perché mi racconti queste storie?”.
La ragazzina si alterò. “Perché voglio farti crescere! Come farai ad affrontare la guerra se hai paura di cose che non esistono?!”.
L’altro boccheggiò per un attimo. Ci mise un po’ a intendere quelle parole. “Allora lo ammetti che non esistono” disse.
Imma si alzò dal letto con aria imbronciata. “Sei uno stupido, certo che non esistono!”.
Eike, leso nell’orgoglio, sbottò: “E poi di che guerra parli? Non ci sarà nessuna guerra!”.
La sorella strinse gli occhi fino a farli diventare due fessure. “Tu dici?”.
Il ragazzino si sentì quasi stringere il cuore, insieme a quegli occhi. Sentiva il vento ululare e sbattere contro le finestre con violenza. Sentiva quasi gli spari. Lui era nato dopo la guerra, mica avrebbe dovuto essercene un’altra no?
“Buonanotte” disse Imma. Soffiò sulla candela accesa, quella si spense ed Eike al buio sentì i suoi passi allontanarsi e la porta che veniva chiusa.
Rimase solo, nell’oscurità, sotto il suo lenzuolo a sentire il vento bussare alla sua finestra. Il cuore gli batteva forte, i vampiri potevano volare nel vento.
I vampiri non esistono, non esistono…
Le orecchie gli si riempirono di urla di combattimento, grida di dolore, nelle palpebre chiuse vedeva soldati cadere rovinosamente, l’uno sopra l’altro.
Entrargli nella pelle del collo come due chiodi…
Si portò una mano al collo. Smettila, si disse severo, smettila di avere paura…
Si girò su un lato, stringendo a sé il lenzuolo. Tutto il sangue si mescolava, la gente andava in guerra e moriva, i vampiri svuotavano tutti del proprio sangue, non stavano dalla parte di nessuno, non avevano nazionalità, loro mangiavano, mangiavano…
 
*
 
 
Jacque era arrivato davanti alla porta della sede del giornale, ed aveva perso di vista Eike. Non aveva per niente l’aspetto di una sede di una rivista. Sembrava un palazzo privato, con un solo campanello. Poco convinto di quello che stava per fare, Jacque lo premette.
Gli arrivò in risposta una voce femminile e istintivamente pensò fosse quella della Dixon. Ma bastò una parola per fargli capire che non era lei. “Sì, chi è?”.
Jacque si schiarì la voce. “Devo vedere una persona… Emily Dixon”.
“Ma chi è lei?”.
“Un… un amico”.
La voce si alterò. “Senta, qui si sta lavorando, l’aspetti fuori la sua amica”.
Jacque non ci aveva pensato. “E tra quanto sm…”.
“Arrivederla”.
Il ragazzo sbuffò. Cordiale, non c’è che dire.
Sentiva degli schiamazzi e delle risate provenire dalla finestra del primo piano. Sì, beh, si stava lavorando.
Si sedette su un muretto di cemento, in attesa.
Ed Eike? Dov’era finito? Che l’avessero fatto entrare?
Il pensiero lo tormentò così tanto che dovette alzarsi in piedi, e tenere le orecchie ben tese per sentire qualunque suono o movimento strano.
Sospirò. Con Eike non aveva fatto un buon lavoro. Se fosse stato un creatore degno di questo nome, sarebbe riuscito a costringerlo a stare a casa. Forse dipendeva dal fatto che era diventato creatore molto presto, o forse perché non aveva nessunissima voglia di farlo, il creatore. Dopo tutti quegli anni, lui ancora si sentiva ipnotizzato dallo sguardo di Acilia, come fosse un umano pronto a donare il suo sangue, e dubitava fortemente che Eike provasse la stessa sensazione con lui. Forse adesso era abbastanza maturo, e poi Emily era una ragazza. Forse davvero sarebbe riuscito a fare a lei quello che a lui aveva fatto e continuava a fare Acilia.
Se è bella potresti trasformarla. Ce la spasseremmo.
Emily non lo aveva colpito particolarmente per la bellezza. Era una ragazza come tante.
Oh andiamo, Jacque, da quant’è che non lo fai?
Sentì quasi i denti premere per uscire allo scoperto. Quella Emily sarebbe stata sua…
Poteva andare a casa, aspettare che la corporazione gli portasse la ragazza.
Ma che stai dicendo?
Lui era lì per salvarla, non per dannarla…
La porta si aprì e uscì un gruppetto di persone che passò oltre tra il chiacchiericcio senza guardarlo.
Jacque si fece coraggio e si accostò a loro. “Scusatemi” disse.
Loro – erano due donne e un uomo – si fermarono per scrutarlo e lui chiese: “Emily Dixon sta uscendo?”.
I tre fecero una faccia strana, l’uomo scoppiò addirittura a ridere.
“Sì, sta arrivando” gli rispose una delle donne.
“Sei uno dei suoi amici vampiri?” fece l’uomo, ilare, mentre l’altra ragazza gli dava una gomitata.
Jacque strabuzzò gli occhi. “No” disse, stupidamente.
L’altro smise di ridere, pensando evidentemente di non essere stato divertente. Tutti e tre si congedarono e lui rimase di nuovo solo davanti alla porta.
Sei uno dei suoi amici vampiri.
E se quando lei l’avrebbe visto si fosse messa ad urlare? E se tutti gli altri che erano con lei avessero capito cos’era lui?
La paura cominciò a dominarlo. Cos’avrebbe detto Acilia se lui si fosse fatto catturare in quel modo? Consegnandosi all’unica umana che sapeva la sua vera natura?
La porta si aprì di nuovo e uscì un altro gruppetto di persone. Erano tutte ragazze e Jacque le scrutò una ad una. Ma se lo ricordava bene com’era fatta Emily Dixon? Non era tanto alta, era magra… I capelli, come ce li aveva i capelli? Castani forse, o biondi? Gli occhi invece Jacque li ricordava bene. Li ricordava bene perché avevano lo stesso taglio severo di Acilia. Ma erano più scuri, caldi e vitali, marroni come quelli che lui stesso un tempo aveva. Jacque non capiva, quelle ragazze erano tutte uguali, tutte alte, con pelle e capelli chiari, lui le scrutava e loro affrettarono il passo, avvertendo il suo sguardo. Ma ce n’era una che stava in disparte, a sguardo chino, che non si era accorta di lui. Era un po’ più bassa delle altre ragazze, gli occhiali che si intravedevano sotto una graziosa frangetta. È lei.
Aspettò che le altre ragazze fossero ancora più lontane da lei e allora lui le si affiancò. “Emily?” sussurrò.
Quella sussultò e alzò lo sguardo. Sì, non c’era dubbio, quelli erano i suoi occhi.
“Non voglio farti del male” disse subito lui, mentre lei spalancava la bocca indietreggiando.
“Non voglio farti del male, ti prego ascoltami!” insistette ancora Jacque ma lei si era voltata subito, con l’evidente paura di essere incantata ed essere portata via.
E lo sguardo di lei, voltatosi, incrociò quello di qualcun altro che era proprio dietro di lei, davanti a Jacque,  e Jacque lo odiò, lo odiò profondamente.
“Emily” disse Eike, con un sorriso amabile da bambino.
Lei era perplessa ma andò da lui, e Jacque capì che l’altro vampiro doveva averla incantata.
“Eike, smettila” ringhiò il ragazzo.
Eike prese la mano di Emily e cominciò a condurla via. “Vieni via, andiamo in un posto più sicuro”.
“Ti ordino di smetterla!” tentò di nuovo l’altro.
Il ragazzino gli aveva dato le spalle, mano nella mano con l’umana.
Perché non riesci a importi?!
Jacque lo raggiunse e lo strattonò. “Guardami in faccia!”.
“Ma che succede? Emily?”.
Tutti e tre si voltarono e Jacque si sentì sprofondare in un mare di guai. Altre persone erano uscite dall’edificio, tra le quali un uomo calvo, con gli occhiali, dallo sguardo inquisitorio.
“Emily? Va tutto bene?” disse, guardando sospettoso Jacque.
Mantieni l’incanto, Eike, ti prego…
“Io sono il cugino di Emily” disse Eike con un gran sorriso, mentre Emily annuiva docilmente.
“Questo ragazzo le sta dando fastidio” continuò lui, alzando la voce delicata proprio come un bambino.
L’uomo assunse un’espressione accigliata mentre Emily diceva: “Sì… Io ho paura di lui…”.
Jacque capì che non poteva fare più niente, alzò le mani in segno di resa e disse: “Non avevo alcuna cattiva intenzione”. Poi se ne andò, sperando con tutto se stesso che nessuno gli facesse storie o che Emily, nel delirio, aggiungesse che lui era un vampiro.
Uscì dal vicolo che conduceva al giornale e si nascose dietro a delle automobili, senza sapere cosa fare. Eike non era un vampiro cattivo, bastava solo farlo ragionare.
Perché non riesci a importi?!
Non avrebbe sopportato di dover creare un altro vampiro ma avrebbe sopportato ancor meno di vedere un vampiro creato da Eike. Vedere una donna vampiro alle totali dipendenze di Eike. Forse perché, ed era triste pensarlo, avrebbe provato invidia.
Vide Eike ed Emily passare e, tenendosi a debita distanza, prese a seguirli pregando che la sua progenie non facesse scherzi.
Entrarono dentro un parco, scuro e pieno di alberi, dove non andava mai nessuno, per la paura di incontrare un vampiro affamato.
Eike ha veramente intenzione di…
Jacque si nascose dietro ad un albero, aspettando il momento giusto per intervenire. Non voleva credere che Eike gli disobbedisse così deliberatamente, non voleva credere che lui, che non era mai potuto diventare uomo, volesse davvero trasformare un’altra persona in un mostro.
Ma Eike stava guardando Emily, l’aveva fatta chinare verso di lui, così basso.
Fece uscire i denti e Jacque, uscito in un lampo dal suo nascondiglio, gli fu addosso e lo scaraventò a terra.
L’incanto si ruppe ed Emily urlò.
Lui si voltò verso di lei e lei urlò ancora più forte, indietreggiando tremante e cadendo, inciampata nei propri piedi. Si rese conto di avere i canini fuori dalle gengive, li ritirò subito e diede una mano alla ragazza per aiutarla ad alzarsi. Per tutta risposta, quella urlò ancora, cercando frettolosamente di alzarsi.
“Aspetta, ti prego! Non voglio farti del male!” esclamò Jacque, disperato.
Eike, che si era rialzato da terra noncurante, proruppe in una risata. “Sei patetico, davvero cerchi di stringere amicizia con un’umana?”.
Sia Jacque sia Emily lo guardarono. Eike aveva ancora le zanne bene in vista e la ragazza si mise a piangere, sentendosi braccata.
“Dove mi avete portata…” biascicò “Dove…”. Folle di paura, si alzò e si mise a correre senza guardarsi indietro. Ma trovò ben presto la strada parata da Eike, che l’aveva superata.
“Vedi” stava dicendo tranquillamente, mentre Emily urlava di nuovo e tra le lacrime chiedeva di essere lasciata in pace “È inutile cercare di farsi ascoltare da loro, non sanno fare altro che urlare e piangere quando ce li hai davanti”.
“Vaffanculo!” urlò Emily, rossa come il sangue “Cosa volete da me?!”.
“Siamo i progressisti noi, tesoro” disse Eike, docilmente “Siamo quelli buoni noi, entro certi limiti però”.
Con uno scatto le aveva preso la testa con la mano e gliela premeva giù, giù, cosicché i suoi denti sarebbero riusciti ad arrivare…
“EIKE, FINISCILA!” sbraitò Jacque.
Eike mollò la presa e guardò negli occhi il suo creatore. Quello si sentiva euforico, finalmente aveva catturato l’attenzione della sua progenie e non se la sarebbe fatta sfuggire. Ogni goccia di sangue dentro di lui ribolliva, e, ne era sicuro, lo avvertiva anche Eike.
“Non avevi anche tu una folle paura dei vampiri?” fece. Si sentiva la voce grossa, alterata. Probabilmente i suoi occhi erano rossi.
Eike non rispose e lui andò avanti: “Ti ha fatto piacere essere trasformato in quello che sei?!”.
“Ma senti chi lo dice…”.
Jacque lo ignorò. “Perché vorresti dannarla? Che cosa ha fatto per meritarselo?!”.
“E noi?!” reagì Eike, violentemente “Che cos’abbiamo fatto noi per meritarcelo?!”.
“Questo non c’entra niente! Non puoi sfogare la tua frustrazione castigando gli altri per vederli soffrire come te!”.
Eike socchiuse gli occhi, come per invocare la calma. Poi, a denti stretti, disse: “Nessuno soffrirà mai come me”.
Jacque tacque. Non sapeva cosa dire, non aveva mai saputo cosa dire a un vampiro bloccato all’età di dodici anni. Sentì un fruscio di foglie, dei rami che si spezzavano, dei passi affannati.
Emily stava scappando e lui non poteva permetterlo.
Eike gli stava lanciando un’occhiata di sfida ma lui lo ammonì con lo sguardo e si precipitò nella direzione da cui provenivano il rumore e il profumo dell’umana. Dopo poco la vide e in un lampo le fu davanti.
Emily si bloccò, ancora una volta, e si lasciò scappare l’ennesimo grido.
Jacque, infuriato con lei, con Eike, con tutto quello che stava capitando e per come stavano andando le cose, le prese il mento tra le dita e glielo strinse. “Smettila di cercare di scappare, non puoi sfuggire ad un vampiro” ringhiò, più cattivo di quello che avrebbe voluto essere.
Emily aveva gli occhi lucidi e le lacrime che le rigavano il viso, ma quella volta non gridò.
“Avevi detto di non volermi fare del male” disse, con voce spezzata.
Jacque la lasciò andare. “Ah, allora l’hai sentito” sbottò.
Sentì dei passi che si avvicinavano: era Eike. Aveva ritirato i denti e guardava la scena con interesse.
“Sei stata una cretina” proseguì Jacque.
Emily non diede segno di essere ferita.
“Hai scritto un articolo sui vampiri e hai attirato l’attenzione su di te” continuò l’altro.
“Allora mi vuoi far del male”.
Jacque si sentì crescere i denti per la rabbia. Non lo sapeva neanche lui cosa voleva fare.
Emily tremava vistosamente, ma il volto, graffiato dalle lacrime, lo teneva alto.
“Sono venuto per metterti in guardia: sia cacciatori sia vampiri ti daranno la caccia” disse il ragazzo.
“Cosa…”.
Jacque non la lasciò finire. “Io proteggo te, e tu proteggi me. Tu non ci denunci e io non ti mangio… D’accordo?”.
Gli occhi della ragazza caddero sulle zanne. Le lacrime continuavano ad uscire imperterrite.
“Se mi tiri uno scherzo” continuò lui, crudele “giuro che ti ucciderò”.
Eike si avvicinò pensieroso. “Se però ti denuncia e ti uccidono dubito che tu possa…”.
Jacque gli diede uno scappellotto, mentre continuava a guardare intimidatorio l’umana. Incutere terrore era sempre il mezzo più efficace per ottenere quello che si voleva dagli umani.
Emily fece passare il suo sguardo dall’uno all’altro più volte, poi emise una risatina, sotto lo sguardo incredulo del vampiro.
“Fate un po’ ridere, voi due” si giustificò la ragazza, ricomposta.
“Guarda che non scherzo” fece Jacque “sei in un grave pericolo, devi nasconderti!”.
“Dove… dove… dove mi posso nascondere!” sbottò l’altra, stralunata.
“In effetti il tuo è un piano che fa un po’ cilecca, Jacque” intervenne Eike.
“L’unica cosa a cui possono risalire è l’indirizzo del giornale a cui lavori” fece l’altro, con la mente che lavorava febbrile “Devi startene rintanata in casa”.
“Non posso stare per sempre in casa! Ho un lavoro!” esclamò Emily. Stava di nuovo per scoppiare a piangere.
“Prenditi un po’ di ferie… Non sarà per sempre, devo avere il tempo di convincerli”.
“Convincere chi? Chi è che mi cerca?”.
Jacque sospirò. Non sarebbe stato facile, eppure ci doveva essere un modo… Era successo che vampiri e umani fossero legati da amicizia, forse però prima che nascessero la Rappresentanza, la corporazione e tutte quelle altre cose…
“Troverò un modo, te lo prometto” disse, guardando Emily negli occhi. I denti si erano ritirati, non li sentiva più toccare la lingua mentre parlava. E la ragazza lo stava guardando così confusa…
“Perché fai questo? Perché mi vuoi aiutare?”.
I suoi occhi spaventati cercavano delle risposte. Sentiva su di sé gli occhi di Eike che gli rivolgevano la stessa domanda, perché, perché la vuoi aiutare? Ricordava le parole di Acilia: Perché ci tieni tanto alla vita di quella ragazza?
Lui aveva risposto che ci teneva alla vita, alla vita e basta.
“Perché è colpa mia” disse “È solo colpa nostra, del fatto che facciamo così… paura…”.
Emily annuì e prese ad allontanarsi. “Io… adesso vado a casa”.
“Corri” fece Jacque “corri e non guardare in faccia nessuno”.
“L’hai detto tu” disse lei, con la voce incrinata “Tu hai detto che non si può sfuggire ad un vampiro…”.
“Corri!”.
Emily esitò un momento, poi si voltò e corse all’impazzata. Chissà, magari aveva ancora paura di lui, paura che le si parasse davanti con quei denti famelici.
Volse lo sguardo su Eike. “Non una parola con Acilia, chiaro?”.
Quello scrollò le spalle. “Sei tu il creatore”.
Forse avrebbe dovuto sgridarlo, gridargli contro “Te ne rendi conto adesso che sono io il creatore?!”, ma non ne aveva la forza, non l’aveva mai avuta. Era per quello che era un creatore mediocre, ma non ce la faceva. Eike aveva lo sguardo di un bambino che non poteva più sognare, e Jacque si sentiva sempre più impotente.
Lasciagli la morte, non dargli un’esistenza a metà, meglio la morte, la morte!
Acilia aveva ragione, aveva sempre ragione.
Ma Eike non mostrava mai collera per quello che Jacque gli aveva fatto. Jacque invece aveva odiato Acilia, oh se l’aveva odiata. L’aveva anche amata, oh se l’aveva amata.
Nell’aria c’era ancora l’odore di Emily, era un odore buono, che pizzicava le narici e provocava un’insaziabile fame.
“Andiamo a mangiare?” fece.
Ancora Eike scrollò le spalle. “Potevamo un po’ bercela la Dixon già che c’eravamo, solo un pochino”.
Jacque sorrise, suo malgrado, e insieme si misero a correre, nell’ombra e nel buio, in cerca di prede.
 
*
 
 
Stava camminando in una stradina buia. Era stato a scuola, sì, se lo ricordava. Ma si era perso, non trovava più la strada di casa. Non vedeva l’ora di mangiare un po’ di stufato, faceva freddo in quel periodo di inverno. In realtà non sentiva freddo, non sentiva neanche il rumore dei propri piedi che calpestavano il cemento. C’erano dei muri intorno a lui, e delle ombre erano intagliate su di esso.
Eike affrettò il passo, sentendo il cuore che galoppava furioso. Dov’era la sua casa, dov’era?
Ma una di quelle ombre che aveva intorno prese improvvisamente vita, sembrava fosse uscita dal muro.
Eike trattenne il fiato. Voleva urlare, ma non ci riusciva.
Quell’ombra divenne un uomo, un uomo magro, molto magro, chiaro di pelle e con capelli e sguardo scuri. Aveva la divisa da militare.
Il ragazzino aprì la bocca per emettere un qualche suono ma non ci riusciva. Non riusciva neanche a mettere bene a fuoco la faccia del soldato, vedeva solo i suoi denti, lunghi e affilati, grondanti di sangue.
Saresti proprio un buono spuntino per un vampiro.
Quel vampiro era magrissimo, aveva fame, aveva fame!
Eike voleva fuggire ma non si sentiva le gambe. Aprì la bocca con decisione. L’apriva e la richiudeva, credendo di urlare, sentendo un suono strano e frastagliato nelle sue stesse orecchie. Allora stava urlando, ma se quella era la sua voce, perché era così roca e discontinua?
Il vampiro gli si avvicinava, lento, lentissimo e lui era paralizzato, la mente annebbiata da un terrore cieco.
Fu quello che lo svegliò. La paura gli fece spalancare occhi e bocca, e urlò. La voce da irregolare e sporadica qual era divenne un lungo e acutissimo strillo.
Poi si rese conto di essere sopra un materasso morbido, circondato da lenzuola calde.
Era solo un sogno…
La porta della camera si aprì di scatto ed entrò una fioca luce di candela. Eike trasalì per un attimo ma subito si rese conto che era sua madre.
“Cos’è successo?” la sentì dire, illuminata pallidamente.
Eike strinse i denti. Non sapeva cosa inventarsi. “Niente, mamma, era un incubo…”.
“Oh, Eike, quando impererai ad essere uomo?”.
Il ragazzino si sentì mortificato. Aveva paura di un maledettissimo vampiro nella sua testa, lo sarebbe mai diventato uomo?
La signora Lehmann lo coprì dolcemente col lenzuolo con la mano destra, mentre con la sinistra reggeva la candela. “Hai sognato i vampiri?” disse poi, con una tona di disappunto nella voce.
Ancora Eike si sentì sprofondare. Poteva dire di aver sognato qualsiasi altra cosa, ma disse solo “sì”.
Sarebbe stato punito, lo sapeva, la mamma non ne poteva più di sentire parlare di vampiri.
Ma con sua grande sorpresa la sentì sospirare e poi chiamare Imma a gran voce.
“Imma! Imma!”.
“Mamma, starà dormendo…” provò Eike, titubante.
“IMMA!”.
Il ragazzino tacque immediatamente, spaventato. E la sorella apparve trafelata sulla soglia della camera, intimorita quasi quanto lui. “Cosa c’è?”.
“La devi smettere! Sei tu che racconti sempre strampalate storie su questi vampiri a tuo fratello, non è vero?!” sbottò la madre.
Imma guardò per un attimo in cagnesco Eike, poi abbassò lo sguardo. “Non sapevo che gli facevano così paura” disse con voce tremante.
Era la prima volta che Eike vedeva la sorella in atteggiamento così umile. Forse aveva paura di venire picchiata un’altra volta.
“Non so più cosa fare con te!” stava continuando la signora Lehmann.
Eike aveva paura, paura per Imma.
Fa che papà non si svegli, fa che papà non si svegli…
Ma non successe niente. La mamma disse ad Imma di uscire e lei la seguì, dando prima un bacio ad Eike, che si sentiva un verme, sempre spaventato, lì al sicuro tra le lenzuola, e sempre pronto a far punire sua sorella. Tentò in tutti i modi di addormentarsi, ma non ci riusciva. Si girò e rigirò più volte, sognava Imma che veniva picchiata, i vampiri soldati che lo aggredivano, la mamma che si vergognava di lui.
Poi sognò Imma divenuta vampiro e la mattina dopo la odiò, la odiò tantissimo.
 
*
 
 
Dubris era sulla soglia di casa e Acilia lo fece entrare con una smorfia.
“Non posso offrirti da bere, mi dispiace”.
Il vampiro scrollò le spalle. “Dubito che tu tenga scorte di sangue umano dentro al frigo”. Poi le si avvicinò e le sussurrò a un orecchio: “Anche perché se tu le avessi, dovrei arrestarti”.
Acilia si allontanò delicatamente. “Hai detto che avevi delle questioni di cui parlarmi”. Chiuse la porta di casa e, nello stretto corridoio, si voltò a guardare Dubris. Lo vide sospirare. Le bastò quel sospiro per capire.
“Dubris, no, non entrerò in politica, smettila di chiedermelo” disse, sforzandosi di usare un tono il più educato possibili. Erano amici, ma lui era pur sempre il prefetto dell’Inghilterra, nominato direttamente dalla Rappresentanza Vampiresca.
Dubris non disse niente. Si sedette al tavolo di quella stanza inutilizzabile che doveva essere la cucina. Acilia rimase in piedi, in attesa che lui parlasse, perché prima o poi avrebbe dovuto pur parlare.
“Sempre più vampiri della Rappresentanza stanno passando all’ala massimalista” disse infatti dopo un po’.
“Mi pare che il presidente appartenga al PPC” replicò Acilia, con noncuranza “altrimenti tu non saresti più prefetto”.
“Non sei divertente” sbottò Dubris, socchiudendo gli occhi, come se fosse stanco.
Acilia non voleva essere divertente, ma capiva anche il punto di vista del suo prefetto. Temeva una sommossa all’interno della Rappresentanza, e sapeva bene anche da parte di chi la temeva.
“Sai chi è il nuovo segretario del PO?” chiese Dubris.
Eccolo, il PO. Il PPC (Partito Per la Convivenza) e il PO (Partito Oscuro) erano gli unici due partiti all’interno della Rappresentanza con un minimo di credibilità. Avevano ideali completamente opposti, erano nemici giurati.
“Sì, l’ho sentito dire. Si chiama Kaeso” rispose lei. Dopotutto era anche per quello che non voleva entrare in politica.
Dubris annuì. “È molto sveglio” fece “e molto spietato”.
Acilia assentì.
La Rappresentanza non esisteva da molto, quasi da due secoli e mezzo. Prima che venisse creata esisteva il caos. C’erano ideali, c’erano follie, credenze, ma nessuna certezza, nessuna regola, legge e tutti i vampiri vivevano allo sbando. Acilia ricordava bene quel periodo. Poi i vampiri avevano cominciato a creare gruppi, a combattersi l’uno contro l’altro.
Il presidente stava in carica un secolo, quello era il loro terzo presidente. Il primo era stato un inetto, formalmente apparteneva al PPC ma sembrava non sapere bene da che parte stare. Il secondo apparteneva al PO (che un tempo era quel gruppo che si faceva chiamare VV, veri vampiri). Era stato un periodo di morte e sangue. Ma era stato anche un secolo pregno di guerre e gli umani non avevano certo paura dei vampiri. Finita la seconda guerra mondiale però, tutto quel seminare il panico fece svegliare gli umani dalla loro patetica ingenuità. E si accorsero che i vampiri esistevano, e che erano cattivi.
Il presidente entrato in carica nel 1984, Lyuben Vladimir, aveva tremila anni, apparteneva al PPC da sempre ed era un vero signor vampiro. Ma il disastro fatto dal presidente precedente era irreparabile.  
“Cosa vuoi da me, Dubris?” domandò Acilia, dato che l’altro non parlava più.
“Tu saresti preziosa per il partito” fece lui, in fretta, come se si fosse preparato il discorso “Sei intelligente e poi tutto questo è cominciato con te, te lo sei dimenticata?”.
No, non se l’era dimenticata. Era assurdo che lei non volesse entrare nel PPC quando l’avrebbero accolta a braccia aperte, perché era stata lei, lei, a fondare quel gruppo pacifista che credeva nella coesistenza di vampiri e umani. Solo che, se n’era andata.
“Ti contraddici” stava continuando Dubris “Sembrava te ne fregasse qualcosa qualche secolo fa”.
“Me ne frega ancora” ribatté Acilia.
“Sei stata tu a insegnare a centinaia di vampiri come trattenersi dal prosciugare intere vite umane!” proseguì l’altro, alzando la voce, senza ascoltarla “Perché ora te ne stai rintanata in questa casa?!”. Si era addirittura alzato in piedi.
Acilia non lo sapeva bene. “Voglio una vita tranquilla” disse, semplicemente. Forse non voleva immischiarsi, non voleva avere grane. I vampiri politici rischiavano la vita tutti i giorni, qualche pazzo estremista del PO ogni tanto faceva fuori qualcuno del PPC, e poi c’erano Jacque, Eike… Non poteva mettere a repentaglio la loro vita. Allora sì, era un’egoista. Ma dopotutto non era per se stessa che aveva cominciato quella battaglia.
“Ti facevo una combattente, Acilia” disse Dubris, a denti stretti “una che aveva un sogno”.
“Non servirebbe a niente entrare in politica” sbottò lei in un soffio “sarei solo un soldato in più. Quello che ci vuole qui è un’idea”.
“Ma di che parli?”.
“Il PPC cosa fa veramente?” esclamò Acilia, sentendo la voce che si alzava e i denti che premevano per uscire “Stanno tutti seduti su delle panche a parlare e parlare! Mentre là fuori c’è gente che muore continuamente!”.
Dubris fece per aprire bocca, ma la richiuse senza sapere che dire e la ragazza continuò, dicendo quello che pensava veramente: “La convivenza di cui tanto parla il PPC, e di cui parlavo tanto anch’io, è impossibile finché noi ci nutriamo degli umani! Bisognerebbe convincere gli umani a farsi succhiare un po’ il sangue, come fossimo zanzare, con la nostra parola d’onore che non li uccideremo! Ma poi quanti li ucciderebbero, e allora in quanti si fiderebbero di noi?!”.
Dubris abbassò lo sguardo.
Acilia andò avanti: “È Jacque che me lo ripete fin dall’inizio… Come facciamo a convivere con gli umani se loro sono il nostro cibo?”.
“Quindi l’idea di cui parlavi” disse Dubris, lentamente “sarebbe trovare un altro modo per nutrirsi”.
“Che non esiste” concluse l’altra, annuendo.
“Non è una novità la rassegnazione” fece l’altro, guardandola negli occhi “Dopotutto è la linea del PP, e anche quella del PS. Noi invece dobbiamo combattere”.
Acilia era stanca di combattere, ma aveva continuato a farlo, convinta che davvero ci fosse una soluzione, aveva combattuto tutto quel tempo, per Marco. Aveva diffuso il suo pensiero in ogni dove, aveva raccolto vampiri in ogni tempo sotto il suo ideale. Lui ne sarebbe stato felice.
Ma Marco viveva in un’epoca in cui la parola vampiro non esisteva neanche, e la coesistenza, restando ben nascosti, forse sarebbe stata davvero possibile. Ora invece gli umani erano pieni di odio, di paura e sapevano difendersi.
“È il tuo creatore che ti ha insegnato tutto non è vero?” domandò Dubris ad un tratto.
Acilia, colta alla sprovvista, annuì.
“E tu l’hai tramandato alla tua progenie, e ad altri chissà quanti vampiri, tra cui me” continuò lui, come se parlasse da solo.
Acilia esitò per un momento, poi annuì di nuovo.
“Beh” fece Dubris tristemente, con un mezzo sorriso “Comunque vadano le cose, il tuo nome sarà per sempre ricordato”.
 
 
 
Giorno 15
 
Mi ha trovata, lo sapevo che non potevo sperare di farla franca per sempre. Vampiro mi ha trovata. Quando l’ho visto è stato come ripercorrere uno dei miei tanti incubi. Lui ha la pelle così bianca, gli occhi così freddi, mi terrorizza. Con lui c’era quello che sembrava un bambino. Era un vampiro anche lui, non credevo che esistessero vampiri bambini. Com’è possibile essere così crudeli da trasformare un bambino in un vampiro?
Cerco di ricordarmi a mente fredda e lucida quello che Vampiro mi ha detto. Non voleva farmi del male, voleva mettermi in guardia. Dice che i vampiri sono sulle mie tracce. Ma perché, cosa ho fatto? Ha detto che sono stata una stupida, che è stata colpa dell’articolo. Vorrei poter tornare indietro nel tempo e rifare tutto da capo, vorrei non scrivere quello stupido articolo per cui i miei colleghi mi ritengono una pazza e per cui ora i vampiri mi vogliono morta. Mi sembra di impazzire. Domattina devo chiamare l’ufficio e dire che sto male. Ma per quanto tempo starò male? Vorrei tanto parlarne con qualcuno, ma ho solo questo pezzo di carta, non ho altro, non posso parlare, sarei ancora più in pericolo o metterei in pericolo qualcun altro… Sento il cuore che batte così forte, ha paura di fermarsi, ha paura di rimanere congelato in eterno in una morte eterna. C’è una persona con cui potrei effettivamente parlarne, per capire di più, ma questa persona è Vampiro. Mi ripeto che non devo avere paura di lui, che lui voleva aiutarmi… Ma sarà poi vero? Se non è vero però, perché mi ha lasciata andare per la seconda volta?
La verità è che, per quanta paura io abbia, lo vorrei tanto rivedere per chiedergli spiegazioni, per chiedergli cosa devo fare. Ha detto che avrebbe trovato un modo per risolvere la questione, me l’ha promesso. Ma perché devo credere alle promesse di un vampiro? Perché a Vampiro importa qualcosa di me? Le domande sono tante e mi affollano il cervello fino a offuscarmi la vista. Forse è meglio che io vada a dormire, anche se so già che non riuscirò. Chissà per quanti notti non dormirò, proprio come se fossi un vampiro.
 
*
 
 
Il sole era calato da circa una mezz’ora ed Eike stava tornando a casa, dopo essere stato al parco con alcuni amici.
Ormai per strada non girava tanta gente e il ragazzino si sentì spronato ad accelerare il passo. La gente stava in casa perché aveva paura, gli aveva detto Karline poco prima al parco. Era venuto suo padre a prenderla, ed entrambi si erano avviati con passo frettoloso. Di cosa aveva paura la gente? Dei vampiri? Ma tutti dicevano che non esistevano.
Continuò a camminare, attento a ogni particolare per non sbagliare strada.
Poi sentì qualcuno urlare e lui si voltò spaventato. In quella via si affacciavano solo botteghe e lui non capì da che punto provenisse l’urlo. Al contrario le altre persone che come lui stavano camminando affrettarono il passo senza voltarsi indietro. Eike decise di imitarle, sentendosi il cuore in gola.
Svoltò a destra, pentendosene subito. Era da lì che proveniva l’urlo.
Si nascose dietro delle botti di vino lì vicino, col respiro affannoso. Poi alzò un pelo la testa, in modo che gli occhi potessero vedere quello che stava succedendo.
La prima cosa che notò fu il corpo steso a terra, con gli occhi spalancati, cosparso di sangue. Trattenne un urlo rituffando la testa dietro il suo nascondiglio.
Quello è morto…
Gli veniva da piangere per la paura ma decise di stringere i denti, ricordando Imma che gli diceva di essere un uomo. Di nuovo fece capolino con gli occhi e vide che c’era una donna, che gemeva terribilmente, il corpo scosso dai singulti, in ginocchio. Aveva le mani unite, come se stesse pregando. Eike capì subito perché. Quella donna aveva un fucile puntato addosso e stava supplicando.
Un fucile.
Ancora Eike si costrinse a non piangere e a non urlare. Non doveva attirare l’attenzione.
L’uomo che aveva in mano il fucile aveva un’aria divertita. Indossava una divisa marrone, sembrava una divisa importante. Ce n’erano altri vestiti come lui, alcuni annoiati, alcuni che ridevano.
Eike pensò che quelle dovevano essere le famose Camicie Brune di cui parlava papà. Ma papà ne parlava bene, diceva che mantenevano l’ordine. Se papà ne parlava bene non potevano essere cattive, Eike avrebbe potuto benissimo uscire allo scoperto.
Ma lì c’erano un uomo morto e una donna che piangeva pensando di fare la stessa fine. E quelle Camicie Brune ridevano, come potevano essere buone?
Eike non capiva e questo non capire lo tenne ancorato stretto al suo nascondiglio.
Diventerai come papà.
Era la voce di Imma che si insinuava fastidiosamente nella sua testa. Era questo che voleva dire Imma? Che papà e le sue Camicie Brune erano cattivi? Ma lui che doveva fare per non diventare come lui, per diventare uomo? Uscire dal nascondiglio, dirne quattro a quei soldati e salvare la donna?
Stava sudando, nonostante facesse freddo. Scivolò contro la botte e si sedette per terra, sentendosi tremare, e a ogni singulto della donna tremava di più. Non gli restava altro da fare che aspettare, pregare che se ne andassero lasciando in pace quella povera donna, e che non vedessero lui.
“Perché non ti spogli?” disse una voce, probabilmente uno di quegli arroganti rivolto alla donna.
Per tutta risposta quella pianse più forte.
Eike cominciò a sperare. Se lei si fosse spogliata loro sarebbero stati contenti e l’avrebbero lasciata vivere? Credeva di sì ma non sentiva più niente e il non capire quello che stava succedendo lo avrebbe fatto impazzire. Decise, con coraggio per lui sovraumano, di buttare un occhio al di là della botte.
Le Camicie Brune sembravano soddisfatte mentre la donna piangendo stava cercando di sfilarsi la gonna con mani tremanti. Ma il fucile era ancora ben puntato dritto alla sua testa.
Eike stava per ritirare di nuovo la testa quando accadde qualcosa di strano. Sembrava quasi una folata di vento ma poi capì che era una persona che aveva corso fino all’uomo col fucile. Era un ragazzo, e gli aveva preso il fucile con una facilità incredibile e l’aveva steso per terra un secondo dopo.
Non era possibile, non era possibile avere tutta quella forza ed essere così veloce!
Eike si dimenticò di essere in pericolo e rimase a guardare quello che poteva essere un supereroe buono dare strattoni alle altre Camicie, tutte ugualmente confuse e arrabbiate.
Il ragazzo fortissimo urlò qualcosa di incomprensibile alla donna per terra, agghiacciata. Eike non aveva capito niente ma evidentemente lei sì – o forse l’aveva intuito – perché si alzò con foga e prese a fuggire. Stava venendo proprio verso di lui.
Ma una delle Camicie si era allontanata dalla rissa che aveva coinvolto tutte le altre e puntava il fucile verso la donna che correva. Solo Eike l’aveva visto, doveva fare qualcosa. Si sentì all’improvviso così pieno di coraggio alla vista di quel ragazzo così forte che voleva salvare la donna che si alzò in piedi uscendo dal suo nascondiglio e urlò a pieni polmoni: “A terra!”.
Poi accadde tutto in un attimo.
La donna si gettò a terra, il ragazzo eroe, accortosi di quello che stava per succedere, diede una spinta alla Camicia che stava per premere il grilletto.
E poi Eike sentì uno sparo, seguito da un fischio e quello fu l’ultimo cosa che udì. Si sentì spinto da una forza micidiale per terra e qualcosa che gli faceva male proprio nel petto o nella pancia, non capiva. Chiuse gli occhi, con un’improvvisa voglia di dormire.
Che sta succedendo…
Aveva un gran dolore e quello gli fece riaprire gli occhi. Il ragazzo eroe troneggiava sopra di lui ed Eike si sentì sollevato.
Lui mi salverà…
Notò per la prima volta che anche lui aveva una divisa da soldato, ma non era marrone, e questo lo rincuorò. Poi vide che era molto magro, sciupato, pallido e aveva degli occhi strani. Costrinse le palpebre a stare ancora aperte e capì che quello era proprio il soldato del suo sogno.
Aveva anche i suoi stessi denti.
 
*
 
 
Se la faccenda di Emily sarebbe stata mai risolta, Eike non lo sapeva. Aveva agito d’impulso, lo sapeva bene, ma Jacque sembrava averlo già perdonato.
La verità era che creare una un vampiro donna lo allettava incredibilmente.
Chissà come sarebbe andata se le SS non gli avessero sparato, avrebbe continuato a vivere nella paura? Si sarebbe sposato? Avrebbe avuto dei figli? Avrebbe fatto pace con Imma?
Jacque l’aveva dannato ma rimaneva pur sempre il suo eroe. Non gli rimproverava niente, semmai aveva odiato suo padre, le SS, tutta la Germania. Però gli veniva così difficile obbedirgli, aveva una rabbia strana in corpo, quella rabbia adolescenziale da cui forse non era mai potuto uscire.
Sospirò. Aveva detto ad Acilia e a Jacque che si prendeva qualche giorno per rivedere la sua città natale.
La sua Berlino, la sua Berlina maledetta, era lei che lo aveva dannato per sempre. E quando parlavano di Hilter, della Seconda Guerra Mondiale e del Nazismo lui sapeva chi odiare.
Calciò un sassolino per strada. Era stata punita, era stata povera, divisa, privata della sua identità ma ora eccola lì che risplendeva come una grande città. Lui era stato punito perché era al posto sbagliato nel momento sbagliato, e non sarebbe mai potuto ritornare a casa.
Guardò i grandi edifici, le strade ampissime, le auto e i tram che ci sfrecciavano sopra. I piedi lo stavano portando al cimitero. Era da tantissimo tempo che non andava a Berlino, non poteva non fare un saluto.
A volte pensava che la vita di un vampiro non fosse male. L’aveva pensato fin da subito, lui, piccolo dodicenne con le zanne, che sarebbe stato fortissimo, che non avrebbe avuto più paura di niente, neanche delle SS. Ma, col tempo che passava, si era reso conto che lui non sarebbe mai cresciuto. E che avrebbe dovuto bere sangue per sempre, spaventare la gente, lui era diventato tutto ciò che gli faceva una gran paura da umano. Lo pensava ancora che la vita di un vampiro non fosse tutta una schifezza. Non per Jacque, che avrebbe vissuto per sempre ventenne, che avrebbe potuto avere tutte le donne che voleva.
Eike calciò un altro sasso, all’entrata del cimitero. La sua tomba doveva essere ancora lì, da qualche parte, ma non era quella che voleva vedere.
Camminò tra le tombe, chiedendosi quante di quelle fossero vuote all’insaputa dei familiari, finché non la trovò. Non credeva in Dio ma congiunse le mani lo stesso mentre leggeva quel nome.
Imma Lehmann
1918 – 1989
La foto la rappresentava proprio come l’aveva vista l’ultima volta. Rugosa, coi capelli bianchi, sembrava incredibile che per lei fosse passato tutto quel tempo e per lui invece no.
Berlino è divisa, Eike, non ho mai conosciuto la pace.
Eike sospirò tristemente, dato che non poteva piangere. Imma non era neanche riuscita a vedere il muro cadere. Non aveva visto Berlino prosperare, non aveva potuto sperare in niente, contando solo i giorni bui che la separavano dalla fine.
C’erano dei fiori sulla tomba. Qualche figlio o qualche nipote allora andava a farle visita. Il pensiero rincuorò per un momento Eike, ma poi gli prese quasi una stretta allo stomaco, pensando che gli sarebbe tanto piaciuto conoscerli, i figli e i nipoti di Imma.
Non puoi Eike, non sarebbe giusto.
Era stata egoista Imma a proibirgli una cosa del genere? No, probabilmente era stata solo ragionevole, come al solito.
Poi figli e nipoti, e anche i figli dei nipoti, sarebbero morti. Eike si sentiva un vecchio, vecchissimo, nonno che avrebbe sepolto tutti quanti, e sarebbe rimasto solo.
Ma del resto, solo lo era già.
Con la mano diede un bacio alla foto di Imma, poi ritornò sui propri passi, evitando accuratamente di cercare la propria tomba, per non sentirsi un fantasma di se stesso. 











Dopo aver finalmente "finito" gli esami (in malo modo ma va beh) eccomi qui!
Direi che finalmente è stato dato il giusto spazio ad Eike ;) 


RedTears, unica recensitrice! XD Intanto grazie per l'entusiasmo mostrato per l'ultimo capitolo (non avevo dubbi che ti sarebbe piaciuta la parte in cui Acilia ammazza Manlio..)! Poi, il corpo sarà morto ma Acilia si sente l'anima morta perché in quel momento si è vista privata di se stessa, insomma, non può essere lei quella che ha appena ucciso il suo ragazzo! --> Perlomeno questo è il ragionamento che avviene nella sua testa, si sente cattiva e senz'anima, poi che sia giusto o sbagliato è lo stesso XD Mi dispiace ma come vedi non scoprirai molto presto (ma parliamone, lo scoprirai? o_O) cos'è successo a Marcus! XD 
Nene, che mi manda messaggi misteriosi che si nascondono XD grazie mille, sono contenta che ti piaccia! sì ci metto un bel po' ad aggiornare, troppa roba da fare XD 

Alla prossima e buone vacanze a tutti :) 

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Capitolo 6
*** L'eroe ***


Capitolo 5
CAPITOLO V
L’EROE
 
 
 
Era sempre stata una ragazza anonima, anzi, totalmente ignorata dal resto della popolazione inglese. Un po’ più bassa rispetto alle media, mingherlina, i capelli di un castano sbiadito, che lei aveva sempre definito color topo, degli occhiali da vista troppo grandi per la sua faccia.
Aveva sempre cercato di passare inosservata, a scuola prendeva posto nell’ultimo banco, all’università molto spesso neanche si presentava a lezione, usciva poco la sera. Coltivava in silenzio la sua passione per la scrittura, ignorando i commenti di quelli che la definivano “strana”, i compagni di scuola sapevano essere crudeli, ma i colleghi di lavoro non erano da meno.
Ma perché lei, che aveva sempre fatto di tutto per essere normale, era considerata strana? Perché dei vampiri erano sulle tracce di una ragazza bassa e dai capelli color topo? I capelli color topo erano il sintomo di un sangue non buono da bere, ne era sicura.
Emily Dixon non si dava pace. Andava avanti e indietro nella sua piccola stanza.
Era così assurdo. Doveva pure mentire ai suoi genitori per stare a casa, come se marinasse la scuola. Ma qui si trattava di lavoro, le cose non potevano andare avanti così per sempre. Lei non ci voleva vivere per sempre nella casa dei suoi genitori!
Era stata tutta colpa di quell’articolo. Se lei si fosse messa il cuore in pace e avesse capito che Vampiro in ogni caso non l’avrebbe cercata per ucciderla, lei non avrebbe scritto quelle stronzate. Ripensandoci era ovvio che Vampiro non la volesse uccidere, se no l’avrebbe già fatto, e senza difficoltà.
Non puoi sfuggire ad un vampiro.
Così non andava. Avrebbe dovuto presentarsi davanti ai vampiri, ecco cos’avrebbe dovuto fare, giurare di non avere intenzione di denunciare nessuno di loro e… Le gambe le diventarono molli solo al pensiero.
Oppure poteva andare dai cacciatori, sputare loro in faccia ogni verità, chiedere loro protezione. Ma sarebbero stati in grado di dargliela protezione? Senza contare che avrebbero chiesto una descrizione dettagliata di Vampiro, e lei non avrebbe potuto negargliela. Vampiro sarebbe stato trovato e torturato, e tutto perché non aveva voluto ucciderla. No, sarebbe stato troppo ingiusto. Emily sapeva che era meglio pensare a salvarsi la pelle invece di farsi problemi di morale ma… Vampiro l’aveva messa in guardia, era stato gentile con lei.
I vampiri gentili?!
Emily trattenne un singhiozzo. Era tutto un gran caos, lo sentiva dentro la sua testa che martellava furioso. Aveva bisogno di aria, ecco di cosa aveva bisogno! Vampiro le aveva raccomandato di stare in casa ma ora era giorno. Diede un’occhiata all’orologio e poi un’altra scrupolosa occhiata fuori dalla finestra. Il sole sarebbe tramontato tra una mezz’oretta, forse anche di più. Aveva tutto il tempo di farsi un giretto.
Uscì da camera sua, si mise un giubbotto addosso e si diresse verso il portone. I suoi genitori erano entrambi a lavoro e Michael era all’allenamento di calcio. Sarebbe tornata prima che rientrassero così non avrebbe dovuto spiegare perché lei, malatissima, non andava a lavoro ma usciva per fare delle passeggiate.
Chiuse il portone dietro di sé e girò la chiave dentro la serratura due volte.
Restò un attimo ferma sugli scalini per assaporare l’aria fresca e frizzante sulla sua pelle. Ormai gennaio stava volgendo al termine, il freddo era pungente ed Emily si chiuse bene il giubbotto sentendosi la pelle d’oca. Un attimo dopo pensò che forse prendersi un bel raffreddore e anche la febbre non sarebbe stata una cattiva idea. Non ne poteva più di fingere. Fosse stata dieci anni più giovane sua madre se ne sarebbe accorta subito che non esisteva nessuna malattia; Emily, ventisette anni compiuti, se ne stava tranquillamente in camera sua, senza che sua madre venisse a vedere come stava o si accertasse che avesse preso le medicine.
Prese a camminare, senza pensare a una destinazione precisa. Avrebbe camminato un po’ e poi sarebbe tornata a casa, prima che il sole tramontasse.
I pensieri le frullavano in testa in una danza frenetica. Cercava di riacciuffare ogni ricordo della conversazione che aveva avuto con Vampiro che le desse un po’ di speranza…
Troverò un modo, te lo prometto…
Ma che modo avrebbe mai potuto trovare? Ucciderla? Trasformarla?
Emily provò un brivido d’orrore ma poi strani pensieri le vennero in mente. Se fosse stata un vampiro non sarebbe stata più anonima e mediocre. Non sarebbe stata più canzonata, la gente l’avrebbe temuta…
Scosse la testa come se davvero rispondesse a qualcuno, infastidita. Ma che diavolo le saltava in mente? Vivere per sempre, al buio, fuggendo, con la paura di essere denunciata? Nutrirsi delle persone?
Per un momento fu disgustata, e come se volesse lasciarsi alle spalle i suoi folli pensieri prese a camminare più veloce. Si ritrovò in un sentiero di campagna dove non era mai stata. Si guardò intorno. Tornare a casa non sarebbe stato difficile, però… non le sembrava di aver camminato così tanto…
Il cuore le saltò un battito mentre lei alzava lo sguardo verso il cielo. Il sole stava tramontando.
A casa, subito.
Si voltò e percorse il sentiero a ritroso. Ma dopo poco si rese conto che tornare a casa non sarebbe stato così facile. Probabilmente si era messa a camminare senza stare attenta a dove andava… Ma si poteva essere più stupidi?!
C’era un albero lì sulla destra, sì, se lo ricordava. Era vicino a quella che doveva essere una villa abbandonata. Okay, sì, ricordava di esserci passata davanti. Doveva sorpassarla e poi sarebbe dovuta ritrovarsi sulla strada principale.
Sentì un cigolio e vide che la porta della villa si stava aprendo. Ma come, era abitata? Si voltò a guardarla. Era una casa in mattoni, ma sembrava molto vecchia.
I vampiri si nascondono nelle case disabitate…
Sulla soglia era apparsa una donna dai lunghi capelli neri ed Emily ebbe un sussulto. Era una donna molto giovane, una ragazza, e anche molto bella. Emily si sentì stupidamente vecchia e brutta in confronto.
La ragazza stava inspirando con aria trasognata. Sembrava non averla vista ed Emily rimase qualche secondo lì, come ammirata.
Dopo un po’ la ragazza dai capelli neri diede segno di essersi accorta di lei. Aveva uno sguardo strano, gli occhi di un colore bizzarro, un’espressione che non aveva nulla di amichevole.
Emily sentì il suo cuore che batteva forte, ma rimase lì, ferma, a sostenere il suo sguardo per qualche attimo. Poi la ragazza distolse il volto e le diede le spalle. Tornò dentro casa, e la porta si chiuse, e tutto tornò come prima, come se fosse solo apparso un fantasma.
 
 
 
Acilia era di nuovo in casa.
Jacque, seduto sul divano a esercitarsi nella lettura inglese, la guardò.
“Non dovevi andare a mangiare?”.
“Ci vado più tardi” replicò l’altra con una smorfia.
Il ragazzo chinò di nuovo lo sguardo sul giornale, ma non lesse più niente. La sua mente lavora febbrile. Doveva approfittarne in quel momento, ma come le poteva chiedere una cosa così delicata?
Acilia aveva quasi duemila anni. Che in duemila anni non avesse mai avuto un amico umano? Però era solo da trecento anni che esisteva la Rappresentanza Vampiresca, tutto prima poteva passare sotto silenzio…
Ma come poteva parlare senza che lei si rendesse conto che lui parlava proprio della Dixon?
“Aci” tentò.
Lei lo guardò e lui alzò un pelo il capo. Doveva smetterla di sentirsi in soggezione ogni volta che si guardavano.
“Tu credi in una possibile convivenza tra vampiri e umani…” azzardò lui.
Acilia aveva uno sguardo imperscrutabile e lui andò avanti: “Ma se non vogliamo che gli umani ci conoscano come sarebbe possibile questo?”.
Jacque imprecò nel pensiero. Tanto valeva fare nome e cognome di Emily.
“È ovvio che non è possibile, ora come ora” rispose tagliente la ragazza.
Lui sgranò gli occhi. “Quindi credi ancora che in futuro potrebbe essere possibile?”.
“Non lo so cosa credo, Jacque. Perché mi fai queste domande?”.
Jacque deglutì. Decise di rischiare il tutto per tutto. “Perché se ci credi davvero allora non permetteresti mai che…”. La sua frase sfumò nell’aria, convinto che Acilia avesse afferrato. Lei non rispondeva e Jacque capì di aver fatto centro. “Non hai mai avuto un amico umano?”.
Acilia fu talmente veloce che Jacque neanche si accorse subito che lei era lì, a un palmo dal suo naso. Il sangue prese quasi a raggelargli, come al solito.
“Perché usi proprio questa parola? Amico?”.
“Cos’altro…”.                   
Acilia aveva un’espressione quasi cattiva, Jacque ne fu per un momento spaventato.
“Non sarai mica amico della Dixon?”.
Lui scosse automaticamente la testa. No, amico no, però cos’altro poteva essere se cercava in tutti i modi di proteggerla? E poi, anche se fosse stato, sarebbe stato così tragico?
Acilia rilassò il volto. “Smettila di voler fare l’eroe, ti prego”.
Jacque abbassò lo sguardo. L’aveva già sentita quella frase.
“Si tratta di qualcosa per cui non puoi combattere” continuò la sua creatrice.
Jacque rialzò il capo verso di lei. “Tu combattevi per qualcosa di molto più grosso”.
Fu il turno di lei di abbassare lo sguardo. Aveva un’aria vagamente sconfitta, la stessa che le vedeva sul volto ogni volta che lui le diceva che degli umani loro si nutrivano.
“Ma come” fece, quasi in un pigolio “sei stato proprio tu a dirmi che la coesistenza è pura utopia”.
Jacque ebbe l’improvvisa voglia di rimangiarsi tutto, ogni parola e di abbracciarla. Ma non lo fece.
“Non puoi pretendere che le cose cambino da un giorno all’altro, si comincia dalle piccole cose no?” disse.
Acilia riaffilò lo sguardo. “Come la Dixon?”.
“Io non ci credo che in tre secoli non abbiamo mai avuto un alleato umano” riprese Jacque “Ci dev’essere un modo per tenerselo stretto ed essere sicuri che non vada a…”.
“Io non ne so niente, Jacque!” sbottò l’altra “Sono fuori da quella roba!”.
“Tu ci eri dentro fino al collo!” gridò Jacque, alzandosi in piedi “E anche ora che sei fuori dalla politica sei sempre insieme a Dubris! Qualcosa saprai! Ah, scusa, forse non parlate… scopate e basta…”.
La mano di Acilia partì veloce e prima che potesse accorgersene Jacque sentì un bruciore alla guancia sinistra. Acilia era davanti a lui, furiosa, con la mano alzata, i denti in fuori.
“Non c’è niente che tu debba sapere, ficcatelo in testa” ringhiò.
Jacque si massaggiò la guancia, pentendosi di quello che aveva detto. Acilia non l’aveva mai messo al corrente di niente che riguardasse la politica. Non si fidava di lui, lo sapeva bene. Ma non voleva che addirittura lo odiasse. Pensò di scusarsi ma in quel momento la porta di casa si aprì con uno scatto e una folata di vento li fece voltare entrambi.
Eike era davanti a loro con un gran sorriso e due foglietti di carta in mano. “Vi ho portato due cartoline da…”. Non finì la frase, accorgendosi degli sguardi accesi dei suoi amici.
“Oh, me ne vado qualche giorno e qui non cambia mai niente! Sempre dietro ai vostri dissidi sessuali!”.
 
*
 
 
“Lascialo morire!” gridò Acilia, da qualche parte.
Jacque la ignorò e si precipitò sul bambino morente. Aveva una ferita proprio in pancia, non ce l’avrebbe fatta. Lui ne sapeva qualcosa di ferite da armi da fuoco.
Acilia invase prepotentemente il suo campo visivo, come una furia. Per tutto il tempo era rimasta nascosta, disapprovando quello che lui voleva fare. Ora però non c’era più nessuno – le Camicie brune, la donna, tutti erano fuggiti dopo lo sparo inflitto a un bambino innocente – e lei era saltata fuori selvaggiamente, ancora più arrabbiata. “Te l’avevo detto! Te l’avevo detto di non immischiarti!” urlava.
Jacque si sentiva vuoto dentro. Ma non come i primi tempi dopo la sua trasformazione, privato dell’anima, ora sentiva proprio il nulla, e gli dava fastidio, lo logorava, terribilmente… Quello era solo un ragazzino e sarebbe morto, per colpa sua, perché nel suo disperato tentativo di salvare una donna innocente aveva sbagliato. Una vittima ci doveva comunque essere.
Il ragazzino stava annaspando, gli occhi spalancati, fissi su di lui.
Non poteva lasciarlo morire!
“Non lo fare, Jacque” disse Acilia. La sua voce si era abbassata, sembrava più ferma, controllata, ma vibrava un poco. “So cosa vuoi fare, non farlo!”.
“Ma è colpa mia!” esclamò Jacque, guardandola disperato.
Quasi si aspettava che Acilia negasse, che cercasse di consolarlo, che gli mostrasse affetto e compassione. Ma lei disse solo: “Lo so, ma non peggiorare la situazione”.
Jacque sentì di odiarla. Perché lei, che aveva trasformato lui senza alcun motivo, ora pretendeva che lui non trasformasse un ragazzino che sarebbe morto!
Guardandola come mai aveva fatto estrasse i denti, poi si voltò verso il bambino. Non sembrava spaventato, forse perché non ci riusciva, forse perché aveva troppo male, forse perché stava morendo.
“Lasciagli la morte” supplicò Acilia, cambiando tono “Lasciagli la morte…”.
La rabbia di Jacque crebbe. A lui lei gliel’aveva donata la morte, quando avrebbe potuto essere ancora in vita. Non gli aveva lasciato la vita, la vita! Ora lui voleva donare un’altra vita a qualcuno che di vita non ce ne aveva più, cosa c’era di male in questo?
“È solo un bambino!” continuava Acilia.
“Appunto!” urlò Jacque, furioso.
“Non donargli un’esistenza a metà!” gridò Acilia di rimando “Meglio la morte…”.
Jacque, odiandola, si avvicinò al collo del ragazzino e affondò i denti nella carne. Lui non si dimenò ma urlò, e Jacque sentì la paura nella sua voce. Gli dispiaceva, ma lo stava salvando, non lo stava dannando, lo stava salvando…
“La morte…” continuava a dire Acilia, con voce fioca. Ma Jacque continuava a succhiare e Acilia ritrovò la voce, e la sua autorevolezza: “Jacque, io ti ordino di smetterla!”.
Non me ne frega un cazzo di quello che mi ordini.
“Smettila di voler fare l’eroe!”.
L’eroe… Jacque non avrebbe dovuto immischiarsi nelle faccende umane, cercare di fermare le Camicie brune era pericoloso. E poi lui non era più umano.
Cominciò a sentire l’anima del bimbo che veniva via insieme al sangue e si fermò. Si morse il polso e lo mise sopra la bocca del ragazzo. Gocce di sangue gli colarono dal braccio che il ragazzino accolse in bocca e mandò giù.
Sembrava si stesse riprendendo.
Acilia si era resa conto che era troppo tardi, non diceva più niente.
Passò qualche minuto, il ragazzino prese a tossicchiare, poi, con gli occhi colmi di terrore, si tastò la pancia. Non c’era più alcuna ferita. Con uno scatto si mise seduto e la mano passò al collo, dove c’erano due profondi buchi, e lui urlò. Jacque gli mise le mani sulle spalle cercando di calmarlo ma lui continuava a dimenarsi e a urlare. Gridava qualcosa in tedesco, Jacque non capiva, ancora non l’aveva imparato il tedesco. Acilia invece sì – lei imparava tutto in fretta – e guardava il ragazzino con sguardo duro. “Sta dicendo che i vampiri esistono” disse.
Le storie sui vampiri correvano. Jacque la ignorò e prese tra le mani il volto del bambino, cercando di rassicurarlo.
“La formula, Jacque” disse la ragazza, lo sguardo abbassato ma il tono duro.
“È proprio necessario?”. Jacque non voleva spaventare ancora di più quel ragazzino dicendogli cose incomprensibili che avrebbero potuto suonare come una stregoneria. Beh, che poi era qualcosa di peggio.
“Sì”.
“Tanto non capisce!”.
“Hai voluto farlo” sbottò Acilia, a denti stretti “Ora lo fai per bene!” urlò poi alzando la testa.
Il bambino stava lentamente indietreggiando. Parlò di nuovo ma tanto Jacque non capiva.
Lo prese per il polso e scavò nella memoria. Le terribili parole che gli aveva detto Acilia la notte in cui disgraziatamente si erano conosciuti.
Aveva un senso di vomito, anche se il vomito non lo poteva più avere. Si rese improvvisamente conto di quello che stava per infliggere a un altro essere umano e, se avesse potuto tremare, l’avrebbe fatto visibilmente.
“Più il cuore non ti batterà, più lacrime non avrai…” cominciò, a bassa voce. “La fame incalzerà, e il sangue verserai…”. Sentì qualcosa di freddo toccargli il braccio e capì che Acilia gli aveva preso la mano. La stringeva, e, nonostante il freddo, ne immaginava il calore che lei avrebbe voluto dargli.
Le strinse a sua volta la mano, per farle capire che c’era e che non la odiava, che non la voleva mai lasciar andare, e andò avanti: “Sposo delle tenebre, nemico della luce, mai ti si chiuderan le palpebre, mai fu più la vita truce…”.
Il ragazzino parlava, confuso, urlava, voleva andarsene, ma Jacque lo teneva stretto, preparandosi per l’ultima, terribile, frase. Forse era meglio che non lo capisse, il francese.
“Questa notte morirai… torna al tuo creatore… quando risorgerai…”. La voce gli si era spezzata, aveva voglia di piangere?
Mollò la presa e il ragazzino, come da copione, corse via terrorizzato.
“Il tuo creatore veglierà sempre su di te” aggiunse Jacque in un sussurro, ma era certo che Acilia l’avesse sentito, perché gli strinse non solo la mano, ma tutto il braccio.
Lui si voltò e lei lo baciò teneramente.
Anche lei aveva voglia di piangere.
 
*
 
 
“Fa domande, continua a fare domande sulla Dixon”.
“In che senso?”.
“Su come potere tenerla nascosta”.
Eike si immobilizzò, sull’uscio di casa. Quelle erano le voci di Acilia e Dubris, e provenivano da dietro la porta chiusa della cucina.
Scrollò le spalle, avanzando un altro passo verso il portone. Che Jacque si fosse fissato con la Dixon l’avevano capito tutti. Ma non capiva che le due uniche alternative che aveva quella donna erano la morte o la trasformazione? Non era una scelta difficile per Jacque, l’aveva già compiuta in passato.
Si bloccò.
“Ma nelle ricerche come siete messi?”.
Forse era proprio perché aveva già compiuto una scelta simile in passato, che non voleva compierla di nuovo.
“Siamo stati parecchie volte sul posto di lavoro. Ma ogni volta ci dicono che la Dixon è malata”.
“Beh, sarà una malattia lunga, no?”.
Eike sbuffò. Acilia era tanto intelligente ma spesso e volentieri dubitava che il suo cagnolino Jacque potesse fare qualcosa contro di lei. Come la sua creazione… Jacque gli aveva raccontato che Acilia non voleva che lui – Eike – venisse trasformato, piuttosto lei lo avrebbe lasciato morire. Ma allora perché si faceva tanti scrupoli sulla Dixon?
“Come sei ingenua, Aci” stava dicendo dolcemente la voce di Dubris “Non credi piuttosto che sia stata avvertita?”.
Momento di silenzio. Eike mandò al diavolo la sua fame e si avvicinò con passo felpato alla porta. Jacque si sarebbe chiesto dove diavolo era finito.
“Avvertita?” fece l’altra “E da chi? Da… Jacque?”.
“Credi che non sarebbe in grado di farlo?”.
Un altro momento di silenzio ed Eike captò la risposta muta di Acilia. Sì, Jacque, da eroe quale voleva essere, ne sarebbe stato in grado ed Eike si rese improvvisamente conto che Acilia non era né stupida né ingenua. Tentava solo di difendere Jacque.
“Io… non saprei, mi sembra strano”.
“Ti sembra strano? Ti ricordi come si è infervorato riguardo a questa faccenda?”.
“Jacque è uno che si infervora”.
“Per le cose a cui tiene”.
Eike sentì un respiro affannoso e per un momento si chiese se Dubris e Acilia stessero solo parlando, lì chiusi in cucina.
“Anche tu tieni molto a lui, non è vero?” continuò la voce di Dubris.
“Si capisce, è la mia progenie”.
“Non gli dirai mai del patto del sangue, giusto?”.
Eike si fece più vicino perché la voce di Dubris stava diventando quasi un sussurro.
“No, certo che no…”.
“Lo sai che…”.
La voce di Dubris sfumò ed Eike imprecò nella mente.
Deve mettersi a fare la voce sensuale proprio ora!
“Quando è nato questo patto del sangue?” fece la voce di Acilia dopo un po’ “Chi è che l’ha inventato?”.
“Lo scorso presidente” rispose pacatamente Dubris “portava gli umani dinnanzi all’intera Rappresentanza Vampiresca dicendo che avrebbero fatto un patto… Hai presente il nostro penultimo presidente no? Beh, puoi immaginare”.
“Facevano un banchetto?”.
Eike rabbrividì. Cos’aveva a che fare questo finto patto con la Dixon?
“Lyuben ha portato dignità a questo orrore e quello che viene chiamato patto del sangue, oggi, come sai, è un vero patto”.
“Ma funziona?”.
I due secondi di silenzio che seguirono furono snervanti per la fame di Eike ma il vampiro non riusciva a staccarsi dalla porta.
“Uno dei membri più anziani della Rappresentanza è fidanzato a una donna umana. Lei è stata la prima e unica ad aver sperimentato il patto”.
In cosa cavolo consiste questo patto?! Eike dubitava che uno dei due l’avrebbe detto esplicitamente prima o poi. Si trattenne dal piombare in cucina e chiederlo.
“Ed è andato tutto bene?”.
Dubris se ne uscì con una risatina. “Lei è ancora in vita” disse, come se questo fosse sufficiente.
Eike sperava che Acilia facesse altre domande ma la coppia di vampiri piombò di nuovo nel silenzio. Frustato, stava per allontanarsi e dirigersi verso l’uscio quando la voce di Acilia lo fermò ancora una volta.
“Se la Dixon facesse questo patto… sarebbe irrimediabilmente legata a Jacque giusto?”. Era una voce strana, insicura, tremante.
“Non necessariamente” replicò Dubris.
“Beh, conosco Jacque… E so che si sentirebbe responsabile di ogni cosa… Sì, beh, sarebbe lui che si sentirebbe legato a lei”.
Eike non capiva. Perché Acilia e Dubris volevano vietare a Jacque di salvare la Dixon con quel patto del sangue? Se era un patto introdotto dal presidente, riconosciuto dalla Rappresentanza, che male c’era?
“È per questo” continuò Acilia “che non gli parlerò mai del patto del sangue”.
Possibile che Acilia fosse gelosa? Gelosa di Jacque? Per via di una patetica umana che scriveva articoli stupidi e che era pure brutta?
Dubris non diceva più niente e dei passi e delle sedie che si muovevano suggerirono ad Eike di tagliare la corda. Se Acilia si fosse accorta che lui non era uscito come aveva detto e che per di più si era messo ad origliare non sarebbe stato piacevole. In un attimo fu fuori casa e mentre camminava ripensò al patto del sangue. Del sangue… In che cosa avrebbe potuto consistere?
Ma, cosa ancora più importante, avrebbe dovuto dirlo a Jacque?
Un sorrisino gli increspò le labbra mentre vedeva davanti a sé Jacque che gli chiedeva dove fosse finito.
Avrebbe tenuto un po’ per sé quel segreto, per un po’, o forse anche per sempre.
*
 
 
Acilia guardò con diffidenza la tomba che Jacque stava fissando.
“Guarda che dovrebbe uscire da solo” gli disse per l’ennesima volta.
“Che male c’è se tiriamo fuori la bara? Sarebbe un piccolo aiuto” ribatté quell’altro.
Acilia alzò gli occhi al cielo, e l’altro continuò: “Pensa a come ti sei sentita tu quando ti sei ritrovata sotto terra, sepolta viva”.
Lei ci provò, ci provò davvero. “Non me lo ricordo” ammise infine.
Era una notte molto ventilata. Acilia sentiva l’aria fresca pungerle la pelle, le era sempre piaciuta quella sensazione. La sua mano che veniva avvolta dal vento, riemersa da quella fossa nel terreno… L’aria l’aveva fatta sentire viva. Era uscita da quella tomba ed aveva pensato sono viva! Il vento la ingannava. Lo sentiva sulla pelle, sentiva i suoi capelli danzarle intorno al volto, li vedeva quei fili neri che le oscuravano la vista ma lei non era affatto viva.
“Beh, prova a immaginare” stava dicendo Jacque, irritato “un bambino si sveglia in una tomba sotto terra: morirebbe di paura!”.
Acilia, suo malgrado, sorrise. “Non può morire due volte”.
Era passata una settimana dallo scontro di Jacque con le Camicie brune. Acilia gliel’aveva detto che non doveva immischiarsi. I vampiri esistevano da sempre ma non potevano intralciare la storia. Perché, le aveva chiesto Jacque. Era così ovvio. Gli umani prima o poi si sarebbero resi conto che i vampiri non erano solo personaggi dell’orrore. E l’avrebbero fatto presto, se il presidente non si fosse dato una calmata.
Jacque si era chinato a terra, e aveva cominciato a scavare.
Acilia lo guardò, mentre si scostava i capelli castani dalla fronte come per asciugare la fatica. Non se ne rendeva conto, non ancora, che non sudava più.
Lei se n’era andata dal PPC poco dopo aver creato Jacque. Aveva letto la delusione nel volto di Lyuben, la gelosia in quello di Dubris, ma non sapeva se le due cose avessero un nesso. Certo, Jacque le faceva uno strano effetto.
Anche lì, in quel momento, lei non riusciva ad ordinargli di smetterla di scavare perché sapeva che quello che voleva lui era una cosa giusta. Aveva una bontà d’animo umana che lei aveva dimenticato, e non gliela voleva togliere, non gliel’avrebbe mai tolta, non l’avrebbe fatto di nuovo
Aveva creato Jacque, si era pentita e si era maledetta, e non sapeva più in cosa credere. Poi c’era lui, che non la odiava e le stava accanto, che la baciava e la teneva stretta, lei, che aveva millenovecento anni più di lui. E le chiedeva perché lottasse tanto per la coesistenza tra vampiri e umani…
Stava tirando fuori la bara, faceva fatica. Era buio ma lo vedeva bene, nessun altro umano sarebbe riuscito a vedere esattamente cosa stava succedendo. Lei era più vecchia, più forte, avrebbe potuto aiutarlo. Ma non voleva che lui pensasse che lei approvasse quello che stava facendo. Doveva sempre essere forte, autoritaria, irremovibile. O prima o poi lui le si sarebbe ritorto contro.
Ci credi davvero in quello che dice il PPC?
La bara era ferma e silenziosa. “Non si è ancora svegliato” disse Jacque in un sussurro.
Lei non era andato a disseppellire lui – Jacque –  dopo averlo dannato.
Hai ragione, Jacque, hai ragione… Non ha alcun senso…
Si inginocchiò accanto a lui. “Aspettiamo” disse, solo.
Con lo sguardo cercò la lapide e lesse l’iscrizione.
“Si chiama Eike” disse “ha dodici anni”.
Jacque annuì, nervoso. “Vorrei solo riuscire a parlare la sua lingua”.
Acilia gli prese la mano. “Gli tradurrò tutto ciò che vorrai” disse, sforzandosi di tenere la voce ferma. Lui la guardò con quel volto bianco e freddo, proprio come il vento che le piaceva tanto. Quando l’aveva conosciuto aveva la pelle più scura, lividi e tagli sul volto, gli occhi vitali e marroni di…
Un busso, e poi un urlo soffocato. La bara aveva preso ad agitarsi e Jacque si era subito avventato su di essa per aprirla. “Fermo” lo richiamò Acilia “lascia che si renda conto della sua nuova forza”.
Ancora qualche attimo di strilli e poi un pugno bianco come il latte apparve al chiaro di luna dalla cassa crepata in più punti. Subito dopo apparve anche l’altro braccio e poi dei capelli di un biondo spento, color cenere, apparvero, seguiti da un visetto tondo, pallido e stravolto dall’orrore.
Acilia si sentì per un momento suggestionata. Anche lei aveva avuto quella faccia, millenovecento anni prima? Eike, seduto nella sua bara, li guardava esterrefatto, aprendo e chiudendo ripetutamente la bocca.
“Ciao Eike” fece Jacque, in tedesco, avvicinandosi cautamente.
Gli tese la mano ed Eike, titubante, la prese, per aiutarsi ad uscire dalla bara.
“Chi… siete?” farfugliò “Cosa mi avete fatto?! Io… ricordo…”.
Jacque guardò in attesa Acilia ma lei si rivolse direttamente al ragazzino. “Cosa ricordi, Eike?”.
“Lui… lui…”. Eike puntò un dito tremante su Jacque, che ricambiò lo sguardo mortificato. “Lui è un vampiro”.
Acilia ridacchiò. “Oh, non solo lui”. Estrasse i denti ed Eike lanciò un ululato indietreggiando.
“Ssssst!” fece Jacque, guardando in cagnesco la sua creatrice “O sveglieremo il guardiano del cimitero!”.
La ragazza annuì, tornando seria e ritirando i denti. “Andiamo nei boschi”.
Fece per avviarsi ma Jacque la bloccò per un braccio. “Digli che non deve avere paura, che si può fidare di me. Adesso gli prenderò il braccio per guidarlo”.
Acilia tradusse parola per parola in tedesco. Poi aggiunse: “E non tentare la fuga, tanto a casa non ci puoi tornare. Tecnicamente sei morto”.
Eike annuì, attonito.
Poi si fece prendere la mano da Jacque e tutti e tre partirono alla volta del bosco. Acilia sentiva i due ragazzi dietro di sé tenere il passo e solo dopo qualche minuto, quando erano già tra gli alberi, si fermò.
Si voltò verso gli altri due e vide che Jacque stava fissando stralunato la sua progenie appena nata.
Eike aveva i denti di fuori, esibiti in un sorriso sadico. Poi si mise a saltellare intorno a loro urlando qualcosa come: “Sono un vampiro! Sono un vampiro! YUHUU!”.
Acilia guardò Jacque con occhi sgranati.
“Congratulazioni, sei un padre fortunato”.
 
*
 
 
C’era un odore nuovo nell’aria, eppure era un odore noto.
Jacque inspirò a pieni polmoni. Era un profumo buono di un qualche umano che probabilmente era passato da lì. Era notte fonda e stava rincasando dopo aver mangiato. Gli dispiaceva ogni volta guardare negli occhi le persone e dire loro quello che dovevano fare. Quello che gli dispiaceva di più era che loro ogni volta obbedivano. D’altronde sfuggire ad un vampiro era impossibile.
Non puoi sfuggire ad un vampiro.
Ma certo, ecco dove aveva già sentito quell’odore. Quello era l’odore di Emily! Era stata lì? Se c’era ancora il suo odore non doveva essere passato troppo tempo. Forse quella notte stessa, o forse il giorno prima…
Si rese conto che il profumo di Emily creava una scia, che lui poteva seguire. Se qualcuno l’avesse sentita… Cosa diavolo le era passato per la testa? Doveva avvertirla di non tornare più nei dintorni, quella era una casa abitata da vampiri che diamine! Ad Eike potevano saltare in mente idee strane, e poi Dubris era spesso da quelle parti… E Acilia… Di Acilia non sapeva cosa pensare.
Così, su due piedi, decise di seguire il profumo della ragazza. L’avrebbe trovata e l’avrebbe messa in guardia, di nuovo. Stai in casa maledizione, stai in casa!
Prese a camminare lungo un sentiero in cui sentiva distintamente il suo odore. Possibile che facesse tutto questo solo per salvare una vita umana? Cosa voleva dimostrare? Di essere migliore di Dubris e di tutto il PPC? Ricordava lo sguardo terrorizzato di Emily. Ormai non era più semplicemente una vita umana, era una donna a cui Jacque aveva dato la sua parola.
Non sarai mica amico della Dixon?
Ma che male c’era? Essere amico di Acilia non gli riusciva, di Eike si sentiva troppo responsabile, di Dubris neanche a parlarne… Se di un vampiro non riusciva ad essere amico, essere amico di un essere umano era così tanto spregevole? Perché Acilia, fondatrice del partito che predicava la convivenza tra umani e vampiri, non voleva che lui avesse un umano amico?
Ma Acilia si era ritirata dalla politica e ormai Jacque neanche riusciva a capire a cosa credesse. Era una donna indecifrabile, e gli aveva fatto perdere la testa ma non sarebbe successo ancora.
I passi che seguivano il suo naso lo portarono davanti a una villetta. Era carina, semplice, alta due piani, con un balcone. Tutte le finestre erano buie.
Ma certo, Emily stava dormendo, come avrebbe fatto ad avvertirla?
Doveva capire quale fosse la finestra della sua camera da letto. E se avesse condiviso la camera con qualcuno? Con un fratello o una sorella? Come poteva saperlo, ai suoi tempi dormivano tutti nella stessa stanza. Si guardò i piedi, impotente. Non sapeva volare, non aveva mai voluto neanche provarci e solo in quel momento capì quanto poteva essergli utile. Ma un albero alla sinistra della casa lo rincuorò. Non c’era nessuno in giro, bastava solo un salto… Prese un sasso da terra e in un battibaleno fu sul ramo più robusto dell’albero. Ora era più vicino alle finestre e annusò con forza, sentendosi un segugio. La finestra dalla quale proveniva l’odore più simile a quello di Emily era proprio quella alla destra del balcone. Con un altro salto fu sul balcone. Inspirò a fondo, per calmarsi. Quello che stava facendo era pericolosissimo. E per di più vietato dalla legislazione vampiresca. Era reato introdursi nelle case degli umani, ma tecnicamente lui neanche era entrato…
Pregò qualcuno a caso – perché i vampiri non avevano un Dio – che non lo scoprissero e che quella fosse la finestra giusta, poi lanciò l’unico sasso che aveva contro il vetro. Aspetto qualche minuto ma non successe niente. Maledizione, solo un sasso doveva raccogliere? Fece per tornare sull’albero quando l’odore di Emily nell’aria s’intensificò. Si voltò di scatto verso la finestra prescelta e notò qualcosa oltre al vetro. Quella era Emily, certo, solo che non poteva mica aprire la finestra così a caso, non con il rischio che correva. Saldò le mani sulla ringhiera del balcone e allungò il busto per esporre il volto il più possibile vicino alla finestra, per farsi riconoscere. Ma Emily si spaventò soltanto di più e tirò le tende delle finestra, e scomparve.
Cretina…
Ma poteva biasimarla? Che garanzie aveva che lui fosse davvero buono? O magari neanche l’aveva riconosciuto, dimenticava sempre che gli umani avevano una vista molto ridotta.
“Emily!” si mise a bisbigliare furiosamente “Emily! Sono io, sono…”. S’interruppe, ricordandosi che lei neanche sapeva il suo nome. “Emily, per favore! Se non mi ascolti sarai nei guai!”. Quante probabilità c’erano che al di là della finestra che dava sul balcone ci fosse qualcun altro? E quante che si fosse svegliato? Jacque decise di non pensarci e si concentrò solo sulla finestra di Emily.
Ti prego ti prego…
Decise che se la ragazza non avesse aperto la finestra entro cinque secondi se ne sarebbe andato.
Uno… Che diamine, lui stava rischiando la vita lì! E tutto per una cretina che non voleva neanche farsi aiutare!
Due…
Cinque secondi erano anche troppi, non poteva andarsene e basta?
Tre…
Un rumore simile a qualcosa che colpiva il vetro e poi la finestra si aprì. Il volto di Emily, bianco e spettinato, ma terribilmente sveglio e allarmato, apparve. “Cosa vuoi?” fece, con voce tremante.
“Mi fai entrare?”.
“No”.
Jacque sbuffò. Beh, non poteva certo aspettarsi che un’umana facesse entrare in camera sua un vampiro così come se niente fosse.
“Ti devo parlare” insistette, sempre sussurrando “e qui è rischioso per me… Abiti con qualcuno?”.
“Con i miei genitori” disse quella, come se fosse ovvio “e con mio fratello”.
Nonni e zii no, eh?
Jacque si sentì sprofondare. “Ti prego, qui è molto rischioso per me”.
Emily non si muoveva.
Lui, disperato, disse: “Sei stata a casa mia di recente?”.
Lei assunse un’aria meravigliata. “Hai una casa?”.
“Stai attenta a come ti muovi, non puoi andare in giro a caso, se…”.
“Era giorno” ribatté Emily, ma Jacque capì che non stava dicendo la verità. Sbatteva spesso le palpebre e quello che le aveva detto l’aveva turbata, si vedeva.
Finalmente si spostò e Jacque, con un agile salto, riuscì finalmente ad aggrapparsi al davanzale della finestra e poi ad entrare. Emily era praticamente dall’altra parte della stanza. Aveva un pigiama azzurro, con degli orsetti disegnati sopra. Era simpatico.
“Non ti faccio niente” l’assicurò lui.
“Il sole era tramontato” disse l’altra, senza ascoltarlo, con la voce che tremava “ed è uscita una ragazza, sembrava una ragazzina… Era un vampiro?”.
“Sì” rispose Jacque, certo che stesse parlando di Acilia.
Emily annuì. Le mani le tremavano. “Quando potrò tornare a lavoro?”.
Il ragazzo sospirò. Si rese conto che l’unica cosa che voleva sapere quell’umana era l’unica cosa che non poteva dirle. “Non lo so” ammise.
Emily si sedette sul letto. Non sembrava disperata, aveva una vaga aria di rassegnazione sul volto.
“Come ti chiami?” chiese, inaspettatamente.
“Non hai più paura di me?” domandò a sua volta Jacque, scrutandola. Chi si sedeva aveva meno paura di chi stava in piedi, pronto a scappare.
“Perché dovrei?” fece l’altra, con una risatina isterica “Sono relegata in casa, peggio di così non può andare…”.
C’è di molto peggio.
“Mi chiamo Jacque” disse il vampiro.
Emily lo guardò incuriosita. “Sei francese?”.
Jacque annuì, e lei gli fece un’altra domanda. “Quanti anni hai?”.
Lui ci pensò. “I miei anni da vampiro sono ottantaquattro”. Era abituato a ragionare in quei termini: quando sei vampiro, contano solo gli anni da vampiro. Gli anni da umano, quelli ce li avevano impressi nel corpo, eterni, eppure venivano dimenticati.
“Voi vampiri vivete tantissimo” disse l’altra “dovreste essere saggi”.
Jacque rimase spiazzato e lei andò avanti: “Allora perché mi vogliono uccidere solo perché so della tua esistenza? Non possono credermi se dico loro che non denuncerò mai nessuno?”. Una lacrima le uscì dall’occhio e le percorse la guancia. Jacque si sentì a disagio. Non riusciva neanche lui a giustificare il comportamento della Rappresentanza. Però una cosa andava detta…
“Non ti vogliono uccidere” disse in un soffio.
“Come?”. Emily era allibita. “Mangiare? È questo il termine che usate al posto di uccidere?”.
Jacque notò un tono di sarcasmo nella voce della ragazza e non poté fare a meno di biasimarla per un momento. Non erano mica dei barbari.
“Trasformare, ti vogliono trasformare”.
Si aspettava che lei dicesse, sempre con quel tono sarcastico: “E che differenza c’è?”.
Invece aveva un’espressione strana. Sembrava stesse riflettendo. “Mi dovresti trasformare tu?” domandò.
Jacque annuì, senza capire.
La voce di Emily tornò a tremare. “Allora fallo”.
Il vampiro inarcò le sopracciglia, mentre sentiva il sangue al suo interno che tumultuoso scorreva. “Cosa?”.
“Hai sentito bene, mettiamo fine a tutta questa pagliacciata! Trasformami” ribatté Emily, lo sguardo deciso.
Jacque scosse la testa, incredulo. “Tu non sai quello che dici”.
“Dovrebbe essere una cosa facile per te no? Ti hanno semplicemente chiesto di trasformarmi! Fallo e saremo liberi tutti e due!”.
Jacque sentiva il suo sangue ribollire. Creare era un gesto naturale nei vampiri, come lo era per gli umani concepire. Lui lo voleva…
Emily si scostò i capelli e mostrò il suo collo.
Jacque vedeva la sua vena pulsare e d’istinto i suoi denti si allungarono. E lui fece un passo verso la vittima.
Se l’avesse fatto avrebbe avuto Emily al suo servizio, avrebbe potuto insegnarle tutto, cacciare con lei, baciarla…
Si sedette accanto a lei e le prese la testa. Avvicinò i denti al collo mentre sentiva il respiro di Emily che si faceva sempre più irregolare e il suo corpo caldo che tremava.
Quello che poteva immaginare in un futuro per lui e per lei era già avvenuto con Acilia. Era una storia che si ripeteva e tutti i momenti che aveva trascorso con Acilia gli attraversarono la mente. Li cacciò sventolando una mano come se fossero davanti a lui. Poi vide di nuovo il collo tremante di Emily. Alzò gli occhi fino a incontrare il suo volto e vide che piangeva.
Ricordò l’euforia di Eike, seguita da una terribile e atroce realtà.
Io non cresco più, vero Jacque?
Il battito del cuore di Emily era velocissimo, sentiva ogni colpo e ogni colpo era per lui una condanna.
Si staccò improvvisamente da lei come se avesse preso la scossa.
Non sono venuto qui per questo!
Guardò gli occhi di Emily mentre lei ricambiava lo sguardo confuso.
Non puoi volere questo…
“Emily! Sei sveglia?” disse una voce in lontananza.
Emily sgranò gli occhi. “Si è svegliata mia madre” fece, allontanandosi da Jacque con una traccia di paura negli occhi, come se si fosse anche lei finalmente svegliata.
Jacque balzò vicino alla finestra, pronto a fuggire, mentre sentiva dei passi avvicinarsi.
“Di notte si prendono decisioni stupide” disse in un sussurro, senza sapere se stesse parlando di lei o di se stesso.
Emily annuì. “Vediamoci domani, appena tramonta il sole, nel bosco” bisbigliò.
Jacque non fece in tempo a rispondere. I passi della signora Dixon si avvicinavano e lui voleva solo uscire di lì. In un attimo fu fuori dalla finestra e poi si mise a correre, ancora col sangue in subbuglio, ancora coi canini a penzoloni dalle labbra, con strani, brutti, pensieri in testa.
 
*
 
 
Gli avevano detto che non doveva farsi vedere dagli umani.
Gli avevano detto che non doveva assolutamente tornare a casa.
Ma lui aveva un conto in sospeso.
Estasiato, si muoveva velocissimo, al buio, una creatura della notte, maestosa e che tutti avrebbero temuto. E lui non avrebbe avuto più paura di niente.
Quando si era svegliato quella notte, la sua seconda notte, Jacque ed Acilia stavano ancora dormendo – se così si poteva definire quello stato in cui, immobili come statue di ghiaccio, giacevano. Era sgattaiolato via dal loro rifugio sentendosi veloce e potente. La notte prima era terrorizzato. Cos’era successo? Gli avevano sparato, quel vampiro – Jacque – gli si era parato davanti, l’aveva curato in qualche modo, lui era tornato a casa e quella stessa notte si era sentito morire. Aveva urlato, urlato tantissimo, aveva sentito – o forse sognato – le voci di sua madre e di Imma e poi più niente. Si era svegliato in quella bara accanto al suo nuovo genitore: Jacque, l’eroe che aveva tentato di fermare la brutalità delle Camicie Brune. E lui ora era come Jacque, non avrebbe più temuto qualcuno che gli potesse succhiare via il sangue, era lui, lui, che lo faceva. La notte prima si era nutrito. Aveva morso il collo di una persona, e gli era piaciuto. La persona era in estasi, non si divincolava, non aveva tentato di scappare. I vampiri avevano un grande potere. Jacque poi gli aveva detto di fermarsi ad un certo punto, gli aveva spiegato che loro non uccidevano. Erano come delle zanzare, dei parassiti, che si servivano delle altre persone per vivere, ma non uccidevano.
Tutte quelle storie di Imma l’avevano spaventato per niente, i vampiri non erano cattivi!
Eike accelerò il passo. Sentiva il vento fortissimo ululare nelle sue orecchie e lui si sentiva il re del mondo.
Riconobbe la sagoma della sua casa e con un balzo fu sul balcone della camera di sua sorella. L’oscurità era sua amica, e lui batté forte il pugno sul vetro della finestra.
Batté più volte, stordito e preso dall’euforia, finché non sentì una voce angosciata che chiedeva chi fosse.
Chi è che ha paura ora, eh Imma?
“Imma!” bisbigliò “Sono Eike!”.
Un gridolino e la finestra si aprì. Due occhi arrossati su un volto pallido, contornato di ricci biondi, apparvero nel buio. Imma stava tremando. Si chiedeva se fosse un sogno o un fantasma?
Aprì la bocca e tentò di dire qualcosa, ma ne uscì solo un suono sommesso. Allungò una mano tremolante verso di lui, per toccarlo, per vedere se era reale?
Eike si avvicinò a lei esibendo un ghigno. Poi lasciò che i suoi canini risplendessero al chiaro di luna ed esclamò, raggiante: “Sono tornato!”.











Per quanto sia poco cagata questa storia, ringrazio tutti quelli che sono arrivati a questo punto :)

E ora, per le mie due belle lettrici:

RedTears, ti manca Marcus per caso? XD Il bambinetto-vampiro è un po' complicato sì e, come si vede in questo capitolo, soprattutto alla fine, è fuori dai coppi..XD ma è un bimbo dai.. Un po' di luce su ciò che c'è stato tra Aci e Jacque, ecco che cominciamo! Più che fratello-sorella sarebbero madre e figlio ma sì il loro rapporto non è vagamente simile neanche a quello direi.. XD Ehhhh mannaggia mi hai scovato il PP e il PS, e io che speravo di buttare sigle a caso per fare colpo! (scherzo!) Pensandoci ho avuto un momento di vuoto..con PS mi veniva solo in mente Partito Socialista..XD 
Ecco, come vedi, non hai dovuto aspettare troppo, peccato per il fatto che tu sia.. in montagna! Proprio da due giorni! Quando si dice il tempismo oh.. :P
Nene, sì per lo scorso capitolo invece della recensione mi era arrivato un messaggio privato XD eh sì il personaggio di Eike è decisamente il più difficile di tutti..ma la psicologia dei personaggi è la cosa più importante e cercherò di sviscerarlo per bene! :P

Alla prossima!
Ahimè, ho ripreso a studiare da una settimana, ma neanche questo esame grosso come una casa mi distoglierà troppo da questa storia e prima o poi aggiornerò!! :)






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Capitolo 7
*** Perdizione ***


Capitolo 6
CAPITOLO VI
PERDIZIONE
 
 
 
“Con quanti uomini sei stata, Acilia?”.
“Ho perso il conto”.
Dubris ridacchiò, giocherellando con una ciocca di capelli di Acilia. Lei lo lasciò fare, raggomitolandosi contro il suo petto nudo.
“Ma hai mai amato qualcuno di loro?” domandò ancora lui.
Non erano discorsi che Acilia amava fare, ma rispose comunque. “Come un vampiro può fare”.
Dubris la guardò incuriosita. Lentamente prese un lembo del lenzuolo e cominciò a tirarlo, scoprendo il corpo della ragazza. “Tu dici che noi vampiri non possiamo amare?”.
Acilia socchiuse gli occhi, facendosi toccare dalle mani esperte del suo amico. Le sembrava di sentir parlare Jacque. Ma quello non le sembrava il suo tocco, no, non avrebbe mai potuto confonderli.
“Oh, io credo che invece possiamo amare molto più degli umani”.
Dubris era sorpreso. “Siamo noi quelli senza cuore, sai. Letteralmente” disse.
“Che il cuore sia la sede dei sentimenti è una leggenda metropolitana” replicò Acilia con disinvoltura.
Con un balzo fu all’improvviso sopra Dubris, il volto distante dal suo pochissimi centimetri. “Noi viviamo in eterno, ci innamoriamo più volte, e amiamo per più tempo” disse in un sussurro.
“Quindi credi sia una questione di tempo” bisbigliò Dubris. Subito dopo la baciò, sentendola agitarsi sopra di lui. “Noi ci conosciamo da sei secoli, Aci”.
Acilia gli baciò il petto freddo e poco ampio. “Se non mi sono mai innamorata di te in sei secoli, Dubris, dubito che potrà mai accadere” disse, schietta, senza smettere di baciarlo.
L’altro si limitò a sorridere, mentre le accarezzava le natiche. Poi disse: “Per un periodo stavi insieme a… Jacque”.
Acilia si fermò e alzò lo sguardo verso di lui, senza sapere che espressione avesse in faccia. “Ti sbagli. Io non sto più con nessuno da tantissimo tempo”.
“Ma lui lo amavi?”.
Basta, quel discorso stava prendendo una brutta piega. Acilia si buttò di lato sul letto, accanto a Dubris, senza avere l’intenzione di rispondere.
Lui si era girato su un fianco per guardarla, con quegli occhi color rame, che a lei non piacevano neanche.
“Lo sai che non lo sopporto vero? È lui che ti ha fatto uscire dalla politica”.
“Lui mi ha solo aperto gli occhi” scattò Acilia.
“Un pivello appena nato?” rise l’altro.
Acilia inspirò a fondo, cercando di mantenere la calma. Poi si avventò su Dubris e prese a baciarlo con foga.
Il messaggio era chiaro. Stai zitto.
Lui non si tirò indietro e in un attimo le fu sopra. La baciò sulla bocca, sul mento, sul collo, sul petto. Andò giù, sempre più giù, mentre Acilia cercava il più possibile di lasciarsi andare ma i pensieri continuavano a percorrerle la mente e lei non riusciva a fermarli.
“Ti prego” sussurrò la voce di Dubris “Torna, abbiamo bisogno di te”.
Acilia lanciò un sospiro di godimento.
Ci credi davvero in quello che dice il PPC?
Prese tra le mani i capelli rossi di Dubris, li sentiva tra le dita, gli spinse la testa più in fondo.
Jacque non l’avrebbe tormentata anche in quel momento.
 
 
 
“Sì, continuate, continuate! Vi prego…”.
Eike e Jacque si guardarono perplessi.
“Non hai un po’ esagerato con l’incanto?” chiese il primo.
L’altro sbuffò. “È Claire”.
Eike squadrò la giovane donna seduta sulla sedia, le mani legate dietro la schiena, l’espressione vogliosa e con la bocca aperta.
“Sai” disse “non hai per niente la faccia da Claire…”.
Si inchinò e con la mano le sollevò la gamba nuda sotto la gonna. Chiuse gli occhi, estasiato, inalando tutto l’odore possibile.
“È così… strano” biascicò la ragazza “sembri un bambino… precoce”.
Eike la morse spingendo i denti in fondo, con il preciso intento di farle male. Lei emise un suono sommesso.
Potrei essere il tuo bisnonno, stronza.
“Claire è una simpatizzante” spiegò Jacque, tranquillo “È venuta qui da noi anche due o tre anni fa, non ti ricordi?”.
Eike sollevò lo sguardo verso la donna. Aveva capelli biondi lucenti scombussolati, i lineamenti del viso ben marcati, il naso dritto e le labbra carnose. Gli occhi poi, cerchiati di matita nera, erano enormi.
“Simpatizzante vuol dire troia?”.
“No”.
Claire agitò la gamba gemendo. “Dai, mordi ancora…”.
Eike scrollò le spalle e, senza farselo ripetere due volte, le morse di nuovo la coscia. Era gustosa, il sangue colava giù per la gamba della vittima, sentiva ogni goccia cadere a terra e questo lo rendeva sempre più affamato.
Riemerse dalla carne dopo pochi attimi e guardò di nuovo Jacque. “Vuol dire masochista?”.
Jacque sorrise. “Più o meno”.
Eike si alzò in piedi. Guardò le gambe sporche di sangue di Claire.
“Com’è possibile?” chiese.
“Ci sono degli umani che provano piacere a farsi mordere dai vampiri” disse Jacque.
Eike contemplò ancora una volta Claire, che, con la lingua di fuori, muoveva ancora le gambe, mentre le braccia erano ben legate dietro la sedia.
“Perché l’abbiamo legata allora?” domandò, continuando a guardarla.
Jacque scrollò le spalle. “A lei piace così”.
Il ragazzino fece una smorfia, distogliendo lo sguardo dalla donna. “Ma come sappiamo che questi umani non ci denunceranno?”.
Claire scosse la testa, incredula. Aspirò a fondo, come per riprendersi, poi disse: “Per chi mi hai presa? Io ho il marchio!”.
Eike non capiva e guardò Jacque in cerca di spiegazioni e lui scoprì la pancia di Claire, sollevandole la camicetta bianca sporca di sangue. A sinistra dell’ombelico c’era un disegno nero, doveva essere un tatuaggio. Eike si avvicinò e vide che non era nero. Era rosso sangue, ed era un lungo canino.
“È fatto col sangue” andò avanti Claire, passandosi la lingua sopra il labbro superiore.
“Se mai lei ci denuncerà, la Rappresentanza lo saprà, e la ucciderà” terminò Jacque.
Eike inarcò le sopracciglia, mentre la sua mente lavorava.
È fatto col sangue.
Claire era un’umana, e la Rappresentanza Vampiresca sapeva di lei.
Non gli dirai del patto del sangue, vero?
“Fa parte del patto del sangue” disse Claire, con un sorriso amabile, per nulla preoccupata.
Eike sgranò gli occhi.
“Ma, Jacque…” farfugliò, confuso “Per la Dixon… Non si potrebbe…”.
“Lei non è una simpatizzante” disse Jacque.
“Ma ha scritto un articolo abbastanza simpatizzante…”.
“Cocco, simpatizzante vuol dire che doni il tuo sangue di tua sponte” saltò su Claire.
Certo che potevano scegliere un altro nome allora.
Eike si mordicchiò il labbro. C’era qualcosa ancora che quadrava, era quello il patto del sangue?
“Quindi se la Dixon si sottoponesse a questo patto” disse “lei sarebbe obbligata a farsi bere dai vampiri… Non si potrebbe salvare in questo modo?”.
Jacque sospirò. “Ci avevo già pensato, ma non tutti gli umani provano piacere a farsi mordere e succhiare via il sangue. La Rappresentanza accoglie solo quelli… quelli a cui piace”.
Eike alzò un sopracciglio. “Perché?”.
Jacque fece spallucce. “Per questioni morali… credo”.
“Avete un buon governo” sentenziò Claire, deliziata.
Eike guardò Jacque e capì che lui nemmeno era troppo convinto. C’era qualcosa che non tornava. Perché Dubris temeva che Acilia parlasse a Jacque del patto del sangue se Jacque già sapeva tutto sulla sua esistenza? Dubris e Acilia credevano davvero che questo patto potesse essere la salvezza della Dixon, Jacque invece lo negava.
“Magari alla Dixon piace farsi… bere” tentò.
Il suo creatore scosse la testa, pensoso. “È per questo motivo… se esiste il patto del sangue per i simpatizzanti, io… ci sarà pur qualcos’altro per umani invece che sono… normali” fece “Ehm… con rispetto parlando, Claire” si affrettò ad aggiungere.
Eike ponderò bene le sue parole.
Qualcos’altro.
Il ventre di Claire era ancora scoperto ed Eike rimase fermo a fissare il marchio.
Per chi mi hai presa? Io ho il marchio!
“Claire” esclamò, come folgorato “quante ce ne sono, quante persone hanno il marchio? In quanti siete simpatizzanti?”.
La ragazza aveva gli occhi spalancati, colpita da quella domanda. “Beh, non saprei, non siamo tanti, io ne conosco un’altra…”.
“Ma siete comunque più di uno!”. Eike quasi gridò.
Claire si ritrasse un pelo, spaventata.
“Eike, che diavolo…” cominciò Jacque.
“Hai ragione, Jacque, c’è qualcos’altro” disse Eike, sentendosi quasi lampeggiare gli occhi “Dubris ha detto che il patto del sangue è stato realizzato una sola volta, con una sola persona! Dev’essere qualcos’altro!”.
“Ma che stai dicendo?”.
Eike ghignò. Solo la notte prima aveva pensato di custodire la conversazione privata che aveva origliato tra Acilia e Dubris per più tempo, per divertirsi vedendo come si sarebbero evoluti gli eventi.
Ma in quel momento aveva capito che essere utile per il suo creatore gli avrebbe dato molta più soddisfazione.
 
 
 
Spagna, 1394
 
Accarezzava con sguardo morbido le stoffe che lo circondavano. Gliele sistemò tutte intorno, per dargli maggiore calore e intimità.
Lui le prese la mano e lei se la fece stringere. La sua pelle era ruvida, le vene e le rughe risaltavano nel suo biancore. Ma era fresca, stava lentamente cedendo il calore che aveva.
Lei la sollevò e se la strofinò sul viso, socchiudendo gli occhi. Oh, sì, era fresca.
Riaprì gli occhi e vide il volto del vecchio piegato nelle rughe del sorriso, un sorriso dolce.
“Cara ragazza” disse lui, con voce tremolante “come sei bella, fatti guardare”.
Lei strinse ancora con più vigore la mano, sentendosi vicina al pianto.
“Non so perché tu ti prenda cura di me… ma… grazie” continuò l’altro, a fatica.
La ragazza strinse le labbra, per non dire nulla. Le parole non erano mai servite.
“Mi ricordi proprio…”. Il vecchio tossì. “Mi ricordi proprio una ragazza di cui mi sono innamorato da fanciullo, hai i suoi stessi occhi, incantevoli”.
Lei si lasciò andare in un enorme sorriso. “Allora ti ricordi?”.
“Cosa dovrei ricordare?”.
Abbassò il volto, per nascondere la delusione. Si portò una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio e rimase lì, in silenzio. Non c’era più nessuno in quella casa, per quel vecchio. I suoi fratelli erano morti, le sue sorelle erano state prese dalla pazzia del mondo, di figli, scioccamente, non ne aveva voluti avere.
C’era solo lei, per lui.
Sotto le sopracciglia grigie e folte, i suoi occhi marroni, un tempo dorati, si erano fatti piccoli, stanchi, circondati da pieghe.
“Tu… non dovresti stare dietro a me, sai, un vecchio che sta morendo…”.
Lei scosse la testa, mordendosi le labbra più che mai. “Non stai morendo…”.
“Dovresti stare fuori, all’aria aperta, sotto il sole…” proseguiva lui.
La giovane donna non poté trattenere un sorriso, mesto e malinconico. “È notte”.
“Curioso” disse il vecchio, guardando un punto imprecisato sul soffitto, con aria perplessa “È notte e sono sveglio… da quant’è che non dormo di notte?”.
“Vuoi dormire?”.
A lei bastava anche solo guardarlo, guardarlo mentre lentamente si assopiva, e sprofondava nel sonno. Un giorno dal sonno non si sarebbe più svegliato, e lei sarebbe stata sola.
“No” biascicò l’altro “mi piace la tua compagnia”.
Era contenta. Aveva ancora la mano intrecciata nella sua.
“Dai, dormi… devi dormire”.
“No”.
“Perché?”.
Il vecchio chiuse gli occhi. Poi li riaprì subito, li teneva spalancati, come era solito fare.
“Perché… quando poi mi sveglio, ho paura… di non trovarti più”.
Lei chiuse gli occhi e la sua voce soffocata emise un singhiozzo, sentendo al suo interno ogni parte di lei andare in frantumi, compreso il suo cuore strozzato, e calpestato, spento.
 
*
 
 
Acilia era in casa quando Jacque rientrò.
Lui si strofinò la bocca sulla manica, come sempre dopo aver mangiato, senza guardarla. Lei si sedette sul divano, in attesa. Sapeva benissimo che lui aveva qualcosa da dirle. Lo capiva da come esitava sulla soglia, ciondolante, con lo sguardo sul pavimento.
“Jacque” sospirò infine lei “devi dirmi qual…”.
“Mi odi dunque a tal punto?” disse lui interrompendola, sempre con lo sguardo basso. Non era lo sguardo di chi cercava qualcosa da dire, era uno sguardo arrabbiato.
“Ma che vuoi dire?” fece lei.
Con uno scatto lui fu a un passo da lei. Le troneggiava sopra, le sopracciglia aggrottate e una smorfia sul volto.
“Esiste un modo per salvare Emily e tu me lo vuoi tenere nascosto”.
Acilia abbassò il volto, alla ricerca di qualcosa da dire. Non le importava come lui fosse venuto a saperlo, i vampiri non erano tanti e le voci circolavano.
“Guardami!” sbottò lui.
Lei, impotente, obbedì.
“Il patto del sangue” fece Jacque “Che cos’è?”.
Non l’aveva mai guardata così e Acilia si sentì ferita.
Tieni ad Emily così tanto?
“Sai benissimo che cos’è”.
“Una parte, io ne conosco una parte”.
Acilia si alzò in piedi, sospirando. Dopotutto era stato stupido cercare di tenerglielo nascosto.
“Per fare un patto coi vampiri ci vuole coraggio” disse, con lo sguardo abbassato. Poi lo alzò e guardò la sua progenie dritta negli occhi. “E soprattutto, ci vuole una buona motivazione”.
La maschera dura di Jacque stava svanendo. Acilia era riuscita a fare centro, a farsi ascoltare, come sempre.
“Non puoi dire di conoscere Emily Dixon” andò avanti lei “il legame tra il vampiro e l’umano che il vampiro vuole proteggere col patto dev’essere un legame forte”.
“Emily è talmente spaventata che non andrà mai da nessuno a dire che…” cominciò Jacque ma Acilia lo interruppe, parlando ad alta voce e scandendo bene le parole: “La paura non è un legame, è il suo esatto contrario. La paura fa fare cose stupide, non ci si può fidare di un’umana che ha paura!”. Finì la frase quasi gridando. Il sangue nelle sue vene pulsava, proprio come avrebbe fatto il suo cuore.
“E cosa intendi per legame?” sbottò Jacque “Un legame d’amore? Io ed Emily dovremmo fingerci innamorati?”.
Acilia non rispose e l’altro andò avanti, crudele: “È questo che ti dà fastidio, Aci?”.
Non hai capito niente.
“Non posso proibirti di fare ricorso al patto del sangue” disse lei, dopo un po’ “ma dovrai fare attenzione, io non ti posso aiutare, sarete voi e la Rappresentanza”.
“Beh” disse lui, ammorbiditosi un poco “tanto vale provarci no?”.
Acilia lo guardò tristemente. “Sei un vampiro migliore, Jacque… Migliore di molti altri”.
Jacque aveva definitivamente abbandonato il suo sguardo feroce.
“Non certo di te”.
La ragazza piegò le labbra in un sorriso stanco. Sapeva che lui lo pensava davvero. “Quante persone hai ucciso, Jacque?”.
Lui inarcò le sopracciglia, perplesso. “Sai benissimo che ne ho uccise tante” disse, un po’ rude.
Acilia annuì. Tante era un concetto molto relativo.
“Non devi” disse, con la voce che si incrinava. Si sforzò di mantenerla ferma e autoritaria come al solito, ma quando parlò di nuovo non capì se ci era riuscita. “Non devi salvare una vita per ogni vita che hai ucciso, lo sai vero?”.
Vide che Jacque spalancava gli occhi. La sua mente ora cercava un ricordo lontano.
“Ti metterai nei guai” continuò Acilia, lasciando andare la voce sempre più giù, in un eco, in un sussurro.
Jacque aveva lo sguardo confuso. “Con la Rappresentanza?”.
L’altra scosse la testa. “Con te stesso”.
Lui era ancora sconcertato e lei gli si avvicinò. Gli sfiorò la guancia, rievocando nella mente ricordi che aveva cercato più e più volte di fare a pezzi.
“Salvala ma, se puoi, salvala senza affezionarti a lei”.
Jacque aveva lo sguardo impietrito. Acilia conosceva bene quell’espressione, era l’effetto che gli faceva. Lo catturava e lo imprigionava dentro di sé, e lui era docile, impotente, così buono. Così ingenuo…
Lui continuava a guardarla e ritrovò la voce. “Non so se sono ancora in grado di affezionarmi in quel senso”.
Acilia ritrasse la mano, sentendosi in colpa. Lei aveva vissuto i suoi duemila anni. Aveva sbagliato e aveva imparato. Non aveva il diritto di impossessarsi della vita di Jacque e di fargli fare quello che voleva.
Aprì la bocca, in cerca di qualcos’altro da dire, ma non le venne niente, nessuna parola. Duemila anni di vita, e ancora non trovava le parole. Sconfortata, si allontanò, verso la botola, per andare a dormire.
L’ennesima alba stava giungendo, e la tentazione di correre incontro al sole era più forte che mai.
 
 
 
Giorno 23
 
Ieri sera Vampiro è stato qui. Non so cosa mi sia preso, sono impazzita, gli ho chiesto di trasformarmi.
Il cuore mi batte ancora forte se ripenso a quell’istante in cui le sue… come posso chiamarle, zanne? Erano a un solo centimetro dal mio collo. Gli ho chiesto se ci potevamo rivedere, stasera, nel bosco. Forse in quel momento, con la mente annebbiata, pensavo di farmi trasformare stasera. La verità è che quando mi ha detto che ancora non ha trovato una soluzione non ci ho visto più. Non ce la faccio più a vivere nella paura… Ma è una cosa stupida, anche se fossi un vampiro, vivrei nella costante paura di essere cacciata e braccata. Diventerei un essere repellente, che fa del male alle persone, diventerei un animale…
Vampiro però non sembra un animale. A volte mi viene voglia di conoscerlo. So già qualcosa in più su di lui. Si chiama Jacque, è francese. Beh, si chiamava Jacque ed era francese. Ora è solo… Vampiro. Chissà se se la sente ancora un’identità addosso. Ha detto di avere ottanquattro anni da vampiro, quindi vive da più di cento anni, molti di più. Mi sembra così incredibile… Quel bambino che quella sera dopo il lavoro era con lui… Chissà quanti anni ha lui. Ho avuto tanta paura di quel bambino, ma cosa si prova ad essere in un corpo che non potrà crescere mai più? Abbiamo più paura noi o hanno più paura loro?
Le domande sono una furia nel mio cervello e il momento si sta avvicinando. Il sole sta per calare e io non ho intenzione di mancare alla parola data. Non lo so, non lo so cosa farò, quando sarò lì a pochi passi da Vampiro, se di nuovo il mio cervello partirà e io vorrò diventare come lui. Vampiro ha detto che di notte si prendono decisioni stupide. Io penso più che altro che di notte si fanno pensieri strani, si prendono decisioni che non si prenderebbero di giorno. Le cose di notte assumono una prospettiva diversa.
Forse è semplicemente per questo che i vampiri ci sembrano così diversi da noi.
 
 
 
Era lì che lo aspettava.
La vedeva, timorosa, che si nascondeva dietro ad un albero.
Cosa sei venuto a fare?
Continuò a camminare, lentamente, un passo alla volta.
La vuoi trasformare?
C’era un po’ di vento e i capelli castani di Emily si libravano oltre la corteccia. Lui si avvicinò ancora un po’ e lei uscì allo scoperto, timidamente.
Non aveva un volto particolarmente grazioso, ma era carinamente imbarazzata, e Jacque si sentì addolcire. Era strano, gli sembrò per un momento di precipitare negli anni e nel passato, si sentì un attimo solo come un umano, un ragazzo che usciva con una ragazza. E, a giudicare dalle guance rosee di lei, era il loro primo appuntamento.
Si era voltato indietro parecchie volte durante il cammino. Probabilmente Dubris l’aveva fatto mettere sotto sorveglianza, ne sarebbe stato capace.
Emily ormai era vicina a lui e lui disse con voce ferma: “Non ti trasformerò”.
Lei fece per aprire bocca ma Jacque fu più veloce: “Lo sai cosa avrei voluto da giovane?”.
Emily non diceva niente così lui andò avanti: “Sognavo di avere un lavoro, una famiglia, dei figli. Tutto ciò che ho avuto è stato invece dover guardare i miei familiari morire uno ad uno, di vecchiaia, di malattia, mentre io, sempre sano e sempre giovane, andavo avanti, e vivevo la mia vita da parassita”.
L’umana non dava segno di voler parlare.
Jacque continuò: “Era questo che ero diventato. Conservavo sempre lo stesso aspetto, nulla poteva scalfirmi, la spagnola non mi avrebbe preso, avrebbe preso tutti tranne me. E questo perché ero solo uno schifoso parassita”.
Emily incrociò le braccia sul petto, in ascolto. Stringeva le labbra, forse aveva ancora paura, o forse stava solo riflettendo. Jacque non si era fatto nessun discorso ma le parole non cessavano di uscire dalla sua bocca: “Hai presente la storia di Dorian Gray?”.
“Certo” disse subito la ragazza, sconcertata.
Jacque strinse i pugni. Non ricordava di aver mai fatto discorsi del genere con nessuno, neppure con Acilia. “Lo scorrere del tempo non produceva alcun effetto sulla sua pelle, sui suoi capelli o sui suoi denti. Ma la sua anima era marcia, putrida, per le cose terribili che aveva commesso…”.
“Non l’hai scelto tu” lo interruppe Emily ad un tratto. Poi, ripensandoci aggiunse: “Dico bene?”.
“No” rispose lui, mesto “non l’ho scelto io”.
“Non sono venuta qui perché mi trasformassi” continuò lei, con la voce che tremava un poco “non lo sceglierò neanch’io”.
Jacque quasi trasse un sospiro di sollievo. I due si guardarono senza sapere che dire e dopo qualche attimo di imbarazzo Emily, come se fosse la padrona di casa, si sedette sulle radici dell’albero, invitando Jacque a fare altrettanto. Lui obbedì e appena si fu sistemato lei parlò: “Devi odiare chi ti ha fatto questo”.
Acilia.
“No” rispose dopo un attimo di esitazione. Non sarebbe bastata una parola per definire il misto di sensazioni che provava per Acilia, ma neanche un intero libro probabilmente. Quindi non disse altro.
Emily era sconvolta. “Come è possibile?”.
Jacque rispose con un’altra domanda. “Riusciresti mai ad odiare tua madre o tuo padre?”.
La ragazza aveva una faccia pensosa. Dopo qualche secondo disse, a bassa voce, come se stesse parlando tra sé: “È per questo che non vuoi trasformare nessuno”.
Jacque fu sorpreso. Quella donna non era stupida come sembrava.
“Però” proseguì Emily, visibilmente curiosa “quel bambino che era con te… era tuo, non è vero?”.
Jacque sentì vagamente una nota d’accusa in quel tuo. O forse era tutto frutto della sua paranoica immaginazione, che gli si rivoltava sempre contro, con l’arma del rimorso.
Annuì, aspettando la prossima domanda. Perché l’hai fatto?
Ma non arrivò. Ancora Emily non chiese, ma dichiarò, di nuovo a bassa voce, come se non era sicura, come se volesse una conferma. “Immagino tu non abbia avuto scelta”.
Lui, ancora sorpreso, annuì. “Il periodo di Eike era un brutto periodo. L’hanno ucciso le SS, in realtà”.
“Tu l’hai salvato allora”.
A quelle parole, Jacque si scurì in volto. “I vampiri non salvano mai, dannano, e basta”.
“Ma…”.
“Se ti avessi conosciuto settant’anni fa” la interruppe lui, guardandola fisso “non avrei esitato neanche un secondo dal trasformarti, se questo avesse potuto salvarti da morte certa”.
Emily assunse un’aria spaventata. Jacque sentiva il suo cuore battere forte.
“Se non mi trasformi… mi uccideranno?”.
Lui non rispose e lei andò avanti, la voce sempre più incrinata. “Tu non mi trasformeresti mai, ma mi lasceresti morire!”.
Jacque non lo sapeva cosa avrebbe fatto. Ma aveva un piano, e per ora contava solo quello.
Le mise una mano sulla spalla, per rassicurarla. “Forse c’è una soluzione, e non prevede né la morte né la dannazione”.
Il cuore di Emily diminuì il suo battito, tornando quasi alla normalità. “Forse?”.
“Si tratta di fare un patto… con i vampiri” spiegò Jacque “ma devo ancora accertarmi su come funziona”.
L’umana era bianca in volto. Era ovvio che fare un patto coi vampiri la terrorizzava.
“Con dei vampiri buoni” proseguì lui in fretta, senza curarsi del fatto che vampiri esattamente buoni non esistessero.
“Come te” disse Emily, più tranquilla.
Jacque ricordò le parole di Acilia. Tu sei un vampiro migliore.
“In realtà” disse “si tratta più di vampiri progressisti. Quelli che tu definiresti cattivi invece sono i conservatori”.
Emily aveva la bocca aperta.
“Al potere adesso ci sono i vampiri progressisti, più esattamente il Partito Per la Convivenza”.
“Voi… voi avete un sistema politico?!”.
Jacque accennò ad un sorriso. “Non siamo del tutto animali”.
Emily era stralunata. “Partito per la convivenza… Convivenza tra umani e vampiri? Noi… noi vi cacciamo e voi avete un partito che predica la… convivenza? Oh mio Dio… Siamo noi gli animali!”.
Jacque si mise a ridere, e fu strano. La sua risata riecheggiava in maniera strana nelle sue orecchie. Non se la ricordava più, la sua risata?
“Emily” disse, tornando serio “il PPC è pura utopia”.
Ma lei rossa in volto, ancora frastornata, non lo ascoltava. Dopotutto quella era una gran notizia, e lei era una giornalista. “Il mondo deve sapere che esistono dei vampiri buoni pronti a…”. S’interruppe, senza sapere come continuare.
“Pronti a cosa?” fece Jacque “Pronti a morire di fame per proteggere gli umani?”.
Emily non disse niente, lo sguardo abbassato.
“Non può esistere nessuna convivenza” continuò lui, tristemente.
“Tu mangi” fece la ragazza di punto in bianco, guardando Jacque spaventata “E ogni volta che mangi, uccidi”.
“Ho ucciso” assentì Jacque “ma ho imparato a controllarmi. Il punto fondamentale su cui verte il PPC è questo: mangiare per sopravvivere”.
“E cosa vorrebbe dire?”.
“Non ci serve svuotare un intero umano per sentirci sazi. Non è necessario uccidere”.
“Ma c’è chi lo fa” disse Emily, pensosa “I conservatori di cui parlavi prima, giusto? I cattivi”.
Jacque annuì gravemente.
“A voi ora sembra il caos” disse “ma se al governo dei vampiri ora ci fosse il Partito Oscuro, per voi umani sarebbe la fine”.
Emily aveva di nuovo un’aria terrorizzata. Jacque si pentì di quello che aveva detto, non aveva intenzione di spaventarla. Ma poi si rese conto che non erano le sue parole ad averla impaurita.
Voltò piano la testa e vide subito che loro e l’albero erano circondati da almeno cinque ombre nere. Una di quelle si fece avanti e Jacque riconobbe i capelli rossicci di Dubris.
“Abbiamo interrotto qualcosa?” disse il prefetto, falsamente dispiaciuto.
Emily si era involontariamente spinta contro l’albero, e tremava.
Jacque si alzò in piedi e le si parò davanti, odiando Dubris più che mai.
Le parole di Acilia gli rimbombavano forti nella testa.
Salvala, ma, se puoi, salvala senza affezionarti a lei.
“Sei stupido come al solito, Jacque” disse quello, tagliente “Credevi che non avessi capito che ti incontri regolarmente con questa umana?”.
Con tutto rispetto, prefetto, sei tu che non hai capito un cazzo.
Jacque non poté fare a meno di esibire un sorrisino.
“Hai ragione, Dubris, mi incontro con Emily regolarmente. Tutte le notti”.
Il prefetto aveva un’aria spaesata e, dietro di sé, sentiva lo sguardo confuso e atterrito di Emily.
Jacque fece scorrere il suo sguardo su tutti i vampiri presenti, prima di andare avanti.
Dubris, da sconcertato, qual era, assunse uno sguardo furioso. Probabilmente aveva capito e Jacque si sentì fiero quando disse: “È per questo che faccio appello al patto del sangue”.
 
*
 
 
Era buio e Acilia aveva ormai smarrito la strada.
Cercava di stare nascosta nei boschi il più possibile di solito, lei doveva vivere nell’ombra, nell’emarginazione, nel costante timore di essere scoperta, dagli umani oppure dal sole.
Aveva appena mangiato, era sazia, e viaggiava veloce.
Si sentiva sporca, avrebbe dovuto lavarsi al fiume. Non aveva avuto ancora modo di trovare una sistemazione in quel paese dove tutti parlavano di qualcosa che ancora vagamente ricordava il latino, ma che latino non era. Raggiunse quello che doveva essere un villaggio, o una piccola città.
Era deserto. Non era ancora notte, eppure non c’era una sola persona in giro. Di case e botteghe ce n’erano, tutte chiuse. Sentiva delle urla e si sentì inquietata. Ma non aveva nulla da temere, anzi, avrebbe potuto aiutare qualcuno che era in difficoltà. Cercò di capire da dove quelle voci provenivano. Girò su se stessa, confusa, guardando ovunque. Quelle erano urla di dolore. Qualcuno stava forse morendo?
Corse in qua e là finché finalmente la vide. Un’abbazia, lì in fondo, nascosta da alcune case. Era da lì che provenivano le urla. Strizzò gli occhi e capì chi era che urlava. Fuori dall’abbazia, affianco alle pareti, c’erano tantissimi corpi, gli uni sugli altri. Quelle persone erano ferite! Erano state pugnalate o avvelenate, e ora cercavano aiuto nell’abbazia. Ma perché nessuno apriva la porta?
Acilia corse da loro ma ben presto si rese conto che nessuno di quelle persone si muoveva. Fu costretta a tapparsi il naso e quasi urlò per l’odore nauseabondo che aleggiava in quel luogo. Quei corpi erano marci,  qualcuno era vestito, altri erano nudi, ricoperti di bubboni neri. Erano morti, tutti morti e le urla provenivano dall’interno dell’abbazia.
Acilia annaspò di fronte a quello spettacolo raccapricciante. Indietreggiò e quasi inciampò nei propri piedi, pateticamente.
“Ehi! Cosa fate qui?” gridò una voce maschile, dietro di lei.
Si voltò intimorita e vide che poco lontano da lei c’era un giovane, vestito di stoffe rattoppate, con le mani sporche e robuste che tenevano saldamente un secchio.
Acilia non sapeva cosa dire. Lì c’erano dei morti, ma era ovvio, quel ragazzo li doveva pur vedere!
“Venite via da lì” disse quello, con tono autoritario “Venite via!”.
Lei gli obbedì e lo raggiunse con passo affrettato.
Lui aveva il volto stanco e triste, i capelli erano sporchi e gli occhi marroni privi di qualunque vitalità. Quegli stessi occhi la perquisirono dalla testa ai piedi. Acilia si strinse nella sua toga ormai grigia.
“Non troverete niente lì” disse il giovane “hanno rubato già tutto quello che si poteva rubare”.
Acilia si sentì ferita nell’orgoglio. “Io non rubo” disse solo.
“E allora cosa facevate in mezzo ai morti?” ribatté l’altro, vuotando il secchio vicino ai piedi di lei.
Lei si ritrasse dall’acqua sporca, senza trattenere una smorfia.
Lui la fissò. “Sembrate venire da altri tempi”.
Acilia lo ignorò. “C’è qualcuno che urla nell’abbazia” disse.
Il ragazzo scrollò le spalle. Aveva delle belle spalle, larghe, possenti. “Urlano sempre”.
“Chi?”.
“I malati” disse lui, stupito.
Acilia non disse niente e dopo un po’ il ragazzo si voltò, dandole le spalle. “Fareste meglio ad andarvene prima di essere condannata” disse mentre si allontanava.
La via della perdizione Acilia l’aveva già intrapresa da tempo. E paradossalmente l’avrebbe protetta.
“E voi?” gli urlò dietro.
Lui si fermò e si voltò di nuovo verso di lei, infastidito. “Non posso abbandonare la mia famiglia”.
Lei lo raggiunse di nuovo. “C’è qualche malato?” chiese.
“Tre dei miei fratelli, e mio padre” disse l’altro, senza lasciare trapelare alcuna emozione “Dicono che prende solo le anime dannate, ma è solo questione di tempo, e ci prenderà tutti”.
Di nuovo si girò e fece per incamminarsi.
Acilia lo lasciò andare, turbata. Il mondo intero stava morendo? Cosa intendeva quel ragazzo quando diceva che prendeva le anime dannate? Lei lo era, dannata. Lo sguardo le andò al cumulo dei morti davanti all’abbazia.
Si voltò di nuovo e con sua sorpresa vide che il giovane era ancora lì, e si era di nuovo voltata a guardarla.
“Voi da dove venite?” le domandò.
“Da lontano” rispose Acilia, vaga.
“La vostra famiglia?”.
Acilia esitò. “Sono tutti morti” disse dopo un po’. Dopotutto non era una bugia.
Il ragazzo aveva qualcosa di simile a una smorfia di dolore sul viso. Le si avvicinò. “Come vi chiamate?”.
“Acilia” rispose lei senza pensare.
Lui accennò a un vago sorriso. “Mi dispiace, Acilia.”.
“E voi? Come vi chiamate?” chiese lei, incantata da quegli occhi spenti. Sentiva il battito del suo cuore, fioco e triste, lo sentiva vicino a lei.
Lui si grattò la testa, e della polvere scura cadde dai suoi capelli.
“Il mio nome è Miguel. Piacere di conoscervi”.















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Capitolo 8
*** Bestie ***


Capitolo 7
CAPITOLO VII
BESTIE
 
 
 
Quel vampiro che li aveva trovati nel bosco ora stava girando per la sala, a grandi passi, inquieto. Ad Emily faceva una gran paura. Era seduta su un divano vecchissimo, accanto a lei Jacque era l’unica cosa che la rassicurasse e le impedisse di piangere o urlare scappando via. Sarebbe stata una cosa stupida, scappare. Non l’aveva dimenticato quello che le aveva detto Jacque quel giorno nel bosco. Non puoi sfuggire ad un vampiro.
In piedi di fronte a loro, rigida e immobile in maniera quasi disumana, stava la vampira mora che Emily aveva visto solo due sere prima fuori da quella casa. Quella era casa sua, e le metteva una tremenda soggezione.
“Il patto del sangue” stava dicendo il vampiro che Jacque aveva chiamato Dubris “Jacque, cosa sai del patto del sangue?”.
Emily non capiva se quel Dubris fosse dalla loro parte.
“So che ci vuole una motivazione per accedervi” rispose Jacque “so che bisogna andare davanti all’intera Rappresentanza, e so che…”. S’interruppe, pensieroso.
“Sì?” lo incoraggiò Dubris, con tono odioso. Sembrava avesse raggiunto il punto a cui voleva arrivare.
“Fanno un tatuaggio, all’umano” concluse Jacque.
Un tatuaggio?
Emily si voltò di scatto a guardarlo. Lei gli odiava i tatuaggi! Erano privi di senso, dolorosi, e mancavano di gusto estetico.
“Spero che la motivazione che ti spinge a fare quest’appello sia forte tanto quanto il dolore che la tua umana proverà” disse Dubris, velenoso.
Emily trattenne il respiro. Faceva così male?
“Sempre meglio che la trasformazione” sibilò Jacque.
Nessuno disse niente e lui andò avanti: “Perché non mi avete detto niente? Perché non mi avete mai parlato di questa possibilità?”.
“Lo sai perché ci vuole una buona motivazione, Jacque?” ribatté Dubris.
Emily vide lo sguardo dell’interpellato appoggiarsi per un momento sulla vampira. Non rispondeva.
L’altro andò avanti, privo di sorrisetti provocatori: “Perché è pericoloso, sia per te, sia per l’umana. Di te non ce ne frega poi molto, se vieni denunciato sono poi affari tuoi”. Emily poté giurare che la vampira, nella sua freddezza, avesse mosso le ciglia. E forse – non ne era però troppo sicura – le labbra le erano tremate.
“Ma l’umana… l’unica sua colpa è di essersi imbattuta in un imbecille che si è rivelato” continuò duramente Dubris “Perché questa è l’unica motivazione che hai, non è vero?”.
“Che cosa ne sa la Rappresentanza?” replicò Jacque “potremmo anche fingere di essere innamorati!”.
Emily sgranò gli occhi. Innamorata di un vampiro? Lei? L’immagine di sua madre che si disperava perché non avrebbe potuto far da mangiare al suo nuovo “fidanzato” le fece quasi scappare un sorrisetto.
“Mentire alla Rappresentanza?” sbottò Dubris, come se avesse sentito bestemmiare.
Emily non voleva che Jacque finisse nei guai per colpa sua. E Dubris le incuteva timore. Avrebbe potuto trasformarla lui stesso lì seduta stante, Emily quasi si chiese perché non lo facesse.
Se questo patto era davvero così pericoloso…
Ma cosa c’era di pericoloso? Qualcuno della Rappresentanza si sarebbe potuto alzare e gridare: “Ehi! Questa sembra avere delle cosce succulenti! Al diavolo il patto, mangiamocela!”. Accidenti, lo sapeva che avrebbe dovuto mettersi a dieta finché era in tempo. Incontrò per un momento gli occhi glaciali della vampira, incastonati nel suo corpo perfetto e pensò che la sua mente ormai era arrivata al delirio.
“Scusate” si costrinse a dire, con voce fioca e intimidita. Dubris non sembrava averla sentita e lei insistette. “Scusi, signor vampiro” disse, sentendosi più stupida che educata “Perché sarebbe pericoloso… per me?”.
Dubris roteò la testa nella sua direzione così velocemente che Emily si chiese se non gli fosse venuto il torcicollo.
“Lo sai come si fanno i tatuaggi, Emily?” domandò, con il tono da non-lo-puoi-sapere-perché-se-no-saresti-morta-di-paura. Di paura Emily ce l’aveva, ma il tatuaggio, in tutta sincerità, era la cosa meno spaventosa di tutta la questione.
“Con… ago e inchiostro?” tentò, giusto per non stare zitta.
Dubris parve stupito dalla risposta. Poi la sua faccia si incattivì. “Ma tu credi che noi ci mettiamo a disegnare?”.
Emily si sentì sotto pressione. “Beh, sarebbe discriminatorio da parte mia credere che voi non abbiate passatempi” sparò. Sgranò gli occhi subito dopo, il delirio si stava impadronendo di lei.
“Diglielo tu Jacque cosa usiamo, al posto dell’inchiostro” disse Dubris, ignorandola – fortunatamente –.
Jacque esitò un attimo. Poi parlò: “Il sangue”.
Che schifo.
“Di vampiro”.
Emily si voltò a guardarlo col cuore che decelerava. Sangue di vampiro?!
“È grazie a quel sangue che loro… sentiranno le tue emozioni” continuò Jacque “È così che sapranno se andrai dai cacciatori”.
Le mie emozioni?! Emily non era sicura di aver capito bene, ma per ora la cosa che le premeva più sapere era cosa volesse dire avere sangue di vampiro nel corpo. Non poteva essere certo un toccasana. Guardò Dubris, in attesa di spiegazioni. E lui non la deluse.
“I primi patti del sangue sono stati un fallimento” disse “Non sapevamo come regolarci con le dosi, e iniettavamo troppo sangue di vampiro nel corpo degli umani”.
La ragazza deglutì. Non era sicura di voler sapere. “E cosa è successo loro?”.
“Il sangue di vampiro trasforma” rispose l’altro, facendo una pausa d’effetto “ma, come potete benissimo immaginare, nessuno della Rappresentanza vuole accollarsi un vampiro infante”.
“E quindi?” chiese Emily, ansiosa “Li uccidevano?”.
Dubris scosse la testa. “Ogni cinquant’anni ogni vampiro della Rappresentanza ha il dovere di versare una goccia del proprio sangue nell’Ampolla del Patto. Il sangue che viene utilizzato per questi tatuaggi non è il sangue di nessuno, è una miscela di sangue di vampiro”.
Emily non capiva che differenza facesse. “E allora?” chiese, nervosamente.
“E allora chi è stato creato non aveva creatore” disse Jacque quasi in un sussurro.
La ragazza si voltò a guardarlo, ancora più confusa. Cos’era, uno scioglilingua?
“Emily” disse Dubris, guardando Jacque “Riesci a immaginare il dolore e la confusione di un bambino senza genitori?”.
“Beh, io…”.
“Immaginalo!” urlò il vampiro, portando lo sguardo su di lei.
Emily spalancò gli occhi e si costrinse ad immaginare qualunque cosa gli venisse in mente. Pensò a un bambino abbandonato su un marciapiede, pensò agli orfanatrofi, cercò di figurarsi nella mente un bambino che piangeva.
“Un vampiro senza creatore” continuò Dubris, tornando a un tono di voce normale “sta cento volte peggio”.
L’immagine del bambino sparì e la mente di Emily disegnò un ragazzo, con le zanne che gli spuntavano da sotto il labbro superiore, che se le toccava urlando. Riusciva quasi a sentire le sue grida, a vedere i suoi occhi, rossi iniettati di sangue, col suo corpo che si trasformava, mentre lui non riusciva a capire.
“Che fine hanno fatto?” domandò la voce di Jacque “Che fine hanno fatto questi umani che sono stati trasformati per sbaglio?”.
“I loro amici vampiri che volevano fare il patto hanno cercato di aiutarli. Ma loro ormai avevano perso la ragione. Mi ricordo che uno di loro era diventato talmente pericoloso che l’hanno dovuto uccidere”.
Emily deglutì. Certo che diventare un vampiro non doveva essere molto piacevole.
Jacque aveva uno sguardo assorto, sembrava stesse pensando ad altro.
Poi si riscosse. “Ma ora le dosi sono giuste” fece, speranzoso “Pochissimo sangue di vampiro non fa niente, e ne basta pochissimo, non è vero?”.
Dubris annuì, controvoglia. “In realtà dipende dalla reazione che ciascun corpo umano ha. La maggior parte degli esseri umani soffre atroci dolori quando ha il sangue di vampiro nel corpo, perché il vostro stupido patetico sistema immunitario ovviamente reagisce, ma non muore, né si trasforma”.
Emily lo stava guardando concentrata e quasi sussultò quando Dubris avvicinò il suo volto malefico circondato da ricci rossi al suo. “Naturalmente si tratta di statistiche, sono sicuro che una giornalista comprende bene”.
Certo che dovevano dargli un premio in oratoria a quello. Doveva essere uno importante, uno ai piani alti, per riuscire a parlare così.
“Fai la tua scelta” disse una voce femminile.
Emily sussultò. Si era quasi dimenticata della presenza di quella vampira che sembrava una statua di ghiaccio. Si era mossa e stava venendo verso di loro.
“È una scelta che spetta soltanto a te, Jacque non ha nessuna voce in capitolo”.
La ragazza annuì. Cercò di mantenere la mente fredda e di ragionare.
Aveva due opzioni. La prima era di essere trasformata in un vampiro, da Jacque. Jacque sarebbe stato il suo creatore, se aveva capito bene cose fosse un creatore, e lei non sarebbe impazzita. Ciò significava che la Rappresentanza non sarebbe stata costretta ad ucciderla e lei avrebbe potuto vivere per sempre la sua bella e felice vita da vampira. La seconda era di fare un patto, che le avrebbe procurato un orrendo tatuaggio, con una discreta quantità di sangue di vampiro nel corpo, che forse non l’avrebbe fatta ammattire o uccidere. C’era qualcosa di così sbagliato in tutto quello che finì per maledirsi solamente, invece di prendere una decisione.
“Emily? Allora?”.
Si voltò. Era Jacque che lo chiamava. Lui non voleva essere il suo creatore, questo era chiaro. E lei neanche ci teneva ad essere un vampiro. In realtà non le avrebbe fatto piacere neanche bersi tutto il cervello per colpa di una miscela schifosa di sangue di vari vampiri.
Poi c’era il piccolo particolare che i suoi genitori ormai a quest’ora si stavano sicuramente chiedendo dove cavolo era finita, lei, gravemente malata.
Forse era lo sguardo di Jacque che la irritava, forse quello di Dubris che la guardava con aria di sfida, o forse il suo stomaco che brontolava, sta di fatto che rispose di getto, senza più pensarci: “Scelgo il patto”.
 
 
 
Spagna, 1350
 
“Sete… Ho sete…”.
Acilia riempì per la decima volta la ciotola d’acqua quella sera. L’accostò con attenzione alle labbra screpolate e violacee della ragazza. Il contatto con la ciotola le fece mugugnare qualcosa e socchiudendo gli occhi con aria avida, Ines bevve tutto. Acilia le accarezzò i capelli color cenere con dolcezza, guardando il colorito sempre più spento del suo volto.
“Miguel” chiamò, senza smettere di guardare quella ragazzina che non poteva avere più di quindici anni “Miguel!”. Non ottenne risposta e decise, a malincuore, di abbandonare Ines e uscire di casa. Dopotutto doveva prendere altra acqua. Afferrò il secchio vuoto e mentre usciva passò affianco a Leandro. Doveva essere stato un ragazzo robusto un tempo. Dormiva e solo ogni tanto dava segno di soffrire. Acilia sperava che stesse davvero migliorando.
Arrivata alla soglia fece per aprire la porta quando sentì delle voci al di là di quella. Una apparteneva a Miguel, l’altra a sua madre.
“Ma come potete voler mandarla via dopo tutto quello che ha fatto?”.
“Che cosa avrebbe fatto? Li ha uccisi, Miguel! Ha ucciso tuo padre, e anche Manuel!”.
Acilia strinse con più vigore il manico del secchio. Sapeva bene che stavano parlando di lei. Sapeva bene che la madre di Miguel non la vedeva di buon occhio, lei, una sconosciuta che veniva da chissà dove, che poteva essere portatrice di peste, che si sistemava nella loro casa.
“Ogni notte li ha assistiti, per permetterci di dormire! È la peste che li ha uccisi, madre!”.
“La notte! E di giorno, di giorno dove va? Dove va ogni giorno? L’hai mai vista con la luce del sole? Chi vive di notte è…”.
Colpi di tosse e lamenti distolsero Acilia dalla conversazione. Si voltò e vide che Leandro si era svegliato. Sia lui che la sorella imploravano per avere dell’acqua.
Acilia si decise ad uscire, ignorandone le possibili conseguenze. Non provava alcun odio nei confronti della madre dei ragazzi che stava accudendo, perché, dopotutto, faceva bene a diffidare di lei.
Aprì la porta e i due si voltarono di scatto verso di lei.
Sentì lo sguardo inquisitorio della signora dappertutto. Non aveva subito fatto caso a lei, a quegli occhi piccoli e accusatori, all’inizio. Ma dopo la morte del marito si era fatta sempre più pallida, sempre più rugosa e i suoi occhi non smettevano mai di guardarla.
“Hanno sete” spiegò in fretta Acilia “Vado a prendere dell’acqua”.
Miguel si affrettò a prenderle di mano il secchio. “Vado io”.
Sua madre, con un’espressione quasi di disgusto, si allontanò e rientrò in casa, sbattendosi dietro la porta.
Acilia non voleva più rientrare in casa. E poi Ines e Leandro non avrebbero avuto niente da temere con loro madre accanto. “Vengo con voi” disse a Miguel.
Lo seguì tra la desolazione della città. La situazione non era cambiata molto dalla sera del suo arrivo. Qualche altro morto era stato buttato come un sacco di patate a marcire fuori dalla porta di casa e qualcuno correva di tanto in tanto a invocare aiuto all’abbazia, e a volte si vedevano delle suore col volto ricoperto da un retino che avanzavano con passo deciso in tutte le direzioni. Ma erano spettacolo rari, il più delle volte la gente non usciva di casa. Forse erano quasi tutti malati. I frati non sapevano più cosa fare, prescrivevano dei salassi, continuamente, ma Acilia dubitava avessero qualche effetto. E anche loro ormai erano sempre meno, e sempre più spaventati. Alcuni erano fuggiti subito, all’inizio, le aveva spiegato Miguel, nauseato. Gliel’aveva detto suo cugino, Javiero, che era priore della città. Era un buon priore, Miguel era fiero di lui, ma neanche lui, di fronte a tanta crudeltà, riusciva più a difendere Dio.
“Avete sentito tutto, non è vero?” domandò il ragazzo d’un tratto.
Acilia si riscosse dai suoi pensieri. Javiero che nella sua mente predicava di non avere paura dell’aldilà, che chi era buono non aveva niente da temere, scomparse. E apparve la madre di Miguel che urlava che lei, Acilia, non lo era, buona. “Ho sentito qualcosa”.
“Perdonatela. Ormai è folle di tristezza e di paura”.
Non c’era bisogno di perdonare nessuno.
“Lo so” disse solo.
Al pozzo c’era quella che sembrava una fila disordinata. In realtà le persone quasi facevano a botte per aver subito dell’acqua. Miguel sospirò. “Stiamo tutti impazzendo”.
Acilia annuì, stordita. Non voleva giudicare nessuno. Ognuno tentava di sopravvivere come poteva, l’aveva fatto anche lei stessa. Forse era per quello che si ostinava a stare in quella città, in quella casa ad aiutare quelle persone. Non era altruismo come pensava Miguel da qualche settimana, era solo egoismo. Ogni giorno, subito dopo il tramonto, viaggiava in cerca di altre città, per nutrirsi, per poi venire nella città di Miguel, e per sentirsi umana, lasciandosi alle spalle tutta la sua schifezza, per affrontare la condizione di miseria di qualcun altro. In ogni città, in ogni villaggio, vedeva morte ovunque, ma la fame incalzava, non la lasciava riposare. E poi, con quella maschera d’essere umano, andava da quelle persone bisognose, si prendeva cura di loro, mentre altre le aveva uccise.
“Perché fate questo per noi?” domandò Miguel d’un tratto, guardandola “Non avete paura del contagio? Dicono che sia una malattia che si attacca”.
Acilia abbassò lo sguardo. Voleva purificare la sua anima, sentirsi pulita, anche solo per un po’, pentirsi di tutto il male che aveva compiuto e che continuava a compiere. Ma questo non poteva certo dirlo.
“Non voglio che vi accada qualcosa” continuò l’altro in un sussurro.
E io non voglio che accada qualcosa a te. Acilia avrebbe voluto piangere.
La peste continuava a prendersi le persone buone, aveva preso Manuel, il fratellino di Miguel. Era la stessa cosa che faceva lei. Si prendeva le persone… Lei era come la peste…
Vicino al pozzo le persone continuavano a dare di matto. Acilia aveva avuto l’impressione che stessero bisticciando per avere l’acqua ma era qualcosa di diverso. In mezzo a loro c’era un frate, Acilia riconosceva la tunica marrone, con una frustra in mano. Stava spronando ad alta voce le altre persone a fare qualcosa e loro lo guardavano con gli occhi gonfi di dolore.
“Che sta succedendo?” fece Acilia.
Miguel, il volto contratto per la concentrazione, sembrava avere una vaga idea di quello che stava capitando. La prese per un braccio e la tirò indietro, dietro di sé. Subito dopo la guardò stranito.
“Avete freddo?”.
Acilia si ricordò di essere fredda come la morte e come la peste. Ogni volta che qualcuno la toccava e le chiedeva se aveva freddo, i brutti ricordi dilagavano come in un torrente. Scosse la testa e riportò lo sguardo verso il frate con la frustra. Una ragazza piangente si era spogliata e si era messa a chinino, pronta ad essere frustrata. Acilia non capiva. Ci aveva messo molto, molto tempo a capire cosa la gente intendeva quando diceva Dio, chi erano i frati, i preti e chi era il papa. Ma l’aveva capito, pensava di averlo capito.
Guardò Miguel mentre il primo colpo arrivava schietto e sonoro sulla schiena della giovane. “È questo il vostro Dio?!”.
Lui indietreggiò. “Bisogna dirlo a Javiero” disse in un soffio. Subito corse via prendendo Acilia per mano. Lei non si ritrasse neanche, ormai lui l’aveva sentita quanto era fredda. Capì che le piaceva il calore che lui la trasmetteva, quel sudore che era nella sua mano, e passava nella sua, la faceva sentire umana.
Corsero fino all’abbazia ma la porta era già aperta. E Javiero stava correndo fuori, chiamato da altri monaci.
“Javiero!” urlò Miguel.
Il priore si voltò verso di lui con aria arrabbiata. “Si tratta di frate Nemesio, non è vero?”.
“Non l’ho visto, io…”.
Javiero si fece largo tra le persone, con Miguel e Acilia alle calcagna.
“Cosa sta succedendo, Jav?”.
“Nemesio ha perso la testa” spiegò lui, continuando a camminare “Dice che se ci puniamo da soli, Dio non avrà motivo di punirci con la peste”.
Acilia sgranò gli occhi. “Come fa a pensare una cosa del genere?” esclamò.
Il priore si soffermò a guardarla, incerto. La ragazza per un momento si sentì intimorita. Javiero era un vero uomo di Chiesa, un uomo nel giusto. Che potesse vedere che dietro ai suoi occhi non c’era traccia di nessun Dio?
Ma dopo poco, le rispose: “Non è l’unico. Ce ne sono tanti che lo pensano”.
Continuarono ad avanzare finché non raggiunsero Nemesio. La ragazza fustigata aveva la schiena tutta rossa, ma non c’era solo lei. Altre persone si erano spogliate e inginocchiate, in attesa della loro punizione.
“Fermi!” tuonò la voce di Javiero.
Nemesio si fermò a guardarlo, con la frustra in mano, levata per aria.
“Fratello Nemesio, ti ordino di rientrare”.
“Almeno io ce l’ho una spiegazione per quanto sta accadendo” disse quell’altro, con tono velenoso “La peste è stata mandata da Dio, per punirci! Perché siamo malvagi!”.
“Mio fratello Manuel aveva dieci anni!” gridò Miguel, pieno di rabbia “Come poteva essere malvagio?”.
Acilia si accorse che la sua mano era ancora all’interno di quella del ragazzo quando lui la strinse ancora di più, mentre parlava. Lei non lasciò la presa.
“Siamo tutti cattivi” replicò Nemesio “L’umanità intera è cattiva, è marcia! È per questo che Dio ci punirà tutti!”.
Acilia aveva voglia di ridere. Aveva sentito dire che tutte le cose erano create da Dio, allora Dio non poteva esistere, perché altrimenti, non avrebbe mai creato un essere immondo come lei. La peste non era una punizione, proprio come non lo era lei, che mangiava solo ed esclusivamente per assecondare i suoi desideri.
Javiero era corso ad alzare le persone che stavano in ginocchio in attesa della fustigazione. “Sciocchi!” li rimproverava “Credete davvero di aver capito cosa vuole Dio da voi? Non siate così presuntuosi!”. Alzò lo sguardo su Nemesio, dopo aver aiutato l’ultimo uomo ad alzarsi. “E anche tu, fratello, non peccare più di presunzione, o mi vedrò costretto a cacciarti”.
Nemesio, sconfitto, se ne andò a grandi passi verso l’abbazia e la folla cominciò a disperdersi.
Javiero rivolse invece i suoi passi verso Miguel ed Acilia. “Come stanno?” domandò.
L’acqua.
Acilia lasciò la mano del ragazzo e gli prese il secchio dall’altra in un lampo. Corse verso il pozzo mentre sentiva Miguel che rispondeva: “Male”.
Mentre legava il secchio alla corda, sentì i passi di Miguel dietro di sé. Si voltò. Lui prese la corda con le sue mani forte, facendola allontanare.
“Per quanto male vadano le cose” bisbigliava, calando il secchio giù nell’oscurità “non si può cedere così, non possiamo diventare bestie”.
Acilia sgranò gli occhi, portandosi la mano alla bocca.
Non siamo bestie.
L’aveva sempre saputo, in angolo di lei stessa, sepolto da tanto crudeltà, quell’insegnamento non se n’era mai andato.
Invece l’hai dimenticato.
Guardò Miguel, mentre tirava la corda, stringendo i denti, più per il dolore che per la fatica. Le sue mani ormai erano tutte consunte, rovinate.
“Si aggrappano ad ogni piccola speranza” fece Acilia. Lei sentiva di capirli, sentiva di capirli tutti.
Non tutti sono forti come te.
“Miguel!” fecero delle voci.
Entrambi si voltarono. Due ragazze stavano correndo nella loro direzione. Acilia le riconobbe, erano altre due sorelle di Miguel, allontanate da casa per lasciarle al sicuro.
Il ragazzo estrasse il secchio, lo poggiò per terra, poi corse ad abbracciarle.
La più piccola delle due scoppiò a piangere. “Quando possiamo tornare a casa?”.
Miguel si chinò e la baciò sulla fronte. “Non ancora, Lolita, non ancora”.
Acilia notò che le due sorelle si tenevano per mano.
La più grande – doveva avere più o meno la sua stessa età di un tempo – si accorse del suo sguardo e si stizzì. “Lei è ancora a casa nostra” disse, e non sembrava una domanda.
Miguel fece per aprire bocca ma lei continuò. “Perché lei può occuparsi dei miei fratelli e io no?” sbottò “Io volevo essere accanto a nostro padre quando è morto!”. La sua voce si alzò e si incrinò, Miguel l’abbracciò mentre lei scoppiava a piangere. Poi lui si staccò e guardò entrambe.
“Acilia è libera di correre i rischi che vuole” disse, serio “Voi no, ve lo proibisco, è chiaro? Voi starete lontano finché non sarà tutto finito!”.
Acilia incrociò le braccia, a disagio. Non c’era nessun posto sicuro in realtà, quella di Miguel era tutta illusione.
“Vedrete che finirà” continuò il ragazzo “Ve lo prometto… Finirà…”. La voce si stava spezzando anche a lui e Acilia si voltò per non invadere quel quadretto familiare.
Ma la voce di Miguel era di nuovo ferma quando parlò di nuovo. “Agnese, ti prego, continua a prenderti cura di Lolita… E anche di te stessa”.
Le due ragazze lo abbracciarono di nuovo, poi se ne andarono, in una scia di singhiozzi sommessi.
Acilia si avvicinò a Miguel. “Dove stanno?”.
“C’è una nostra amica che le ospita” spiegò lui “Vive da sola e non ha contratto le peste”.
“Come fanno a mangiare?”.
“Come facciamo noi, suppongo”. Passò qualche attimo, poi Miguel scoppiò a piangere.
Acilia aveva voglia di abbracciarlo e consolarlo, ma si sentiva inadeguata. Troppo fredda e troppo sbagliata. Lui piangeva la morte delle persone a lui care. Chissà quante persone avevano pianto a causa sua, di Acilia, persone che trovavano i loro cari, morti in maniera strana, colpiti da una qualche malattia perversa, demoniaca, che ti prosciugava tutto il sangue. Era questo che diceva la gente.
Miguel si asciugò gli occhi. “Lo sai che se potessi, ti manderei a vivere da loro”.
Acilia sentì qualcosa di lei tremare, qualcosa che non poteva essere il cuore. Le aveva dato del tu, e lei si sentì infinitamente in colpa, per l’immagine che lui si era fatto di lei.
Il ragazzo socchiuse gli occhi, gli tremavano le mani.
Non siamo bestie.
Acilia lo urlava dentro di sé. Non doveva più dimenticarselo, mai più, e forse così lei avrebbe potuto guardarlo negli occhi senza sentirsi morire, di nuovo.
Poi Miguel starnutì.
Acilia si allarmò. “Miguel, state bene?”.
Lui era ancora più pallido e starnutì di nuovo. “Sì, sono solo stanco”. Acilia poteva vedere le goccioline di sudore che si formavano e scivolavano via dalla sua fronte. Si precipitò dal secchio pieno d’acqua.
“Avete sete?” chiese, cercando di stare calma.
“Sì”.
Lui era scivolato a terra, la testa tra le mani.
Lei si inginocchiò di fronte a lui, il secchio affianco alla sua gamba destra. Miguel guardava l’acqua con un vago senso di desiderio, lei lo vedeva riflesso nell’acqua. Poi la sua espressione divenne confusa, lui la stava guardando con occhi strani. “Non vedo il tuo riflesso nell’acqua” disse, spaesato.
Acilia tuffò d’istinto le mani nel secchio per cancellare ogni cosa che non c’era, le congiunse e raccolse un po’ d’acqua. Avvicinò le mani alla bocca di Miguel e quello succhiò bramosamente. Ma non gli bastava. Prese a leccarle le mani, le mani fredde come fossero cristallizzate nel ghiaccio, dovevano dargli sollievo, mentre la febbre saliva.
Acilia lo lasciò fare, riprese l’acqua più volte, lui la beveva, mentre piangeva. E l’acqua che aveva addosso, che gli colava dalla bocca, si mescolava con le lacrime. Acilia gli prendeva le lacrime, gli metteva le mani addosso, lo toccava e lo stringeva e lui gemeva, con le mani le afferrava i polsi sul suo viso, per sentire fresco, per avere pace. Lei non aveva più paura di essere considerata fredda, di essere scoperta morta.
Non siamo bestie.
“Non lo dimenticherò” sussurrò, in quello strano abbraccio con Miguel “Non lo dimenticherò…”.
La notte stava arrivando e lei si alzò in piedi, sollevando il ragazzo senza alcuna fatica. Lui non diede segno di essere sorpreso, o se lo era, non disse nulla. Acilia lo aiutò a camminare verso casa, sforzandosi di non vacillare neanche un secondo, mentre malediceva quel Dio di cui parlavano tutti, mentre pensava che le sarebbe piaciuto vivere ancora un po’ di tempo con Miguel.
Dopotutto lei di tempo ne aveva tanto, troppo.
 
*
 
 
Avrebbero agito quella notte.
Jacque non era mai stato davanti alla Rappresentanza Vampiresca, e non era esattamente una di quelle cose che avrebbe voluto fare a tutti i costi prima di morire.
Sia Emily che Dubris stavano trafficando in salotto al telefono, l’una per avvertire a casa che sarebbe stata fuori tutta la sera, l’altro per prenotare un appuntamento d’urgenza alla Sede.
Lui e Acilia erano in cucina, lei era a braccia conserte proprio davanti a lui.
“Credi che stia sbagliando?” chiese lui ad un tratto. Odiava quella parte di lui che doveva sempre essere rassicurata dalla sua creatrice.
Lei lo guardò con un vago cipiglio. “Tu o lei?”.
Jacque scrollò le spalle. “Non so, tutti e due immagino”.
Acilia sospirò. “Le fa bene, cerca solo di salvarsi”.
“Non è così rischioso, vero?”.
Jacque sperava che Dubris volesse solo spaventarli, ma nel momento stesso in cui pose la domanda ad Acilia si rese conto che nemmeno lei voleva che lui sapesse del sangue. Allora forse voleva spaventarli anche lei.
“Non è una cosa che si fa spesso” rispose la ragazza, alzando le spalle “Il patto coi simpatizzanti va bene da molti anni… Però in loro si inietta ancora meno sangue”.
“Perché?” domandò l’altro, sorpreso.
“Suppongo che sia perché… i simpatizzanti, li controllano meno. Chi entra in amicizia con un vampiro e vuole fare il patto è visto come fosse più pericoloso. Sai, l’amicizia o l’amore… possono svanire”.
Acilia sembrava ponderasse ogni parola che diceva, era strano. Di solito parlava sicura e sciolta.
Jacque annuì. “Invece la voglia di farsi bere non può svanire” disse.
“Beh” fece l’altra con un sorriso “i simpatizzanti non sono mica tanto normali”.
Per un po’ nessuno dei due parlò, poi Jacque si fece coraggio. “E io?”.
“Cosa?”.
“E io sto facendo la cosa giusta?”.
Acilia non rispose subito. Abbassò lo sguardo sui propri piedi. Sembrava cercasse di ricordare qualcosa.
“Il desiderio di creare dovrebbe essere una cosa naturale, quasi una pulsione irrefrenabile” disse “se ti opponi è progresso e il progresso non è sbagliato”.
Jacque non era sicuro di aver capito bene, ma sembrava che gli stesse dicendo di sì.
“Non siamo bestie” continuò l’altra, sempre assortita. Poi rivolse il suo sguardo a lui. “Stai evolvendo in fretta, Jacque”.
Allora perché me l’hai tenuto nascosto?
Perché non gli aveva mai parlato del patto, se credeva fosse la cosa giusta? Era come diceva Dubris? Era perché era molto pericoloso? Ma Acilia di pericoli ne aveva affrontati tanti nella sua vita… Non era una che si tirava indietro, o forse ora lo era. Non era più in politica da tantissimo tempo.
Voleva chiederle tante cose ma la domanda che gli uscì dalla bocca fu un’altra.
“Quando ho trasformato Eike... Anche lì ho fatto la cosa giusta?”.
Si rispondeva ogni santo giorno e si diceva di no, no, che un ragazzino di dodici anni non doveva morire ma neanche vivere in quel modo. Sapeva che lo pensava anche Acilia, ma lei, dopo quella notte di settant’anni prima, non ne aveva più parlato.
Vedeva chiaramente che lei non sapeva cosa rispondere.
Lui insistette. “Dubris ha detto che un vampiro senza creatore impazzisce. È a questo che servono le parole del rito, non è vero? Tu me le hai fatte pronunciare”.
Acilia sembrò sorpresa. “Non siamo streghe, non pronunciamo incantesimi” disse con un sorriso “Io credo però che quelle parole aiutino a far capire all’umano che è in punto di essere creato chi è il suo creatore”.
Secondo Jacque quelle parole spaventavano e basta.
“Quindi in un certo senso forse hai ragione, chissà” proseguì lei.
L’altro fece spallucce. Forse quella formula era solo una tradizione antica. “Ma chi le ha inventate?” chiese poi.
“Non lo so”.
In quel momento comparve Dubris.
“Ce l’ho fatta. L’elicottero sarà qui a momenti” disse, pomposamente. Poi si guardò intorno. “Dov’è l’umana?”.
“Sta parlando al telefono con i suoi genitori” rispose prontamente Jacque.
Dubris parve metterci qualche attimo a capire e Jacque inarcò le sopracciglia. In effetti non sapeva quanti anni avesse Dubris, ma pensava che lui, avesse anche collezionato migliaia di anni, il concetto di genitore se lo sarebbe ricordato.
Sentì dei passi timorosi dietro di lui e si voltò.
Emily, col cellulare in mano, li stava guardando con un mezzo sorriso nervoso. “Sarei pronta”.
“Cosa dovevi dire ai tuoi genitori, Emily?” domandò Dubris.
Jacque lo guardò esterrefatto. Voleva mettersi a fare conversazione?
“Beh, che non torno per cena” rispose Emily, stupita altrettanto “E non è stato neanche molto divertente perché ho dovuto spiegare che mi sentivo molto meglio, che domani torno a lavorare… Poi ho dovuto inventarmi con chi uscivo a cena e…”.
Dubris sembrava essersi fermato solo al primo pezzo. “Che non torni per cena? Non sei un po’ vecchia per vivere ancora coi genitori?”.
Emily avvampò. “Lavoro da neanche un anno, non ho i soldi per comprarmi una casa” si difese.
Jacque emise una risatina. Era buffa, tutta rossa. Nessuno di loro ovviamente poteva più arrossire.
“Ah già” fece Dubris, con un gesto noncurante della mano “Ai nostri tempi era molto più facile per voi, vero Aci? Mamma e papà ti trovavano un marito ed eri già sistemata”.
Acilia non aveva esattamente l’espressione di approvare ma assentì.
“Sei stata promessa a qualcuno?” domandò Emily, le cui guance erano tornate di un colorito normale.
L’altra donna le rivolse uno sguardo distaccato. “Con un cretino” rispose “ma fortunatamente sono morta prima che mi potesse anche solo toccare”. Concluse con un sorriso serafico.
“Oh”. Emily sembrava non trovare altri argomenti.
Un rumore fece sobbalzare Jacque e lui si guardò intorno, così fece Emily.
“È arrivato l’elicottero” disse Dubris, tranquillo, accingendosi ad uscire dalla cucina.
“Elicottero?” fece Emily, sgranando gli occhi.
Dubris si voltò, scocciato. “Con che altro mezzo pensavi di andare? Tu e Jacque non sapete volare, no?”.
“Ehm…”.
L’altro le diede di nuovo le spalle. “È così seccante viaggiare con gente che non sa volare” lo sentì borbottare Jacque.
Emily lanciò uno sguardo indeciso a Jacque e lui annuì. Entrambi fecero per andare ma qualcosa trattenne il vampiro per il braccio. Si girò e vide che ad Acilia era comparsa di nuovo l’espressione preoccupata di prima. Aveva la bocca aperta ma non diceva niente.
Jacque fu colto da un dubbio. “Tu non vieni?” chiese, spaesato.
“No” rispose lei.
“Perché?”.
“Non mi va… di vedere la Rappresentanza”.
Jacque si sentì deluso. Sperava di avere la sua creatrice al suo fianco. “Guarda che non è che se ti vedono ti catturano per farti rientrare in politica” tentò.
Acilia scosse la testa. “Devi cavartela da solo”.
Emily lo stava aspettando e lui solamente annuì, per andare da lei, lasciando la sua creatrice con quella strana, insolita, espressione di apprensione. 
 
*
 
 
Ines era morta da qualche giorno, Leandro da appena due ore.
Miguel aveva le lacrime gli occhi e non riusciva a trovare nessuna pace. Stringeva le stoffe del suo letto, scalciando a intermittenza di qualche minuto. Non chiedeva spesso dell’acqua come facevano Leandro e Ines. Forse voleva morire in fretta, per porre fine a quel tormento.
Acilia gli teneva le mani sulla fronte bollente per cercare di raffreddarlo.
Non sapeva bene descrivere quale fosse il suo stato d’animo. Di brutti momenti ne aveva passati tanti, non era quello il momento più triste della sua vita. Era diventata più fredda, se un ragazzo che le piaceva fosse morto non sarebbe cambiato molto, nella sua eterna vita. Ma il mondo stava crollando a pezzi, con la peste che dilagava, e anche lei, lentamente stava crollando a pezzi. Se non era quello il momento più triste della sua vita, allora perché si sentiva così afflitta? Perché aveva di nuovo quella matta voglia di urlare, quella voglia di buttarsi a capofitto sotto il sole? Aveva ricominciato a chiedersi perché non l’aveva ancora fatto, dopo tutti quei secoli, cosa la teneva ancora ancorata alla vita? Qualcosa, o qualcuno, a cui teneva, c’era sempre, che le diceva di restare… Anche quando era viva, sua madre e sua sorella la tenevano ancorata a quella vita di sacrifici, quando avrebbe potuto fuggire con Damiano, se solo fosse stata un po’ più coraggiosa. Di coraggio non ne aveva mai avuto, e non ce l’aveva neanche ora che era un essere impuro e mezzo morto, non ce l’aveva il coraggio di morire davvero. E raggiungere Damiano, che purtroppo non era altro che un ricordo sbiadito che pulsava fiocamente.
Lo amavi davvero?
Miguel tossì e Acilia si ritrovò le braccia imbrattate di sangue. Automaticamente avvicinò il braccio alla bocca, sentendo l’odore del sangue. Le narici le si erano dilatate, sentiva il dolore usuale alle gengive, i canini che spingevano.
Prima di toccarlo con la lingua si rese conto che quella era sangue malato, del ragazzo che stava tentando di proteggere. Le gambe e le braccia le si erano irrigidite per il desiderio.
Puoi azzannarlo, tanto sta morendo… Di certo quel sangue non ti avvelenerà…
Si leccò il braccio di scatto, avidamente. Subito dopo cadde per terra, tenendosi stretta al pavimento, sforzandosi di non attaccare.
Morirebbe comunque…
“No” digrignò “No…”.
L’immagine di Damiano steso a terra, rinsecchito, senza più neanche una goccia di sangue la invase completamente. Lo vedeva ovunque. Lo vedeva lì accanto a lei. Alzò le mani per accarezzarlo ma non toccò nulla. Le mani le caddero sul pavimento e lei si sentiva tremare. Non c’era nessuno lì per terra. Solo lei, a lottare contro la sua più totale follia.
Non siamo bestie…
“Sete…” biasciò Miguel, da qualche parte.
Anch’io ho sete.
Non mangiava da giorni. Appena tramontava il sole lei si precipitava da Miguel, per vedere come stava, se era ancora vivo, non riusciva a pensare ad altro.
E tu lo vorresti uccidere?!
Un altro pensiero le si insinuò nella mente, così, all’improvviso.
Non lasciarlo morire, trasformalo.
Ci pensò davvero. Ma rimase lì, con le unghie avvinghiate al pavimento. Trasformare era come uccidere, e non riusciva a prendere una decisione.
Sentiva quanto soffriva, ed era insopportabile.
Trasformalo!
Lei era stata trasformata perché se no sarebbe morta. Era stata salvata o dannata? Avrebbe preferito morire? O le andava bene quell’esistenza che conduceva? Non riusciva a trovare una risposta. In realtà la risposta era lì accanto a lei, quel corpo di Damiano che ancora vedeva quando chiudeva gli occhi, che le diceva che lei lo era davvero, una bestia.
Rimase accovacciata contro il letto di Miguel, sforzandosi di non guardarlo, per non farsi venire strane voglie. Riprese a leccare lentamente il sangue che aveva sul braccio. Aveva un sapore disgustoso, ma lei aveva sete, tanta sete.
“Sete…”.
Proprio come un’ammalata di peste.
In quel momento la porta di casa si aprì e nell’unica stanza che c’era piombò una figura grassa che per un momento Acilia riuscì ad identificare solo come cena.
Poi si accorse che era la madre di Miguel e che la stava guardando con occhi e bocca spalancati, con un’espressione terribile sul volto. “Mostro! Cosa stai facendo?!”.
Acilia aveva ancora la lingua a penzoloni. Subito la ritrasse e si alzò in piedi.
“Strega! Sei una strega! Cosa stai facendo?!” sbraitava la donna.
Acilia captò poco di quello che aveva detto. Più una persona era arrabbiata, più urlava, più la vena del suo collo si ingrossava. Non lo capiva la gente, che era davvero in pericolo quando si arrabbiava…
“Vuoi uccidermi anche lui!” continuò a urlare l’altra, fuori di sé, le lacrime agli occhi.
Furono le lacrime a distogliere Acilia dalla sua fame. Le lacrime sincere di una donna di mezza età che aveva perso tutta la sua famiglia.
Non poteva ucciderla, non poteva, non lì, davanti a Miguel moribondo, che non poteva fare nulla per salvarla. Vedeva chiaramente il suo volto nella mente, furioso e deluso, mentre le urlava che la peste gli aveva ucciso il padre e i fratelli, e lei, lei gli aveva ucciso la madre…
“No…” pigolò la sua voce, squarciando quel disegno che si era formato nella mente della ragazza “Non è vero… Acilia… resta…”.
“FUORI DA CASA MIA!” strepitò la signora, ignorandolo e piombando addosso ad Acilia. La lanciò via con una forza disumana. “LONTANA DA MIO FIGLIO!”.
Acilia si lasciò strattonare e buttare fuori di casa, senza opporre resistenza. Poi la porta di casa fu richiusa con violenza e sentì al suo interno esplodere un pianto disperato.
Si alzò in piedi, scrollandosi di dosso polvere e terra. Forse era vero che lei sarebbe stata un pericolo per Miguel, ricordò come era stata sul punto di morderlo solo pochi attimi prima.
Rimase davanti alla soglia per un po’ di tempo, sperando che si aprisse. Non riusciva a capacitarsi del fatto che non avrebbe più rivisto Miguel, perché lui sarebbe morto. Morto davvero.
S’incamminò, pensando che avrebbe dovuto trasformarlo. Poi avrebbero vissuto per sempre insieme, per sempre sani, nell’eternità.
Ma era uno spettacolo che aveva già visto, ed era un piano che faceva cilecca.
Non voleva creare un’altra bestia.
 
*
 
 
Stavano viaggiando da circa un’ora, e molto veloci.
Forse i vampiri non si rendevano conto che se si fossero schiantati, mentre loro non si sarebbero fatti niente, lei sarebbe morta.
Il vampiro che era ai comandi guidava l’elicottero fischiettando spensierato.
Emily si voltò a guardare i suoi compagni di viaggio. Dubris aveva perso quella strana voglia che aveva di conversare e si era chiuso in un silenzio stampa, Jacque invece sembrava piuttosto nervoso.
Beh, pensò mentre il fischiettare del pilota le entrava nelle orecchie, almeno qualcuno di allegro c’era.
L’elicottero era nero, e anche il sedile su cui era seduta. Nulla da ridire, dopotutto era un elicottero vampiresco che la stava portando a una specie di congrega dei vampiri.
Però si chiedeva come fosse possibile che i vampiri avessero un elicottero. E presumibilmente anche un palazzo in cui tenere le loro riunioni super segrete.
“Ehm” fece, per iniziare “ma voi rubate?”.
Dubris e Jacque la guardarono sgomenti.
Okay, forse c’erano altri milioni di modi per chiedere come si procurassero le loro cose.
“Insomma” disse Emily, nervosamente “come fate ad avere un cellulare? Una casa? Un elicottero?”.
Se il governo avesse saputo di quell’elicottero, ci sarebbe stato da ridere.
“Noi non rubiamo” disse Dubris, quasi indignato “Noi incantiamo la gente per avere”.
“Che è un modo molto più figo per dire che rubiamo” aggiunse Jacque.
Emily sorrise. Meglio ladri che assassini dopotutto. Moriva dalla voglia di scrivere un articolo su tutta la faccenda, ma sapeva bene che non avrebbe mai potuto farlo. Aveva imparato la lezione.
Forse però sentiva davvero il bisogno di un pezzo di carta e di una penna, per scrivere. Quando scriveva sul suo diario faceva molta più chiarezza dentro di sé e le parole impresse sulla carta avevano tutto un altro effetto. Quello che invece ora aveva nella mente era solo un groviglio confuso di pensieri, che andavano dal tatuaggio di sangue alla congrega dei vampiri, da Dubris che era un oratore strano alla cena che rimpiangeva mentre il suo stomaco brontolava. Quando scriveva le cose assumevano tutta un’altra prospettiva, quasi quella di un romanzo serio e – nelle ultime settimane – drammatico. Invece ora si sentiva solo delirante e incapace di formulare una sola frase di senso compiuto.
Concentrati, si disse, prova a scrivere sul tuo diario. Ma già inciampava perché non sapeva neppure che giorno fosse dal fatidico incontro con Vampiro. Che non si chiamava più Vampiro, ma si chiamava Jacque. Eh no, era tutto sbagliato! Non sapeva neanche dove fosse!
Spiaccicò la faccia contro il finestrino per capire dove fosse ma, come era prevedibile, vedeva solo buio.
“Dove stiamo andando?” chiese.
“Ad Arcangelo” rispose pronto Dubris.
Emily strabuzzò gli occhi. Era così, dunque, stavano volando sempre più in alto fino a raggiungere il Paradiso?
“Non per offendere ma… Vi vedevo più come esseri… infernali?”.
Jacque scoppiò a ridere.
“Che conoscenze geografiche hai?” sbottò l’altro vampiro “Arcangelo è una città della Russia d’Europa”.
Oh, beh, certo.
“Avete scelto un luogo dal nome proprio simpatico” commentò Emily “proprio… azzeccato”.
Non aveva il suo diario dietro, non vedeva altro modo per uscire da lì se non fare un po’ d’ironia. Dare sfogo a tutti i suoi pensieri aggrovigliati la rilassava un poco.
E poi Jacque sorrideva sempre. Almeno riusciva a rilassare anche lui.
“È molto adatto per il clima” ribatté Dubris “Il sole tramonta presto”.
Il nervosismo del vampiro stava aumentando ed Emily pensò che avrebbe fatto meglio a tenere la bocca chiusa. Pensò a sua madre che le dava dell’infantile, e al fatto che tutti i fidanzati che aveva avuto non erano mai durati più di qualche mese.
“Cominciate a pensare a cosa dire davanti alla Rappresentanza” disse Dubris.
Un discorso?
“Ricordatevi” continuò “dovete fare gli innamorati”.
Oh cielo.
Emily si sentì diventare rossa mentre Jacque la guardava. Quindi avrebbe dovuto parlare davanti ai vampiri. Che cos’avrebbe potuto dire? Le attraversò la mente la fugace immagine di lei che crollava sulle ginocchia e scongiurava pietà. In quel momento le ginocchia le tremarono davvero.
Sta calma, sta calma…
Aveva assolutamente bisogno di una penna. Doveva scriverlo il discorso, se no non ce l’avrebbe mai fatta!
Guardò Jacque speranzosa ma, vedendo la sua espressione, le passò la voglia di chiedergli se aveva una penna. Sembrava perso in un suo mondo, concentratissimo, ma soprattutto, sembrava triste.
Beh, Emily capiva che fingere di essere il suo fidanzato era una cosa che lo rattristava alquanto però non era il caso di mettersi a piangere. Era lei che rischiava la pelle, lei avrebbe voluto mettersi a piangere!
Calma, calma…
Voleva una dannatissima penna!
Pure il pilota aveva smesso di fischiettare. Senza quel motivetto sereno nelle orecchie Emily quasi credette di esplodere. Poi si accorse perché il pilota non zufolava più. Era concentrato nella manovra di atterraggio.
Erano arrivati! E lei non aveva pensato a nessun discorso!
Si sentiva il vomito.
Mi chiamo Emily Dixon, e sono disperatamente innamorata di questo vampiro, Jacque.
Quasi le venne da ridere.
Mi ha stregata dal primo momento che l’ho visto, non lo denuncerei mai, mai. Non denuncerei nessuno di voi. Ho scoperto il vostro mondo e ne sono affascinata. Voi non siete cattivi, tentate solo di sopravvivere in un mondo di follia e dannazione, in cui siete precipitati chissà quanto tempo fa.
Beh, mica male. Certo, poi c’erano dei minuscoli dettagli, delle inezie proprio, come quello di cercare non balbettare, di non avvampare come un focolaio e anche, perché no, di non inciampare da qualche parte.
L’elicottero era atterrato nel più totale buio.
Emily si sentì scuotere e capì che Jacque le stava offrendo una coperta.
Una coperta?! Che dovevano fare, mettersi a dormire? Poi pensò che fuori doveva fare parecchio freddo e capì che quella coperta la poteva salvare. La prese con l’accenno di un sorriso.
Scese dall’elicottero subito dopo Jacque e Dubris e si avvolse nella coperta. Era tutto buio, non vedeva luci, oltre a quelle dell’elicottero e questo le fece pensare che erano in un campo.
In qualunque edificio dovessero andare, sicuramente ci sarebbe stato un po’ da camminare. Bene, perlomeno aveva un altro po’ di tempo per pensare al suo discorso.
Poi qualcosa la colpì alla testa e sentì la sua voce lanciare un oh sommesso mentre cadeva sulla sua stessa coperta che era scivolata a terra.

 

Sssssalve! : D Ultimamente mi stupisco della mia velocità, con la rinuncia alla palestra per questo mese, si studia e si scrive solo, è una meraviglia XD

Nene, grazie mille : D Però il caro Jacquolo è molto più preso da Acilia, che da Emily, mi pare XD Ma chissà che tu non abbia fatto previsioni per il futuro.. :P
Sara, un'altra fan! Piaaaaceeere (va beh, lasciamo perdere i convenevoli inutili, che non incantiamo nessuno XD) Eike ti inquieta? Ahahah  beh, inquieterebbe anche me.. Emily spero di averla resa un po' più interessante di come era nei vari spezzoni del Diario, come le persone scrivono e come vivono le situazioni.. cambiano tante cose! Grazie mille per esserti addirittura registrata, ovviamente aspetto un'altra recensionina u.u

REDTEARS, SEI IN RITARDOOOO XDXD

Baci a tutte ragazzuole <3 

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Capitolo 9
*** La realtà nello specchio ***


Capitolo 8
CAPITOLO VIII
LA REALTA’ NELLO SPECCHIO
 
 
 
Fu come risvegliarsi da un tremendo incubo. Aprì gli occhi e ci mise un po’ a focalizzare il soffitto. Storse il naso per il cattivo odore ed emise un rantolo. La testa gli faceva male, si sentiva sudato ovunque e un po’ stordito. Cercò di mettersi seduto e nel momento in cui ci riuscì capì che era da molto tempo che non si metteva così, seduto. Assomigliava vagamente ad un incubo sì, era tutto contornato da chiazze sfuocate e chiazze scure nella sua mente. Chiazze scure…
Miguel si scoprì dalle stoffe e si tirò su la tunica, in cerca dei bubboni. Gli sembrava di averlo solo sognato di avere la peste perché non c’era più nulla. Accompagnata da una fitta dolorosa alla testa una pioggia di ricordi lo invase. Suo padre, Ines, Leandro, Manuel. Tutti morti. Non l’aveva sognato, no.
E sua madre dov’era? E Lolita? E Agnese?
Cercò di farsi forza mentre tentava di scendere dal letto e un altro ricordo lo colse di sorpresa. Ogni volta che cercava di alzarsi da quel letto per fare i suoi bisogni faceva una gran fatica, e c’era sempre un braccio che lo sosteneva…
“Madre” chiamò, con una voce talmente fioca che neanche riconosceva come sua “Madre! Dove siete?”.
Riuscì ad alzarsi e si guardò in giro. I letti erano completamente sgombri ma c’era parecchio sporco in giro. Beh, ovviamente nessuno metteva più in ordine da… Quanto tempo era stato malato? Da quanto tempo erano morti i suoi fratelli?
Che giorno è?
Guardò fuori dalla finestra. Il sole era alto, doveva essere tarda mattinata, o primo pomeriggio.
Ma cos’era successo? Lui era davvero guarito? Aveva paura ad uscire di casa, aveva paura di cadere, o di contagiare qualcosa, o di scoprire che fuori da quella casa erano tutti morti…
“Madre!” chiamò di nuovo con un vago senso di panico nella voce, affrettandosi a prendere la sua cappa e ad uscire.
Aprì la porta e quasi stentò a riconoscere la sua città. Qualche bancone era stato portato all’aperto. C’era una mensa, e delle suore stavano distribuendo della zuppa e della birra. Alcuni bambini giocavano a rincorrersi e c’era un gran chiacchiericcio.
Miguel uscì e chiuse la porta. La peste dunque se n’era andata? Così, come era arrivata?
Faceva freddo. Stringendosi nella cappa avanzò qualche passo tremante, strizzando gli occhi, infastidito dalla luce.
Una sagoma stava venendo verso di lui, con una ciotola in mano.
“Miguel!”.
Era sua madre? Chi si era preso cura di lui tutto quel tempo?
Acilia?
La sua mente elaborò con fatica quel nome ma ad un tratto ricordò tutto di lei. La devozione con la quale aveva assistito i suoi fratelli, rischiando il contagio, le sue mani fresche che tentavano di dargli sollievo mentre lui, anche lui, era steso in quel letto di morte…
“Miguel!”.
La voce della donna lo riscosse e lui la riconobbe.
“Neva!” esclamò, con un sorriso.
Lei lo guardava con occhi sbarrati. “Cosa ci fai in piedi? Stai bene?!”. Senza aspettare una risposta gli ficcò la ciotola piena di zuppa nelle mani e poi gli tasto la fronte. “La febbre è scesa” disse, mentre le stavano venendo le lacrime agli occhi. “Già da giorni stavi mostrando segni di miglioramento ma io non osavo crederci… Non osavo…”. La voce le si ruppe. “Le tue sorelle saranno così felici!”.
Miguel aveva già trangugiato la zuppa, famelico. “Stanno bene? Agnese e Lolita? Tutte e due?” domandò, vacillante.
Neva annuì con un sorriso. “Nessun sintomo, e ormai è sempre meno la gente malata…”.
“E mia madre?” chiese l’altro, sperando di essere di nuovo rassicurato “Dov’è mia madre?”.
Neva spalancò gli occhi e si portò una mano alla bocca. “Oh… Non… Non te ne sei accorto… Tua madre è morta”.
Miguel inspirò a fondo. Doveva aspettarselo. “Quando?” chiese.
“Pochi giorni fa”.
“Quanto tempo sono stato malato?”.
“Tre settimane, più o meno”.
“Gliel’ho attaccata io, vero?” chiese il ragazzo, sentendosi in colpa. Sua madre aveva cercato di curare tutti i suoi figli, per vederli morire uno ad uno, e poi morire anche lei.
“Beh” sospirò Neva “se la sono attaccati un po’ tutti, no?”.
Miguel trattenne il groppo che aveva in gola.
“E Acilia?” sputò fuori all’improvviso. Sperava con tutto il cuore che non fosse morta, ma era così difficile… Era morta così tanta gente… “È viva?”.
Neva aveva un’espressione mortificata. “Non lo so, Miguel. Non l’ho più vista”.
Miguel strinse le labbra, sforzandosi di non cadere in lacrime. Acilia era un angelo venuto da chissà dove per aiutarlo a prendersi cura della sua famiglia, e il cielo ora se l’era ripreso. Sua madre era stata ingiusta con lei. L’aveva cacciata, se lo ricordava, anche se non si ricordava perché. Beh, bastava qualunque pretesto, lei l’aveva sempre odiata, Acilia.
“Mi accompagni a casa tua?” chiese il ragazzo “Vorrei rivedere le mie sorelle”.
Neva sorrise e si incamminarono.
Quando, aperta la porta di casa, Lolita e Agnese corsero tra le sue braccia, Miguel quasi pianse di gioia.
“Neva ci proibiva di venirti a trovare” pianse la più grande.
“Ha fatto bene” rispose lui, lanciando uno sguardo riconoscente alla donna “senza di lei, ora non saremmo qui”.
Lolita piangeva a dirotto. “Pensavo ci abbandonassi anche tu”.
Neva aveva uno sguardo soddisfatto. “Che vi avevo detto, ragazze? Il vostro Miguel è forte”.
Miguel non sapeva come ringraziarla per tutto quello che aveva fatto. Era una donna che viveva per conto suo, energica e indipendente. Lui non sapeva se questo c’entrasse qualcosa ma se lo aspettava, che la peste non l’avrebbe presa.
Ma ora doveva fare quella domanda che spingeva sulla punta della lingua. Dopotutto il suo cuore non smetteva di sperare. “Sapete qualcosa di Acilia?”.
Sentendo quel nome, Agnese storse il naso e scrollò le spalle. Invece Lolita disse: “Io l’ho vista qualche volta. Mi veniva a parlare”.
La sorella la guardò con la bocca aperta. “Non me l’hai mai detto!”.
“Mi avresti picchiata” bofonchiò l’altra, lugubre.
Miguel ignorò il loro battibecco, gli occhi fissi sul viso magro, e contornato di folte ciocche rosse, della ragazzina. “L’hai vista? Quando? E che ti diceva?”.
“Quasi ogni sera” spiegò Lolita “Quando uscivo per i miei bisogni la vedevo. Dopo un po’ ho capito che si presentava sempre circa allo stesso momento della giornata e mi facevo trovare. Mi chiedeva come stavi”.
Miguel aveva il cuore che batteva forte. C’era una probabilità che fosse viva…
“Quando è stata l’ultima volta che l’hai vista?” domandò, pregando con tutte le sue forze.
La sorella esitò un po’. “È da una settimana che non viene più” disse poi.
Il ragazzo si sentì sprofondare. Le ginocchia gli vacillarono un momento e lui cercò di farsi forza. Era ovvio che fosse morta, non doveva illudersi.
“Lo sai perché nostra madre l’ha cacciata?” s’intromise Agnese, con una nota dura nella voce.
Miguel la fissò stralunato.
La sorella aveva uno sguardo appuntito, fiero, e gli occhi gialli si erano fatti piccoli piccoli.
“Perché è una strega” decretò.
Il ragazzo non riuscì a trattenere la mano, che colpì sonoramente la guancia della ragazza. Lei mutò la sua espressione e lo guardò traboccante di indignazione. 
Neva intanto aveva preso per il braccio Lolita e l’aveva allontanata.
“Si è presa cura di nostro padre, dei nostri fratelli!” sbottò Miguel, furioso “E voi… tu e nostra madre…”.
“Non dire niente contro la nostra povera madre!” strillò l’altra, piangente.
Lui tacque. No, non avrebbe detto niente contro loro madre. Era una donna coraggiosa, straordinaria, che aveva ceduto alla disperazione, che aveva visto la sua famiglia che lentamente veniva fatta a pezzi. E, pace all’anima sua, lui non l’avrebbe mai dimenticata.
Sospirò, trattenendo le lacrime al ricordo di tutti i suoi familiari. La testa gli doleva ancora ma si sentiva un po’ più in forze di quando si era alzato.
Fece un misero, mesto, cenno di saluto prima di uscire di casa, lasciandosi alle spalle il pianto stizzito di Agnese. Vagò inquieto per la città, sforzandosi di non pensare ad Acilia ma più si sforzava di non farlo più ricordava i suoi capelli neri, il suo viso delicato, bianchissimo, i suoi occhi grandi e brillanti. Voleva rivederla, voleva ringraziarla… Le mani quasi gli fremettero per il desiderio. Avrebbe dovuto dichiararle i suoi sentimenti subito, baciarla senza pensarci, anche se intorno a loro era tutto morte, e credeva che non era il caso, credeva… Che cosa credeva? Che prima o poi la peste sarebbe finita? Che entrambi sarebbero stati vivi e che avrebbero potuto avere un futuro insieme?
I piedi l’avevano portato davanti all’abbazia. Ma certo, pensò, chiederò a Javiero se l’ha vista… se…
Si odiò per un momento. Si odiò perché non riusciva a smettere di pensare a lei.
Entrò di corsa nell’abbazia finché non incontrò un giovane frate.
“Il priore” fiatò “Vorrei vedere Javiero”.
Il frate si crucciò. “Javiero non è più priore”.
Miguel non capì subito. Com’era possibile che Javiero non fosse più priore? Lui era il migliore, non potevano averlo deposto dal suo incarico. “Come… chi…” balbettò.
“Nemesio è il nuovo priore” disse il frate, senza nascondere una smorfia.
Perché?
L’espressione dispiaciuta del frate che stava davanti a lui confermò i suoi sospetti.
“Javiero è… morto?” farfugliò, attonito.
L’altro annuì, con lo sguardo basso.
“Oh, beh… grazie”.
Miguel si voltò e corse fuori dall’abbazia. Continuò a correre anche in mezzo alla città, finché non ne uscì e non si ritrovò nei boschi. Solo allora si fermò.
Cosa diavolo stai facendo?
Si era preoccupato di tutti. Si era chiesto se fossero vive sua madre, le sue sorelle, Acilia… Ma non aveva pensato a Javiero. Dava per scontato che lui sarebbe stato vivo, sempre. Lui era il priore, che cosa avrebbero fatto senza di lui? Chi mai aveva consegnato la città nelle mani di Nemesio? Quale folle? Quale sarebbe stato il loro destino…
“Miguel?”.
Miguel si voltò di scatto, in cerca della voce che l’aveva chiamato. Si rese conto che era buio, perché non vedeva bene. Il sole doveva essere già calato. Calava presto, in quella stagione invernale.
“Miguel siete voi! State bene! Siete guarito!”.
Era una voce femminile, cristallina, sprizzante di gioia.
Non può essere vero…
La prima cosa che vide di lei furono gli occhi, inconfondibili.
“Acilia!” esclamò, andando verso di lei.
Senza neanche pensarci un attimo, mentre lei esitava, lui la abbracciò.
“Sei proprio tu… Sei viva…” biascicò, sentendosi vicino alle lacrime. Era fredda, come sempre, ma non gli importava. Anche se non aveva più la febbre e quell’insopportabile caldo, adorava la sua freschezza, che si confondeva con tutto l’inverno che avevano intorno.
Si staccò e la guardò in viso. Non era cambiata per niente.
“Miguel” cominciò lei, titubante “ascoltate… Io…”.
Ma lui non la fece finire. Preso da un momento di follia la baciò. Pose le labbra sulla sua bocca e quella si schiuse, in un bacio mortalmente freddo.
Si staccò immediatamente. “Stai male?” chiese, preoccupato “Perché sei così fredda… Perché?”.
Acilia aveva la bocca aperta ma sembrava non riuscisse a parlare.
Poi Miguel improvvisamente capì. Lei non lo voleva.
“Mi dispiace!” gridò, allontanandosi “Io… non volevo offenderti”.
“Non mi avete offesa” disse subito Acilia. Sembrava che lottasse contro se stessa per dire qualcosa, ma poi cedette. “Oh Miguel…”. Si rituffò nelle sue braccia e le sue labbra cercarono la bocca di lui e lui fu lieto di darle tutto il suo amore. Ma quel bacio era strano, lo sentiva freddo, ruvido, che scivolava via, gli ricordava la morte, la peste.
Guardò la donna che aveva davanti, stordito.
Lo sai perché nostra madre l’ha cacciata?
“Miguel” fece lei, quasi supplichevole. Sembrava aver capito a cosa lui stesse pensando.
Perché è una strega.
Lui le sfiorò una guancia, fredda, e lei gli prese la mano che aveva sul viso, socchiudendo gli occhi.
“Non mi importa” disse lui, continuando ad accarezzarla “Ora che ti ho ritrovata, non mi importa di niente”.
Sentiva il suo cuore che batteva forte e lo sapeva, lo vedeva riflesso negli occhi di Acilia, quasi gli occhi di un’innamorata, lo sapeva che anche quello di lei stava battendo.
 
*
 
 
Qualcuno l’aveva scossa con bruschi modi e lei aveva aperto gli occhi.
Davanti a lei era tutto grigio, un grigio metallizzato. Capì che era sdraiata e quello che guardava era il soffitto. Girò di scatto la testa, ricordandosi improvvisamente che qualcosa l’aveva colpita appena scesa dall’elicottero. I cattivi li avevano rapito? I vampiri oscuri? I pirati? Gli alieni?
Ma al suo fianco riconobbe Jacque.
Fece per aprire la bocca indignata ma lui fu più veloce ed esclamò: “Si è svegliata finalmente!”.
Sentì dei passi e delle scarpe lucide nere erano entrate nel suo campo visivo. “Voi umani siete proprio facili da abbattere eh”. Era la voce canzonante e provocatoria di Dubris.
Cercò di mettersi seduta su quel freddo pavimento e Jacque la aiutò.
“Dove siamo?” biascicò, portandosi la mano alla testa dolorante.
“Alla Sede” rispose Dubris. Lei lo guardò. Si era cambiato, indossava dei pantaloni neri, una camicia bianca, una giacca nera e una cravatta a righe. Nessuno avrebbe mai detto che era un vampiro.
Emily socchiuse gli occhi, cercando di afferrare il senso delle parole di Dubris. Lei doveva preparare un discorso.
“E si può sapere” sbottò, cominciando ad avvertire un certo nervosismo “perché in questa sede ci sono arrivata svenuta? La botta in testa è una specie di comitato di accoglienza?”.
“Sì” rispose Dubris, sistemandosi la cravatta “Vado ad annunciarvi”. Dopodiché si allontanò così in fretta che Emily non capì dove fosse andato. Poi capì che erano in una specie di sala di attesa, che c’erano delle sedie, e delle persone sulle sedie. E che da un lato della stanza c’era un portone enorme, rosso, che si era appena chiuso. Jacque la aiutò ad alzarsi mentre spiegava: “Mi dispiace, è la procedura. Non possiamo far vedere a nessuno dove si trova la Sede”.
“Oh” bofonchiò lei “certo, capisco, come in un film poliziesco”.
Si guardò intorno, cercando di capire da dove erano arrivati. L’unico passaggio oltre al portone rosso era una scalinata a chiocciola che portava a un qualche piano superiore.
“Tra poco dovremo entrare” disse Jacque, nervoso.
Emily quasi rischiò di cadere a terra di nuovo. “E cosa dobbiamo dire? Chi parla? Io? Tu? E Dubris cosa fa?”.
Le gambe le tremavano un po’ ed aveva la mente annebbiata. Ricordava di aver già provato una sensazione simile, quando era ubriaca.
“Per primo parlerò io” la rassicurò lui “Poi però anche tu dovrai dire le tue ragioni”.
Le mie ragioni?
Emily cercò di sistemarsi un po’ i capelli alla meglio. Chissà che aspetto aveva, dopo essere svenuta. Beh, poco importava, tanto magari sarebbe morta. Ma se devi morire davanti a chissà quanta gente, pensò istericamente, meglio essere un po’ decenti.
Prima che potesse avere il tempo di svignarsela a gambe l’enorme porta rossa si aprì ed Emily si sentì prendere la mano da Jacque. Si sentì stupidamente arrossire, come se fosse una ragazzina. Poi si ricordò che dovevano fingere di essere innamorati e questo, invece di rassicurarla su quella mano che Jacque le aveva preso, la fece agitare ancora di più. Come faceva a fingere di amare? Non era neanche sicura di esserlo mai stata, innamorata! Per di più, di un vampiro!
Varcata la soglia, Emily strabuzzò gli occhi. Si aspettava un ambiente losco e tenebroso, magari con delle poltrone rosse sulle quali i membri della Rappresentanza discutessero sul suo destino, stando comodi. E poi si immaginava un bel trono alto, sul quale poteva stare il capo… Beh, sicuramente c’era un capo. Il Gran Capo dei vampiri. Invece davanti a lei c’erano solo file di banconi, che andavano sempre più in alto, su una lunga scalinata. Ed erano tutte vuote. Si sentì per un momento sollevata, si era aspettata un sacco di gente! Poi vide una figurina dritta davanti a lei, proprio al centro della scalinata. Impiegò qualche secondo a capire che quella figura era lei stessa. Trattenne il respiro per un attimo – più per la sorpresa che per la presa coscienza di avere un aspetto stravolto – prima di rendersi conto che quello che aveva davanti era uno specchio. Che ci faceva un enorme specchio davanti al portone rosso? Non ci doveva essere un intero comitato di vampiri? Ma la sua mano sinistra stringeva il nulla.
Emily roteò gli occhi di scatto alla sua sinistra. Jacque era ancora lì, ma lo specchio non lo rifletteva.
Con orrore e lentamente, finalmente si voltò, capendo all’improvviso.
Dietro di lei, sopra il portone rosso, cominciava la scalinata e ogni fila era gremita di uomini e donne vestiti elegantemente, che la fissavano.
Inavvertitamente strinse più forte la mano di Jacque, mentre si sentiva andare a fuoco e sudare ovunque. Alla sua destra, un po’ più avanti, c’era Dubris, alto e impettito nella sua giacca, ma non molto meno nervoso di lei.
Qualcuno in un punto imprecisato si schiarì la voce e subito dopo dalla fila centrale si eresse un uomo vestito di tutto punto, come se dovesse andare a sposarsi. Non era vecchio, aveva un bel viso e una cascata di capelli lisci biondi glielo incorniciavano.
“Benvenuti” disse con una voce talmente soave da non sembrare neanche umana. Si rivolse ad Emily: “Non è l’unica, sa, ad essere cascata nel tranello dello specchio. È come se fossimo nascosti, ci fa sentire più protetti”.
Emily si sentì rincuorata dal sorriso di quell’uomo. Neanche avrebbe detto che era un vampiro, se non l’avesse saputo.
“Mi presento: sono Lyuben Vladimir, terzo Presidente della Rappresentanza Vampiresca, dal 1984” andò avanti l’altro.
Emily pensò che aveva davvero dei modi cortesi. Effettivamente non sembrava neanche un politico.
“Il prefetto del vostro Paese mi stava spiegando la vostra situazione” disse Lyuben, gentile, come se stesse parlando di una situazione qualunque che non prevedesse tatuaggi di sangue.
Un altro dei vampiri ora, della sua stessa fila, si alzò in piedi in maniera brusca. Sembrava un po’ più vecchio di Lyuben, aveva il volto appuntito e i suoi piccoli occhi neri percorrevano furiosamente il foglio che teneva in mano. Poi alzò lo sguardo e lo pose su Jacque. “Giura solennemente di dire tutta la verità?” domandò, frettolosamente.
Lyuben non sembrava risentito per essere stato interrotto. Si limitò a fare un cenno d’assenso e si rimise seduto. Emily provò un fitta di angoscia mentre Jacque rispondeva, tranquillo: “Lo giuro”. Avrebbe preferito parlare al presidente.
“Lei è” cominciò pomposamente l’altro vampiro, con una vocetta squillante e antipatica “Jacque Fabre, originario di Rennes, nato il 17 dicembre 1898 e morto il 22 novembre 1918?”.
“Sì”.
Emily non poté fare a meno di guardarlo. Non si era sbagliata sul suo conto, era davvero poco più di un ragazzino.
“Da quanto tempo conosce la suddetta umana?” continuò l’altro.
“Due mesi” rispose prontamente Jacque.
“Da quanto tempo nutre dei sentimenti per la suddetta umana?”.
“Un mese”.
“E per tutto questo tempo lei si è fidato ciecamente di un’umana che avrebbe potuto benissimo denunciarla?”.
Jacque sembrò vagamente agitarsi. “Dal primo momento che l’ho vista” disse, scandendo bene le parole “mi sono fidato di lei”.
Emily si chiese nervosamente se anche lei avrebbe dovuto rispondere a delle domande. Beh, sempre meglio che fare un discorso ma quel vampiro dalla faccia spigolosa sarebbe riuscito a metterla in buca, ne era sicura.
“Mi risulta che lei sia già diventato creatore. Non ha pensato di trasformarla?” domandò ancora l’interrogatore.
“Sì” rispose Jacque, deciso “ma ho deciso che non voglio che il mio amore le rovini la vita”.
Ci furono vari mormorii ed Emily non riuscì a capire se approvavano o disapprovavano quello che Jacque aveva appena detto.
“Molto bene” sbottò il vampiro per sovrastare il chiacchiericcio. Spostò lo sguardo su Emily e lei si sentì le gambe tremare.
Forza, coraggio, e non dire niente di stupido!
“Giura solennemente di dire tutta la verità?”.
“Sì” rispose Emily in fretta. Poi aggiunse, sentendosi già diventare scarlatta: “Lo giuro”.
“Lei è Emily Dixon, originaria di Horfield, nata il 6 febbraio 1985?”.
Come diavolo fa a saperlo?!
Emily tenne le labbra ben incollate tra loro, per non dare voce ai suoi deliranti pensieri. Poi disse: “Sì”.
“Come ha conosciuto il signor Fabre?”.
Come… Accidenti, proprio a lei le domande più difficili? Che cosa doveva dire? Ma non poteva metterci troppo tempo a rispondere, sarebbe risultato sospetto…
“Per strada” sparò all’improvviso.
Il vampiro si accigliò. “Per strada?”.
“Sì” disse debolmente la ragazza “sa com’è… Io ero inciampata, sa, inciampo spesso… E lui era lì e… mi ha aiutata ad alzarmi. Poi ci siamo presentati, tutto qua”. Non seppe dire se la voce le era tremata molto ma di sicuro il suo viso era di un bel color pomodoro. Essere un vampiro dopotutto aveva i suoi vantaggi, sempre pallidi, mai una figuraccia.
“E ha capito subito che il signor Fabre era un vampiro?”.
Emily rifletté alla velocità della luce sul perché erano lì. Perché lei sapeva che Jacque era un vampiro. E se avesse detto di saperlo da sempre non sarebbe stato un ottimo biglietto da visita.
“No” disse, sicura.
“E ha cominciato a frequentarlo senza sapere la sua vera natura?”.
“Sì” rispose subito lei. “Io… Lo trovavo carino. Gli ho chiesto io se potevamo rivederci e siamo usciti qualche sera, finché… finché non me l’ha detto”.
“E cosa ha provato quando lui le ha detto chi era?”.
Mi piaceva comunque, pensò Emily, mi piaceva comunque. Ma c’era qualcosa di poco realistico e lei si lasciò andare ai ricordi delle sue pagine di diario.
“Paura. Avevo tanta paura”.
Per un po’ nessuno parlò, c’era un silenzio quasi surreale nella sala. Poi il vampiro appuntì ulteriormente lo sguardo mentre diceva: “Molto bene”.
Quindi avevano concluso così? No! Emily non avrebbe dovuto dire qualcosa sul suo amore? Qualcosa sul fatto che giurava gli giurava fedeltà e sdolcinatezze simili? Ma nessuno le faceva più alcuna domanda e lei si sentì andare nel panico. I vampiri parlottavano tra loro, qualcuno invece la guardava, con un ghigno, un ghigno malefico…
“Io” esplose la sua voce tremante e tutti si zittirono “Io non lo denuncerei mai Jacque, e nemmeno voi… Prima di conoscerlo io avevo una gran paura dei vampiri perché… Beh, potete immaginarlo il perché. Ma dopo averlo conosciuto ho scoperto che ci sono vampiri buoni… Che lottano per avere un posto al fianco degli umani, non al di sopra… E lui è uno di quelli”. Prese un gran respiro prima di concludere. “Lui ha risparmiato la mia vita, mi ha mostrato un intero mondo che non conoscevo. Lui… mi piace, voi mi piacete, io…”. Il suo cervello si stava arrovellando alla ricerca di una qualche frase significativa, una frase carina che rimanesse loro impressa, ma alla fine non trovò niente di originale, e finì per dire quella che credeva fosse la verità. “Io sto dalla vostra parte”.
Sentendosi rossa come non mai, si zittì, ed evitò accuratamente di guardare in faccia Jacque o Dubris. Non voleva vedere nelle loro espressioni il suo fallimento. Il suo sguardo indugiò invece su Lyuben, che aveva un’aria compiaciuta, e lei si sentì rassicurata.
Il vampiro spigoloso intanto si era seduto e la donna mora che era al suo fianco si alzò in piedi. Aveva la pelle scura – strano per un vampiro – e un viso dolce, ma al tempo stesso emenava un’aria autoritaria, nel suo tailleur nero.
“Quanti sono a favore della trasformazione della signorina Dixon?” domandò, con un forte accento spagnolo.
Trasformazione?!
Emily inspirò a fondo, cercando di stare calma. Chiuse gli occhi incapace di guardare. Li riaprì un attimo dopo dandosi della stupida e vide di sfuggita che non molte mani si erano alzate. Tra queste vide la mano viscida del vampiro che li aveva interrogati. Il suo sguardo volteggiò nei vampiri subito dietro di lui e la colpì particolarmente la vista di un giovane molto bello, con uno sguardo glaciale fin dai suoi occhi blu, anche lui con la mano alzata. 
La vampira spagnola scrisse un appunto su un foglio poi disse: “E quanti a favore del patto del sangue?”.
Subito alzò la mano lei stessa, poi l’alzarono Lyuben e molti altri.
Emily trasse un sospiro di sollievo, erano sicuramente più della metà!
Lyuben subito si alzò in piedi prima che la donna riuscisse a finire di contare. “Bene” disse, gioviale “Signorina Dixon, le verrà fatto, come penso che sappia, un tatuaggio e verrà usato il sangue di vampiro. È a conoscenza di tutti i rischi a cui sta andando incontro?”.
“Sì” fiatò lei, debolmente.
“Ora, ho bisogno che lei giuri solennemente che non denuncerà mai nessuno presente in questa stanza e, in generale, nessuno che appartenga alla nostra razza. Se mancherà al giuramento, mi creda, lo scopriremo subito”. Il tono di Lyben era sempre cortese ma Emily si sentì di nuovo quell’agitazione tremenda che le faceva girare la testa.
“Lo giuro” biascicò.
Il presidente sorrise. “Potete accomodarvi nella stanza del tatuaggio. Ramona, saresti così gentile da accompagnarli?”.
La donna che aveva annunciato il verdetto si alzò, scese la scalinata e andò ad aprire il portone, tutto in una frazione di secondo, sotto gli occhi sbalorditi di Emily. Lei si sentì prendere per il braccio da un trafelato Dubris che trascinò sia lei sia Jacque fuori dalla stanza.
“Siete andati bene” disse, senza sbilanciarsi troppo.
Emily vide che Jacque era molto più agitato di prima, davanti alla Rappresentanza. Cosa c’era da temere adesso? Era solo lei che rischiava la pelle no?
Istintivamente gli riprese la mano, forse più per sentirsi rassicurata che per rassicurare lui. Lui gliela strinse e lei rimase aggrappata a quella specie di pezzo di ghiaccio, d’altronde era tutto quello che aveva in quel momento.
“Da questa parte” disse subito Ramona.
Emily, Jacque e Dubris la seguirono su per la scala a chiocciola. Era di ferro e pestandola non faceva un bel rumore ma Emily non se ne curò. Si fermarono al piano successivo, mentre la scala proseguiva ancora più in alto. La saletta era simile a quella del piano inferiore, spoglia, priva di sedie, e con una sola porta, questa molto più soft, grigia e di acciaio.
Il cuore di Emily si mise a tamburellare selvaggiamente mentre la vampira apriva la porta.
Era una saletta piccola, con al centro un lettino bianco. Vicino al lettino, una seggiola e un tavolo da lavoro su cui stava appoggiato un uomo in camice bianco dall’aria annoiata. Avrebbe avuto l’aria di un medico se non fosse stato per la testa rasata e un orecchino penzolante all’orecchio.
L’uomo si era alzato in piedi. Dimostrava una cinquantina d’anni, aveva il volto stanco, scavato da occhiaia. In effetti Emily pensò che era strano, tutti i vampiri che aveva visto fin’ora erano praticamente perfetti.
Lui e Ramona scambiarono due parole in una lingua che Emily non capiva, in russo probabilmente. Lei emise una risata pacata e priva di allegria, poi fece cenno ad Emily di stendersi sul lettino.
Poco convinta, la ragazza obbedì.
La donna si mise da parte e l’uomo cominciò a trafficare con una macchinetta. “E così ti piacciono i vampiri eh?” fece in inglese, ed Emily quasi non capì se stava parlando con la macchinetta o con lei.
Prima che potesse pensare ad una risposta che non fosse “No, che ti sei, bevuto il cervello?” Jacque disse: “E a te perché piacciono?”.
Emily fu colta alla sprovvista. Perché a un vampiro non dovrebbero piacere i vampiri? Certo, a lei in generale non piaceva molto la gente, ma dire che non le piaceva l’essere umano le sembrava un po’ ridicolo.
L’uomo si era voltato a guardarlo. “Avete occhio, voi vampiri” disse.
“Hai un orecchino d’argento” rispose l’altro. Si rivolse a Ramona, eretta di fianco alla porta. “Non pensavo permetteste a degli umani di lavorare qui” disse, con un lieve tono accusatorio.
L’altra non si scompose. “Non credo che stia a te decidere” rispose.
L’uomo intervenne allegramente. “Ragazzo, qui c’è gente nata nell’età della ruota, credi davvero che siano esperti di tatuaggi? Io invece li faccio da una vita”.
Emily trattenne il fiato mentre Jacque rispondeva. “Anche se sono nato dopo l’età della ruota, credo che dovrei io chiamare te ragazzo”.
L’altro ridacchiò e tornò al suo lavoro. “Chiamami Boyan e falla finita. Mi ha sempre interessato la vostra crescita, non invecchiate esternamente ma internamente sì, credete che sia così, dico bene? Ma secondo me non puoi sentirti vecchio davvero finché un bel giorno non ti alzi e non vedi allo specchio la tua prima ruga”.
“Molto profondo, peccato che noi non ci possiamo neanche guardare allo specchio”.
Emily non capiva l’ostilità di Jacque nei confronti di Boyan. Ma non capiva neanche perché un umano volesse aiutare un comitato di vampiri. “Perché lo fa?” domandò, senza riuscire a trattenersi.
Boyan si voltò a guardarla. “Mi pagano molto bene”.
Con che soldi, avrebbe voluto chiedere Emily ma poi pensò che non lo voleva davvero sapere.
Ma lui si era avvicinato, e lei, sdraiata, si sentiva inerme, troppo. Anche se, doveva ammetterlo, il fatto che quel Boyan fosse un umano, la rassicurava parecchio. Aveva un aggeggio scuro che maneggiava con i guanti, attaccato a un filo da cui prendeva la corrente. L’estremità della macchinetta era lunga, e terminava con un ago.
“Dove… dove…” biascicò lei.
“In un punto non molto visibile” disse subito Boyan, con sguardo comprensivo.
Emily boccheggiò. Cosa?!
“Qua sul fianco andrà benissimo” si affrettò ad aggiungere l’altro e lei annuì, cercando con gli occhi il volto di Jacque. Si era sentita arrossire e si sentì arrossire ancora di più quando vide che lui era lì, fermo, impalato, con quella sua faccia di ghiaccio. Jacque sembrò capire, le si avvicinò e le prese la mano ed Emily non poté fare a meno di chiedersi se lo faceva per mantenere la loro facciata davanti a Ramona o perché voleva davvero esserle di conforto. Dopotutto lo era sempre, turbato per lei…
Boyan li stava guardando, aspettando pazientemente.
“Quando sei pronta, dimmelo”.
Emily socchiuse gli occhi e cercò di ricordarsi una situazione, solo una, in cui aveva avuto più paura di quanta ne aveva in quel momento. All’esame per la patente? A quell’esame terribile di quel maledetto professor Stoner? Il suo primo giorno di lavoro? La sua era davvero una vita qualunque, che ne sapeva lei della paura? Beh, in quel momento ne aveva tanta. La fredda mano di Jacque non la faceva sentire meglio e le venne in mente, le venne in mente che la prima volta che aveva visto lui, aveva avuto davvero paura. Strinse ancora con più vigore la sua mano, ignorando il freddo, cercando di ricordare che di lui aveva avuto paura a torto, perché era un essere buono, e anche Boyan era buono, e faceva bene il suo lavoro…
“Sono pronta” disse in un soffio, sentendosi tremare mentre lo diceva.
E se fosse veramente diventata un vampiro? Ma non un vampiro come Jacque… Un vampiro pazzo, pericoloso, da sopprimere. Non avrebbe più rivisto la sua famiglia. Non avrebbe più rivisto i suoi genitori, Michael, i suoi amici… Perfino il suo capo le mancava in quel momento.
Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre Boyan avvicinava l’ago alla pelle. Deglutì forte, cercò di concentrarsi su qualcosa, su qualunque altra cosa ma alla fine il dolore arrivò ed era diverso da quello che aveva immaginato. Non era un dolore al fianco, era il male che veniva irradiato in ogni parte nel suo corpo. Non riuscì a trattenere un urlo e riuscì a malapena a capire che stava cercando di alzarsi dal lettino. Jacque la teneva ferma e lei in quel momento lo odiò, lo odiò tantissimo, perché la stava uccidendo, sì, quello doveva essere molto simile alla morte… Urlò ancora mentre sentiva un male incontrollabile alla pancia, le sembrava di dover vomitare. Emise un conato ma nulla uscì, allora sputò perché le faceva male la bocca, e anche la lingua, i denti… Si contorse nel lettino, sentendo freddo, forse perché Jacque la stava circondando o forse perché stava morendo o, peggio, si stava trasformando. Ci stava provando, ci stava provando davvero a stare ferma o a non gridare, ma non ci riusciva. Non si sentiva più lei, tutto il dolore che era nel corpo era salito anche fino alla mente e la sua testa era percorsa da immagini strani, i momenti più brutti della sua vita. Gente che la prendeva in giro, gente che rideva, i suoi genitori delusi, il suo ex fidanzato che la tradiva e le diceva Non fai per me. Vedeva distintamente le sue labbra muoversi e dire quelle parole, che le avevano spezzato il cuore, forse il cuore le si stava spezzando anche in quel momento, forse lei non era adatta a nessun ragazzo, a nessun essere umano, forse doveva essere un vampiro, sì, doveva esserlo. Urlò più forte, qualcosa di spaventoso si dibatteva nel petto, o forse nello stomaco e forse anche nella testa.
“Non lasciarlo vincere!” gridò qualcuno da qualche parte.
Emily strizzò gli occhi. La luce, la luce era potentissima… Qualcuno spenga la luce! Vedeva sangue, sangue ovunque, aveva voglia di sangue? Intravedeva Boyan che la guardava, aveva già finito il suo lavoro. E allora perché faceva così male?
Voleva mangiarselo, ecco cosa voleva fare, si sarebbe bevuta tutto il suo sangue.
“Combattilo! Non vuoi esserlo! Non vuoi esserlo!”.
La voce di Jacque fu coperta dalle sue urla stridule. Si teneva con le mani la pancia, aveva paura che cadesse in brandelli, che lei stessa cadesse in brandelli, in tanti piccoli pezzettini. E la stanza? La stanza girava tutta, poteva cadere in frantumi? Dimenò le gambe, doveva uscire di lì, era in pericolo, tutto era in pericolo, estremamente fragile. Qualcuno la teneva, tante mani la tenevano ma lei si dimenava, non voleva mangiare nessuno, allora non era lei ad essere in pericolo… Era pericolosa!
Ma non ho neanche le zanne…
Fuori di sé, si lanciò a terra, voleva far cessare quel dolore che le usciva dalla bocca, dalle orecchie. Forse era sangue che le colava dagli occhi e dal naso, o forse veleno…
La sua testa batté contro qualcosa e il bianco e il rosso presero a fondersi in una danza frenetica, e divennero nero, e lei smise di urlare.
 
*
 
 
Ogni sera Acilia vedeva il volto di Miguel illuminarsi, quando la vedeva arrivare. Quella volta invece l’accolse un po’ più freddo e lei si sentì triste. Sapeva che prima o poi sarebbe successo.
Perché non vuoi venire a vivere con noi?
Noi voleva dire lui e le sue sorelle, ma non era quello il problema. Agnese aveva preso a chiederle che lavoro facesse, dove andasse durante il giorno, dove dormisse la notte.
Acilia aveva risposto vaga che lavorava nel mercato di un’altra città, e che la notte trovava sempre un letto caldo. Agnese non era convinta ma non aveva chiesto più nulla, con quella sua espressione sospettosa. Lei si era messa a vendere la lana che acquistava dal monastero, Miguel aveva trovato un impiego presso un artigiano e stava imparando a fabbricare dei piccoli oggetti. La peste era finita da sei mesi ormai e le cose stavano andando bene.
Lolita aveva compiuto tredici anni e Acilia si era messa a insegnarle a scrivere, con un bastoncino, nel terriccio, alla luce della luna, mentre aspettava che Miguel finisse di lavorare. Miguel era arrivato e stava guardando con quella strana espressione il bastoncino nelle mani di Acilia. Lei lo poggiò per terra e si alzò, cauta, mentre Lolita si allontanava in fretta.
“Ciao” disse il ragazzo.
“Ciao” lo salutò lei, incerta.
Era stata una stupida, una maledetta stupida, a credere di poter vivere una vita da umana, di poter avere una relazione con un uomo.
“Andiamo a mangiare qualcosa?” chiese lui.
Era la solita ora di cena.
“Io ho già mangiato”.
Perché non mangi mai con me?
“Lo so”.
Acilia gli si mise affianco e gli strinse la mano mentre andavano verso la taverna di Filipa. Lui non reagiva più con quel solito scatto quando lei lo toccava.
Perché sei fredda?
Ne era certa, ne era certa che lui avrebbe capito se si fossero toccati di più.
Perché non vuoi fare l’amore con me?
Il loro rapporto già si stava logorando ma era perché lei non era umana, lui andava benissimo, sarebbe andato benissimo per qualsiasi altra ragazza. Doveva avere un’altra ragazza, doveva vivere la sua di vita, perché era breve, era maledettamente breve, doveva…
“Uno stufato e una birra” disse Miguel al bancone. Si voltò verso Acilia. “Immagino che tu non voglia neanche bere”.
Lei scosse la testa. Aveva provato a bere la birra un giorno, ma, in maniera del tutto inaspettata, l’aveva sputata. Non era riuscita a mandarla giù, era come se il suo corpo la rifiutasse.
Si sedettero a un tavolo, in silenzio.
Lei lo guardò. Aveva i lineamenti che le ricordavano Damiano. Gli occhi erano diversi, erano ambrati, e i riccioli scuri erano morbidi, Acilia ne era ammaliata. Si sentiva così triste, con un peso nello stomaco. Non sapeva se era perché avrebbe dovuto lasciarlo o se era perché non ce la faceva più a tenersi tutto dentro. Aveva Miguel, aveva l’amicizia di Lolita ma si sentiva sempre sola, finché nessuno sapeva il suo orribile segreto lei era sola. E odiava stare sola, dopotutto era per quello che aveva… Il rimorso le strinse qualcosa dentro di lei, forse le viscere, non voleva che accadesse di nuovo la stessa cosa. Quella notte, quando era sicura che Miguel sarebbe morto, era riuscita a resistere alla tentazione si trasformarlo. Ma sarebbe stato così per sempre? Sarebbe riuscita a stare sola in eterno senza creare? E se invece  l’avesse trasformato? Non sarebbe stata più sola, in eterno con lui… entrambi con lo stesso segreto…
Sai già come andrebbe a finire.
Due occhi blu la stavano squadrando dal tavolo di fianco a loro e lei trattenne il fiato.
Tornò a guardare Miguel, sentendosi sospesa in una realtà fittizia. Lei lo era sempre, sospesa. Tra la vita e la morte, tra l’amore e l’affetto, tra il bene e il male…
Lo stufato era arrivato e Miguel prese a mangiare lentamente, quasi controvoglia.
Acilia esplose, anche se purtroppo non in lacrime. “Avevi detto che non ti importava” fiatò, con voce rotta.
Era ovvio che non poteva essere così. A lui doveva importare, ed era giusto così.
Lui alzò lo sguardo verso di lei. “Ho il diritto di sapere” disse e Acilia socchiuse gli occhi, disperata. Come avrebbe potuto dirlo? Cosa avrebbe potuto dire?
“Se mi vuoi lasciare, lo capisco” disse, gli occhi abbassati “ma ti prego, non…”.
“Dimmi cosa sei” sibilò lui.
“Tu mi vuoi lasciare!” esclamò Acilia, in preda al panico. Era l’unica cosa che poteva fare, convincerlo a lasciarla e non rivedersi mai più… Tutti i baci, tutte le carezze, finiti, tutto finito. Ma cosa sarebbe stato mai per lei che aveva vissuto più di mille anni? Solo un’altra pugnalata a quel cuore che non poteva più riceverne.
“Io non voglio…”.
“Sì che lo vuoi”.
Poteva incantarlo, manovrarlo, manipolarlo. Poteva costringerlo a lasciarla, solo con lo sguardo. Era completamente inerte, era uno sciocco umano, era nelle sue mani. Poteva ucciderlo come poteva controllarlo. E poi lei sarebbe uscita dalla taverna e dalla sua vita, per sempre.
“Io non voglio lasciarti!” gridò lui, con le lacrime agli occhi “Io ti amo…”.
Acilia si sentì tremare e se avesse potuto buttarsi a terra, in ginocchio, chiedergli perdono e piangere, dirgli che anche lei lo amava, lo avrebbe fatto.
Le altre persone che c’erano intanto si erano voltate verso di loro, incuriosite.
“Parliamone fuori” disse lei, alzandosi in piedi.
Miguel finì di bere la birra e la imitò, lasciano mezzo piatto pieno.
Qualcuno vagava ancora per la città e Acilia si avvicinò al limitare del bosco, senza sapere cosa fare.
“È qui che lavori?” domandò Miguel.
Lei lo guardò senza capire.
“Nel bosco… Le streghe lavorano nei boschi, sai, pozioni, incantesimi…” fece lui, la voce che cominciava ad alterarsi.
Poteva dirgli che era una strega. Non era forse mille volte meglio che essere… che cosa poi. Che cosa era lei? Non c’era una parola, non c’era una definizione. Un mostro?
Ma più guardava i suoi occhi grandi e disperati più non riusciva a mentirgli.
“Le streghe… Le streghe non credo esistano, Miguel” fece, a voce bassa.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. Poi scagliò un pugno per aria. “Allora dimmi cosa cazzo sei!” gridò.
Acilia si ritrasse come se il pugno fosse rivolto a lei.
Quella sera nel bosco in cui lui l’aveva ritrovata, l’aveva baciata e le aveva detto che non gli importava nulla sembrava molto lontana. Lei aveva giocato a fare l’umana, aveva giocato con la realtà, solo che non si poteva giocare coi sentimenti delle persone. Io non ho mai giocato, io sono innamorata di lui!
Ma i morti non li provano i sentimenti. I morti sono morti.
“È meglio che la finiamo qui” disse con voce acuta “Io… io non posso…”.
Miguel aveva gli occhi feroci. “Se tu te ne vai, io…”.
“Dopo che te l’avrò detto mi vorrai lasciare comunque!” urlò Acilia, fuori di sé “Avrai paura di me! È questo che vuoi?!”.
“Ma cosa stai dicendo… cosa…”.
Acilia rivedeva Damiano davanti a sé, che la guardava confuso, che non capiva cosa lei fosse, che moriva tra le sue braccia, ucciso da lei… Gli occhi vitrei del suo volto esangue le apparvero improvvisamente davanti e lei urlò, buttandosi a chinino per terra. Le facevano male i denti, li sentì allungarsi, e con terrore – e con coraggio –  rialzò lo sguardo verso Miguel che la fissava preoccupato.
Lui gridò e indietreggiò.
Lei si alzò in piedi, sentendosi folle di dolore. L’avrebbe perso, l’avrebbe perso per sempre.
“Sono morta milletrecento anni fa” disse con voce tremante “sono risorta bianca come fossi morta, costretta a vivere solo di notte… Sono un essere contro natura, il sole mi brucia, l’acqua non mostra il mio riflesso… Sono costretta a nutrirmi solo di sangue umano…”.
A ogni parola Miguel assumeva un’espressione sempre più indecifrabile.
“È uno scherzo?” fiatò infine.
“No”.
Lui non si era mosso. Non sembrava avesse intenzione di fuggire. Piangeva.
“Come può essere… dimmi che… è uno scherzo…”.
“Non è uno scherzo!” gridò Acilia, arrabbiata “È la mia realtà da milletrecento anni, ciò che sono, e ciò che non ho scelto”.
“Aveva ragione… mia… madre… aveva…”.
“Non ho fatto del male a nessuno della tua famiglia!” gridò subito lei “Miguel, sono la stessa che li ha accuditi, la stessa che…”.
“Tu sei… tu sei…”.
Acilia ritrasse i canini, disperata. “Non lo so cosa sono, ma so chi sono. Sono Acilia e…”.
“Tu uccidi…”. Miguel sembrava stesse perdendo la testa.
“No!” urlò lei “Io… io incanto le persone perché mi diano un po’ del loro sangue ma non… non lo bevo tutto, non uccido!”.
Ma i piedi del ragazzo stavano indietreggiando e lei non poteva fare niente per fermarlo.
Congiunse le mani abbassando lo sguardo. Se avesse potuto piangere forse lui avrebbe percepito il suo dolore. Ma così… così, no. Le cose non potevano andare diversamente.
“Lo so che non mi vorrai più vedere” fece “ma ti prego… Non dirlo a nessuno, non berrò mai neanche una goccia di sangue in questa città… Mai…”.
Miguel si era allontanato ancora e lei parlò più forte.
“E ricordati che io ti amo davvero! Anche se non posso piangere… per dimostrartelo… sappi che il dolore mi ha sempre lacerato, perché non potevo dirti cosa io sono. E mi lacera tuttora, perché tu te ne andrai, e io non ti rivedrò mai più”.
Il ragazzo si era immobilizzato e lei si buttò per terra, senza poter reggere il suo sguardo. Si vergognava di tutte le cose brutte che aveva fatto, si vergognava di fronte a Miguel, così puro.
Voleva così tanto piangere per buttare fuori un po’ del suo dolore ma sentiva il pianto di qualcun altro, sopra di lei. Alzò lo sguardo e vide che era Miguel. “Hai detto che… che incanti le persone” disse lui.
Lei annuì e lui continuò: “Hai incantato anche me?”.
“No!” esclamò subito Acilia, inorridita.
“E allora…” balbettò l’altro, con la voce spezzata “Perché sono così attratto da te?”.
Lei si alzò ignorando le gambe che vacillavano.
Lui levò piano un braccio, lo distese davanti a lei e con le dita la sfiorò. Acilia lo sentiva respirare affannosamente e sentiva il suo cuore che batteva fortissimo. Non riusciva a districare la paura dall’amore, e probabilmente nemmeno lui poteva farlo.
Miguel continuava ad accarezzarla, il volto rigato da lacrime poi la trasse a sé, in un abbraccio freddo e tremolante.
“Non puoi volerlo sul serio” sussurrò lei, stordita.
Lui le fece segno di tacere mentre piangeva e lei rimase aggrappata a quel forte corpo vacillante, ad ascoltarlo mentre piangeva, mentre piangeva tutte le lacrime che gli venivano dal cuore, dal suo amore.   
 
*
 
 
“Ti fa ancora tanto male?”.
Emily aveva aperto gli occhi solo da qualche minuto. Erano piccoli e stanchi, rossi, e vagavano inquieti per la stanza. Stavano bene, senza occhiali.
“Emily?”.
Jacque era seduto sul bordo del suo letto. L’avevano trasportata da Arcangelo fino a Horfield e lei non aveva dato segni di vita. Poi lui, Jacque, l’aveva presa in braccio e l’aveva portata a casa sua, nel suo letto, attraverso la finestra. Erano le quattro di mattina e la casa era silenziosa.
Emily puntò lo sguardo su Jacque, poi si mise a tremare.
“Sono io” disse lui, avvicinandosi.
Lei inspirò a fondo e lui chiese ancora: “Fa ancora…”.
“Sta zitto” sbottò la ragazza, con gli occhi socchiusi.
Jacque era rimasto a bocca aperta, con aria stupida. “Okay ma abbassa la voce, non vorrei che i tuoi si svegliassero” bisbigliò.
Emily lo guardò impietrita. “Sono a casa mia?”.
“Sì”.
“Portami via da qui” sussurrò furiosa “Io sono… Io sono…”.
“Tu…”.
“Ho qualcosa di terribile qua dentro, lo sento!”. Emily singhiozzò e Jacque le prese la mano.
“Mi fa male…” proseguì lei, sgranando gli occhi “Fa male dappertutto… ho… la vista strana”.
“Cosa vedi?”.
“Rosso”.
“Rosso?”.
Emily ritrasse la mano spazientita. Poi girò la faccia e la premette contro il cuscino. “C’è una luce rossa… non voglio… vedere…”. Stava piangendo.
Jacque sospirò e non la disturbò più. Non voleva abbandonarla. Boyan aveva detto che era andato tutto liscio ma lui non se la sentiva proprio. Era tutta colpa sua se lei si era dovuta sottoporre a quella cosa orribile, forse sarebbe stato meglio trasformarla e basta… Se una sola goccia di sangue di vampiro ti entra nel corpo le porte dell’inferno ti si spalancano davanti. Ma se ne bevi tanto, quello prende possesso di tutto il corpo in un baleno, niente lotta contro di lui, ti fa stare meglio, ti rigenera, per poi ucciderti. E farti rinascere. Ci aveva pensato mentre la guardava contorcersi su quel lettino come se fosse indemoniata. Era quello l’effetto che aveva il sangue di vampiro. Era il sangue del demonio. 
Passò qualche minuto prima che la voce lamentosa della ragazza riemerse dal cuscino. “Jacque…”.
“Sono qui” rispose lui.
“Sono un vampiro?”.
Jacque sorrise. Ne era valsa la pena solo per poter rispondere negativamente a quella domanda. “Perde colpi, dottoressa Dixon, non sente che sta piangendo?” disse.
Emily si voltò verso di lui, gli occhi lucidi e il viso rigato di lacrime.
Le cose non andavano così. Il sangue di vampiro ti uccideva solo dopo qualche ora che era stato introdotto nel corpo. Prima dovevi morire, e poi dopo una settimana risorgevi. Ma non era il caso che Emily lo sapesse, che aspettasse con ansia di morire soffocata nel suo stesso letto, quando le probabilità che questo accadesse erano decisamente scarse.
“Sono salva?” piagnucolò ancora Emily.
Jacque annuì con un sorriso incoraggiante. “Non dovrai mai più pensare ai vampiri” aggiunse poi, prendendo gli occhiali della ragazza dal comodino e porgendoglieli.
Lei scosse la testa. Aveva uno sguardo sconsolato, probabilmente il dolore le impediva di festeggiare.
“Perché sei qui allora?” chiese.
Jacque fu preso in contropiede, gli occhiali ancora in mano. “Io volevo… non volevo che ti svegliassi da sola”.
“Mi sono svegliata”.
“Vuoi che me ne vada?”.
“No”.
Ci fu un momento di silenzio poi Emily bisbigliò ancora: “Dopo stanotte non ti rivedrò più?”. Sembrava triste.
E quello cosa significava?
Jacque aggrottò la fronte. Non pensava che… non pensava che Emily potesse sentire la sua mancanza.
Salvala, se puoi, senza affezionarti a lei.
“Non credo” disse, senza pensarci.
Lei annuì, mesta.
“Il mio tatuaggio” disse poi “che cos’è?”.
“Oh” fece l’altro “è… è una goccia”.
Emily emise una risatina spenta. “Una goccia di sangue? Originale”.
Jacque poggiò gli occhiali sul comodino e avvicinò le mani alla camicetta della ragazza. Sbottonò l’ultimo bottone e mentre lo faceva sentì che Emily stava trattenendo il fiato, e che il suo cuore aveva accelerato di un battito. Ignorandola, alzò la parte destra della camicia mostrando una piccolissima goccia rossa dalla forma allungata, disegnata sulla pelle bianca.
“Dovrebbe essere una lacrima” disse poi, senza distogliere lo sguardo dalla goccia.
“U-una lacrima?”. La voce di Emily si era fatta ancora più bassa.
“Sì, sai, le lacrime che tu dovresti avere per me. Perché io non posso averle”. Jacque alzò lo sguardo e notò le lacrime appese alla ciglia di Emily. Aveva le ciglia lunghe, i suoi occhi erano graziosi.
Lei si asciugò gli occhi e in fretta si ricoprì la pancia.
“Non potete piangere perché non avete acqua dentro di voi?”.
“Una cosa del genere”.
“E perché gli specchi non vi riflettono?”.
Jacque inarcò le sopracciglia. Credeva fosse ovvio. “Perché siamo morti”.
“Ma…”.
“Uno specchio non sbaglia mai, riflette la realtà”.
“Ma tu sei reale”.
Jacque non poté fare a meno di sorridere, vedendola così ostinata. “Non tutto ciò che vedono i nostri occhi è reale”.
Emily, a fatica, si era messa seduta. “Ma quello che sentiamo sì”. Il rosso nei suoi occhi si stava ritirando, erano dolci e malinconici come sempre. Se dietro agli occhi degli umani c’era davvero un’anima, allora lui avrebbe potuto perdersi guardando per sempre negli occhi di lei.
Il cuore della ragazza accelerò ancora di più quando lei bisbigliò, avvicinandosi a lui: “Se ora ti baciassi non sarebbe reale?”.
Jacque sgranò gli occhi e, istintivamente, si allontanò.
“Non… non potrebbe esserlo” disse solo.
Emily abbassò gli occhi, senza dire più nulla.
Jacque si alzò dal letto e lei non lo fermò. Il sangue di vampiro, la notte, lo stare nel letto con un’altra persona… agli umani dà alla testa.
“Tra un po’ sorgerà il sole” spiegò.
Emily aveva di nuovo il volto rigato di lacrime e Jacque si sentì sciogliere.
“Tornerai a trovarmi?” chiese lei.
Lui non rispose subito e la ragazza continuò, con la voce rotta un pelo più alta: “Non puoi chiedermi di continuare a vivere la mia vita come se niente fosse ora”.
Jacque annuì. Lui aveva imparato a voltare pagina tante volte, ma per gli umani era più difficile. Loro avevano poco tempo. “Io… sì, tornerò”.
Il viso di Emily si rilassò. “Arrivederci, Jacque”.
Lui sorrise, con la mano sul davanzale della finestra.
“Au revoir”.
 
 
 
Acilia continuava a guardare al di là della finestra. Dubris era andato via da poco, era passato solo per dirle che era andato tutto bene e che ora Jacque si trovava con Emily.
Ci stava mettendo molto a tornare.
“Jacque non è un irresponsabile” disse Eike alle sue spalle, facendola trasalire.
“Io invece credo che potrebbe finire a letto con lei” rispose automaticamente Acilia.
Si voltò, accorgendosi di quello che aveva detto, e vide un ghigno sul volto di Eike.
“Io intendevo che sarebbe tornato prima che sorgesse il sole” disse lui, molto lentamente.
“Oh” borbottò Acilia “certo”.
Lanciò un’altra nervosa occhiata alla finestra poi fece per allontanarsi ma Eike la fermò.
“Mi spieghi una cosa, Aci?”.
“Che cosa vuoi?”.
Quell’aria gongolante che il piccoletto aveva sempre ad Acilia non era mai piaciuta. 
“Perché volevi che Jacque trasformasse Emily? Sarebbe stato un ovvio inizio di una storia d’amore, una storia d’amore eterna” disse.
“Tu credi che io voglia che Jacque sia per sempre legato a me” ribatté Acilia.
Eike non rispose allora lei aggiunse, infervorandosi: “Beh, non è vero”.
Lui scrollò le spalle senza più dire niente e lei si allontanò a gran passi, verso la botola. Non aveva mentito, avrebbe accolto a braccia aperte il nuovo vampiro Emily. Ma Jacque aveva preferito quello stupidissimo patto del sangue, che ti legava a un essere umano.
Si fermò, sapendo che Eike non si era mosso e che era ancora dietro di lei.
“L’amore comunque non è eterno” disse, senza voltarsi “L’amore eterno è un privilegio che hanno solo gli umani, ed è solo perché non possono vivere, in eterno”.
Se Jacque si fosse innamorato di una donna vampiro, sarebbe stato felice. Poi l’avrebbe lasciata andare, oppure l’avrebbe lasciato andare lei. Amare un essere umano invece l’avrebbe distrutto.
Sentì dietro di sé Eike che ridacchiava.
Senza chiedersi il perché e senza più dire nulla, aprì la botola e scivolò giù sotto il pavimento.

 

Eccomi qui!! 

RedTears, AHAHAHAHA  MI FAI MORIRE XD sono letteralmente esplosa quando ti sei messa a fare i conti di quanti uomini può avere avuto Acilia in tutta la sua vita.. XDXD E povera mamma di Miguel!!! D'accordo, metterò Javi (che ne so io dei soprannomi spagnoli :P) e per la cosa del film.. ahaahahah XD oh Acilia ha vissuto in tutte le sacrosante epoche, ci si confonde con tutti sti salti nel tempo XD comunque bravissima, hai recuperato in tempo record. Ed ecco, per quando sarai tornata da Amsterdam un altro capitolo!

Sara, che bello che ti appassioni XD grazie per la recensione, continua pure a psicanalizzarmi i personaggi :DD 

Vabbò gente alla prossima :)
Eeee non è tanto tenera la storia tra Acilia e Miguel? (Red, non vomitare XD)

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Capitolo 10
*** Segreto ***


Capitolo 10
CAPITOLO IX
SEGRETO
 
 
 
Spagna, 1357
 
S-e-c-r-e-t-u-m” scandiva Lolita mentre scriveva. Poggiò la piuma sul foglio e rilesse quello che aveva scritto. “Assomiglia a segreto!” annunciò, soddisfatta.
Acilia sorrise. “È da lì che deriva”.
Lolita la stava guardando con gli occhi quasi che luccicavano. “Ma tu come fai a sapere il latino? Solo i frati lo sanno…”.
L’altra scrollò le spalle. “Ecastor, non c’è niente che non possiamo imparare, Loli, ricordatelo. E i frati che non vogliono insegnare il latino fanno solo i buffoni”.
Lolita scoppiò a ridere, scuotendo i capelli rossi, un po’ arruffati. Ormai si era fatta donna. Presto avrebbe compiuto diciannove anni e un mucchio di ragazzi della città le faceva la corte.
Acilia lasciò cadere lo sguardo sulla parola bruna scintillante secretum. La lingua non era più la stessa. La lingua che si parlava ora a Roma era un’altra ancora rispetto a quella che parlava lei stessa in Spagna. Era come se la lingua si evolvesse e si frantumasse in tanti idiomi diversi, lasciando il latino intatto solo per pochi eletti – pochi eletti che lo parlavano anche male. Dopotutto erano passati milletrecento anni, nonostante lei rimanesse sempre uguale. Fissò con ancora più intensità il foglio di pergamena. Era quello il suo secretum.
“Oh!” esclamò Lolita, lo sguardo rivolto verso la finestra e arrossendo tutto a un tratto “C’è Diego, devo andare…”.
Acilia si voltò di scatto verso la finestra e vide che c’era un giovane alto e moro sulla strada di fronte alla casa. Con un sorrisetto salutò Lolita che, rossa quasi quanto i suoi capelli, si fiondò alla porta e quasi si scontrò con Miguel che invece stava entrando. Lui la guardò sconcertato mentre lei correva fuori.
“Dove va così di fretta?” domandò ad Acilia, ancora seduta al tavolo.
Lei gli fece cenno di guardare fuori dalla finestra e lui si voltò. Lolita e Diego si stavano allontanando, mano nella mano.
“E chi è quello?” sbottò.
“Non lo so, sarà il suo ragazzo”.
“Da quando ha un ragazzo?”.
“Ha molto successo con i ragazzi, lo sai, no? Evidentemente ne ha scelto uno”.
Miguel borbottò qualcosa di vagamente simile a “almeno può farmelo conoscere” e Acilia lo baciò sulla bocca. “Ciao comunque” disse, ilare, strofinandogli la barba scura.
L’altro si rilassò e si sedette al tavolo. L’occhio gli cadde sul foglio di pergamena. “E questo cos’è?”.
“Latino” rispose Acilia.
Miguel sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere. “Non importa che Lolita sappia anche il latino!”.
“Beh, a lei piace imparare, ha una mentalità aperta. È molto diversa da…”. Acilia esitò.
“Da Agnese, lo so” completò Miguel, con un gesto noncurante della mano.
Acilia fece un sorrisino e si sedette di fianco a lui.
I primi tempi non erano stati facili. Da quando aveva scoperto il suo segreto, Miguel ci aveva messo del tempo prima di riuscire a baciarla ancora. La guardava strano quando la vedeva parlare con Lolita, la guardava strano quando lei si allontanava alle primissime luci dell’alba. Ma non aveva mai lasciato andare la sua mano e Acilia gli era grata per quello. Ma ora lo vedeva invecchiare. Aveva trent’anni mentre lei ancora ne aveva diciotto. Lolita le aveva chiesto perché non si sposavano e Acilia non sapeva cosa rispondere. Dopotutto lo sapeva ancora che dovevano lasciarsi, prima o poi dovevano lasciarsi… Ma rimandava sempre, e il tempo trascorreva veloce, velocissimo.
“Miguel” fece, contorcendosi le mani.
Lui alzò lo sguardo verso di lei.
“Non vuoi…” tentò lei. Aveva già iniziato quel discorso tante volte. “Tu non vuoi sposarti? Avere dei figli?”.
Miguel strinse le labbra e si scurì in volto, come tutte le volte che ne parlavano.
Acilia si fece coraggio. “Lo sai che io non…”.
“Lo so benissimo” la interruppe lui “Non mi importa. Non voglio figli, voglio te”.
Acilia li avrebbe voluti dei figli, se fosse stata umana.
“Se Lolita sta con un ragazzo…” fece Miguel, accennando a un sorriso “E se si sposa, se si sposa anche Agnese… Ne avremo già abbastanza di marmocchi, no?”.
Acilia si mise a ridere, suo malgrado.
Lui si avvicinò piano e la baciò. Le loro lingue si toccarono in un’esplosione di ghiaccio e fuoco, era questo che loro erano sempre, ghiaccio e fuoco che si incontravano ma il fuoco scioglie il ghiaccio e Acilia si ritrovava esausta tra le sue braccia, pervasa dal calore umano.
Miguel cominciò a sfilarle delicatamente la tunica e lei lo lasciò fare, presa del desiderio, tenendo i suoi denti sotto controllo. La prima volta che avevano fatto l’amore, sei anni prima, i suoi canini si erano allungati prima che lei potesse capire quello che stava succedendo e Miguel si era alzato dal letto urlando.
Acilia quasi rideva al ricordo, e ridendo i denti fremettero e uscirono dalle labbra. Lei si coprì la bocca con la mano, mortificata, e lui scoppiò a ridere, le tolse la mano e continuò a baciarla come se niente fosse. Acilia stava attenta a non ferirlo ma lui le chiese: “E se mi mordessi?”. Lei lo guardò esterrefatta. “Non posso farlo!”. Miguel sorrise, e gli occhi si strinsero, dolcemente. Aprì la bocca, con fare provocatorio. “Allora lo farò io!”. Acilia scoppiò a ridere mentre lui la mordeva sul collo. “Smettila… No, smettila! Ti prego… Mi fai il solletico!”. Lui non demordeva allora lei, con uno scatto, si alzò in piedi e corse dietro di lui. Lui rimase a stringere il vuoto, confuso, e lei lo gremì da dietro.
Lui si voltò col volto rasserenato. “Non mi ci abituerò mai” disse solo poi riprese a baciarla e baciandola si alzò e le mise le mani sui fianchi portando giù la tunica. Improvvisamente si staccò, come se bruciasse, sì, Acilia lo sentiva bruciare, maledettamente bruciare. “La finestra…” biascicò lui. Lei gli riprese la testa con le mani. “E chi se ne frega!” disse, tutta nuda. Mentre lui la toccava lei spogliò lui e poi caddero rovinosamente a terra con un tonfo, lui sopra di lei. “Scusa…” fiatò lui, guardandola con occhi sgranati “Ti sei fatta…”.
Acilia scoppiò a ridere e lo baciò di nuovo. “Non mi faccio niente, stupido”.
Miguel prese a muoversi sopra di lei e lei spalancò le braccia, socchiudendo gli occhi mentre il piacere si impadroniva del suo corpo freddo, che si scioglieva, si scioglieva…
Aprì un poco gli occhi e tra le ciglia vedeva Miguel sudare, i ricci appiccicati alla faccia, la barba, le sue prime rughe… 
Invecchierà, lo sai, vero?
Acilia gli accarezzò i capelli, gridò il suo nome, disse che lo amava.
Non puoi amarlo…
Per quanto? Per quanto ancora?!
Ci lasceremo, ci lasceremo prima che invecchi…
Per quanto?
Quanto tempo aveva ancora?
Quando?!
Urlò ancora, per il piacere. E il terrore.
 
 
 
Lolita era contenta, forse per la prima volta, da quando erano morti i suoi genitori e i suoi fratelli.
Stava baciando Diego dietro alle cassette piene di frutta. Lui le torceva i ricci con le dita e lei ridacchiava. Forse l’avrebbe sposato.
“Ti fai la ragazza del grano, Diego?”.
I due si staccarono e Lolita guardò infastidita chi l’aveva apostrofata in quel modo. Era un ragazzo non molto alto, i capelli color cenere appiccicati alla faccia e il naso grande dalle narici dilatate. A braccetto teneva una ragazza con un abito stretto con una tale smorfia sulla faccia che la faceva assomigliare a un castoro.
“Rodas” sbottò Lolita, senza la minima traccia di paura.
Rodas era il figlio del falegname e le aveva fatto una corte spietata solo fino a qualche settimana prima. Sentirsi apostrofare da lui con disprezzo non poteva che farla ridere.
“Che cosa vuoi, Rodas?” fece Diego, nervoso, cercando di imitare il tono spavaldo di Lolita.
“Andiamo via da questa gentaglia” sibilò la ragazza-castoro al suo compagno.
“Lei è Eva” fece l’altro, indicandola “È la figlia di Lorenzo, Lorenzo Martinez”. Sottolineò accuratamente il cognome. Lorenzo Martinez era un ricco commerciante che viaggiava in continuazione, Lolita lo sapeva.
“Impressionante” fece, fingendo un’aria sorpresa. Cambiò espressione, guardando Rodas canzonatoria. “Non è che invece ti rode perché ti ho rifiutato?”.
Fu il turno di Eva ora di aprire la bocca, stupefatta. “Ma che modi! Che presuntuosa!”.
Rodas aveva uno sguardo furente e la ragazza si voltò a guardarlo. “È vero? Rodas, è vero?!” esclamò con vocetta stridula.
“Oh, sì, è vero” rispose Lolita, sbattendo le ciglia amorevole, cosa che non era da lei, ma si divertiva troppo.
Sentì al suo fianco Diego che bisbigliava: “Non esagerare”.
Lolita fece un gesto scocciato con la mano ed Eva fece scivolare il suo sguardo dall’uno all’altra, gli occhi ridotti a due fessure. “Cosa fai, incanti gli uomini?”.
“Già” intervenne Rodas, ripresosi, prima che Lolita potesse ribattere “Dev’essere così, sai quello che si dice sulle ragazze coi capelli rossi…”.
“Che sono delle puttane” ghignò Eva, guardando Lolita dritto negli occhi.
“Ehi!” sbottò Diego.
Lolita si sentì tremare, furente. Perché diavolo quel pallone gonfiato di Rodas con la sua nuova fiamma dovevano venire a romperle le uova nel paniere?
“Andiamocene, Lolita” disse ancora Diego, prendendo in mano la situazione “Questi non hanno niente di meglio da fare che darci noia evidentemente”.
Le prese la mano e Lolita si lasciò condurre via ma Rodas riuscì a parlarle ancora, velenoso. “E Federico? E Gonzalo? Neron?”.
Lolita accelerò il passo, sentendosi arrossire.
“Chi sono?” domandò Diego.
“Non ho mai fatto niente con loro!” esplose lei, fermandosi e guardandolo.
“Ehi… ehi, calmati…”.
“No!” urlò ancora la ragazza, guardando gli occhi scuri di Diego. Si sentiva accusata ingiustamente, accusata di fronte al suo fidanzato. “Loro… Loro mi venivano dietro d’accordo? Non lo so perché, lo facevano e basta! Ma io…”.
Diego le poggiò le mani sulle spalle. “Tranquilla! Sarà perché sei bella, no?”.
Lolita inspirò a fondo, poi, suo malgrado, sorrise.
“Rodas è un enorme pezzo di sterco” continuò l’altro “Un enorme pezzo di sterco geloso”.
La ragazza scoppiò a ridere e si lasciò abbracciare da Diego.
“Ma tu” riprese lui “Non fare così… Non provocarli, potrebbero…”.
“Potrebbero cosa?” fece Lolita, sospettosa.
Diego esitò un momento, poi scrollò le spalle. “Non lo so. Niente”.
Lolita prese la sua mano e s’incamminarono, lei con la felicità di nuovo esplosa nel volto.
 
 
 
Acilia e Miguel erano stesi nel letto di lui.
Doveva essere molto tardi.
“È ora di dormire” bisbigliò Acilia, accarezzandogli la guancia.
Lui grugnì qualcosa e si voltò a guardarla.
“Non voglio dormire”.
“Ma è tardi. E domani devi lavorare”.
“Lolita è tornata?”.
“Sì, sta dormendo”.
Miguel si rasserenò. Poi ripeté: “Non voglio dormire”. Ma aveva la voce impastata, grondante di sonno.
“Perché no?” chiese lei.
Lui chiuse gli occhi, si stava assopendo, che lo volesse o no.
Ma ancora riuscì a rispondere: “Perché… quando poi mi sveglio… ho paura di non trovarti più”.
Acilia sorrise e si accoccolò nel suo petto. Lui lo diceva tutte le notti, lei all’alba doveva andarsene e lui non riusciva mai a salutarla perché dormiva. Ci provava sempre a stare sveglio ma finiva sempre coll’addormentarsi e Acilia gli si raggomitolava di fianco, ascoltandolo respirare.
 
*
 
 
Giorno 64
 
Che mi piaccia? È possibile che mi piaccia?
È solo perché sono stata troppo tempo con lui, è solo perché nel momento in cui ho avuto più paura lui era lì con me. Funziona così, no? Non può essere certo perché ha gli occhi rossi, le zanne e una certa bramosia di sangue!
Non scrivevo da moltissimo tempo su questo diario, l’ho fatto perché ho bisogno di calmarmi. Chi l’avrebbe mai detto, che da quando ho scritto giorno 1 saremmo arrivati a questo?
Perché gli ho chiesto di tornare? Perché l’ho fatto?
Lui ha il volto di un ragazzino, è esile, è… Non è nulla per cui…
 
Chiudo gli occhi, sbatto la penna sulla scrivania, strappo una pagina di diario dietro l’altra. Non so cosa scrivere, non so più cosa scrivere, nemmeno la penna riesce a darmi sicurezza, porta solo altra confusione. Io non ho più paura, ma ho una strana cosa dentro di me. Non sarà stato il sangue di vampiro? Sì, è quello che mi ha fatto impazzire. Allora può ancora trasformarmi… No, non è così. Sono già passati due giorni e io sono un essere umano. Vado a lavoro, sotto il sole, mangio la pasta, la carne, sono pallida ma non più del solito. Il sangue di vampiro può avermi fatto venire voglia di vampiro? Perché gli ho chiesto di baciarmi? Perché diavolo…
 
Ho chiesto a Vampiro se potevo baciarlo. Non ha più senso che io lo chiami Vampiro, lui ha un nome, il suo nome è Jacque. È due notti che non lo vedo, ma lo vedo nei miei sogni. Ho paura che sia l’effetto del sangue del vampiro. Il patto, quel patto, potrebbe legarmi davvero a lui?
Il tatuaggio che mi hanno fatto è una lacrima, una di quelle lacrime che io dovrei avere per lui. Dovrei piangere per lui. Abbiamo detto davanti a tutta la Rappresentanza che siamo innamorati. È questo il prezzo del patto del sangue? Che la finzione diventi realtà? Si divertono? Chi c’è dietro a tutto questo, chi c’è che…
 
Sono passati più di due mesi da quando ho incontrato Jacque per la prima volta. Lui mi ha fatto paura, l’ho odiato, l’ho odiato perché mi faceva paura. Poi l’ho odiato perché è tornato, l’ho odiato perché è venuto a casa mia e mi ha messo in testa la pazza idea di farmi trasformare…
Ma l’ho mai veramente odiato?
Sì, è solo che poi… quella sera nel bosco, in cui abbiamo parlato. Mi ha rassicurata, come non ha mai fatto nessuno. E poi il patto, la sua mano, fredda, gelata, che teneva la mia. Non l’ho mai veramente voluta ma era l’unica cosa che potesse darmi conforto. I suoi occhi sono freddi, sono opachi, non ci vedo il mio riflesso dentro, come lui non vede il suo da nessuna parte.
Sarà meglio che vada a dormire, stanotte non verrà, non so neanche perché lo sto aspettando. Non strapperò anche questa pagina, è inutile, non saprei più cos’altro scrivere. Non mi è mai capitato di tenere una penna in mano e di non avere l’ispirazione giusta.
Adesso, beh, tanto per essere sinceri, lo odio ancora.
Lo odio perché mi sta fottendo il cervello.
 
 
 
Eike si leccò il sangue sulle labbra.
“Secondo me Acilia cerca solo di tenerti addomesticato come un cagnolino” disse.
Jacque rifletté: ne sarebbe stata capace effettivamente. Mentre prendevano in prestito un po’ di sangue da Claire che, estasiata, se ne stava sdraiata sul pavimento digrignando frasi incomprensibili, Jacque aveva raccontato quanto era avvenuto ad Arcangelo e anche in camera di Emily.
Gli aveva confessato anche che era tormentato dalle parole di Acilia, che l’aveva ammonito di non affezionarsi ad Emily.
“Salvala ma non affezionarti a lei!” esclamò Eike con una voce profonda e sensuale, in un’imitazione di Acilia. “Proprio il genere di cose che direbbe Aci…”.
“Ma tu hai parlato con lei?”.
­Eike annuì giocherellando con la gamba sospesa di Claire. Le morse la coscia e lasciò che il sangue colasse fino al piede. “L’altra notte ne ha sparate un’altra delle sue. Com’è che era? Ah sì… Che l’amore eterno è un privilegio solo degli umani”. Leccò la gamba della ragazza seguendo scrupolosamente con la lingua il rigagnolo di sangue, socchiudendo gli occhi. Poi disse: “A volte mi fa venire i brividi”.
Jacque lo stava guardando sconcertato. “A me fai venire i brividi tu”.
Eike scrollò le spalle mentre Claire ridacchiava. “Ti è piaciuto eh?” fece alla ragazza che ridacchiò più forte.
Jacque pensava che Claire non fosse tanto sana di mente ma tornò a guardare Eike. “Cosa credi che volesse dire?”.
“Beh, mi sembra ovvio”.
“Ah sì?”.
“Che non ti ama”.
Jacque strabuzzò gli occhi. “Non ho mai pensato che…”.
“Secondo lei solo gli umani amano” continuò Eike “forse è per questo che non vuole che ti fai quella Emily…”.
“Ma allora sarebbe gelosa”.
“Sì, del suo cagnolino ammaestrato”.
Jacque sbuffò e appoggiò il braccio di Claire. Gli era quasi passato l’appetito.
“O forse è schifata dall’idea che un vampiro e un umano copulino insieme” disse.
Eike fece una faccia poco convinta. “Ti ricordo che è la fondatrice del PPC”.
“E allora? Non… non è la stessa cosa”.
Nessuno dei due parlò e per qualche attimo si sentirono solo gli affanni di Claire che chiedeva, delirante, di essere prosciugata.
Eike sembrava intenzionato ad assecondarla e Jacque lo fermò. “Fermo, i simpatizzanti sono protetti”.
“Da chi?” fece l’altro con una smorfia.
“Dai vampiri, idiota”.
“Ma siamo noi i vampiri”.
“Beh quando crescerai un po’ in altezza, i capelli ti cresceranno fino alle spalle e ti chiamerai Lyben Vladimir il tuo parere di vampiro conterà qualcosa” disse Jacque guardando il volto di Claire deformato da smorfie di piacere.
Tornò a posare il suo sguardo su Eike. “Secondo te Acilia non è mai stata con un umano vero?”.
“Secondo me Acilia si è fatta di tutto, non mi sorprenderei se gli animali…”.
“Ehi” sbottò Jacque, interrompendolo, sentendo un moto di stizza.
Eike sospirò. “Jacque, è inutile cercare di capirla. Ha duemila anni”.
“Millenovecento e qualcosa” precisò lui.
“Sai quanti segreti può avere una persona che ha duemila anni?” insistette l’altro.
Jacque si zittì. Dimenticava sempre che lui non era altro che una piccola, minuscola parte della vita di Acilia. Mentre lei per lui invece era tutto, tutta la sua esistenza.
Ti metterai nei guai. Con te stesso.
“Forse vuole solo proteggermi” disse, più a se stesso, ricordando le parole di Acilia.
Ma Eike non gli risparmiò la sua battuta tagliente. “Tipico ragionamento da cagnolino”.
Jacque non diceva niente e il ragazzino andò avanti. “Senti, l’amore sarà eterno per gli umani, ma solo tra umano e umano. Se ti mettessi con Emily non credo che vorrai stare con lei anche quando avrà tette e polpacci flaccidi no?”.
Jacque lo fissò stordito. Non ci aveva pensato.
“Che c’è?” continuò Eike “Non vorrai mica farle da badante no? È già abbastanza avanti con…”.
“Ha ventisette anni!” esclamò l’altro, incredulo.
“E tu centotredici” ribatté la sua progenie, duramente “Il tempo vola, papà”.
Claire si stava rialzando a fatica, borbottando qualcosa sul fatto che le loro chiacchiere l’avevano rintronata. Jacque pensò di ribattere che farsi succhiare il sangue non doveva essere proprio un toccasana ma tacque, pensando che gliel’aveva bevuto lui, il sangue.
“Cosa mi volevi dire?” chiese ad Eike “Stavi dicendo… l’amore eterno solo tra umano e umano… Quindi?”.
Eike lo guardò sorpreso.
“Beh, quindi fattela” disse, come se fosse ovvio “Cogli l’attimo… Carpe diem, in omaggio ad Acilia e al suo latino. Tanto prima o poi schiatta, non rimarrai incastrato”.
 
*
 
 
Le “lezioni” di latino proseguivano e a Lolita piacevano tantissimo. Era una lingua complicata, ma le piaceva pensare che sapeva qualcosa che tutti i suoi conoscenti ignoravano. Ogni tanto, imitando Acilia, lanciava l’esclamazione Ecastor!, sottovoce, perché non voleva attirare l’attenzione ma a volte qualcuno si voltava stranito.
Afferrò un sacco di juta e lo porse al suo acquirente, mormorando un prezzo e tendendo la mano.
Quello prese il sacco e poggiò delle pecete sulla mano di Lolita, che salutò cortesemente e cercò con lo sguardo il suo prossimo cliente. Riconobbe subito i denti da castoro e il naso all’insù di Eva.
“Cosa ti porta dalla gentaglia?” sbottò Lolita, senza riuscire a trattenersi.
Eva strinse gli occhi scuri. “Voglio tre sacchi di grano”.
Lolita, di malavoglia, prese un sacco dopo l’altro e li poggiò sul tavolo.
“Allora” fece l’altra, frugando in un sacchetto di pelle pieno di monete “Qual è il tuo segreto?”.
“Il mio segreto?”.
“Come fai a piacere a tanti uomini?”.
“Forse perché non ho i denti da castoro”. Subito Lolita sgranò gli occhi, sentendo le sue parole. Non l’aveva fatto apposta, le parole le erano sfuggite di bocca!
Eva aveva la faccia di chi aveva appena ricevuto uno schiaffo e Lolita cercò di rimediare. “Senti… A me Rodas non interessa, io sto con Diego!” disse, con enfasi “Non voglio certo…”.
“No, non ti interessa” la interruppe Eva, con sguardo cattivo “ma intanto l’hai stregato”.
Lolita ebbe un tuffo al cuore. Stregato? Che significava? Perché Eva aveva usato proprio quella parola?
“Che cosa vorresti insinuare?” fece, con un filo di voce.
Eva avvicinò la bocca all’orecchio della ragazza e sussurrò: “Lo conosco il tuo segreto”.
Lolita sbarrò gli occhi e l’altra ridacchiò.
Di che diavolo parla?
Eva sembrava soddisfatta e lei la guardò spaventata.
Non fare così. Non provocarli, potrebbero…
Potrebbero cosa?!
“Metti via quei sacchi” disse poi Eva, con tono melenso “Ci penserà il mio servitore a ritirarli, intanto pago”. Sbatté le ciglia, amorevole, come qualche settimana prima aveva fatto Lolita con lei.
Mise le monete sul tavolo e fece per allontanarsi.
Il mio servitore.
Non poteva venire direttamente lui? No, certo, Eva era venuta per sottolineare il fatto che lei era più ricca, più potente. E per spaventarla. Lolita la odiò, la odiò perché da quando erano morti i suoi genitori e i suoi fratelli finalmente aveva un momento di felicità sua, un momento di pace, in cui le cose andavano bene. E quell’oca voleva rovinarglielo. Ancora una volta le parole furono più veloci della sua mente.
Stercorem pro cerebro habes”.
Forse era perché offendere in latino le dava più sicurezza, perché non la capivano, o perché dimostrava di essere qualcosa in più di loro.
Eva l’aveva sentita e si era girata, pallida e con neanche l’ombra del sorrisetto che aveva prima.
“Che cos’hai detto?”.
Lolita prese un sacco tra le braccia e lo poggiò per terra.
“Chi? Io? Nulla”.
Sorrise, angelica, ma non si chiese perché Eva avesse lo sguardo turbato.
 
 
 
Acilia camminava a passo lento tra gli alberi. Il sole era appena calato e lei non aveva tutta quella fretta che aveva di solito, di rivederlo. Gli anni passavano e la consapevolezza era sempre più un macigno nel suo petto.
Non puoi vivere da umana.
Accelerò il passo, ignorando i suoi pensieri. Miguel era ancora giovane, non doveva pensarci adesso, non doveva…
Il rumore di un ramo spezzato la fece voltare di scatto.
“Chi c’è?” domandò ad alta voce.
Ci mancava solo qualche brigante.
Vide un’ombra muoversi velocissimamente, a destra e a sinistra, davanti e dietro gli alberi. In realtà quell’ombra credeva di essere veloce ma Acilia lo vedeva, vedeva ogni suo movimento…
Un uomo le fu davanti all’improvviso ma lei era preparata e subito fu dietro di lui, il braccio intorno al suo collo. Lui digrignò i denti e lei gli bisbigliò all’orecchio: “Chi sei?”.
“Non mi puoi soffocare” disse l’altro con una risatina.
Acilia gli prese la testa con la mano libera. “Ma ti posso staccare la testa”.
Lui sbarrò gli occhi, spaventato, e lei lo lasciò andare. Ma lui non fuggì, si voltò a guardarla e lei ricambiò il suo sguardo. Era un giovane che dimostrava una trentina d’anni, forse qualcosa di più, aveva i capelli rossicci e la carnagione molto bianca.
“Sei giovane” disse Acilia, avvicinandosi.
“Come, scusa?”.
“Non ti muovi tanto veloce”.
Lui inarcò le sopracciglia e strinse le labbra. “Scusami. Non ti volevo attaccare, pensavo fossi un’umana”.
Acilia annuì e fece un cenno per indicare le case che si intravedono tra gli alberi alla sua sinistra.
“Non andare a cacciare là”.
“Perché?” chiese l’altro, cercando di imitare il suo tono spavaldo.
Acilia non distolse lo sguardo né sbatté le palpebre. “Perché è la mia zona”.
Lui ci mise un po’ a rispondere. Sembrava alla ricerca di qualcosa con cui ribattere ma poi disse solo: “Certo”.
“Sei solo?” domandò poi Acilia.
“No, ho una creata”.
“E dov’è?”.
L’altro rispose subito, e questo fece pensare ad Acilia che fosse sincero. “Non lo so, noi cacciamo separati”.
Lei annuì. “Fate bene” disse poi in un sussurro.
“Cosa?”.
Acilia lo ignorò. “Dì anche a questa tua creata di non cacciare nella mia zona” disse, scandendo bene le parole.
Il vampiro si limitò a fare un cenno d’assenso. “E tu?” chiese poi “Sei sola?”.
Lei annuì e l’altro insistette: “Ma se sei tanto vecchia non hai mai…”.
“Forse” ribatté Acilia, dura “Ma che ti importa?”.
Si pentì di essere stata sgradevole. Ma doveva assicurarsi come prima cosa che quel vampiro non attaccasse i suoi amici. Però… era da tanto tempo che non incontrava uno come lei.
Lui stava per andarsene e infatti lei parlò di nuovo, per fermarlo.
“Non sembri di qui”.
L’altro si voltò, sorpreso. “No, infatti. Dici che sono giovane, ma sono più di novecento anni che girovago”.
Acilia si sentì per un attimo trasportata verso di lui. Anche lei aveva viaggiato tanto. Accarezzò per un attimo l’idea di dire addio a Miguel e di vivere con i suoi simili. Molti lo facevano, si riunivano in clan, obbedivano al più vecchio del gruppo, ognuno aveva la propria zona.
“Sono vissuto in Inghilterra” continuò il vampiro, dato che Acilia non diceva più niente “sotto l’Imperatore romano Onorio”.
L’idea di dire addio a Miguel però era insopportabile.
Già le mancava…
“Bene, Onorio” sentenziò Acilia, ignorando lo sguardo perplesso dell’altro “ci rivedremo, forse”.
Gli voltò le spalle e camminò senza fermarsi fino alla casa di Miguel. Forse anche Onorio voleva sapere qualcosa di lei… Aveva vissuto nell’impero anche lui, avevano tanto in comune. Sicuramente più di quanto avessero in comune lei e Miguel, o lei e Lolita.
Fa lo stesso, pensò, preferisco stare con gli umani, ora, solo per un po’, solo per un altro po’…
Aprì la porta senza pensare di bussare e si ritrovò davanti i visi angosciati di Miguel e Agnese, entrambi seduti.
Non puoi vivere da umana.
La sentiva come un’accusa, tagliente e bruciante.
Chiuse la porta dietro di sé. “Che succede?” chiese poi.
Agnese si coprì il volto con le mani, stava piangendo.
Miguel si alzò, scuro in volto, e Acilia davvero temette il peggio.
“Miguel, cosa…”.
“È Lolita” disse lui “È stata denunciata”.
Cosa?!”.
Miguel fece un respiro profondo. “Nemesio è stato qui stamattina. Ieri… qualcuno ha denunciato Lolita”.
“Chi? Chi è stato?!”.
Agnese emerse dal suo pianto con una risatina spenta.
“La domanda non è chi… Ma per cosa”.
Acilia la guardò confusa. Poi il suo sguardo scivolò su Miguel. “Per cosa?” domandò, con un filo di voce. Miguel non rispondeva e lei urlò: “Per cosa?!”.
Lui trasse un respiro profondo. “Per stregoneria”.
Stregoneria?
Acilia aprì la bocca e la richiuse più volte, senza sapere cosa dire.
“Ma com’è possibile? Non ha senso!”. 
“Sì che ha senso!”. Agnese si alzò piangendo, tremando da capo a piedi. Fu davanti a lei e la costrinse a guardare il suo volto deformato dall’odio più profondo. “Sei stata tu! Le hai insegnato qualche pratica magica?!” gridò.
Miguel la tirò per un braccio. “Agnese, piantala!”.
“Lasciami!” urlò la sorella, disperata. Puntò il suo sguardo annientato su di lui. “È lei la strega! È LEI! E tu non te ne sei mai accorto!”.
Acilia si ritrasse. Non aveva mai visto… non aveva mai…
Miguel cercava di tenerla ferma ma Agnese si strattonò e tornò ad strillare: “Ha gli occhi del demonio! Da quando è arrivata qua tutti hanno cominciato a morire! E Lolita…”. Si accasciò a terra lentamente, mentre Miguel la sosteneva per un braccio. Piangeva, e Acilia non sapeva cosa fare. Non aveva voglia di difendersi, perché tanto Agnese aveva ragione, non era una strega ma il demonio… il demonio lei l’aveva dentro.
“Sette anni…” gemette ancora la donna per terra, con voce fremente “Sette anni e non sei cambiata di un’unghia…”. Si voltò con occhi folli verso Acilia. “Quanti anni hai? Da quanto tempo vivi?! Qual è il tuo segreto?!?”. La sua pelle, così liscia e vellutata di solito, era stirata in una miriade di rughe, i suoi occhi erano rossi di pianto e dalla bocca le colava della saliva. Dopo quella che sembrava essere un’eternità distolse lo sguardo e tornò a piangere sul pavimento. “Ha gli occhi del demonio…”.
“Agnese” fiatò Miguel, scrollandole le spalle “Agnese… guardami! Guardami!”.
Lei tirò su la testa e lui continuò: “Ce la caveremo! Lolita è innocente… lo sai! Guardami!”.
Agnese aveva di nuovo abbassato lo sguardo e Miguel la scrollò di nuovo. “Lolita non è una strega, lo sanno tutti! Si salverà! Si salverà!”. Anche lui aveva le lacrime agli occhi.
Acilia si strinse tra le braccia, mentre la sua mente lavorava febbrile.
Lolita accusata, ci sarebbe stato un processo, dovevano procurarsi delle prove, dovevano…
Ha gli occhi del demonio.
Mentre il suo uomo e la sorella piangevano, lei non riusciva a versare neanche una lacrima per Lolita.
Gli occhi del demonio…
Chiuse gli occhi, sforzandosi di ragionare. Dicevano che il demonio avesse gli occhi verdi, come le streghe… Lolita aveva gli occhi identici a quelli di Miguel, ma i capelli, i capelli…
Quel vampiro, nel bosco, aveva i capelli rossi, come quelli di Lolita.
Ha gli occhi del demonio!
“Miguel” fece, avvicinandosi “Miguel… Di cosa… Quali sono i… reati… di Lolita?”.
Miguel si alzò lentamente, mentre Agnese ancora piangeva.
“Non mi ha detto chi l’ha denunciata. E neanche quali sono i capi d’accusa”.
“Ma è folle!”.
Acilia si sentiva male ma si sentì ancora peggio quando si rese conto che Miguel neanche riusciva a guardarla negli occhi.
Gli occhi del demonio!
“Ho detto a Nemesio… Ho provato a dirgli, come fai a crederlo? Conosci Lolita da quando è nata… come puoi credere che è una strega?!” mugolò Miguel “Lui… lui non mi ha ascoltato”.
“Il processo!” esclamò Acilia, cercando di confortarlo “Ci sarà un processo! Quando?”.
“Tra tre giorni” rispose il ragazzo “Abbiamo tempo tre giorni per scoprire chi può essere stato, elaborare un piano, una difesa… Dobbiamo capire perché qualcuno vorrebbe il male di Lolita…”.
Acilia annuì. Ce la potevano fare, ce la dovevano fare!
“Dov’è Lolita ora? Dov’è?” chiese.
Agnese esplose in un pianto ancora più rumoroso mentre Miguel rispondeva, con gli occhi ancora abbassati: “L’hanno portata via”.
 
*
 
 
Era finita di fronte a casa sua, maledizione.
Beh, era inutile convincersi di non averlo fatto apposta. Si mise davanti al vialetto, poi diede un’occhiata all’orologio. Erano le nove di sera, che probabilità c’erano che lui fosse in casa? Sicuramente era in giro, a cacciare. Emily sbuffò e si sedette per terra, sul marciapiede.
Ma che diavolo le prendeva?
Era davvero quel sangue ad averle fatto un effetto simile? La verità era che più ci pensava più si convinceva che ora che aveva scoperto una fetta di mondo in più, il suo mondo non le bastava più. Non era che Jacque le piaceva, non più di tanto perlomeno, era il fatto di aver scoperto qualcosa di…unico. Vampiri politici, un presidente vampiro con un gran sorriso, vampiri buoni, gente umana che lavorava per i vampiri!
La sua curiosità era alle stelle, se solo avesse potuto scrivere un articolo, se la verità fosse venuta a galla, e se fosse stata lei ad espanderla il suo capo sarebbe stato felicissimo! Il capriccio avrebbe avuto un’impennata!
Ma aveva fatto un patto… E poi, se avesse scritto un articolo anche senza fare nomi e descrizioni, l’avrebbero considerata ancora più pazza. Già era additata come la folle amica dei vampiri, ora lo era veramente. Ma se Jacque fosse sparito dalla sua vita non lo sarebbe più stata… C’era qualcosa però che non le andava bene in tutto quello.
Sentì un rumore e si voltò. La porta si era aperta e stava uscendo dalla casa una ragazza in minigonna e tacchi, tutta impettita, con un sacco di trucco in faccia.
Si bloccò non appena vide lo sguardo confuso di Emily, lì seduta per strada.
“Oh” fece, arcuando la bocca “Mi dispiace di averti fatto aspettare, è il tuo turno”.
“Il mio… che cosa?”.
Ma la donna si era già allontanata sculettando ed Emily la guardò mentre andava via, a bocca aperta.
“Oh, beh, questo sistema le cose, Jacque, è lesbica”.
Emily si girò sentendo una vocetta petulante che non le era nuova.
Sulla soglia c’erano Jacque e quel suo amichetto, il vampiro formato mignon.
La ragazza doveva avere un’espressione completamente attonita perché il bimbo si rivolse a lei: “Beh? Non stavi guardando Claire?”.
“Sì ma…” cominciò lei “Perché lei aveva detto…”. Tacque. Doveva pure giustificarsi con quello scemo adesso?
Jacque stava guardando Eike con la faccia di uno che, se avesse potuto, sarebbe arrossito. “Eike, piantala”.
Eike scrollò le spalle e si avvicinò ad Emily.
Lei non aveva paura. Ricordava vagamente quella sera, fuori dal lavoro, in cui li aveva incontrati, tutti e due. Era terrorizzata. Ma ora… non sentiva più alcuna minaccia.
Lui le tese una mano piccola. “Non ci siamo presentati come si deve”.
No, l’ultima volta volevi mangiarmi.
“Mi chiamo Eike Lehmann, tedesco, novantadue anni”.
Emily gliela strinse, poco convinta.
“Ah complimenti per essere sopravvissuta al patto del sangue” aggiunse il ragazzino.
Lei non riuscì a dire altro se non a “Grazie”.
Lui aspirò l’aria. “Che buon profumo”.
Prima che Emily potesse rendersi conto di quella frase, Eike ritirò la mano. “Vi lascio alle vostre… cose. Vado a fare una passeggiata”. S’incamminò per strada, poi dopo poco si voltò di nuovo indietro. “Jacque… Stai attento a non farti vedere da Aci!”.
Poi sparì nel buio.
Emily si voltò verso Jacque, sentendosi rossa come un peperone.
“Cosa voleva dire?”.
Jacque sembrava avere un nodo in gola. “No, lui… Boh, niente”.
Nessuno disse niente poi lui parlò di nuovo: “Che ci fai tu qui?”.
Emily si sentì avvampare ancora di più. “Io… Boh, niente”.
Ci fu qualche attimo di silenzio, poi entrambi si misero a ridere.
“Facciamo un giro?” chiese Jacque.
“Sì, okay”.
Dopo qualche passo Emily non riuscì più a trattenersi. “Chi era quella… Claire?”.
Jacque sorrise. “Curiosa come al solito?”.
“Beh, sì”. Per un folle attimo Emily aveva pensato che avesse detto gelosa.
L’altro sembrò per un momento a disagio. “È… una simpatizzante”.
“Era umana?”. Emily sgranò gli occhi. Che ci faceva un’umana in una casa di vampiri?
“Sì” rispose Jacque “di quelli che… donano di loro sponte il sangue, ai vampiri”.
Che?!
Okay, al mondo c’era davvero qualcuno più fuori di testa di lei. Avrebbe tanto voluto dirlo al suo capo. O al suo ex fidanzato. O a tutti e due.
“Ma…” cominciò, titubante “Potete davvero approfittarvi di esseri umani psicologicamente instabili?”.
Jacque la guardò, in silenzio. Poi scoppiò a ridere.
“Che c’è da ridere?” sbottò l’altra, indignata.
“Non lo so” disse il ragazzo scuotendo la testa.
Emily si mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio, un po’ in imbarazzo. Sospirò e, prendendo coraggio, disse tutto d’un fiato: “Non mi sei venuto più a trovare, mi dispiace di essere venuta, magari non volevi più vedermi”.
Jacque fece per aprire bocca, poi scosse la testa.
“No, io… non è questo, io volevo venire”.
Emily rimase spiazzata. Fermò i propri piedi e lo guardò. Ebbe la sgradevole sensazione che quelle che stavano per arrivare sarebbero state tutte scuse.
“Vedi, io…” cominciò Jacque “Aci…”.
“Aci?”.
“La mia creatrice”.
“Oh! Quella ragazza mora inquietante?”.
Jacque inarcò le sopracciglia ed Emily si mise una mano davanti alla bocca. Ma che le saltava in mano, era la sua creatrice, era come sua madre!
Ma il vampiro stava sorridendo. “Sì… A volte è inquietante, comunque lei non vorrebbe che io…”. S’interruppe ed Emily pensò a quello che aveva detto Eike, di non farsi beccare da Aci.
“Che tu sia amico di un’umana?” completò.
Jacque annuì.
Cavolo, pensò Emily, non posso uscire con te perché mia madre non vuole, un po’ da bambini come scusa.
“Beh” fece l’altro “amico… sì. È che… l’altra sera… tu…”.
Sembrava in imbarazzo. Emily cercò di rimediare. “Scusa, io… Non so cosa mi sia saltato in mente!” farfugliò, gesticolando con le mani “È che è… essere amica di un uomo, è sempre strano no?”.
Jacque si rilassò. “Sì, anche tra vampiri” disse con un sorriso.
“Perfetto!” trionfò l’altra, sentendo il cuore che le martellava nel petto.
“Non pensare male di Acilia” disse poi Jacque “È lei che ha fondato il PPC”.
“Strano modo di dimostrarlo” bofonchiò lei, riprendendo a camminare.
Ma l’altro la prese per il braccio e la costrinse a voltarsi.
Lei si ritrovò a pochissimi centimetri dal volto di lui e per poco non le venne un coccolone.
“Io sono un morto, lo sai” disse il ragazzo.
Tecnicamente un non-morto.
“Baciarmi ti farebbe schifo” proseguì.
Emily fece passare il suo sguardo dagli occhi nocciola, spenti, di Jacque fino alla sua bocca, alle labbra di un rosa così chiaro, da sembrare bianco.
Non credo…
“S-senti” balbettò, cercando di allontanarsi “Non lo so perché… Io… non può essere il sangue di vampiro? Prima mi facevi paura, e ora…”.
“È la novità” disse Jacque, con voce ferma, senza più traccia di imbarazzo “Vuoi provare qualcosa di nuovo”.
Anche Emily si sentiva più sicura ora, come se le carte fossero state messe in tavola. “Può darsi”.
Jacque si stava avvicinando ed Emily cercò ancora disperatamente il proprio riflesso nei suoi occhi ma non lo trovava. Le sue pupille erano nere come la pece, non c’era luce, non c’era niente, e lei, lei cosa stava facendo?
“Voi umani siete prevedibili, non avete alcun segreto” disse ancora Jacque.
Ma lui era un uomo, era un uomo anche lui, era lì, in carne ed ossa, davanti a lei. E la doveva smettere di pensare di non essere reale!
“Sarà perché sei anche tu un umano” ribatté Emily “solo che lo sei da molto più tempo”.
Jacque sgranò appena appena gli occhi, un momento di esitazione di cui la ragazza subito approfittò. Si lanciò sulla sua bocca, subito la sentì fredda e viscida.
Baciarmi ti farebbe schifo.
Ma non demorse, con la lingua trovò la sua, con le mani gli prese la testa mentre sentiva quelle di lui circondarle la vita. Era freddo, tutto freddo, ma sapeva che lei lo avrebbe riscaldato.
Solo per oggi, si diceva, solo per questa notte…
 
*
 
 
Di accuse contro le streghe Miguel non ne aveva mai sentito parlare. Di eretici sì ma… streghe? Il termine strega non era nuovo, ma non era mai stata un’accusa. Sapeva che era un’inutile e vaga speranza, l’accusa di strega comprendeva quella d’eresia, e ciò non prometteva bene.
Teneva la mano tremante di Lolita nella sua. Era fredda, quasi come quella di Acilia. Anche lui si sentiva freddo, si sentiva freddo dentro, si sentiva una statua di ghiaccio pronta a esplodere in miriade di pezzettini appuntiti che avrebbero trafitto tutto quello che trovavano.
Acilia voleva disperatamente venire ma era giorno e non poteva. Voleva venire lo stesso, voleva coprirsi bene con una cappa e venire, ma se fosse successo qualcosa… se qualcuno l’avesse vista…
Miguel si accorse che non era solo la mano di Lolita a tremare. Tremava anche il suo braccio, tremava tutto il suo corpo. 
Vedeva Nemesio, invecchiato, in piedi dritto affianco a una ragazza brutta e altezzosa.
Il giudice era seduto al banco più alto, con dei fogli di pergamena in mano. Era vecchio e aveva uno sguardo arcigno, ma Miguel sapeva, lo sapeva, che non avrebbe mai condannato a morte una ragazza…
Agnese era seduta su una panca, le mani incrociate, le labbra che si muovevano continuamente, a Miguel parve di sentirla. Non la sentiva, certo, la sua voce era troppo bassa, però anche lui, con lei, in quel momento nella sua mente stava pregando.
Aveva visto anche Diego, da qualche parte. In piedi, visibilmente pallido, un luccichio negli occhi.
Finalmente girò la testa per osare guardare chi più di tutti lo meritava. Lolita, di fianco a lui, aveva lo sguardo eretto di chi sa di essere senza colpa, i capelli rossi lucenti e slegati senza vergogna. Agnese aveva chiesto disperatamente di poterli tingere ma Lolita non aveva voluto.
Intorno a loro c’erano tante altre persone che parlottavano tra loro, da una parte i frati, da un’altra le suore, da un’altra ancora il popolo. Al fianco del giudice, una piccola assemblea di persone che doveva decidere del destino di Lolita.
Il giudice si alzò in piedi e il chiacchiericcio scomparve. Miguel sentiva ancora le preghiere di Agnese.
“Lolita Delgado” disse, stancamente “accusata di stregoneria”.
Si rivolse a Lolita e lei, da sicura che era, divenne bianca come un cencio.
“Siete stata accusata di” proseguì il giudice correndo con lo sguardo sul foglio “avere incantato molti ragazzi della città. Negate di averlo fatto?”.
“Lo nego” disse Lolita, piano.
“Come?”.
“Lo nego!” fece la ragazza, più forte, con la voce che tremava.
“Eppure abbiamo una testimonianza”.
“Sì” fece una voce cinguettante.
Miguel si voltò. Era la ragazza accanto a Nemesio, Eva Martinez.
“Ha incantato il mio ragazzo” proseguì quella strega con convinzione.
“Non è vero!” urlò Lolita.
“Silenzio!” sbottò il giudice.
Miguel si sentiva tremare di collera. Perché ci doveva essere così tanta ingiustizia?
“Signore… Mi perdoni, signore” tentò.
Il giudice lo squadrò in silenzio e Miguel andò avanti: “Quella donna è l’accusatrice, non è attendibile come fonte”.
“Come sarebbe a dire che non è attendibile?”.
“Beh, è così, non è…”.
Ma il giudice l’aveva già congedato con un gesto della mano, pronto a tornare al suo foglio di pergamena e Miguel si sentì come se il suo cuore si fosse fermato.
“No!” urlò “Ascoltatemi! Dovrebbe essere il ragazzo… Il ragazzo dovrebbe dirlo!”. Si voltò e prese a frugare con lo sguardo tra i presenti. Poi lo sguardo gli si posò su Eva. “Dov’è? Dov’è il ragazzo?”.
“Non c’è” rispose Eva, velenosa “La strega avrà fatto un incantesimo per cui lui è costretto a letto, cosicché non possa venire a testimoniare”.
Miguel sentì Lolita vicino a sé fremere. Si girò e vide che piangeva silenziosamente. Di certo non era così che pensava andassero le cose.
Il giudice stava guardando arrabbiato Miguel. “Posso continuare?” chiese, aspro.
“Certo” disse subito il ragazzo, sentendosi sudare ovunque “Scusate” aggiunse, col tono più risentito che poté.
Il giudice tornò a guardare Lolita. “Recentemente siete stata sentita mentre vi vantavate dei vostri successi amorosi. Negate anche questo?”.
Lolita aveva la bocca aperta. “Beh, io…”.
“Lo negate o no?”.
“Lo nego!” strillò la ragazza “Io non mi vantavo, io… C’era Diego con me!”.
Miguel guardò la sorella pieno di speranza. Diego! Lo cercò con lo sguardo e lo trovò, più bianco che mai, mentre guardava il giudice, in attesa.
Il giudice lo vide e gli fece cenno di parlare.
“Ecco…” cominciò Diego, con delle goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte “Eva e Rodas sono venuti a importunarci, ci provocavano… A Rodas piaceva Lolita, ma lei l’aveva rifiutato… Penso si volesse vendicare, lui e anche” gettò un’occhiata sprezzante a Eva “lei”.
“A Rodas piaceva Lolita perché era stregato” puntualizzò Eva, stancamente.
“Ma insomma!” esclamò Miguel, senza riuscire a trattenersi “Dov’è Rodas per poterlo dire? Dov’è?!”.
“L’ho detto, è ancora stregato, mi sembra ovvio!” sbottò la ragazza.
“Da te semmai!” urlò lui, sentendo una rabbia terribile ribollirgli nello stomaco “Stupida megera…”. S’interruppe notando lo sguardo di fuoco del giudice. Cercò di calmarsi, ma sentiva affianco Lolita che silenziosamente piangeva e non ce la faceva, non ce la faceva a stare calmo…
Chiuse gli occhi e cercò di focalizzare il viso di Acilia che gli diceva che sarebbe andato tutto bene. La sera prima gli aveva promesso che tutto si sarebbe risolto, chissà, magari lei, nella sua stranezza, aveva anche poteri divinatori...
“Andiamo avanti” biascicò il giudice “Una settimana fa la signorina Eva si è recata al vostro posto di lavoro… E voi vi siete vantata della vostra bellezza, lo negate?”.
Ancora quell’orribile piglio sulla parola vantata.
Miguel guardò Lolita pregando ma lei non sembrava più in grado di dire nulla.
“Allora?” insistette il giudice.
Nega, Loli, nega…
“I-o” fece Lolita, spezzando la parola con un singhiozzo “Io… ho solo detto…”.
No! Devi negare!
“Lei mi ha chiesto quale fosse il mio segreto con i ragazzi e io le ho solo detto che… non avevo i denti come i suoi… per ironizzare!” pianse la ragazza.
Miguel lanciò uno sguardo terrorizzato al giudice.
Quello aveva uno sguardo imperscrutabile, ma li guardò per poco. Subito tornò a fissare il foglio che aveva in mano.
“Io dico la verità, Miguel” sussurrò Lolita.
Miguel si voltò a guardarla e vide il suo volto tremante fisso davanti alla platea, gli occhi ben aperti pieni di lacrime, le guance bianchissime come porcellana.
“Dicendo la verità non si sbaglia mai” continuò lei, sempre guardando dritto davanti a sé “Non è vero?”.
“Sì, è vero” rispose Miguel, anche se non ne era convinto.
Lolita, tenendo il volto fermo, ruotò gli occhi verso di lui e lui le vide la pupilla, piccolissima, dentro quel cerchio dorato, più chiaro che mai. “Se deve finire male… Io dico la verità, io rimango pura fino alla fine”. La sua voce era un po’ più ferma alla fine ma era qualcosa dentro Miguel che si era spezzato. Non doveva finire male… Non doveva, non doveva!
Trattenne le lacrime con ogni sforzo e sorrise alla sorella. Le prese la mano. “Non finirà male”.
Ma il giudice stava per parlare ancora.
“E poi avete lanciato un incantesimo”. Anche se il tono da lui usato era sempre lo stesso, la sua voce tuonò terribile e minacciosa, come se avesse urlato.
Lolita sgranò gli occhi. “Io… cosa?”.
“La signorina Eva vi ha sentita mentre lanciavate un incantesimo contro di lei. Lo negate?”.
“Sì!” strillò la ragazza “Non ho… Io non so incantesimi! Che cosa… che magia avrei fatto?!” esplose tremante in sarcasmo.
“Signorina Eva? Volete rispondere?”.
Eva aveva mutato espressione. Non era più provocatoria e gongolante. Aveva le lacrime agli occhi e guardava Lolita con odio.
“Il giorno dopo non riuscivo più a muovere la gamba. Ora cammino a fatica”.
L’espressione di Eva sembrava sincera e Miguel si voltò istintivamente a guardare Lolita.
Lei era stupefatta. 
“Sta mentendo…” fiatò “Sta mentendo… È in piedi! Non ha male alla gamba!”.
Miguel guardò Eva e notò qualcosa che prima non aveva notato. Si appoggiava al braccio di Nemesio. Ma ci potevano essere tantissimi motivi… Poteva essersi presa una storta, poteva essere caduta… Le gambe non smettevano di funzionare, così, di punto in bianco!
“Che incantesimo avrei fatto? Che cosa ho detto?” esclamava ancora Lolita, in preda alla disperazione.
Eva ancora la guardava con quell’espressione infelice e vendicativa e lei sembrò ricordarsi qualcosa. Mise la mano tremolante davanti alla bocca, con gli occhi spalancati.
“Non era un incantesimo, era…”.
“Hai sibilato qualcosa di incomprensibile! In una lingua strana!”.
“Era latino!”.
Il silenzio piombò nella sala. Miguel sentì il suo cuore saltare un battito, terribilmente.
Latino?
Il giudice aveva tutta l’aria di voler concludere. Si rivolse all’assemblea, i cui membri parlottavano tra loro.
No! No!
“Non era un incantesimo! Era un insulto!” gridò Lolita, senza pensare di peggiorare le cose.
Ti prego…
Dov’era il Dio che aveva pregato per tre giorni quando il giudice arrotolò il foglio di pergamena? Dov’era quando si alzò in piedi?
“Condanna al rogo”.
Dov’era quando i suoi genitori, i suoi fratelli, uno ad uno erano tutti morti? Dov’era ora, mentre abbracciava Lolita per non farla cadere?
Chiacchiere, infinte parole, parole vuote, senza senso, gran rumore, tra le persone vide Diego che correva  verso il giudice urlando.
Era quello il Dio di cui parlava Nemesio, con parole insignificanti, mentre diceva che sua sorella era stata accusata, sua sorella, una strega, Lolita, una strega, una cosa?!
Non lo farebbe Dio, non lo farebbe il tuo Dio, Nemesio, non la farebbe una cosa del genere!
Dov’era il Dio che aveva pregato per tre giorni mentre cadeva a terra accanto a Lolita che piangeva, mentre l’urlo di Agnese era l’unica cosa che sentiva, lo stesso urlo del suo cuore?
Le lacrime gli sgorgavano dagli occhi e lui non poteva trattenerle, il ghiaccio in tensione dentro di lui si era rotto, spezzato, distrutto. Così semplice, così semplice vivere senza segreti, lui ne aveva uno, il segreto di Acilia, che lo spaventata ogni giorno e ogni notte, ma Lolita non aveva niente, niente… Anche quando non hai segreti, se la gente crede che tu li abbia per te è finita.
 
*
 
 
Il fuoco, vedeva il fuoco. In realtà era solo la sua mano che andava a fuoco, la sentiva bruciare, nonostante cercasse di nasconderla il più possibile sotto il mantello. E la sua faccia? Com’era ridotta la sua faccia? Le urla che sentiva sembravano provenire dalla sua pelle bruciante, perché anche lei voleva urlare. I piedi li aveva coperti ma sembrava che i sandali fossero roventi. Il naso le faceva male, forse si stava sciogliendo. Ma lei non voleva urlare per il dolore fisico. Le fiamme che vedeva, che stava guardando, non la stavano avvolgendo, le vedeva da lontano, rosso, arancione, giallo, caldo, tanto caldo. I colori del sole, il sole che tanto la odiava, il fuoco, quello che aveva voluto, che aveva desiderato. Qualcosa brillava in quel bagliore, un rosso più spento, un rosso che si stava annerendo. Erano i suoi capelli di strega che venivano bruciati, mentre urlava a più non posso, mentre le fiamme, come mani diaboliche, la prendevano e la trasfiguravano.
Acilia avrebbe voluto buttare il mantello a terra, mettersi affianco a lei, bruciare insieme a lei, morire con lei. Lei si sarebbe sentita meno sola, ne era sicura. La vedeva legata a quel palo, legata dalle fiamme. Vedeva rosso, non sapeva se era perché era il fuoco che era dappertutto, o perché i suoi occhi stavano bruciando. Nelle sue orecchie c’era l’urlo di qualcun altro. Il suo udito le permetteva di distinguere le voci, pure in quella confusione. Un’altra donna era inginocchiata sotto il corpo incandescente di Lolita, sembrava impazzita, sembrava volerla salvare, metteva le mani e subito le ritraeva, strillava, piangeva. Poco distante c’era un uomo e Acilia sentì una forte stretta allo stomaco, come se non lo avesse più visto per tantissimo tempo. Miguel aveva il viso sporco di fuliggine, le fiamme riflesse nei suoi occhi dorati, le mani levate in alto, pietrificato in quella posizione, come se il tempo si fosse fermato, per settecento anni...
Purtroppo l’uomo era stato crudele, e lo sarebbe stato ancora per molto tempo, forse non avrebbe mai smesso di esserlo. Acilia aveva sempre pensato che il vampiro fosse un essere immondo, malvagio, demoniaco ma non aveva ancora capito che il vampiro deriva dall’uomo. Il vampiro era più cattivo dell’uomo – forse – solo perché aveva i mezzi per farlo, il cattivo. Non doveva rispondere a nessuno, non doveva pensare a una giustizia che neanche c’era, aveva una scusa, una scusa! Poteva uccidere perché doveva mangiare e l’arma l’aveva nella sua stessa bocca. Qual è il segno distintivo dell’uomo, qual è? È la ragione, e la ragione può essere usata in maniera giusta o sbagliata. E il vampiro l’ha ancora la ragione, ha la ragione, due zanne, la sete di sangue e l’immortalità. L’uomo non ha le zanne né la sete di sangue né può vivere in eterno, ed è solo ed esclusivamente per queste tre mancanze che uccide di meno.
Uomo e vampiro erano uguali e Acilia sentiva il disperato bisogno di dimostrare qualcosa. Voleva urlare contro quel Dio di cui parlavano tutti, contro il suo Giove, e neanche sapeva più in cosa credere. Voleva stare vicino a Lolita, che era stata definita strega, eretica, in un vortice senza senso di fiamme ed Acilia le vedeva, le sentiva, il suo corpo bruciava sempre di più ma no, non era un problema, lei voleva bruciare… Corse verso Lolita e buttò per terra il mantello. Accolse a braccia aperte il sole mentre sentiva il suo corpo urlare perché non poteva sopportare di vedere la luce, sentirla sulla pelle. Era una luce così forte che Acilia chiuse gli occhi, ma ciò nonostante il mondo era ancora giallo e arancione, i colori che da così tanto tempo non vedeva, da millenovecento anni…
Il suo corpo si stava sciogliendo proprio come quello di Lolita, ed entrambe gridavano, gridavano mentre correvano, insieme, incontro alla morte e si sarebbero tenute per mano, e sarebbero state sorelle, come un tempo lo erano state Acilia e la piccola Lia… Una donna e un vampiro, entrambe arroventate, una dalla follia altrui e l’altra dalla propria follia, un essere puro e uno ignobile, infiammate, dannate…
Sei stata tu a farmi questo!
Uomo e vampiro erano uguali, ma, ma… Il vampiro la può perdere la sua ragione?
Acilia urlò più forte, senza neanche sentire la sua voce, mentre le fiamme si trasformavano in ricordi che la divoravano, un pezzo di carne alla volta, e la carne cadeva, ma non la poteva neanche vedere, perché i suoi occhi si erano liquefatti e colavano dalle orbite…
Li aprì, perché riusciva ad aprirli. Si accorse di avere le braccia legate al proprio corpo, come se si stesse proteggendo. Era buio, nero, non c’era traccia di rosso. Respirò a fondo, andando avanti nel tempo, portandosi in Inghilterra, nel 2012. Si alzò e vide che Jacque ed Eike dormivano ancora. Dormire significava morire. I loro corpi erano immobili, statue di ghiaccio di un colore quasi argenteo. Non si agitavano, non potevano agitarsi, non si muovevano, come potevano farlo? Non sognavano.
Acilia si diresse con passo lento verso la botola. Lei sognava. Le capitava da anni. Per loro non esisteva il dormire, loro, col sorgere del sole, appena si sdraiavano, morivano. Eppure lei sognava, non sempre, solo qualche volta, o forse sognava sempre ma non si ricordava cosa sognava. Forse era perché aveva avuto una vita più lunga, forse il suo cervello non sopportava più quel peso di ricordi, forse doveva sfogarsi, almeno durante il dì... Sì, il peso dei ricordi. Aprì la botola con uno scatto. I ricordi che rintanava lì sotto cercavano di uscire, di riaffiorare, ma non erano solo ricordi, erano anche segreti. Cercò con lo sguardo la finestra e vide che il sole era già calato. Presto, prestissimo, si sarebbero svegliati dal loro sonno mortuario anche Jacque ed Eike, e lei non aveva voglia di parlare con loro. Si diresse verso la porta e l’aprì. I segreti di quasi duemila anni uscirono dalla casa insieme a lei. Non importava quanto in profondità li aveva seppelliti, loro sarebbero sempre stati dentro di lei, inscindibili dalla sua persona. Spesso credeva di averli dimenticati, e poi arrivavano i sogni, i tormenti, che nessuno avrebbe capito, neanche Jacque, neanche se gli avesse raccontato tutto, per altri duemila anni.
Si ritrovò in strada. Avrebbe dovuto mangiare, ormai non lo sopportava più, mangiare. Era strano. Era da sempre che desiderava ardere. Non ci voleva molto, sarebbe bastato uscire, sotto il sole… Marco le aveva detto che più sei giovane più soffri, più impieghi tempo a morire. Lei era vecchia, basta, aveva avuto il suo tempo, il sole l’avrebbe accolta in un baleno, con felicità. Ma dopo? Cosa ci sarebbe stato dopo? Un’altra eterna punizione? Forse non avrebbe più ricordato nulla, i segreti se ne sarebbero andati per sempre e lei sarebbe stata libera.
Vide un uomo in lontananza e trasalì quando si accorse che lui la stava guardando, con occhi blu. Si avvicinò inconsciamente e si avvicinò sempre di più finché non gli fu vicino e lo vide bene.
Accarezzava ancora l’idea di farla finita, di bruciare, di morire, ma ancora, ancora qualcosa la teneva ancorata alla sua semivita…
Gli occhi dell’uomo non erano blu, erano grigi, circondati da piccole rughe definite. Aveva i capelli castano scuro, un naso grosso, un sorriso attraente e una sigaretta in mano.
“Ha bisogno di qualcosa?” domandò.
Acilia si accorse di essere a pochissima distanza da lui.
“No, io… Scusi, credevo… L’avevo scambiata per un altro”.
Lui aspirò e buttò per aria il fumo, con tutta l’aria di uno che stava per provarci.
“Questo altro dev’essere un uomo fortunato”.
Acilia, tra l’odore del fumo, distinse il profumo del sangue.
Sorrise anche lei, angelica.
In realtà, non troppo fortunato. Mi sta venendo fame.









Ehm, so che la caccia alle streghe risale a un periodo un bel po' successivo al 1357 però anche nel quattordicesimo secolo dovrebbero esserci state condanne di questo tipo, credo XD per quel che riguarda il processo non so se ci ho azzeccato, so che i processi c'erano, che c'era un giudice, che c'era un'assemblea maa..boh, spero di averlo reso VAGAMENTE realistico XD (è sottointeso che se avete correzioni storiche, sono molto ben accette) 


RedTears,  siiii dovrai aspettare ancora un po' per un sacco di cose XD non preoccuparti, le tue domande hanno già tutte una risposta da molto tempo.. Per la tua sorpresa (non avevo dubbi) al fatto che Aci e Miguel non avessero mai fatto nulla in sei mesi..beh insomma, Aci di solito non si fa tanti problemi peeerò..sarebbe stato un po' strano se il giovine avesse sentito la sua "freschezza" in ogni punto del corpo no? XD dopo, come puoi vedere, hanno ben recuperato.. Nei film polizieschi bendano certo, ma i vampiri sono più..bruschi? XD Ahahaha la storia della famiglia.. e per l'argento, boooooooooooooh, io sapevo che dava fastidio a tutte le creature "dannate", se non è così nella tradizione pazienza, qui è così.. XD
Sara, ahahaha certo Miguel è un vecchio volpone XD per quel che riguarda il tuo dubbio, moolto bene, ti poni le domande giuste u.u Emily sì dai è pacioccosa, e Jacque, il vampiro serio tutto d'un pezzo, però ha resistito poco.. XD povera Acilia! Aspetto i tuoi commenti sulla "simpatia" di Eike XD
Norine, siiiii una nuova commentatrice, benvenuta *_* grazie mille per la recensione! Sei la prima a cui piace molto Eike, credo, e mi fa davvero piacere! Le tue interpretazioni sono molto interessanti, e mi aspetto di sentirne altre! ;) 
Nene, non sei ripetitiva, fa sempre piacere sentirselo dire XD Povera Acilia, sì, mette una gran tristezza T_T


Alla prossima ragazze :D



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Capitolo 11
*** Doppio ***


Capitolo 10
CAPITOLO X
DOPPIO
 
 
 
Erano passati dieci anni dalla morte di Lolita.
In città se n’era parlato per un sacco di tempo, a volte se ne parlava ancora.
Agnese aveva perso la testa, aveva provato a salvarla gettandosi nelle fiamme e Miguel aveva avuto la lucidità di tirarla via. Sapeva che Lolita avrebbe sofferto ancora di più nel vedere morire anche la sorella.
Ma Agnese aveva le mani e una parte della faccia bruciate, e la sua pelle non era mai tornata come prima. Quelle ferite, quelle cicatrici, le bruciavano e le ricordavano tutto il dolore che aveva provato, e il dolore l’aveva fatta impazzire. Vagava per la città di giorno e di notte, con sempre gli stessi abiti, sempre più maleodoranti. Di giorno si limitava a dare noia alle persone che le passavano affianco, quando arrivava la notte invece urlava. Urlava che la notte apparteneva alle creature oscure, creature dai denti lunghi, che facevano magie per incantare le persone. Aveva paura della notte. Era passato appena un anno dalla morte di Lolita quando Agnese, ritenuta pazza e pericolosa per le altre persone, venne impiccata. Miguel aveva provato a salvarla, le diceva di stare in casa, che i tempi stavano diventando strani e difficili. Sembrava che dopo la peste il peggio fosse passato, e invece doveva ancora arrivare.
Dopo la morte di Lolita, Miguel faceva fatica a guardare Acilia negli occhi. Si parlavano a malapena, non si erano toccati per molto tempo. Il malessere che provava era forte, ma la preoccupazione che nutriva nei confronti di Agnese l’aveva tenuto ancora in vita, ancorato alla realtà. Da quando cessò di esserci anche quella, non fu più lo stesso e Acilia sapeva che non lo sarebbe più stato. Aveva chiesto a Neva se poteva occuparsi di lui durante il giorno, bastava dargli da mangiare, se no si sarebbe lasciato morire di fame. La sera arrivava sempre subito, puntuale, e lo trovava in casa, con uno sguardo assorto e spaventoso. Lei provava ad accarezzarlo, abbracciarlo ma si sentiva sempre respingere.
Dopo degli anni che le cose andavano in quel modo, lei aveva cominciato a gridargli addosso di reagire. Allora lui aveva alzato lo sguardo verso di lei e l’aveva per la prima volta dopo tanti anni guardata dritto negli occhi. E poi aveva bisbigliato quella frase, quella frase che l’aveva uccisa e che la uccideva ogni volta che la ricordava. Se avesse detto qualunque altra cosa, se l’avesse anche urlata, ci sarebbe stato ancora qualcosa da fare. Ma quel sibilo che ancora le risuonava nelle orecchie aveva distrutto ogni cosa.
È colpa tua.
Acilia si era buttata per terra e aveva pianto quello che non poteva piangere.
Ma andava a trovarlo ogni sera, e lui non la cacciava mai di casa. Si limitava a mangiare il cibo che lei gli portava, e poi andava a letto. Una volta assicuratasi che lui dormisse, lei gli si sedeva affianco e gli accarezzava i capelli. Per giorni non aveva bevuto neanche una goccia di sangue, e lei si sentiva molto debole. Ma non voleva cacciare, voleva stare lì, sempre con lui. Aspettava che lui la guardasse, aspettava che le parlasse, aspettava un perdono, che non sarebbe mai arrivato.
Dopo un po’ aveva capito che non poteva andare avanti così. Se non avesse bevuto sangue, avrebbe finito coll’uccidere Miguel. Prendeva del sangue da qualche povero sfortunato e poi andava da lui, sempre.
Quella notte aprì la porta e lo trovò disteso sul suo letto. Quella casa, che neanche più era la sua. Erano Neva e Diego che pagavano l’affitto all’abbazia. Credevano che lui abitasse da solo e non avesse più nessuno. Acilia non si faceva più vedere, non poteva, non con quell’aspetto così giovane e immutato ma la sera e la notte spiava quella che un tempo era stata anche la sua città. La città di Miguel, distrutta dalla follia di Nemesio.
Diego si era sposato da due anni, e aveva avuto una bambina. Amava sua moglie ma Acilia gli vedeva ancora il riflesso del sorriso di Lolita negli occhi.
Rodas invece si era ucciso, un mese dopo la condanna di Lolita. Non si era presentato al processo né alla condanna, probabilmente schiacciato dal senso di colpa, quel senso di colpa che dopo poco non gli aveva più permesso di vivere, e l’aveva portato alla morte. Eva era distesa a letto da qualche anno. Progressivamente le gambe le avevano smesso di funzionare e Acilia non poteva fare a meno di pensare che una sorta di giustizia divina allora c’era.
Si avvicinò al letto di Miguel, come sempre, e lo guardò. Lanciò un’esclamazione per la sorpresa quando gli vide gli occhi aperti e spenti. Credeva dormisse.
Miguel la sentì e si girò a guardarla. Aveva il volto stanco, piegato nelle piccole rughe dei suoi quarant’anni, gli occhi da dorati erano diventati marroni, poi sempre più scuri, cupi, la pupilla dilatata dall’oscurità della casa. Acilia non leggeva più amore nel suo sguardo da molto tempo, ma quella sera, non gli vedeva neanche più l’accusa sul volto. Trattenne il respiro, vedendo che le sue labbra si muovevano, pronte a parlare.
“Perché vieni qui ogni notte?” chiese, con voce quasi innaturale.
Quella non è la sua voce.
“Per stare con te” rispose subito Acilia, chinandosi su di lui “Io non ti abbandono, io ti amo, ti amo ancora”. Subito dopo si domandò se non avesse osato troppo, ma le parole l’avevano vinta. Voleva assicurarsi che lui lo sapesse, che lui sapesse quanto amore lei aveva per lui.
Ma Miguel non aveva uno sguardo arrabbiato, sembrava solo perplesso
“Ma chi sei?”.
Acilia aprì la bocca, stordita, senza sapere cosa rispondere. “Sono… sono Acilia! Miguel, sono sempre io! È da quasi vent’anni che stiamo insieme…”.
“Io non sto insieme a nessuno, io non ti conosco”.
Gli occhi confusi di Miguel la penetravano come degli spilli e le sembrò di annegare in un mare di sangue, il suo stesso sangue.
Si sedette per terra, lentamente, sentendosi pietrificare.
“Non ti ricordi di me?”.
Com’è possibile?!
Lui non rispose e lei andò avanti, avvertendo il panico nella sua stessa voce.
“Di Lolita ti ricordi? Di Agnese?”.
Miguel fece una smorfia di dolore e distolse lo sguardo.
“Mi fa male la testa…”.
Lei provò a sfiorarlo ma lui le cacciò via la mano con un gesto infastidito. Si voltò dall’altra parte e Acilia rimase ai piedi del suo letto, respirava affannosa, pervasa dalla paura e dalla sofferenza, come se avesse corso per migliaia di chilometri, negli anni dell’orrore.
 
*
 
 
“Se la Dixon è riuscita a fare il patto del sangue, vuol dire che alla Rappresentanza la situazione è ancora sotto controllo” disse Acilia, con noncuranza.
Dubris fece una faccia poco convinta.
“Siamo ancora la maggioranza, certo, ma siamo diminuiti”.
Lei non rispose e lui sembrò alterarsi. “Senti, io c’ero. Gente che faceva parte del PPC ha votato per la trasformazione della ragazza!”.
“E tu cos’avresti votato, scusa?”. Acilia evitava di guardarlo negli occhi. Stava cercando in tutti i modi di mostrarsi sicura, non ne voleva sapere di cadere nella sua trappola.
“È diverso. Io, noi, sapevamo che tra Jacque ed Emily l’unica tipo di rapporto esistente è il capriccio di Jacque di tenerla in vita”.
Acilia non poté fare a meno di lanciargli un’occhiata seccata.
L’altro la ignorò. “E comunque non è vero, alla fine non volevo che qualcosa andasse storto” disse.
Già, quella ero io.
“Sta di fatto che…” stava continuando Dubris. 
“È successo qualcosa a Ramona? È passata dall’altra parte?” lo interruppe Acilia.
“No” rispose subito Dubris, con un cenno di fierezza “Non dubito certo di lei, sono altri che mi preoccupano”.
La ragazza non demorse. “Finché il capo rimane Lyuben…”.
“È proprio lui che è preoccupato!”.
“Hai parlato con lui?”.
“Sì”.
Acilia fece una faccia falsamente sorpresa. “Wow, hai avuto una conversazione privata col Presidente!”.
“Sai benissimo che siamo… Una volta eravamo una squadra noi tre!” esclamò Dubris, con enfasi “Quattro, con Ramona”.
“Sì ma ora loro sono nella Rappresentanza, e tu sei solo un prefetto”.
“Lo sai che l’ho scelto io questo incarico!”. Dubris era esterrefatto, e vagamente risentito. “Ma che ti prende? Perché ti comporti così?”.
“Non voglio tornare a far parte della Rappresentanza, Dubris!” scattò Acilia.
L’altro sospirò. “Dammi solo un motivo”.
Lei non rispose e lui andò avanti. “Kaeso è pericoloso, attrae la gente dalla sua parte quasi solo con lo sguardo”.
“E io che cosa ci potrei fare?”.
“Vedendo te… Te, che ci credi ancora, te, che ritorni… Smuoveresti qualcosa in tutti loro”.
Acilia si limitò a mordicchiarsi le labbra. Sapeva che Dubris aveva ragione, aveva ragione su tutto, ma… Quando aveva preso la decisione di abbandonare la politica non aveva escluso l’idea di tornarci, un giorno. Ma ora come ora, non era più possibile. La sua scatola di ricordi chiusa a chiave stava scalpitando, ciò che c’era dentro voleva uscire, prepotentemente, ma lei non l’avrebbe mai permesso.
Poggiò le braccia sul tavolo, senza dire niente per un po’. Dubris stava in silenzio, probabilmente acceso di speranza.
Sulla soglia della cucina uno spostamento d’aria segnalò la presenza di Eike, che annunciò che andava a cacciare.
Acilia annuì distrattamente poi si voltò a guardarlo. “Jacque non viene con te?”.
Eike sembrò nascondere un sorrisetto. “No”.
“E dov’è?”. L’aveva chiesto d’istinto.
“Oh” rispose l’altro “non vedevo l’ora che me lo chiedessi. È dalla sua nuova ragazza”. Tutto pimpante, si precipitò fuori ed Acilia non sentì altro che la porta di casa che veniva chiusa.
Lei si voltò di nuovo verso Dubris, sentendo nella sua testa un’ombra scura che si impossessava dei suoi pensieri. Jacque aveva una ragazza? Era Emily?
“Ho una definizione per quelli come lui” stava dicendo Dubris, guardando la soglia dalla quale era appena scomparso Eike “Vampiri evergreen, per sempre molto giovani, per sempre rompipalle”.
Ma Acilia non lo stava ascoltando. Era di nuovo sprofondata nella sua scatola di ricordi, cercando il coraggio di fare quello che avrebbe dovuto fare.
 
 
 
“Non è sempre stato così, Eike”.
“In che senso?”.
Jacque cercò le parole giuste. Era seduto su un panchina, quasi in penombra, alla luce di un solo lampione che emanava una luce traballante, al fianco di Emily.
“Subito dopo che è diventato un vampiro, lui era… euforico”.
Emily spalancò gli occhi, sgomenta.
“Non è così strano” continuò Jacque “Prova a pensarci, sei un bambino di dodici anni, che vive in tempi orribili. La gente muore per strada, e tu diventi improvvisamente la cosa, apparentemente, più forte del mondo”.
“Beh” fece la ragazza “un po’ di euforia gli è rimasta”.
Jacque scosse la testa con un mezzo sorriso. “Il sangue gli piaceva molto. Io e Acilia ci abbiamo messo un po’ a insegnargli a controllarsi. Mi ricordo bene com’ero, quando sono stato trasformato. Avevo una voglia di sangue insaziabile, non capivo neanche il perché, ero… mi sentivo… folle. Per Eike era ancora peggio”.
Emily ascoltava, sembrava vagamente ipnotizzata dalle parole di Jacque.
Lui andò avanti: “Dopo pochi anni però ha cominciato a rendersi conto di quello che faceva. Ha cominciato a capire cosa era diventato veramente, contava i suoi compleanni, uno ad uno, cercando un qualsiasi, anche piccolo, cambiamento nel suo corpo”.
Io non cresco più, vero Jacque?
Jacque socchiuse gli occhi, chiudendo fuori i sensi di colpa. “Lui disprezza la sua natura più di tutti noi. È diventato così triste, e così arrabbiato…”.
“Con te?”.
“Purtroppo no. Se si arrabbiasse con me, forse mi sentirei meglio”.
Emily gli toccò un braccio. “Ma non è colpa tua! Tu gli hai salvato la vita! So che pensi di averlo dannato eccetera… però, insomma… Hai agito a fin di bene no?”.
Lui la guardò e vide qualcosa zampillare nei suoi occhi.
Gli piacevano tanto quegli occhi…
Annuì. Poi continuò a parlare: “Ora è come se… si fosse creato una maschera, punzecchiante e ironica. È il suo modo di reagire, credo, il modo di reagire di un bambino dopotutto”.
“Ma lui non è più un bambino”.
Jacque ripensò a quello che aveva detto Boyan.
Non invecchiate esternamente ma internamente sì, credete che sia così, dico bene?
Forse… forse aveva ragione lui.
“È bloccato” disse, pensando fosse la definizione più indicata “Bloccato, come tutti noi”.
Emily stava riflettendo.
“Tu dici che nonostante i suoi modi bruschi e provocatori lui è triste?”.
“Ne sono sicuro”. Ma non aveva mai capito come poterlo aiutare.
“Di solito” cominciò la ragazza, lentamente, come se riflettesse prima di dire ogni parola “Ci si sdoppia quando si rifiuta qualcosa, si cerca di dimenticarla o nasconderla. E ti crei un’altra personalità”.
Jacque la guardò confuso.
Lei proseguì: “Eike vuole dimenticare che avrebbe potuto essere un uomo adulto. Vive come se lo fosse”.
“E l’ha… dimenticato che non lo è, un uomo adulto?”.
“In una delle due personalità, sì”.
Jacque aggrottò la fronte. Non era molto convinto. “Ma così sembra una patologia”.
“Oh no, non parlo di patologie” disse subito Emily “È una cosa molto comune in realtà, diventa patologia quando non dimentichi, ma rimuovi completamente”.
Lui annuì, anche se non era del tutto certo di aver capito.
“Forse anche tu vuoi dimenticare quello che ti ha fatto Acilia” aggiunse sotto voce la ragazza.
“Come?”.
Forse Jacque, se non fosse stato tanto legato ad Acilia, avrebbe compreso appieno quello che Emily gli stava spiegando.
Emily parve risentita e lui pensò di aver mutato l’espressione sul suo viso.
Lei tentò un’altra strada: “Abbiamo parlato tanto di Eike, parlami di te… Della tua trasformazione”.
Parlare della sua trasformazione avrebbe voluto dire parlare di Acilia e Jacque non ne aveva voglia.
“Parliamo sempre di me” disse “perché non mi dici qualcosa di te? Non so molto, a parte che sei una giornalista avventata e una psicologa in erba”.
Emily si mise a ridere.
“Non c’è molto da sapere… Tu hai roba da dire molto più interessante!”.
Jacque sbuffò. “Guarda che per me sapere della vita umana del ventunesimo secolo è interessante quanto per te sapere della vita di un vampiro”. L’ultima parte della frase la bisbigliò, anche se intorno a loro non c’era nessuno.
“Beh, se la metti su questo piano” fece la ragazza, con un sospiro “Che ti posso dire? Lavoro in una rivista che è considerata per matti, e quel che è peggio che i miei colleghi che ci lavoravano considerano me un po’ matta… Ho un fratello di diciotto anni che si chiama Michael… Faccio palestra… Ho pochi amici… Con una sono piuttosto legata, è mia amica dalle superiori, si chiama Ly…”. S’interruppe, e Jacque notò che era diventata rossa. “Cavolo, ti starò annoiando a morte!” esclamò, come se si fosse appena resa conto di quello che stava dicendo.
“No” disse Jacque, sincero “No, dico sul serio”.
Emily si guardò intorno a disagio. Poi fissò il suo sguardo su di lui. “Tu non hai mai paura? Non hai paura di stare qui, in giro? Non hai paura che qualcuno capisca cosa sei o di incontrare un cacciatore?”.
“Se incontro un cacciatore, non dovrei essere io ad avere paura” rispose lui.
Lei lo guardò stranita e lui sorrise. “Non crederai mica che mi faccia scrupoli ad uccidere qualcuno che mi vuole morto?” chiese. Aveva paura che Emily lo idealizzasse un po’ troppo.
Ma lei scosse energicamente la testa. “No, certo che no… È che…”.
Jacque la interruppe, avvicinandosi un poco. “E tu non ce l’hai paura? Se ti scoprissero qui con un vampiro, finiresti in prigione”.
Emily abbassò lo sguardo. Sembrava nervosa. “Io… Jacque, tu mi piaci. Non credo sia solo il gusto per la novità, io…”.
Jacque avvertì un’improvvisa esplosione dentro di sé. “Cosa vorresti iniziare?” la interruppe, rude. Sentiva una strana rabbia, era un discorso che voleva evitare, per codardia forse. “Che tipo di rapporto vorresti iniziare? Non possiamo andare in giro sotto il sole, non possiamo andare a mangiare fuori insieme! Vuoi scopare e basta?”.
Si accorse di essere stato troppo duro quando vide gli occhi di lei abbassarsi ancora di più e una lacrima sfuggirle.
“No” mugolò la sua voce “Io… voglio solo… abbracciarti”.
Alzò lo sguardo e Jacque vide altre lacrime percorrerle il viso. Sentendo qualcosa di molto freddo dentro di lui che si era cristallizzato da chissà quanto tempo sciogliersi, si avvicinò cauto e l’abbracciò.
Lei gli si strinse addosso e scoppiò a piangere.
“Vorresti davvero rinunciare ad avere un ragazzo normale con cui puoi avere un futuro per stare nel buio insieme a me?” le domandò lui all’orecchio, senza riuscire a togliere quel tono amaramente brusco dalla voce. Lei non rispondeva e lui la prese per le spalle, guardandola in faccia. “Guarda che tu di vita ne hai una sola”.
Emily aveva gli occhi arrossati ma uno sguardo lievemente deciso . “La mia vita è lunga, Jacque, anche se sono un’umana, e del futuro non possiamo sapere niente” disse, cercando di mascherare i singhiozzi “Non possiamo limitarci a vivere il presente e basta?”.
Qualunque rapporto avessero deciso di cominciare, sarebbe potuto durare poco, Jacque lo sapeva. E se lui aveva voglia di baciarla lo poteva fare finché non sarebbe tutto finito, perché tanto, in un modo nell’altro, doveva finire. L’aveva tra le braccia e sentiva il calore del suo sangue che lo toccava. Gli sembrava di tornare umano, e anche se sarebbe stato per una piccola fetta della sua lunga vita…
Le accarezzò il viso, e capì dai suoi occhi che non c’era più bisogno di una risposta.
 
*
 
 
Da mesi Miguel non la riconosceva e Acilia si stava lentamente lasciando andare alla disperazione. Non capiva come fosse possibile, avere la mente e i ricordi offuscati. Sapeva che se qualcuno della città l’avesse scoperto, avrebbe detto che era posseduto dal demonio, forse l’avrebbe fatto uccidere. Ma lei sapeva che erano tutte fandonie, non credeva in Dio e tutto quello che diceva Nemesio era puro delirio. La verità era che era colpa sua. Con la morte di Lolita era successo qualcosa, qualcosa di terribile, dentro la testa di Miguel.
Hai insegnato il latino a Lolita.
Le aveva fatto intuire cos’era successo al processo, ma non la guardava in faccia. E ora non sapeva neanche più chi fosse. Tutto era progressivamente peggiorato e Acilia lo sapeva, lo sapeva che Miguel le dava la colpa anche per quello che era successo ad Agnese.
Mostri! Orrende creature delle notte coi denti lunghi come animali!
A volte si chiedeva perché non la faceva finita. Aveva ucciso due ragazze giovani e innocenti, a cui era affezionata, e aveva distrutto la vita di un uomo meraviglioso. Cos’aveva fatto di male Miguel, povera creatura, per dover sopportare tutto questo? Perché l’aveva incontrata? Perché?!
Cos’ha fatto di male Damiano per morire così?
Nel bosco appena sveglia, a volte, si metteva ad urlare, perché non voleva più svegliarsi, eppure si svegliava sempre, sempre…
Non mi puoi impedire di starmene qui ad aspettare il sole!
Marco non c’era più, non le poteva impedire di bruciare, di farla finita una volta per tutte. E allora perché non lo faceva?!
Miguel…
Non riusciva, non riusciva a dirgli addio. Forse avrebbe aspettato che morisse, per poi morire anche lei, con lui.
Aprì la porta, con una ciotola piena di carne tagliata a pezzi, senza alcuna speranza. Trovò Miguel seduto al tavolo, che subito si voltò a guardarla.
“Aci, ci hai messo tanto oggi”.
Acilia poggiò la ciotola sul tavolo e si sedette accanto a lui, con un mesto sorriso. A volte lui ricordava il suo nome, e lei non poteva che provare un minuscolo pizzico di gioia ogni volta.
Lui cominciò a mangiare lentamente, poi poggiò il cucchiaio sul tavolo.
“Sono sopravvissute alla peste” disse ad un tratto, amaramente “Sono sopravvissute per cosa…”.
Acilia sbarrò gli occhi. “Cosa? Cosa hai detto?”.
“Sai” continuò lui, contraendo il volto in una smorfia per non piangere “Nonostante quello che ci hai fatto… Io… Penso di amarti ancora”.
Acilia dovette controllarsi per non cadere dal tavolo. Non poteva… Non poteva essere, mesi passati a sperare! Lui ricordava! E non solo… Le parlava… Le aveva detto…
Subito gli prese le mani. “Mi dispiace, Miguel!” esclamò “Io volevo un gran bene a Lolita… E anche ad Agnese… Non sapevo che…”. Anni passati a pensare a come giustificarsi e ancora non aveva trovato le parole.
Lui la guardò con gli occhi di un tempo e le sfiorò la guancia. “Tu sei sempre così bella… e giovane… Io invece sto invecchiando”.
“Non mi interessa… Io sono qui, sono sempre stata qui per te!”.
Acilia si sentì nascere un sorriso così vero, così sincero sulle labbra, che non ricordava neanche più di saper fare.
“Lo so”.
Lui si avvicinò, quasi timoroso, e la baciò delicatamente sulle labbra. Lei non ci credeva, lo abbracciò avida, dopo aver passato dieci anni a sognare quel momento, a desiderarlo, ora era lì, e non era cambiato quasi niente, le cose forse si potevano aggiustare… Miguel le inclinò il viso e aprì le labbra, si baciarono, come un tempo, Acilia di nuovo sentì quel calore che invase tutto il gelo di quegli anni…
Poteva davvero? Poteva davvero esserci qualcosa da salvare?
“Credevo te ne fossi andato per sempre…” fiatò, contro la sua bocca, traboccante di emozione “Cosa… Cosa ti era successo…”.
Miguel stava piangendo. “Non farmi andare via, Aci, non farmi andare via…”.
“Sei tu che devi rimanere con me, Miguel, d’accordo?” domandò lei asciugandogli il viso. Gli sorrise. “Rimarrai con me, vero?”.
Ma lui sembrava non capire. Si allontanò da lei, con gli occhi di nuovo avvolti nel buio.
“Cosa vuoi da me? Chi sei?”.
Acilia aprì la bocca, allibita.
No…
“Mi… mi prendi in giro?”.
Non era possibile! Solo due secondi fa lui era lì, lì con lei! Dov’era ora… Dov’era…
Miguel si era alzato in piedi. “Ti ho chiesto chi sei!”.
Anche Acilia si alzò, congiungendo le mani con fare di supplica. Se era uno scherzo, non era divertente.
“Non puoi fare così! Che ti sta succedendo?!”.
Lui la guardava spaventato. Le diede le spalle e si distese sul letto, senza più dire una parola.
“Miguel…” lo chiamò lei, piano, sentendo la sua voce andare in pezzi, come tutto dentro di lei “Miguel, ti prego…”. Si accasciò a terra, con un gran vuoto in testa, non era possibile che solo un minuto prima era felicissima, e ora di nuovo sprofondata nell’abisso. “Ti prego… Ti avevo detto di rimanere con me… Ti avevo detto…”. Sentì la sua stessa voce sfumare in un pigolio sempre più tenue, finché non ebbe più la forza neanche per aprire la bocca, e gli occhi le facevano male, pieni di troppe lacrime che si erano accumulate nei secoli, e mai versate.
 
*
 
 
Mancava ancora un po’ all’alba ma Jacque rientrò in casa. Dopotutto Emily doveva dormire, era un’umana, lei dormiva di notte, non di giorno. Ecco cos’erano loro, il giorno e la notte. Come possono stare insieme il sole e la luna che non possono mai incontrarsi? Emily diceva di vivere il presente e di non pensarci. Ma Jacque odiava l’idea di metterla in pericolo. Del resto però, l’aveva già fatto. L’elicottero, Arcangelo, il sangue, quel bacio, quella notte… Acilia gli rimproverava di fare l’eroe. Beh, lui non si sentiva affatto un eroe, gli sembrava solo di soddisfare i suoi egoistici desideri, continuamente.
In casa la trovò accoccolata sul divano, con addosso quella felpa il doppio più grande di lei che indossava per dormire. La guardò e lei si accorse del suo sguardo. Si mise seduta con l’aria di chi ha qualcosa da dire e Jacque si sentì come un ragazzino che stava per essere sgridato. Senza avere colpe, voleva comunque fuggire, e disse: “Sono stanco, vado a…”.
Acilia si alzò e gli fu davanti in un attimo, impedendogli di andare verso la botola.
Jacque si sentì braccato, e la situazione non gli piaceva. “Questo cosa vorrebbe dire?”.
Lei lo ignorò. “Con Emily stai andando oltre?”. Non sembrava arrabbiata, solo preoccupata.
Lui fece un passo di lato per sorpassarla. “Non sono affari tuoi” disse con una smorfia.
Acilia lo prese per un braccio. “Sì che lo sono! Io sono la tua…”.
“La mia cosa?!” esplose Jacque, guardandola in faccia. “Che cosa sei tu per me?”.
Lei sembrò ferita. Sembrava cercare le parole giuste da dirgli, ma non le trovò. Disse solo stupidaggini. “Lei è un’umana! Cosa credi di fare?”.
Le stesse stupidaggini che dopotutto anche lui pensava, ma che non sopportava di sentirsi dire.
“Non accetto consigli di questo genere da colei che ha fondato il PPC e poi l’ha mollato!” sbottò, arrabbiato. Emily era un’umana, d’accordo, non c’era alcun futuro per loro, ma godersi il presente non andava bene? Che male c’era? Lui poteva essere turbato, Emily poteva essere turbata… Ma Acilia, cosa voleva Acilia?!
La sua creatrice aprì la bocca, incredula. “Lo sai perché l’ho fatto!” gridò.
“No che non lo so!”.
Acilia aveva la delusione scritta nel volto, ma Jacque non se ne curò. Lei non gli parlava mai delle sue cose, faceva tutto di testa sua, e pretendeva che lui la capisse?!
Ricordò il termine che aveva usato Eike. Cagnolino. Lui non era il cagnolino di nessuno, né tantomeno di Acilia.
“Che cosa pretendi?” proruppe, allargando le braccia “Che cosa pretendi, Aci? Che io ti venga dietro in eterno?!”.
Lei spalancò gli occhi verdi, quegli occhi che l’avevano fatto innamorare, ma erano occhi freddi, privi di emozione, occhi che non avevano sofferto, mai, per lui…
“Tu… Cosa…”.
“Sì, Aci, sì! Mi piaci ancora, e non fingere di non saperlo!” urlò lui, dando sfogo ai pensieri che si erano accavallati gli uni sugli altri negli anni, in un enorme caos, un mare tempestoso da cui non riusciva più a riemergere. “Ma è il sangue! Ho il tuo sangue dentro, ho il tuo nome scritto dentro di me, e non sai cosa darei per potermelo togliere, per poterti togliere dalla mia testa!”.
Acilia non sembrava in grado di parlare e lui andò avanti, sentendosi cattivo, con le parole che incespicavano violentemente le une sulle altre: “Ma ora c’è Emily! Tu mi hai tolto la vita, mi hai tolto l’amore… Non mi toglierai anche lei!”.
Ecco, l’aveva distrutta. Sapeva benissimo che dire una cosa del genere al proprio creatore aveva effetti devastanti. Se Eike l’avesse detto a lui…
Tu mi hai tolto la vita.
Ma era arrabbiato, furioso, non controllava più il flusso dei pensieri, delle parole. Sentiva i canini che gli pungevano il labbro inferiore, mentre lei aveva il volto cereo di chi viene preso a schiaffi, inerme, davanti a lui, pieno di odio e di collera. Poi vide qualcosa muoversi nei suoi occhi, ma non potevano essere lacrime, né potevano essere altro. E lei se ne andò correndo verso la botola. Jacque rimase fermo e impassibile per qualche minuto mentre rifletteva su quello che aveva detto. Sentì i denti che si ritiravano, tornando alla loro dimensione usuale, mentre la rabbia a poco a poco se ne andava. Ripensò a quello che Emily aveva detto su Eike, che cercava di dimenticare che era un solo ragazzino, e frantumava così in due esistenze la sua persona.
Forse anche tu vuoi dimenticare quello che ti ha fatto Acilia.
Quello che voleva dimenticare forse era il suo cuore morto che batteva per lei. E ora voleva vivere una seconda realtà, affianco ad Emily, e dimenticare Acilia, rimuoverla.
Non sai cosa darei per potermelo togliere, per poterti togliere dalla mia testa!
E allora chissà, chissà quanto gli piaceva Emily.
Ma gli bastò pensare un momento ai suoi occhi e la rabbia, quella poca che era rimasto, svanì in uno sbuffo.
Forse era già entrato nella sua seconda realtà.
 
 
 
Spagna, 1394
 
In più di vent’anni, Miguel aveva mostrato di ricordarsi di Acilia e, in generale, della sua vita solo altre tre volte. Sembrava, inspiegabilmente, vivere una doppia vita, ma quella autentica, quella tormentata dai ricordi, era così tenue da non concedere ad Acilia neanche un filo di speranza, ma così incredibile da non concederle neanche di abbandonarlo per sempre. Lui era vecchio, aveva sessant’anni, e le sue condizioni di salute non erano un granché. Acilia lo accudiva e lui le era riconoscente. Le chiedeva sempre chi fosse, perché lo facesse, era gentile. Ma non era abbastanza…
Quella sera, quando Acilia entrò, trovò la casa silenziosa.
“Miguel” chiamò, cercando di tenere un tono di voce allegro “Come stai oggi?”.
Non ottenne risposta e si diresse a passo sicuro verso il letto. Miguel sembrava serenamente addormentato, sotto le stoffe, e lei fece un piccolo sorriso. Era questo che intendevano quando parlavano di amore eterno, quando nonostante gli anni, le rughe e i capelli bianchi, senti di voler sempre, incondizionatamente, un gran bene alla persona che hai di fronte.
Gli sfiorò la mano e subito la ritrasse con un basso grido. Era fredda, come la sua.
“Miguel” chiamò “Miguel!”. Lo scosse ma lui non apriva gli occhi.
Lo sapevi che sarebbe successo.
“Miguel…”. Aveva ogni ricordo davanti agli occhi, le risate, i baci e poi la fiamma che aveva incendiato e distrutto ogni cosa togliendogli la vitalità dorata che aveva negli occhi, e che ora non avrebbe più riaperto.
Non potevi vivere la vita di un’umana…
Era stata punita per aver osato troppo. Era entrata nella vita di un uomo e l’aveva distrutta. Per punizione lui ora era morto, senza il minimo ricordo di quello che aveva passato con lei.
Si mise in ginocchio di fianco al letto, tenendogli stretta la mano, che mai come in quel momento era stata così uguale alla sua.                                                                                        
“Ora sei libero…” gemette, tra i singulti “Sei libero da me… dalla crudeltà di questo mondo… dalle tue sofferenze…”.
Lo guardò in faccia con un mezzo sorriso, credendo che davvero lui potesse sentirla. “Ora potrai rivedere i tuoi genitori, e Lolita, e Agnese… E Neva, Ines, Leandro, Manuel, Javiero…”. La lista di persone che lei aveva seppellito sembrava infinita. “Ti ricongiungerai alla tua famiglia... È bello sai… Io non l’ho mai potuto fare, tutti i miei cari sono morti da così tanto tempo, ma io… Io no…”. Per un momento lo invidiò. Lo invidiò perché i suoi tormenti erano finiti, mentre quelli di lei non facevano altro che andarsene e tornare, e si ammassavano gli uni sugli altri, continuamente, fino a che la sua testa non sarebbe esplosa…
Ora per che cosa sarebbe andata avanti? Per che cosa al calar del sole ogni sera si sarebbe alzata? Era davvero giunto il momento di andarsene. Aveva aspettato tanto. Aveva aspettato che Miguel la perdonasse, e quello, in qualche modo, era avvenuto, perché in un angolo recondito del suo essere, soppresso e lasciato andare, lui l’aveva fatto.  Aveva aspettato che tornasse quello di un tempo, ma era un’attesa vana. Aveva aspettato che non avesse più bisogno di lei, ed eccolo lì, dolcemente addormentato nel sonno di morte così simile a quello quotidiano di Acilia.
Avrebbe passato la notte accanto a lui, perché non lo voleva lasciare solo. Poi, la mattina, avrebbe varcato la soglia con gioia, e sarebbe diventata cenere, proprio davanti al luogo in cui aveva conosciuto, forse per la prima volta, la felicità.
Sentì bussare alla porta e si spaventò.
No, non stasera, non fatemi andare via stasera…
Era già successo che qualcuno – Neva, quando era ancora in vita, o Diego – entrasse in casa e lei era costretta a fuggire dalla finestra per non farsi vedere.
“Miguel, aprimi!” sentì chiamare dall’esterno “Ti ho portato da mangiare!”.
Acilia riconobbe la voce femminile. Era la figlia di Diego.
Aveva pochi attimi prima che la ragazza si decidesse ad aprire la porta.
Si voltò come una furia verso il corpo inerme di Miguel. Non voleva dirgli addio così in fretta, non voleva ancora, non era pronta a separarsi da lui!
Lo dovevi fare già anni fa, non ti ricordi?
Avrebbe dovuto lasciarlo andare quando era il momento. Non solo aveva distrutto lui, ma ogni giorno, un pezzo alla volta, in quella casa, aveva distrutto se stessa. A ogni sguardo mancante, a ogni accusa, a ogni “Chi sei?” lei veniva annientata.
La porta si stava per aprire e Acilia si lanciò sul volto di Miguel, per dargli un ultimo bacio.
Addio, amore, riposa in pace.
Poi si precipitò fuori dalla finestra e riuscì a sentire distintamente la voce della figlia di Diego che lo chiamava più volte, finché non la sentì scoppiare a piangere. Corse subito via nell’oscurità degli alberi. Non sopportava di sentirla piangere quando lei non l’aveva potuto fare per nessuno, non per Lolita, non per Miguel, non per Damiano, non per Marco.
Avrebbe dovuto aspettare il sole da qualche altra parte. Perché l’avrebbe fatto, avrebbe davvero posto fine a quell’inutile e ridicola vita da parassita.
Come avrebbe potuto andare avanti se no? Come aveva fatto Marco? Lo ricordava così triste… Per quale motivo si era trascinato avanti nei secoli?
Poi, poi l’aveva fatto, l’aveva fatto, lasciandola sola, abbandonandola…
Ora ho qualcuno da allevare, qualcuno che cresca secondo i miei principi e che li diffonda.
Era per quello che andava avanti nella sua vita da mostro. Voleva insegnare agli altri a essere meno mostri. Forse aveva trovato una luce in quel modo, un barlume di speranza, un modo di vivere… Era quello che aveva cercato di spiegarle, milletrecento anni prima.
Sentì dei passi frettolosi, parecchi rami che venivano spezzati e una voce.
“Ferma! Non da quella parte!”.
Finalmente due figure presero forma davanti a lei. Erano due esseri come lei. Erano un uomo e una donna. Lui aveva i capelli rossi e un giovane viso noto, lei sembrava un poco più vecchia, bassa e scura di pelle, con le labbra carnose sporche di sangue.
Ci sono troppi come noi che uccidono e fanno cose orribili, io vorrei che capissero che non è necessario comportarsi così.
La donna, vedendola, si ritrasse spaventata, l’altro no.
“Tranquilla, è come noi” disse. Si rivolse ad Acilia. “È ancora la tua zona questa?”.
Acilia ci mise qualche attimo a capire di cosa quell’uomo stesse parlando. Poi ricordò. Le era successo più di trent’anni prima, di incontrare uno come lei. Quando ancora non sapeva cosa sarebbe successo…
“Sì” rispose, con una voce bassa e impastata di dolore.
L’altro fece un cenno alla donna con lui. “Sentito? Andiamo via”.
I due stavano per andarsene ma Acilia li fermò, sentendo un’improvvisa illuminazione correrle dentro al corpo. Doveva fare qualcosa, qualcosa per rendere la sua vita utile… Tante persone erano morte per mano di quelle creature dai denti lunghi di cui parlava Agnese e le parole di Marco ancora le rimbombavano nella testa, come se le avesse appena sentite.
Potremmo vivere pacificamente con gli umani.
“Ehi, aspetta… Onorio” disse, sentendosi un po’ stupida.
Entrambi si voltarono e lei prese coraggio. “Non ho nessuno con cui stare, posso unirmi a voi?” domandò, con un tremito nella voce. Miguel era appena morto e lei… Lei stava facendo la cosa giusta?
La donna rimase impassibile ma l’uomo sorrise.
“Per cominciare ad andare d’accordo, smettila di chiamarmi Onorio” disse, facendo scintillare il bianco perfetto dei suoi denti “Il mio nome è Dubris”.
 
*
 
 
Giorno 70
 
Non si tratta di un fidanzamento, non credo neppure che si tratti di uno stare insieme. Lo chiamavo Vampiro, ora è Jacque ma questo non cambia la sua natura. Più ci penso più non riesco a capire perché io sia così attratta da lui. Pensavo fosse il sangue nuovo che ho nel corpo, ma come sarebbe possibile una cosa del genere? Non posso dire a nessuno quello che mi sta capitando. Ai miei genitori posso dire che esco con i miei amici ogni sera. Ma a Lydia cosa racconterò? Già da tempo è preoccupata per me, mi sente strana, dice. Sa che sono stata malata, ma ora sono guarita e mi vedo con un uomo… Come posso tenerle nascosta una cosa del genere? Glielo potrei presentare come mio ragazzo. E poi, poi… Lei vedrebbe i suoi occhi diventare rossi, proprio come ho fatto io, la sera in cui l’ho conosciuto. No, nessuno potrà conoscere il mio segreto, nessuno mai potrà conoscere Jacque… Non li voglio mettere in pericolo, là fuori c’è un intero comitato di vampiri pronto a fare pezzi chiunque li scopra! Nessuno ripeterà mai l’esperienza che ho fatto io, andare fino là, guardare in quello specchio, sentire l’ago e il sangue di qualcosa che non è umano scivolarti dentro… Sentirti morire e risorgere allo stesso tempo, con tutti gli episodi più brutti della tua vita che ti scorrono davanti agli occhi, con quella cosa che sembra provenire dallo stomaco e sembra divorarti, tutta, un organo alla volta.
So benissimo che sarebbe meglio per me dire addio a questa storia di vampiri. È pericolosa, e inoltre con Jacque non ho alcun futuro. Sono una donna adulta, ho ventisette anni, non ne ho più diciotto. Ho detto a Jacque di vivere il presente ma in realtà io non potrei prendere le cose così alla leggera. Ha ragione mia madre, aveva ragione Harve… La mia testa non cresce, rimango attaccata a stupidi sogni, a una stupida realtà che non può esistere. Quanto può durare la mia storia con un vampiro? Quanto ci metterà lui a voler bere il mio sangue? Quanto ci metterò io a stufarmi di stare con un essere carino ma freddo, che non può fare passeggiate sotto il sole? E allora mi dico poco. Può durare poco, durerà poco, quindi, davvero, devo solo vivere il presente e basta. Mi preparo a vivere una doppia vita, la mia e quella di una povera cretina che ha deciso di andare a letto con un vampiro.
 
 
 
Ogni volta che si era sentita abbandonata da un uomo, Acilia aveva reagito dando una svolta alla sua esistenza. Si credeva forte, tutti la credevano forte, ma alla fine non faceva altro che dipendere da qualcuno.
Quello che aveva detto Jacque l’aveva colpita proprio al centro del petto. Non sai cosa darei per poterti togliere dalla mia testa.
Evidentemente lei era talmente sbagliata da dover essere dimenticata, da tutti. Un uomo chiamato Miguel, che l’aveva amata dal profondo, ci era riuscito. Non sopportava l’idea che la causa delle sue disgrazie fosse la donna che amava, e allora la sua mente, il suo superio o qualunque altra cosa fosse, l’aveva rimossa. Poi qualcosa dentro di lui si era pentito, e la memoria aveva cercato di tornare a galla, ma ormai era troppo tardi. All’epoca Acilia non aveva capito, non riusciva a capire. Non credeva a quelle sciocchezze sulle streghe e sul demonio, ma non sapeva neanche che esistesse una psiche, che si può ammalare, proprio come qualunque altra parte del corpo.
Per Jacque non aveva mai provato quello che aveva provato per Miguel, forse perché non era umano, o forse perché lei ormai era già diventata troppo vecchia e stanca, per poter amare. L’unica cosa che voleva era che Jacque non soffrisse tutto quello che aveva sofferto lei, ma doveva lasciar perdere. Non sopportava l’idea che fosse per lui che ora lei avesse preso quell’importante decisione, proprio come l’altra volta. Allora Jacque per lei significava tanto, e non era lui che eliminava lei dalla sua mente, era lei, lei che lo faceva di continuo…
“Sei pronta?” le chiese Dubris in un soffio.
Acilia annuì, stringendosi nella sua elegante giacchetta nera. Qualunque turbamento, o tormento, che avrebbe voluto dimenticare e lasciare per sempre nella sua scatola chiusa di ricordi, avesse rievocato la cosa che c’era al di là di quella porta, Acilia sarebbe stata più forte di lei. Avrebbe dominato ogni emozione e sensazione.
La porta rosso sangue si aprì e lei entrò, in un rumore di tacchi. Vide quelle file di panche vuote che le davano l’illusione che in realtà fosse tutto a posto e tutto dimenticato.
Insieme a Dubris diede le spalle allo specchio e si voltò verso la Rappresentanza. Parecchi mormorii eccitati l’accolsero e la maggior parte dei vampiri si alzò in piedi per andare a stringerle la mano, manco fosse una celebrità.
Il primo fu Lyuben, che le sorrise con una commozione viva negli occhi, che nessun altro vampiro avrebbe potuto avere. Poi fu il turno di altre vecchie conoscenze, tra cui Ramona, che, non volendo limitarsi a una stretta di mano, le appioppò un grosso bacio sulla guancia. Dopo ci furono solo sorrisi di circostanza e dei cortesi “bentornata” finché non arrivò, per ultimo, un giovane dai lineamenti perfetti, con un filo di barba scura che non si addiceva a un vampiro e i capelli scuri.
Dubris le diede un’improvvisa, goffa, gomitata e lei capì cosa significava. Quello che aveva davanti era Kaeso, il segretario del Partito Oscuro, l’uomo che Lyuben e Dubris tanto temevano. Aveva qualcosa di magnetico nei suoi occhi blu e se Acilia non l’avesse saputo che era così cattivo, quasi non ci avrebbe creduto.
Con un sorriso educato e perfetto, Kaeso le tese la mano e lei gliela strinse, ignorando il sangue che le si stava letteralmente raggelando.
Qualcosa scalpitava dentro di lei ma Acilia era ben decisa a tenersi lontana da ogni crudele reminiscenza. Tenne il volto impassibile mentre lui si avvicinava e le sussurrava qualcosa all’orecchio, con voce lenta e suadente.
“Sarà divertente lavorare insieme, Aci”.












 
Con la morte di Miguel e l'entrata in scena di Kaeso, si potrebbe dire che è conclusa la prima parte del libro. Con la seconda parte si entrerà un po' più nel vivo :D
(ebbene sì, sono a metà del percorso, ciò vuol dire che mancano ALMENO altri dieci capitoli, mi spiace per voi XD)

In merito alla questione storica: Norine, mi conforta sapere che anche prima del classico "periodo delle streghe" c'è comunque questa ricerca del maligno e c'è stato qualche processo :) Poi vedere questa affermazione contornata di paroloni mi rassicura ancora di più, si vede  proprio che ne sai a pacchi :DD. 
Nene, il processo che mi hai descritto è tipico del periodo che appunto mi hai indicato. So delle torture ma ho letto che nel Medioevo non venivano ancora applicate.. E' tutto un po' un casino, cercherò di documentarmi :S ma alla fine l'importante è che tutta la cosa sia vagamente verosimile.. :S 
Comunque, grazie ad entrambe per la recensione :) E grazie a Norine per i complimenti, sì ho le idee abbastanza chiare, tutta la storia è schematizzata su un quaderno (che ho perso -.- devo mettermi a cercarlo) ed Eike.. mi fa piacere che venga fuori divertente, è proprio nel mio intento XD
Sara, bella recensione come al solito :D sì Acilia è un po' sfigata, e l'epoca del Medioevo certo non ha aiutato.. XD ahahah Lolita rosso malpelo e le reminiscenze plautine! La scena con Claire se è grottesca allora ha raggiunto il suo scopo ;) due uomini che discutono di cose normali come fossero al bar con una sotto che..proprio così XD Emily e Jacque in azione sì, ma veramente.. se faccio apparire un Freud vampiro che diagnostica il complesso di Edipo a Jacque?? Ehhh mannaggia a "mamma Aci", ma il padre che Jacque vuole uccidere chi è? Onorio/Dubris? XDXD Lino Banfi invece non è un vampiro ma viaggia nel tempo all'indietro ahahah XD
Redtears, sei in ritardo u.u 

Al prossimo capitolo! :DD

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Capitolo 12
*** Regina ***


Undicesimo capitolo

CAPITOLO XI

REGINA

 

 
“Avanti, prendi, finiscilo”.
Acilia afferrò per le braccia l’uomo urlante e sanguinante che Dubris le aveva lanciato.
Aveva dei buchi sul collo, gli occhi pieni di lacrime e le labbra che si muovevano agonizzate, chiedendo pietà. Il sangue colava giù per il collo, la gola, imbrattando la tunica sporca e Acilia sentì l’odore fortissimo, come una prima volta. Leccò, avida, poi succhiò e, sentendo il sangue in bocca, che scivolava morbido sulla lingua, sentiva le urla dell’umano aumentare, così come aumentava il suo battito cardiaco. Velocissimo, paura, angoscia, cosa c’è nell’al di là? Si chiede il cuore spaventato, e batte, batte forte. Non c’è niente, c’è la morte… Si rassegna, batte piano, sempre più fioco…
Eccolo il punto.
Acilia si staccò e l’uomo ne approfittò per metterle una mano in faccia. Urlava, scalpitava, tentava la fuga. Acilia scacciò infastidita quella mano e lo tenne ben fermo.
“Che stai facendo?” chiese Dubris, allarmato “Non si gioca col cibo”.
“Non sto giocando” ribatté Acilia. Voleva insegnare a Dubris e alla sua creata, Ramona, la pietà ma doveva essere cauta. Non voleva discutere, litigare, lottare. Non voleva rischiare di doverli uccidere.
“Sono sazia” disse “Potrei lasciarlo andare”.
“Cosa?” fece Ramona.
“Per sentirci sazi non importa uccidere” spiegò Acilia, paziente, tentando di tenere fermo l’uomo che aveva iniziato a scalciare. Seccata, gli assestò un pugno nelle costole. Quello gemette.
Dubris alzò le sopracciglia e si rivolse a Ramona. “Sta giocando col cibo”.
“Non è cibo, è una persona!” sbottò Acilia “E noi ci nutriamo del loro sangue, d’accordo, ma una persona ne contiene tantissimo di sangue! Mangiare per vivere e non vivere per mangiare, diceva Socrate”.
Forse aveva un po’ esagerato. Vide Dubris e Ramona scambiarsi uno sguardo perplesso. Poi lui si rivolse a lei, con uno sguardo che non prometteva niente di buono. “Perché ti sei unita a noi se non hai intenzione di essere come noi?”.
Acilia resse il suo sguardo. “Forse posso insegnarvi a essere come me”.
L’umano che teneva tra le braccia si era zittito. Doveva aver capito che era stata messa in gioco la sua stessa vita.
“Possiamo… non uccidere?” intervenne Ramona, con gli occhi spalancati.
Acilia diede una scrollata all’umano.
“E’ ferito, si sente debole. Ma se ci fermiamo ora, non morirebbe”.
Dubris la guardò, velenoso. “E’ ovvio. Ma non possiamo lasciarlo andare, racconterebbe a tutta la Spagna di noi, e ci darebbero la caccia”.
L’uomo stava energicamente scuotendo la testa. Aprì la bocca, nel tentativo disperato di parlare. “Non lo farò! Non lo farò!” biascicò. L’immagine di Agnese che urlava per la città dell’esistenza di strani mostri attraversò fugace la mente di Acilia. Dubris fece una smorfia, dando le spalle all’umano. Aveva ragione, non potevano certo fidarsi e lasciarlo andare così. Ma Acilia era soddisfatta, aveva introdotto la sua idea e i suoi due compagni non sembravano averla presa troppo male. Ramona aveva addirittura lo sguardo deluso e Acilia si rivolse a lei: “Gli umani si possono incantare. Finché sono sotto l’incanto del nostro sguardo, possiamo fare quello che vogliamo. E loro, una volta risvegliati dall’incanto, non ricorderanno niente”.
Ramona sgranò gli occhi, evidentemente non lo sapeva. Puntò uno sguardo accusatorio su Dubris, che si difese subito: “E’ una tecnica che si impara col tempo”.
“Già” assentì Acilia, accarezzando i capelli dell’umano, che di nuovo era terrorizzato. I suoi compagni la guardavano, incerti. Lei non voleva dare l’impressione di voler comandare, non voleva imporsi, voleva insegnare, voleva che la sentissero in gola, tra i denti, nel sangue e nella carne che strappavano, la pietà. “Magari, per la prossima volta” disse.
Sentiva l’uomo tremare terribilmente, e il cuore aveva ripreso a battere forte, era quasi assordante, per le sue orecchie. Il sudore gli imperlava tutto il volto e gli occhi spalancati emanavano un’angoscia quasi palpabile.
Acilia lo guardò, non provava poi così tanta pietà nei suoi confronti. Ma poi pensò che in quella situazione potevano finire Diego o sua figlia, o un altro uomo fantastico come lo era stato Miguel, e qualcosa dentro di lei vacillò.
“Mi dispiace” disse “Per te è troppo tardi”.
“No…” fece l’umano, con un filo di voce “No… No! NO!”.
Tornò di nuovo a dimenarsi tra urla atroci. Acilia non voleva nemmeno chiedergli quale fosse il suo nome, se aveva figli, se aveva dei peccati da confessare. Immerse di nuovo le zanne nella carne, che si lacerò in un grido terribile e succhiò tutto, fino all’ultima goccia.
Quando tra le mani non le rimase altro che pelle secca di un corpo vuoto, si fermò e lo buttò via con riluttanza.
E ora? Che avrebbero fatto ora? Cosa facevano i vampiri insieme oltre a mangiare?
“Da quanto siete in Spagna?” domandò, avvicinandosi ai compagni. Ramona aveva gli occhi fissi sul cadavere. Doveva essere giovane. Non sapeva come incantare le persone, e fissava i morti. Dopo un po’ lo smetti di fare, guardare i morti, diventa snervante.
“Non so” bofonchiò Dubris, passandosi una mano tra i ricci “Un po’ meno di un secolo direi… Quando ho creato Ramona ero qui da pochi anni”.
Acilia notò un fremito nelle labbra della donna. Aveva voglia di chiedere a Dubris perché l’aveva fatto, ma non le sembrava il caso.
“Non vi conviene stare nello stesso posto per molto tempo”.
“La Spagna è grande” ribatté l’altro “non siamo sempre nello stesso posto”.
Acilia non disse niente e Dubris continuò: “E poi, scusa, chi sei tu per parlare? Non eri qui anche te trent’anni fa?”.
Acilia si sentì spiazzata. Pensò subito che il suo caso era diverso. Ma guardò negli occhi di Ramona. Anche lei era una donna che aveva vissuto, che aveva amato, e tutto quanto le era stato portato via. Era poi così diversa da lei? Da loro?
“Io… ho fatto degli errori” disse solo. Non voleva certo mettersi a parlare di Miguel.
Nessuno disse niente per un po’, poi Ramona parlò. “Davvero è possibile non uccidere come hai detto prima?” chiese. Poi si rivolse a Dubris, senza aspettare una risposta. “Perché tu non me l’hai mai detto?”.
Il suo creatore alzò gli occhi al cielo. “Cos’è, Rami, vuoi forse vivere di stenti, come facevi da umana? Vuoi continuare una vita remissiva e povera?”. Fece una piccola pausa, per poi proseguire con enfasi. “Guardati intorno, tutto questo è nostro”. Allargò le braccia.
“Certo, il mondo è nostro” replicò Ramona, stizzita, come se avesse già sentito quella tiratela “Peccato però che non possiamo farci vedere”.
Dubris esitò e Acilia subito partì all’attacco. Glielo vedeva nello sguardo, glielo sentiva nelle parole che non si era ancora del tutto lasciato andare alla sua vita da mostro. “Perché non ti fai vedere? Perché non vai nelle città, non mostri i denti, non uccidi in piazza?”.
“Beh” fece l’altro “potrebbero prenderci no? Catturarci e…”.
“Catturarci?”. Acilia scoppiò in una risata falsa e vuota. “Catturarci, Dubris? Come potrebbero catturarci? Noi siamo più forti di loro! Perché non esci allo scoperto e conquisti tutto?”.
Dubris la guardò, un vago fastidio negli occhi.
“E’ perché non vuoi” disse Acilia, dopo un po’ “Ti prendi qualche vita, per mangiare, per divertirti anche, ma non vuoi distruggere il mondo, perché una volta era anche il tuo”.
L’altro le si avvicinò, le zanne in fuori.
“E’ da troppo tempo che vivo così, non ho intenzione di cambiare solo perché una sconosciuta vuole giocare a fare la creatrice”.
Acilia non ribatté e lui andò avanti, crudele. “Se vuoi insegnare qualcosa a qualcuno, prendi un umano e trasformalo”.
“Non voglio trasformare!” sbottò lei, sentendo contorcere qualcosa dentro di sé. “Non avrebbe senso quello che voglio insegnarvi se mi mettessi a trasformare!”.
Dubris ritirò le zanne. Sembrava stesse riflettendo. Ramona era un po’ più distante da lei, con un’espressione così viva negli occhi da sembrare ancora umana.
“Dov’è il tuo creatore?” chiese Dubris, di punto in bianco.
“E questo cosa c’entra?”.
“Qualcuno ti avrà pur messo in testa queste cose, e l’unico che può averlo fatto è il tuo creatore”.
Acilia aggrottò la fronte. “Potrebbe essere stato qualcun altro”.
Dubris fece un sorriso storto. “Nessuno ti mette le cose in testa come fa il tuo creatore, dicono”.
Acilia accettò la sconfitta. Reggendo lo sguardo dell’altro disse: “E’ morto. E il tuo dov’è?”.
Sentì Ramona trattenere il respiro, mentre il suo compagno esitava a rispondere. Poi, lentamente, disse: “Non lo so. Non l’ho mai conosciuto”.
Acilia sgranò gli occhi, sinceramente colpita.
“E come…” boccheggiò “Come hai fatto a…”. Non riuscì a terminare la frase. Non riusciva nemmeno a immaginare un essere così spietato da trasformare qualcuno e poi abbandonarlo…
Dubris aveva uno sguardo impenetrabile e per la prima volta, agli occhi di Acilia, interessante. “Quindi non giocare a fare la creatrice, Aci, con me non funziona” disse, duro.
Acilia non ribatté. Non si sarebbe data per vinta. Dubris non era malvagio sul serio e, lui non lo sapeva, ma il fatto che non avesse avuto un creatore lo rendeva di certo più vulnerabile.
“E ora andiamo” disse Dubris, lugubre, facendo qualche passo avanti “Cerchiamo un bel posto in cui seppellirci”.
 
 
Emily bussò timidamente alla porta. Non capiva quel suo stupido timore. Frequentava Jacque da una settimana, che male c’era nell’andarlo a trovare a casa? Tanto era un vampiro e il sole era appena calato, dove altro avrebbe dovuto essere?
Vampiro.
Si sorprendeva di come a volte riuscisse a pensarlo in modo naturale. La porta si aprì d’un tratto, con uno scatto ed Emily per un momento non vide altro che un’ombra. La casa doveva essere molto buia.
Si trovò di fronte l’unica persona che avrebbe preferito evitare.
Acilia la stava guardando con un’espressione poco amichevole. Era talmente bella e talmente seria allo stesso tempo, da far venire i brividi. Sembrava una regina.
“Ciao” gracchiò Emily, tentando un sorriso. Le sarebbe piaciuto andare d’accordo con la creatrice di Jacque. Quell’altra non rispose subito e lei ne approfittò per osservarla meglio. Era tutto aggraziato e delicato nel suo volto, la pelle perfetta e lucida le dava l’aspetto di una bambola di porcellana. Sembrava molto meno umana di Jacque. E gli occhi… Gli occhi li ricordava verdi, due luci potentissime inquisitorie, ma ora erano macchiati di un feroce rosso.
“Io cercavo… Jacque” disse Emily, capendo che Acilia non era dell’idea di conversare.
La padrona di casa strinse le labbra. Poi disse, lentamente: “Non ti conviene venire qui al tramonto. Quando ci svegliamo, abbiamo fame”.
“Oh”.
Jacque non mi farebbe del male, pensò istintivamente Emily. Ma forse Acilia sì. Avvertendo una tensione macabra, rimpianse la maleducazione spensierata di Eike.
Sentì una folata di vento sul viso e qualcosa prenderle il braccio. Si girò di scatto e vide una testa bionda china sul suo avambraccio, che teneva tra le mani.
“Eike” disse stancamente Acilia, rimanendo sulla soglia, impassibile.
Emily ritirò subito il braccio, col cuore che martellava.
Come non detto, non mi mancava Eike!
Lui, rimasto con le piccole zanne a penzoloni e le mani che stringevano il nulla, la guardò con la coda nell’occhio. Subito si ricompose, tentando un sorriso conciliatorio.
“Oh, Emily, non sapevo fossi tu. Avevo solo sentito un gran profumo di sangue”.
I suoi occhi erano due enormi cerchi ripieni di rosso.
Emily annuì, un po’ intimorita.
“N-niente… Figurati…”.
Eike continuava a fissarla ed Acilia gli diede uno spintone.
“Vai a mangiare, muoviti” gli ordinò.
Quello sparì in un soffio.
Emily si voltò a guardare Acilia.
“Ho capito cosa intendi… Mi dispiace, io…”.
“Emily?”.
Una voce familiare risuonò all’interno della casa e al fianco di Acilia comparve Jacque, vestito con dei pantaloni di una tuta e un maglioncino che andava di moda tipo vent’anni prima.
Emily trattenne un sorriso.
“Ciao” disse lui, sorpreso, serrando appena la mascella. Gli occhi gli divennero rossi in un istante.
“Io… Io torno più tardi” disse subito Emily.
Era assurdo, assurdo. Se Jacque era il ragazzo che frequentava, era tutto assurdo. Non poteva essere vero, stava indietreggiando perché aveva paura della stessa persona che aveva baciato e toccato!
C’era qualcosa di maledettamente sbagliato, e lo sapevano tutti.
“No, entra” intervenne Acilia, con tono autoritario. Si rivolse a Jacque, senza guardarlo però. “Jacque, vai a caccia”.
Emily esitò. Avrebbe dovuto aspettarlo? Stare in quella casa di vampiri senza di lui?
Anche Jacque non sembrava molto dell’idea. Stava guardando Acilia con una strana ansia nello sguardo.
Lei però continuava a non guardarlo. “Non le faccio niente”.
Jacque guardò Emily. “Torno presto”.
E sparì allo stesso identico modo in cui era sparito Eike.
Acilia si spostò per far passare la ragazza e lei entrò, titubante. Non vedeva dove metteva i piedi e a un certo punto andò addosso a qualcosa – o qualcosa andò addosso e lei.
“Ahi!”.
“Scusa” le arrivò la voce fredda e pacata di Acilia “Non accendiamo mai le candele”. 
Candele.
Emily stette ferma, mentre a poco a poco la stanza veniva illuminata da dei candelabri posti sui mobili. Si guardò intorno, affascinata.
Un lungo tavolo era al centro della sala, mentre a lato c’era un solo divano dalle pelle marrone scuro e logora. Davanti a lei vedeva delle mensole, sulle quali erano appoggiate libri, giornali, cellulari e un computer portatile. Si guardò i piedi e vide che il pavimento era composto di travi di legno.
Non riusciva a dare un’età a quella casa.
“La casa è molto vecchia” disse Acilia, come se le avesse letto nel pensiero, ed Emily sussultò. “I mobili un po’ meno”.
Si voltò a guardarla.
Stava accendendo un altro candelabro con un accendino.
“Questi li abbiamo trovati in un negozio di antiquariato” spiegò, brandendo l’oggetto che aveva in mano. Sembrava vagamente soddisfatta. “Finalmente abbiamo un motivo per usarli”.
Emily si chiese perché li avessero presi se loro vedevano al buio, poi l’immagine di una fiumana di donne in minigonna che entravano e uscivano da quella casa le attraversò la mente. E ognuna diceva all’altra: “Ora è il tuo turno”. La faccia truccatissima di Claire galleggiava nella sua testa.
Chissà cosa ha fatto Jacque con lei.
Scocciata, tornò alla realtà. Non doveva essere gelosa. Non aveva senso essere gelosa di un vampiro, perché tanto non sarebbe stato suo per sempre. Notò che, mentre la sua mente si faceva i suoi viaggi, Acilia si era intanto seduta sul divano, sprofondata nella lettura di un libro.
Emily non capiva. Eike e Jacque erano dovuti correre a bere del sangue mentre lei… lei leggeva!
Oddio! E se fosse stata lei stessa la cena di Acilia? Si immaginò il volto della vampira contorcersi in una smorfia soddisfatta e dire: “Il cibo è arrivato da me! Non sono neanche dovuta uscire di casa!”. Ma il viso di Acilia rimaneva immobile e perfetto, ben piantato nel libro che teneva in mano.
Sì, le metteva alquanto soggezione.
“Tu non vai a caccia?” domandò, tutto d’un fiato. Temeva la risposta ma non poteva fare a meno di chiedere, di sapere.
Acilia non alzò lo sguardo. “Ci vado dopo”.
“Ma… avevi detto che appena svegli… avete fame”.
“Sì, ma non mi va di lasciare un ospite in casa da solo”.
Emily aggrottò la fronte. Allora non era tanto scortese.
Però… quegli occhi rossi…
“Ma…”.
Acilia si voltò finalmente a guardarla. Era sempre seria, ma c’era qualcosa di più velato nel suo sguardo duro.
“Ho molto più autocontrollo di Jacque ed Eike messi insieme”.
Emily annuì, e si avvicinò un poco.
Acilia le fece cenno di sedersi.
Lei obbedì, avvertendo la metà del suo corpo vicino alla vampira elettrizzarsi.
“E’ perché sei più vecchia?”.
“Sì”.
“Quanti anni hai?”.
“Non lo so. Tra i millenovecento e i duemila”.
Emily si chiese se poteva osare di più. La paura la stava lentamente abbandonando, mentre la curiosità procedeva impetuosa. Pensò a una qualsiasi domanda da farle, che però non fosse indiscreta, e alla fine le venne solo: “Cosa leggi?”. Era una domanda banale, ma, davvero, non credeva che i vampiri nel tempo libero leggessero.
Acilia le mostrò il libro.
Era un libro consunto, dalla copertina grossa. Era una vecchia edizione dei Canti Orfici.
“Dino Campana. Sai l’italiano”.
“So molte lingue”. Non suonava come un’ostentazione ma Emily si sentì quasi sgridata. Poi, così, di punto in bianco, senza alcun preavviso, Acilia sorrise. Aveva i denti luminosi. Così seria, avrebbe potuto illuminare tutta la sala con quel sorriso. Sorrideva guardando la copertina del suo libro. “Sono molto affezionata all’Italia” spiegò “Anche se non era Italia a quell’epoca, è da lì che vengo”.
Emily si lasciò andare anche lei in un sorriso. Era davvero contenta che la tensione si fosse ammortizzata.
Gli occhi di Acilia era meno rossi di prima ed Emily si sentì di farle una domanda. Diceva che aveva molto autocontrollo ma perché poco prima aveva detto quella cosa…
“Perché hai detto a Jacque che non mi farai niente? Lui temeva… qualcosa?”.
Si pentì subito di quella domanda, perché il sorriso di Acilia si allentò.
Pensò che evitasse la domanda, ma la sorprese. “Abbiamo avuto una discussione”.
“Su di me?”.
Ricordava bene quello che le aveva detto Jacque, circa due settimane prima.
Lei non vorrebbe.
“Cosa ti piace di Jacque?” chiese Acilia a sua volta, ed Emily lo prese come un sì.
“Non lo so, io…”.
“Ti piace il pericolo? Ti piace l’idea di avere una relazione segreta con un vampiro?”.
“No!” esclamò Emily, indignata. Era la stessa domanda che si faceva lei, sempre, cosa le piaceva di un vampiro…
Acilia le puntava quegli occhi verdi e rossi addosso e lei si sentiva così vulnerabile, non in pericolo di vita, no, ma aveva come l’impressione che Acilia avrebbe potuto frugarle nella testa in un secondo.
Nella penombra, il suo volto era ancora più inquietante, in un gioco di chiaroscuro e contrasti, perfetti, come lo era lei, come lo era quello che stava dicendo…
“Non è facile stare con un vampiro”.
“Lo so”. Emily deglutì. Non era per quello che voleva stare con Jacque, a lei di lui piaceva il suo lato umano, per lei era umano…
Ancora una volta Acilia sembrò leggerle nel pensiero.
“Non è un umano”.
Emily provò l’impulso di fuggire da quella casa, da quello sguardo, da quelle candele tanto affascinanti quanto angoscianti.
Non è umano.
In quell’esatto momento Jacque stava succhiando il sangue dal collo di una persona. Succhiando il sangue! Con quegli occhi rossi, quelli di chi ha fame, gli stessi che aveva quando ha conosciuto lei… Lei, voleva bere il suo sangue no? L’aveva incantata. La voleva ferire. Voleva il suo sangue. Se ci fosse stato qualcun altro al suo posto, chiunque altro, le cose sarebbero andate allo stesso modo?
Sì.
Allora cosa voleva da lei? Cosa volevano da lei?! Il marchio che aveva sul fianco le ricordava ogni giorno il male che aveva passato, e lo strano affetto che le stava nascendo dentro, per un vampiro, per un vampiro…
Prese fiato, cercando di calmarsi.
Acilia non aveva rabbia sul volto, aprì di nuovo il libro ed Emily non poté fare a meno di chiederglielo.
“Hai amato un umano?”.
Subito la vampira si voltò verso di lei, quasi con la potenza di un uragano. Non era possibile, non era davvero possibile muovere il collo così in fretta!
“Scusa” disse subito Emily. Si era ripromessa che non sarebbe stata indiscreta. Le sembrava che Acilia fosse turbata. Stringeva forte il libro.
“E’ stato tanto tempo fa” disse dopo un po’.
Emily voleva saperne di più. “E come…”. S’interruppe, rendendosi conto che la domanda che stava per fare era davvero stupida.
“Si è ammalato” disse infatti subito Acilia “E’ invecchiato, ed è morto”.
Acilia l’aveva amato fino alla fine? Lui invecchiava e lei rimaneva la stessa, lui l’aveva amata fino alla fine?
Emily si sentì pervadere quasi dal terrore. Lo sapeva che era per quello che la sua storia con Jacque non poteva funzionare ma… quando sarebbe arrivato il momento, sarebbe riuscita a lasciarlo?
“Ha sprecato tutta la sua vita per una come me” continuò Acilia.
Avrebbe sprecato tutta la sua vita con lui? Uno come lui?
Sarebbe diventata vecchia, curva, piene di rughe e lui l’avrebbe lasciata di sicuro, e lei sarebbe stata sola, fino alla morte. Non avrebbe avuto nessuno con cui invecchiare, nessun figlio, nipote pronto ad assisterla.
E lui sarebbe andato avanti, avrebbe incontrato un’altra come lei, un’altra a cui far fare il patto del sangue… Per qualche motivo, non riusciva a sopportarlo. Come non sopportava che in quell’esatto momento lui era fuori a nutrirsi del sangue di una persona, mentre lei era lì, seduta, docile, che lo aspettava, lo aspettava perché altrimenti lui l’avrebbe mangiata!
Il suo cuore batteva forte e chissà quale espressione aveva dipinta sul viso. Dov’erano finite le sue certezze? Il suo vivere giorno per giorno? Ricordava il volto di Jacque in una nube di sangue, macchiato di orribili delitti, lui, già così giovane rispetto a lei, e destinato a rimanere così per sempre…
Hai presente la storia di Dorian Gray?
Immaginò un vecchio dipinto di un vecchio mostruoso, quella, quella era l’anima di Jacque…
La porta si aprì e lei sussultò.
Eike trotterellò dentro, la giacca schizzata di rosso.
Acilia lo guardava impassibile. “Cos’è, hai bisogno di un bavaglino per la prossima volta?”.
Emily si accorse di essere saltata su in piedi. Fissava come transennata il sangue sulla giacca di Eike.
La porta si chiuse e comparve anche Jacque. Le sorrise ma lei si sentiva incapace di rispondergli. Aveva i muscoli della faccia come paralizzati. Jacque non aveva del sangue addosso, neanche negli occhi, che erano tornati di un morbido color nocciola, ma lei lo vedeva. Lo vedeva sui suoi capelli, sul volto perfetto che mai avrebbe visto una ruga, sangue, solo sangue… Senza dire una parola, si precipitò verso la porta e uscì. Le candele la soffocavano, distorcevano e offuscavano tutto.
Una volta che fu sul vialetto si voltò. Ispirò a pieni polmoni l’aria fresca della sera. Jacque era sulla soglia con un’aria sconcertata.
“Emily, che succede?”.
Le labbra intorpidite della ragazza, al contatto col vento, presero a muoversi in maniera incontrollata.
“Quante persone hai ucciso?”.
“Cosa?”.
“Quante persone hai ucciso?” domandò ancora Emily a voce più alta.
Jacque si scurì in volto.
“Quanto sangue hai versato? Quanti anni vivrai ancora?!”.
Emily scoppiò in lacrime. Si sentiva una stupida. Le aveva sempre sapute quelle cose, eppure aveva creduto di poter vivere in una favola. Non voleva dirle quelle cose, ora Jacque la guardava mortificato. Lui stesso si definiva mostro, parassita, e lei voleva rassicurarlo, non condannarlo perché gli voleva bene, gli voleva davvero bene.
“Scusami, io…” fece, tra i singhiozzi “Io… non ce la faccio”.
Jacque aveva un’espressione triste ma non sorpresa. Si avvicinò a lei di qualche passo. Lei lo vedeva un po’ offuscato, tra le lacrime. Voleva trattenersi, ricordava bene quando lui le aveva detto che odiava sentir piangere. Non voleva procurargli altri fastidi, la doveva smettere di piangere! Lui era così vicino ora, con un dito le sfiorò il viso, annientando una lacrime.
“Ti faccio sempre piangere”.
Emily pensò alla lacrima di sangue che aveva sul fianco. Era quello il significato del disegno no? Che lei potesse piangere le lacrime che lui non poteva avere. Ripensando a quella notte, pianse più forte. I ricordi del tempo che aveva trascorso con Jacque erano così pochi, ma così intensi, burrascosi, muovevano tutto dentro di lei.
“Avrei voluto incontrarti in un’altra vita” disse lui “Nella mia vita umana”.
Emily gli prese la mano che lui le teneva sul volto. Fu più forte di lei. Quella mano fredda, le rinfrescava il volto, si sentiva paonazza, le lacrime era ghiaccio sciolto che si era formato dentro di lei, aveva caldo. Voleva quella mano su di lei, ancora.
“Solo che sarebbe comunque durata poco” stava continuando Jacque “Perché poi io… io sono morto”.
Le sue labbra di un rosa chiarissimo si muovevano e lei non riusciva a focalizzare altro. Ma che le stava capitando? Un’ennesima cotta per un ennesimo uomo sbagliato? Era sempre così all’inizio. Non sembrano mai sbagliati all’inizio.
Eppure non ho mai imparato…
Si lanciò su di lui e lo abbracciò, continuando a piangere come una ragazzina.
Sentì le braccia di lui che l’avvolgevano. Sentiva l’odore del sangue.
Il sangue di qualcuno.
Un singulto le scosse tutto il corpo, ma non riusciva a staccarsi.
Poco prima pensava che avrebbe sprecato la sua vita con lui, lui di vita non ne aveva neanche avuta. A diciannove anni era stato strappato al mondo. E ora lei veniva strappata alla realtà, ma in un modo più dolce, molto più dolce.
“Scusa” ripeté tra i singhiozzi. Alzò lo sguardo verso di lui e provò a fare un piccolo sorriso. “Non è facile stare con un vampiro”. Erano le stesse parole di Acilia.
Jacque aveva un improvviso sorriso radioso. Le diede un rapido bacio sulla bocca e poi disse: “Neanche con un’umana, specie se è così lunatica”.
Lei fece una risatina ma smise subito, sotto il suo sguardo così intenso.
“In qualunque momento tu senta di non farcela più” disse lui “Lasciami… Lasciami senza problemi”.
Senza problemi era un’espressione forte. Quando mai si facevano le cose senza problemi? Ma un sorriso le sfuggì sul volto, perché quelle parole, così strane, sembravano tanto voler dire che lui e lei stessero insieme.
 
 
“Fanno sempre la pace eh?” fece Eike, gli occhi puntati sulla finestra.
Acilia, indifferente, lasciò il libro aperto sul divano e si alzò.
Il ragazzino si voltò verso di lei.
“Di cosa avete parlato voi due?” .
Acilia lo ignorò, si spogliò e in intimo si spostò verso l’altra stanza.
“Sai, mi eccita un po’ pensare a voi due nella stessa stanza” le urlò dietro Eike, con gli occhi a palla “Figurarsi quanto può eccitare Jacque…” aggiunse, abbassando la voce.
Acilia prese da una sedia la gonna nera e se la infilò. Chiuse la cerniera a lato e prese la camicetta bianca. Continuando a ignorare Eike, la abbottonò tutta, prese in mano la scarpe e camminò scalza fino al divano.
Eike fece un piccolo fischio quando lei le passò di fronte.
“Vai a mangiarti qualcuno in un posto di lusso?”.
Acilia si sedette e infilò i piedi nei decolleté neri, lucidi.
“Mangio qualcosa e poi vado ad Arcangelo” spiegò.
“Riunione speciale?”.
“Rimarrò lì qualche giorno”.
“Non hai paura di sporcarti?”.
Acilia gli guardò la giacca macchiata di sangue. “Ci vuole tecnica, Eike, imparerai anche tu” disse, amorevole.
Lui non rise. “Stai fuggendo da Jacque?”.
Acilia lo guardò in volto. Era serio, era strano vederlo serio.
“No” disse solo. Anche se praticamente lei e Jacque non si parlavano più, in realtà sarebbe voluta rimanere. Era da qualcun altro che voleva fuggire.
Si alzò in piedi e prese la borsa che aveva già preparato da sotto il tavolo.
Si voltò per salutare Eike e lo vide in piedi vicino al divano, con il libro di Dino Campana in una mano.
O regina o regina adolescente ma per il tuo ignoto poema di voluttà e di dolore musica fanciulle esangue, segnato di linea di sangue nel cerchio de le labbra sinuose” recitò con un forte accento germanico.
Acilia rimase ferma ad ascoltare. Poi tese la mano per farsi ridare il libro.
Il ragazzino stava scrutando il testo. Sapeva qualche parola di italiano, forse stava cercando di tradurlo. Con la faccia concentrata alzò lo sguardo verso Acilia. “Non è che si era innamorato di una vampira questo Campana?” fece.
Il poeta pazzo, lo chiamavano.
Acilia scrollò le spalle e gli strappò il libro di mano. “Forse. Sai, l’ho conosciuto”. Eike spalancò la bocca, esterrefatto.
Lei ficcò il libro nella borsa e si infilò la giacca nera.
Si diresse verso la porta e poi si girò di nuovo.
Eike aveva ancora la bocca aperta.
Acilia fece un sorrisino. “Piano con la fantasia, Eike, stavo scherzando”.
Eike chiuse la bocca, sbuffando, e lei rimase ancora sulla soglia, a temporeggiare. Jacque aveva fatto la sua scelta, anche Emily l’aveva fatta. Ne avrebbero affrontato le conseguenze, e così doveva fare lei, pur se quella scelta che doveva ora fronteggiare l’aveva compiuta milleottocento anni prima. “Ciao, Eike. Salutami anche Jacque” fece in un sussurro.
Eike esibì il suo tipico sorriso, quello di chi la sa più lunga, e lei uscì.
L’aria fresca di fine marzo le pungeva la pelle ma non aveva freddo. La fame galoppava e lei aveva poco tempo. Tra circa un’ora sarebbe arrivato l’elicottero che avrebbe portato lei e Dubris ad Arcangelo. Forse avrebbe dovuto sistemarsi definitivamente nella città russa, come tutti i membri della Rappresentanza, sarebbe stato più comodo. A Jacque avrebbe fatto piacere, non voleva eliminarla per sempre dalla sua vita? Il ricordo delle parole che lui aveva usato per ferirla le si insinuavano sotto la pelle, taglienti. Quella che provava per Emily era solo una sciocca infatuazione. Ma d’altronde non era una sciocca infatuazione anche quello che lei aveva provato per Miguel?
No, quello era amore.
Un amore sbagliato, e allora che differenza c’è?
Lei e Jacque non ne avevano più parlato. Avrebbe potuto scusarsi, dirgli che lui doveva fare quello che voleva nella sua vita. In un angolo di sé, dopotutto lo sapeva che Jacque non la odiava veramente. Era proprio quello il problema, lui l’aveva amata tanto, e in quell’amore, che pure poteva essere giusto, si era distrutto, perché era lei quella sbagliata, lei che non era riuscito ad amarlo abbastanza… Eppure non se la sentiva di trasferirsi ad Arcangelo e abbandonarlo, non se la sentiva di stare lontano da lui. E non se la sentiva neanche di stare a così poca distanza da Kaeso.
Un profumo delizioso le si insinuò nelle narici e lei si guardò intorno. Un gruppo di umani erano nei pressi di un negozio di scarpe. Portò alla mente le leggi dei vampiri. Dopotutto aveva aiutato a stipularle lei stessa.
Numero undici: mai nutrirsi di un umano che è in compagnia.
Non potevi prenderne uno solo e neanche si poteva incantarli tutti. Sbuffò, piano. Aveva il tempo contato, doveva muoversi e trovare una preda. Era logorante, dopo tutto quel tempo, continuare a stare nascosti e a cacciare. Se solo il PPC avrebbe avuto una, una sola, possibilità di successo…
Di fianco al negozio di scarpe c’era un piccolo bar al quale Acilia era passata spesso davanti. Si avvicinò, poteva entrare, nei bar si trovavano sempre degli sfaccendati, con un bicchierino come unico compagno.
“Ciao”.
Acilia si voltò di scatto lanciando un’esclamazione. Alle sue spalle c’erano capelli neri e occhi, occhi blu…
Lui…
“Si ricorda di me?”.
Acilia si riscosse. Non era lui, era quello stupido umano che la voleva rimorchiare, e di cui si era nutrita… quante settimane prima? Aveva gli occhi grigi profondi, macchiati di venature bluastre. Il suo profumo era forte e la fame non perdonava.
Numero quattordici: mai nutrirsi di uno stesso umano per più di una volta.
Acilia scosse la testa. “No, mi dispiace”.
Lui chinò la testa in avanti, con un sorriso. “Stava per entrare in questo bar. Posso farle compagnia?”.
“No” disse subito lei “Non stavo entrando”.
“Mi ricorda qualcosa questo bar” fece l’uomo, meditabondo.
Acilia deglutì. Quella notte lui le aveva chiesto di bere qualcosa al bar, quel bar, lei aveva acconsentito ma, una volta raggiunta l’insegna, l’aveva incantato e portato via. Il suo sguardo indugiò sul braccio dell’uomo, ricoperto dal cappotto grigio. Quante possibilità c’erano che quell’uomo avesse collegato la ferita che improvvisamente gli era comparsa sul braccio a un vampiro, o peggio, a lei?
Molto poche.
Di solito un umano, risvegliatosi dall’incanto, fatica a ricordare anche i minuti precedenti all’incanto. I vampiri non potevano cancellare i ricordi, ma era qualcosa che ci andava vicino.
Acilia stava zitta e, ad un certo punto, l’uomo fece un sorriso imbarazzato.
“Mi dispiace importunarla, non sono un maniaco, mi creda…”.
Ancora lei non disse niente. Doveva incantarlo e salutare l’intera faccenda, ma non ci riusciva, lui non la guardava negli occhi… Maledetto, perché doveva essere così imbarazzato?!
“Quella sera… Non riesco a ricordare perché alla fine non siamo entrati nel bar, non vorrei essere cafone due volte, mi permetta di offrirle da bere”.
Oh sì che mi hai offerto da bere.
“Vengo davanti a questo bar spesso, molte sere sono venuto nella speranza di rivederla”.
 Non c’era bisogno di incantarlo, era solo uno scocciatore. Però lei doveva darsela a gambe. Non aveva tempo da perdere, e i suoi occhi sicuramente stavano diventando sempre più rossi. Ringraziò il fatto che gli umani al buio ci vedevano poco, e distinguere i colori degli occhi non doveva essere così facile.
“Quella sera non siamo entrati perché io non avevo nessunissima intenzione di passare la serata con lei” sbottò Acilia, cercando di essere il più scortese possibile “Ha perso il suo tempo e, per la cronaca, mi sembra molto più vecchio di me”.
Sottolineò accuratamente quel molto anche se non ne era per niente convinta. Lui aveva qualche ruga appena e lei, dopotutto, vestita in quel modo doveva dimostrare ben più di diciotto anni.
Girò i tacchi e se ne andò, notando furtivamente l’espressione ferita nel volto dell’uomo. Meglio così, non sarebbe più tornato da quelle parti a tormentarla.
Molte sere davanti a quel bar nella speranza di rivederla! E poi diceva di non essere un maniaco, certo.
Trasse un respiro profondo. In ogni caso, tra poco lei sarebbe partita. Lui avrebbe potuto cercarla di nuovo ma non l’avrebbe trovata. Si sarebbe stufato, e scordato di lei.
 
 
“Dimmi della tua vita umana”.
“Beh” fece Acilia con una smorfia “La mia famiglia era una delle più importanti e più ricche di Roma, e la mia vita era piuttosto noiosa”.
Ramona la guardava, come in attesa d’altro.
“E’ stata una vita breve. Non ho molto da raccontare” sentenziò Acilia, desiderosa di cambiare argomento “E tu invece?”.
Fu il turno di Ramona di dipingersi una smorfia sul viso.
“Lavoravo in un bordello”.
“Oh”.
Acilia la squadrò. Ramona era più bassa e più robusta di lei, ma quella carne che aveva in più era nei punti giusti. Di sicuro non aveva problemi a trovare clienti.
“Credimi, non mi piaceva” continuò “Ma dopo un po’ ci fai l’abitudine”.
Acilia non voleva certo mettersi a discutere in fatto di eticità. Non le sembrava proprio il caso.
Fece un cenno verso la schiena di Dubris, che camminava parecchio più avanti di loro.
“Come l’hai incontrato?”.
“Era venuto nel bordello” spiegò Ramona “e ha cominciato a farmi delle domande… Se avevo un marito, dei figli, o comunque qualcuno a cui tenevo e di cui mi occupavo”.
Acilia spalancò gli occhi, riconoscendo il buon senso di Dubris.
“E tu cos’hai risposto?”.
“Che ero sola al mondo. Voglio dire, a parte qualche cliente abituale e qualche amica che faceva il mio stesso lavoro, non avevo molte persone di cui occuparmi…”.
Acilia guardò la nuca rossa di Dubris. Era saggio dopotutto.
“Poi mi ha chiesto se la mia vita mi piaceva” proseguiva Ramona “Se mi sarebbe piaciuto cambiarla, insomma… Lui mi ha detto che avrei potuto smettere di fare la cortigiana”.
Lo sguardo di Acilia saettò da Dubris a Ramona. “Non ti ha parlato del prezzo da pagare?”.
“Della morte?”.
“E del sangue”.
Ramona inarcò le sopracciglia, con fare triste. “Ha parlato di dannazione eterna. Ma io gli sono saltata al collo, pregandolo di portarmi via con sé… Abbiamo fatto l’amore ed era così… freddo. Poi mi ha portata via, e ricordo solo sangue, e buio… Sono riemersa dalla terra e lui era lì che mi aspettava”.
Acilia annuì, senza dire niente. D’altronde non poteva permettersi di giudicare Dubris.
“Perché l’ha fatto?”.
Ramona scrollò le spalle. “Suppongo cercasse compagnia”.
“Lo odi?”.
“Qualcosa di simile, ma odiarlo, odiarlo non potrei mai… A volte credo addirittura di amarlo. E’ normale? Per il tuo creatore provavi lo stesso?”.
Acilia sentì qualcosa premerle la pancia e cercare di risalire in superficie.
“Non proprio” mentì.
Ramona non fece altre domande e Acilia la ringraziò mentalmente.
“Non è cattivo” disse la spagnola dopo un po’, sottovoce. Si riferiva evidentemente a Dubris.
Acilia lo sapeva bene. Cattivo era ben altro.
Ramona aveva accettato di buon grado la linea di Acilia. I più giovani sono i più influenzabili, e sono quelli che odiano di più uccidere.  Dubris era ancora diffidente ma anche lui aveva cominciato a incantare la gente e a lasciarla andare. Non era facile. Sia lui che Ramona spesso sbagliavano. Negli anni avevano lasciato una scia di vittime dietro i loro passi, ma Acilia era rincuorata dall’idea che presto ce ne sarebbero state sempre meno. Bisognava trovare il limite, il momento in cui fermarsi, smettere di succhiare e bisognava avere la volontà. Bisognava imparare a controllarsi. Ramona faticava a controllare la sua sete ma di volontà ce ne metteva tanta ed Acilia era orgogliosa di lei.
“Dove siamo?” gridò a un certo punto Ramona, in direzione di Dubris. Quello si fermò e si voltò. Tutti e tre si guardarono in giro. Il loro panorama non cambiava mai. C’erano sempre arbusti, qualche casa isolata, qualche monte.
“Abbiamo passato il confine con la Francia” disse Dubris, pensieroso.
“E da un bel po’ aggiungerei” disse una voce, in spagnolo ma con un accento molto poco latino.
Tutti e tre si avvicinarono gli uni con gli altri e si guardarono intorno, in cerca di chi avesse parlato.
Da dietro un albero uscì un individuo molto alto, giovane e dalla carnagione così chiara che pareva brillasse.
Acilia notò la sorpresa nei volti di Dubris e Ramona. Beh, in tutti quegli anni avevano girato tutta la Spagna, e non avevano mai incontrato nessun altro come loro.
“Chi sei?” fece Dubris, senza traccia di timore, avanzando un passo.
L’altro alzò le braccia. “Tranquilli, non voglio lottare”.
Tranquilli?
Nel cosa lottassero erano tre contro uno e lui diceva tranquilli?
Li squadrò uno ad uno, meditabondo. “Vedo dai vostri lineamenti che venite tutti da posti diversi. Cosa vi porta qui?”.
“Viaggiamo” rispose Dubris “alla ricerca di altri come noi”.
Lo sconosciuto avanzò verso di loro. “Volete formare un clan?”. Aveva un tono di voce molto tranquillo.
Qualcosa di simile.
“Tu sei solo?” domandò Acilia, guardandosi intorno.
L’altro annuì. “Sono sempre stato solo”. Non c’era alcuna traccia di malinconia nelle sue parole.
“Non vi conviene formare un clan da queste parti” aggiunse.
“Perché?” fece Dubris, con un vago tono di sfida.
“A Lucius non farebbe piacere. E’ la sua zona questa, ed è un po’… dispotico”.
Lucius.
Quel nome riaprì una breccia nel corpo di Acilia, fu come una freccia che colpì una ferita  rimarginata e ben curata con anni e secoli di sofferenza. Sentiva di nuovo nelle orecchie quegli ansimi, quel latrati, e poi il dolore, il sangue, la bara. Manlio steso per terra, privo di vita, e lei sporca, sporchissima, di tutto il suo sangue…
La voce di Dubris le sembrò un eco lontano.
“Chi è Lucius?”.
Non può essere lui, pensò Acilia, ce ne saranno un sacco di Lucius.
“Un altro cavaliere della morte” rispose lo sconosciuto, sempre molto pacato “Così ci chiama lui”.
“Cavalieri della morte?” farfugliò Ramona, parlando per la prima volta “E’ questo che siamo?”.
L’altro sorrise, buttando con le mani oltre le spalle i suoi lunghi capelli biondi.
“Non piace neanche a me, ma è pratico avere un nome no?”.
Acilia avanzò verso di lui con uno scatto. Cominciava non sopportare più la sua serenità.
“Chi è Lucius?!” sbottò “Com’è fatto? Quanti anni ha?”.
“Non l’ho mai visto” rispose l’altro con calma “Dicono però che sia molto vecchio, vecchio quasi quanto me”.
Vecchio significava potente, Acilia lo sapeva. Ma non bastava.
Il biondo proseguì: “Prima era il Superiore della penisola italica, ora anche del Regno di Francia”.
Acilia spalancò la bocca, poi la richiuse, più volte.
Superiore della penisola italica?
“Come si diventa Superiori di una zona?” domandò, con un lieve tremore nella voce.
Sentì su di sé gli sguardi allibiti di Dubris e Ramona.
“Uccidendo il Superiore” rispose il biondo, con una traccia di confusione negli occhi.
Acilia ispirò a fondo.
Come temevo.
“Aci! Che cos’hai in mente?” esclamò Ramona.
Diventare Superiore forse l’avrebbe aiutata nella sua causa. E poi, beh, la vendetta doveva avere un sapore molto buono.
Dubris intervenne, ironico: “I Superiori sono tutti maschi. Cosa vuoi fare, Aci? Diventare regina?”.
Acilia lo ignorò. Ma non era una cattiva idea.
“Aiuterebbe a far trapelare il messaggio” disse, seria, guardando Dubris.
“Che messaggio?” fece l’ultimo arrivato, con un guizzo di curiosità.
Acilia si voltò a guardarlo. “Come ti chiami?” chiese.
L’altro fece un sorriso, e poi un piccolo inchino. “Perdonate questa mancanza. Mi chiamo Lyuben”.
Acilia non aveva voglia di convenevoli. Quel tipo aveva detto di essere più vecchio di Lucius. Poteva rivelarsi utile.
“Lyuben” disse “ti unisci a noi?”.
Lyuben sorrise, cortese. “Mi rincresce ma, come ho già detto, io sto da solo. Non mi piace quello che fanno i gruppi di cavalieri della morte – oh, chiamiamoli così per convenienza. Spaventare, fare a pezzi, violentare, mangiare bambini… No, grazie”. Tutto ciò detto col sorriso sulle labbra fece quasi rabbrividire Acilia.
Dubris si avvicinò a Lyuben con una mezza risata. Gli diede una pacca sulle spalle.
“Allora sei decisamente dei nostri, amico! Però attento… Il dispotico Lucius è un agnellino in confronto alla regina”.
 
 
La confusione durò poco e in un attimo fu stabilito l’ordine. Lyuben aveva detto ad Acilia di sedersi nella prima fila di panche e lei aveva obbedito. Fortunatamente al suo fianco c’era Ramona. Dubris invece era nell’ala sinistra della sala, insieme a tutti gli altri prefetti.
“Per che cosa è stata indetta questa riunione?” bisbigliò Acilia alla sua compagna.
Quella sembrò esitare. “Il segretario del PO vuole fare un… discorso”.
“Un discorso?”.
Ancora Ramona esitò. Sembrava sul punto di dire qualcos’altro ma poi chiuse la bocca e tornò a guardare davanti a sé.
Lo specchio mostrava una decina di file di panche vuote, mostrava la loro reale consistenza, l’esistenza che non avevano.
Ve ne state seduti a parlare e a parlare mentre là fuori c’è gente che muore continuamente!
Non ci credeva più davvero nel PPC, tutto aveva preso una piega che in qualche modo era ipocrita. Ma riconosceva che la Rappresentanza fosse una cosa utile, avere delle leggi, avere un capo buono e delle prigioni… Senza tutto quello, sarebbe stato il caos, là fuori nel mondo. E già di caos ce n’era abbastanza.
Diede un’occhiata alla parte destra della scalinata. Dubris aveva ragione, i membri del PO erano aumentati. Con i loro sguardi arcigni, oppure semplicemente annoiati, occupavano i tre settimi dell’aula. Voltò la testa, per guardare alla sua sinistra. Alla destra dei prefetti c’erano i membri del PP. Erano sempre stati davvero pochi, ma ora erano pochissimi. Acilia vagò con lo sguardo per parecchi secondi ma non ne contò più di… cinque!
Che sta succedendo?
Il Partito per la Pace non aveva mai avuto un grande seguito, predicava l’estinzione di massa dei vampiri, troppo pericolosi per il mondo. Ma ora si era ridotto ulteriormente. Acilia non aveva mai avuto una grande opinione di quel partito. Era il partito più ipocrita, senza dubbio. Dire agli altri di andare a morire mentre loro stavano comodamente su quelle panche! Il loro era un sacrificio, dicevano, quando non ci sarebbero stati più vampiri a cui insegnare la morte, anche loro se ne sarebbero andati.
Che gran sacrificio.
Alla destra di quei cinque c’era il PS. A occhio, i suoi membri occupavano quasi due settimi dei posti a sedere. Il Partito per la Sopravvivenza puntava sul vivere di nascosto, bere il sangue solo strettamente necessario, e uccidere i cacciatori che rappresentassero un pericolo per la propria incolumità. Era probabilmente il partito più realista, era quello che dopotutto, nonostante dal 1984 al potere ci fosse il PPC, facevano tutti, compresa Acilia stessa. La differenza era che al PS andava bene così, il PPC  invece sperava di poter cambiare le cose, e teneva tra le mani uno sciocco ideale. Tra il PS e il PO i posti erano assegnati al PPC, la grande maggioranza. Che però, osservò Acilia nervosamente, non era più tanto grande. Non era contenta di essere lì, nonostante tutti la guardassero con rispetto e ammirazione. Non l’avevano ancora capito che era tutta utopia? Sospirò, e il suo sguardo incrociò quello di Kaeso, anche lui in prima fila, dalla parte del PO. Sorrideva amorevolmente e Acilia strinse i pugni, invocando la calma. Meglio difendere a spada tratta il PPC, meglio persuadere tutti del loro programma utopico e incerto, piuttosto che lasciare tutto quanto in mano all’orrore. Poi forse il sogno, il mondo rosa che avevano creato, si sarebbe rotto in mille pezzi, lasciando intravedere l’oscurità della loro realtà. Acilia sperava solo accadesse il più tardi possibile. Ma Kaeso si stava alzando e si stava dirigendo al centro della sala, davanti a tutti. Molto vecchio ma moderno, pensò Acilia, vedendo che era vestito come se fossero a un concerto o in discoteca. Al suo fianco sentì Ramona agitarsi. La carne è debole, pensò amaramente Acilia. Certo, i jeans grigi attillati gli stavano bene, e anche la giacca nera di pelle aperta. Ma nei suoi occhi, incastonati in un volto cortese e affabile, nei suoi occhi c’era qualcosa di diabolico.
Si schiarì la voce con un sorriso. Tutti già tacevano, c’era un tale silenzio che sembrava che lo specchio davanti a loro riflettesse la vera realtà.
“Buonasera” disse Kaeso. Si rivolse a Lyuben, seduto a qualche posto di distanza da Acilia. “Ringrazio il Presidente per avermi concesso l’opportunità di parlare”. Lyuben, che era sempre il ritratto dell’educazione e aveva un sorriso per tutti, ricambiò con uno sguardo glaciale.
Kaeso sembrò non farci caso e fece un piccolo inchino. Acilia ebbe l’impressione che fosse solo una presa per i fondelli.
“Il motivo per cui ho chiesto la parola” riprese il vampiro, prendendo a fare qualche passo a sinistra e a destra “è perché volevo dare un meritato benvenuto, o meglio un bentornato… alla Regina”. Si fermò e ancora s’inchinò, con un enorme sorriso, questa volta ben orientato verso di lei, Acilia.
Sentì tutte le teste muoversi e capì che tutti la stavano guardando. Lei tenne il volto fermo, lo sguardo fisso che sosteneva quello provocatorio di Kaeso. Fu lui a distoglierlo per primo, per guardare di nuovo Lyuben, con aria dispiaciuta. “Oh, non prendertela Lyuben, il capo sei tu, lo sappiamo, però era così che chiamavano Acilia vero? La regina dei vampiri. E’ solo una vaga reminiscenza, per ricordare i bei tempi andati”. Fece un pausa e di nuovo camminò a destra e a sinistra, guardando tutti i presenti con aria divertita. “Abbiamo idee diverse, cara regina. Tu… Sei stata come la sorella antipatica, la sorella antipatica che va a fare la spia da mamma e papà quando combiniamo qualche marachella. Oppure…” alzò la testa, come in cerca di un’ispirazione “La secchiona della classe che ricorda al professore di assegnare i compiti, o la polizia che irrompe in una festa dove tutti sono ubriachi e contenti”. Qualcuno ridacchiò e Kaeso allargò il sorriso. Tornò a guardare Acilia e incurvò le sopracciglia, facendo scomparire il sorriso. “Bere solo il necessario per vivere… Ci hai tolto il divertimento, ci hai tolto il sangue… Lo sai che cos’è il sangue, Acilia? Lo dice anche Pavese!” La sua espressione mutò da rattristata in sorpresa ed esilarante nella frazione di un secondo. “Non so quanti di voi lo conoscano… C’è qualche italiano qui?”. Fece vagare il suo sguardo su tutti i presenti. “Gli italiani possono cortesemente alzare la mano? Oh benissimo, grazie”.
Acilia evitò accuratamente di alzare la mano e neanche si voltò per vedere se qualcuno avesse obbedito ma dall’espressione soddisfatta di Kaeso sembrava proprio di sì. Così carismatico e sicuro di sé… la gente lo ascoltava! Anche lei lo ascoltava, sì, ma lo odiava, profondamente.
“Pavese dice nel suo diario… Sì, non è stata una grande idea pubblicarlo integralmente dopo il suo suicidio vero? Ma dopo il 1990 credevano che chi l’avesse conosciuto o anche solo visto, fosse morto…  Beh, non hanno pensato ai vampiri eh?”. Fece un sorriso compiaciuto nel sentire qualcuno che rideva.
Divaga, divaga un sacco, si rende simpatico…
Acilia cercò Dubris con lo sguardo e lo vide, imperscrutabile, nascosto da una maschera d’attenzione e di odio.
“Comunque” continuò allegramente Kaeso “Pavese dice che i tre momenti dionisiaci della vita sono il sesso, l’alcol e il sangue. Per gli umani! Avete visto?”. Una traccia di falsa disperazione viaggiò fino ai suoi occhi mentre continuava a parlare: “Oh… L’alcol non l’abbiamo più, non ci fa nessun effetto… Ne rimangono due, due su tre! La regina ci vuole togliere anche il sangue… Il sesso, oh il sesso è bello… Ti ricordi il sesso, Aci?”. I suoi occhi si strinsero in una smorfia maliziosa e Acilia trasse un respiro profondo per non farsi inondare dalle memorie.
“Ma io” proseguì Kaeso, arrabbiato “Noi vogliamo anche il sangue!”.
“Perché Lyuben non lo fa tacere?” bisbigliò Ramona all’orecchio di Acilia, furiosa. Lei si voltò a guardare il Presidente. Era scuro in volto, ma attento e concentrato.
“Perché non dovremmo dire quello che vogliamo?” fece Kaeso, a voce più alta, alzando le braccia, come per raccogliere tutti in un abbraccio “Noi siamo più forti… Struggle for life and death! Darwin disse il più adatto sopravvive, l’umano, l’essere umano era l’ultimo scalino dell’evoluzione genetica! Se n’è aggiunto un altro, miei cari, e siamo noi, diretti discendenti dell’umano, siamo noi il gradino più in alto! Disse poi Spencer il più forte sopravvive! C’è qualcosa forse di più azzeccato?”.
Ci furono qualche applauso e qualche fischio. Ma Acilia sentì anche molti mormorii di disapprovazione, soprattutto alla sua sinistra.
Kaeso fece un passo in avanti, col bel volto quasi sfigurato dalla pazzia. “Ti faccio una domanda, regina. Quale convivenza può esistere tra un vampiro e un umano? La stessa che c’è tra un umano e una mucca? Allora sono d’accordo! Un umano e una mucca non hanno gli stessi diritti! Smettetela di battervi per questi diritti, noi non possiamo avere gli stessi diritti degli umani! Non li vogliamo perché noi siamo più di loro, siamo la loro evoluzione! Siamo i consumatori quaternari della catena alimentare!  Sbaragliamo i cacciatori! Catturiamo gli umani, mettiamoli in recinti, alleviamoli come carne da macello!”. Folle, aprì la bocca e la richiuse più volte velocemente, come se stesse masticando qualcosa. Poi il luccichio bramoso nei suoi occhi blu sparì, si passò una mano nei folti capelli neri e sorrise, guardando Lyuben, che era letteralmente una statua di ghiaccio. Intanto in molti acclamavano Kaeso sbattendo le mani sui banconi e ridevano, ridevano di gusto… Acilia si sentì svuotare dentro e un’orribile sensazione la invase, di quelle che non provava da molto tempo mentre Kaeso ancora diceva, con un sorriso, riabbassando il tono di voce che tornò ad essere docile e accattivante: “Lyuben, questa è fatta. Ti ringrazio per lo spazio concessomi, lascio la parola a te per le altre questioni all’ordine del giorno”.  















Non è un amore Kaeso? XD
Comunque mi scuso per i dettagli contradditori, non so se lo notate perché da un capitolo all'altro passa del tempo.. però ci sono cose che si contraddicono (per esempio avevo detto in un capitolo che Lyuben aveva mille anni, ma ora ho cambiato idea, come si legge in questo capitolo), se le notate non vi preoccupate, lo so, devo correggere XD per quanto pianifichi le cose, cambio spesso idea e dato che scrivo di getto ogni capitolo è inevitabile.. Nella versione definitiva poi le cose andranno a posto ;)

Nene, grazie mille :) ahahaha mi fa ridere il ragionamento di Marcus XD e anche "cattivo! la mamma non si tratta così!" eh Jacque birbantello..u.u Emily poveretta, i dubbi non finiscono come vedi.. Sono contenta di affasssssssssscinarti cara <3
Sara, eh sì Acilia è troppo "vecchia" forse per amare.. ti ringrazio per il "magnificamente straziante" era proprio quello che volevo (strano eh? mica mi piacciono i drammi..) daiiii Eike ti smuove la lacrimuccia! In questo capitolo è stato abbastanza "scapestrato", puoi non compatirlo più per ora XD vai tranquilla bradipina, mettici tutto il tempo che vuoi, basta avere un bel risultato alla fine ;)
Norine, ahahaha ok se non ne sai a pacchi ne sai comunque molto più di me XD grazie mille per la recensione :)) sì nei film si innamorano tutti subito.. molto romantica come cosa ma sì, davvero poco realistica XD

Alla prossima! :D

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Capitolo 13
*** Maestri di polvere ***


Dodicesimo capitolo

CAPITOLO XII
MAESTRI DI POLVERE

 

 


Jacque accarezzava la testa di Emily in mezzo alle sue gambe. Attorcigliava intorno alla mano intere, grosse, ciocche di capelli morbidi e lisci, le aggrovigliava e le tirava leggermente. Sentiva Emily ansimare ma soprattutto sentiva la sua bocca avvolgerlo e circondarlo di calore e la sua lingua che gli solleticava il piacere. Stringendo con più vigore i capelli della ragazza, boccheggiò. Poi comparvero gli occhi scuri di Emily che lo guardavano dal basso con un guizzo di divertimento. Quegli occhi avanzarono verso di lui, lasciando l’altro crudelmente duro come un sasso.

“Dai…” fiatò Jacque.
Lei rise e lo baciò. Poi lo spinse giù per farlo sedere sul letto. Lo spinse ancora per farlo sdraiare e lei si posizionò sopra di lui. Jacque l’assecondò ma appena lei cominciò a muoversi lui le mise un dito davanti come per prendere la sua attenzione.
Così non va bene.
Le strinse i polsi e lei non fece in tempo a dire niente che subito si trovò con la schiena contro il materasso, con lui sopra di lei.
Emily aveva gli occhi spalancati. “Mi gira la testa” disse con un filo di voce.
“Sei abituata a dirigere tu?” ribatté Jacque con un sorriso.
Le guance della ragazza divennero di un delizioso color porpora. Bofonchiò qualcosa sul fatto di sentirsi ispirata ma lui la fece tacere con un bacio. Si sentiva confusamente eccitato da tutto quel calore e quel rossore. Era una cosa nuova, o meglio, era una cosa talmente vecchia da sembrare nuova.
Emily non gli era mai sembrata così bella.
Lui cominciò a spingere continuando a baciarla. La vedeva digrignare i denti e la sentiva ansimare. Aveva paura di farle male. Non era come farlo con Acilia, Emily era fragile…
Sbatté le palpebre perché davanti a lui era comparso il volto di Acilia che gli urlava di fare più forte.
Vai via…
Diminuì la forza delle spinte e ad Emily si dipinse un bel sorriso sul volto rosso e pervaso di capelli scarmigliati. Emanava un buonissimo profumo, quello si infilò con violenza su per le narici e lui alzò un pelo la testa, cercando, sforzandosi in tutti i modi di controllarsi…
Emily lanciò un’esclamazione e Jacque capì che i canini non erano riusciti a trattenersi. Lui le sorrise per farle capire che andava tutto bene.
L’odore era forte ma lui non le avrebbe mai fatto del male. Si avvicinò piano al suo volto e lei gli sfiorò una zanna con un dito. Poi, coraggiosa, lo baciò e Jacque raggiunse l’apice, sentendo la sua forza che piacevolmente si sbriciolava in tremori e ansimi.
Si buttò sul letto accanto a Emily. Anche lei ansimava e lui la guardò, nuda e bella, che rabbrividiva.  
“E’ unicamente per questo che tenete letti in casa eh?” fece la ragazza. Aveva scoperto che Jacque, Acilia ed Eike dormivano in una stanza sotterranea, ma nella casa c’erano comunque due camere provviste di letto.
Per tutta risposta, il ragazzo scoppiò a ridere.
“E’ la prima volta” disse ancora Emily “che lo faccio con un vampiro. E’ intenso”.
“E’ la prima volta che lo faccio con un’umana, da vampiro” rispose lui sorridendo “Viva le prime volte”.
Lei si girò su un fianco e lo guardò.
“Vuol dire che l’hai fatto con delle ragazze vampire?” fece.
Jacque esitò. Emily aveva la capacità di toccare gli argomenti meno piacevoli.
“Sì, un paio” rispose, vago.
“Non sono tante, per uno che ha cento anni” osservò la ragazza, divertita “Ci stavi insieme?” aggiunse dopo un po’.
“No” disse lui, secco.
Emily sembrava risentita. “Non ne vuoi parlare? Io non avrei problemi a parlarti dei miei ex”.
Lei non avrebbe problemi.
Jacque ne aveva sempre, di problemi, se si trattava di Acilia. Era una cosa che odiava. Era sempre lì, presente, a rovinare tutto, era riuscita a rovinare pure quel bel momento…
Emily lo guardava in attesa, con un vago cipiglio.
O forse era lui che rovinava tutto.
“Non è che non ne voglio parlare, è che non c’è molto da dire” mentì.
“Quanti ragazzi hai avuto?” si affrettò ad aggiungere, per cambiare argomento.
“Quattro storie serie” sospirò Emily “ma nessuno è resistito più di dieci mesi”.
“Resistito?” rise Jacque.
“Sì. Io, beh, sono strana, infantile, irresponsabile… Queste sono le scuse che mi rifilavano”.
Lui ridacchiò. Emily era solo… buffa, divertente e tremendamente curiosa. Però in quel momento era lì con lui, e questo purtroppo faceva di lei la più grande irresponsabile del mondo.
“La mia amica Lydia è fidanzata da cinque anni… Un’altra mia amica è già sposata, una ha addirittura un figlio!” fece Emily, con voce incredula “E io…”.
“Tu sei a letto, nuda, con un vampiro” completò Jacque, serio.
Emily aveva una faccia colpevole ma lui scherzava e cercò di rimediare: “Ti ricordi quando ti ho detto che tu di vita ne hai una sola? E di non sprecarla con me?”.
Lei, ancora più colpevole, annuì e lui disse: “Beh, proprio perché è una sola sei libera di sprecarla come e con chi vuoi. Non farti condizionare da quello che fanno gli altri, chiaro?”.
Emily strabuzzò gli occhi e poi sorrise. “Non me l’aspettavo questo da te”.
“Non ho cambiato idea, puoi lasciarmi quando vuoi” ribatté Jacque, accarezzandole una guancia “Solo che… ormai mi sto affezionando a te”.
Lei arrossì un pelo. “Con tutte le brutte cose che ti ho detto…” sussurrò.
“Come quando mi hai chiesto quante persone ho ucciso?” domandò Jacque.
Si pentì di averne parlato perché vide la ragazza sussultare e diventare ancora più rossa.
“Guarda che non me la sono presa” disse subito.
Emily si strinse il lenzuolo addosso, coprendosi. Aveva gli occhi rivolti verso il basso. “Mi dispiace… Io… Non riuscirei a parlare di queste cose”.
Jacque si sentì dispiaciuto. Non sapeva neanche il perché. Possibile che avesse voglia di condividere con qualcuno le cose più brutte della sua vita?
“Non riusciresti più a chiedermi quante persone ho ucciso?” insistette.
Emily inspirò a fondo. “No… Io…”. Lo guardò finalmente in faccia. “Non sai quanto mi piacerebbe parlare con te con naturalezza del tuo passato” fece in un soffio.
Però delle ragazze che ho avuto voleva parlarne, pensò amaramente Jacque.
“E’ solo perché sono un vampiro” disse, lentamente “Ma tu mi chiedi quante persone ho ucciso… E io non parlerei solo del mio essere vampiro, ho ucciso molte persone anche quando ero umano”.
La ragazza parve sorpresa.
“Sono andato in guerra, Emily” spiegò Jacque.
“Oh, già, tu sei di…”.
“Quel periodo lì, sì”.
Ancora una faccia colpevole si dipinse sul volto di Emily. Ma recuperò in fretta. “Non conta… La guerra è la guerra”.
Jacque alzò un sopracciglio. “Non conta?”.
“Non volevo dire questo. Insomma, non credo tu fossi un interventista” disse la ragazza in fretta.
“No, non lo ero”.
“E allora non avevi scelta! Era lotta per la sopravvivenza!”.
Jacque sospirò e abbandonò la testa sul cuscino. “Anche per un vampiro è lotta per la sopravvivenza, ogni giorno. Almeno per quelli come me”.
Emily aveva un’espressione spaventata. “Jacque, mi dispiace! Non volevo dire… Non ti considero un assassino!”.
“Ma è quello che sono” fece lui, quasi in un sussurro “E faresti meglio ad accettarlo anche tu”.
“Lo accetto se tu accetti il fatto che non è stata una scelta tua” ribatté Emily.
Jacque le sorrise, riconoscente. Ma quando gli sembrava che tutto quello che avesse fatto non fosse stata una scelta sua gli veniva da pensare che la si ha sempre, una scelta.
“Tu sei un vampiro progressista no? Per non dire buono… Del partito di Acilia” andò avanti Emily “Tu non mi vuoi dire niente della tua trasformazione ma…” esitò un momento “credo che tu sia fortunato ad avere Acilia come creatrice”.
Qualcosa in Jacque si irrigidì.
“Immagino che lei non abbia avuto scelta” proseguì Emily “come te con Eike”.
“Qualcosa del genere” borbottò lui.
“Lei… dev’essere una tosta. Tutti gli anni che ha vissuto, quello che ha passato, quello che ha costruito… L’ammiro” disse Emily.
Jacque avrebbe preferito che la smettesse di parlare di Acilia, eppure non gli dava così fastidio. Lo sapeva che Acilia, alla fine, era una persona – o meglio, un vampiro –  da ammirare.
“Perché aveva mollato la Rappresentanza?” chiese la ragazza.
La solita curiosa.
“Non lo so” rispose Jacque. Non era del tutto vero. Lo sapeva che era qualcosa che aveva a che fare con lui, con quello che lui le diceva, fin dall’inizio, ma non l’aveva mai capito cosa le frullasse per la testa. Non capiva che potere avesse lui su di lei. Credeva nessuno.
Lo sai perché l’ho fatto!
Credeva…
“E adesso è tornata dentro perché il capo del PO è molto pericoloso” ricordò Emily, pensierosa.
Jacque si riscosse. Gli piacevano tanto l’interesse e l’audacia che Emily dimostrava.
“Tu non vorresti entrare in politica?” chiese lei.
Lui fece un sorrisino. “Non mi ci vedo molto… E comunque per entrare nella Rappresentanza bisogna essere Maggiori”.
“Maggiori?” domandò Emily, con la bocca spalancata.
“Sì, cioè avere almeno cinquecento anni” spiegò l’altro “E’ la legge numero uno: per entrare nella Rappresentanza bisogna essere Maggiori; per essere un prefetto devi essere Anziano, cioè avere almeno mille anni; per essere il capo di un partito devi essere Veterano, cioè avere più di millecinquecento anni. Per entrare nella Corporazione per la Sicurezza invece bisogna avere almeno settecento anni”.
“Corporazione per la Sicurezza?”.
“Sì, è la squadra di cui
 ogni prefetto è capo. Una specie di polizia vampiresca, puniscono i vampiri che infrangono la legge”.
Emily era a bocca aperta. “Wow. E il Presidente? Quanti anni ha il presidente?”.
“Lyuben ne ha un sacco, molto più di duemila credo” fece Jacque, pensoso “E’ un Superiore insomma. I presidenti vengono eletti tra i Superiori, cioè tra quelli che hanno più di duemila anni”.
La ragazza annuì e lui continuò a spiegare: “Una volta il Superiore era il vampiro capo di una certa zona… Una specie di re. Con la rivoluzione il termine ha cambiato significato”. Un po’ gli piaceva il fatto che Emily pendesse dalle sue labbra.
“Rivoluzione?”. Il viso della ragazza infatti era sempre più allibito.
“Beh, sì, non è che da un giorno all’altro i vampiri hanno deciso di creare una Rappresentanza vampiresca! Hai studiato storia, dovresti sapere come vanno queste cose” la stuzzicò Jacque, pizzicandole un braccio. Ridacchiò, allo sguardo fantasticante di Emily. “Acilia e Dubris l’hanno vissuta… L’hanno iniziata praticamente loro”.
La ragazza sgranò gli occhi. “Oh, allora anche il simpaticone è uno tosto”.
Jacque fece una smorfia. “Così pare”.
Lei si lasciò andare mollemente sul letto, con un’aria trasognata negli occhi.
“Lo so che non posso farlo ma ti giuro, muoio dalla voglia di scrivere un articolo su questa roba! Ci scriverei anche un libro!”.
 
 
Francia, 1447
 
“Uccidere un cavaliere della morte non è facile” stava spiegando Lyuben “Ci sono solo due possibilità: staccargli la testa oppure piantargli un pezzo di legno nel cuore”.
“Una passeggiata insomma” borbottò Mathias.
“Lucius avrà un sacco di  mollaccioni ai suoi piedi. Siamo troppo pochi” osservò Dubris, camminando avanti e indietro. Lo faceva sempre quando si discuteva di qualcosa, ad Acilia faceva venire il mal di mare.
“Per quando arriveremo a Firenze avremo reclutato qualcun altro” disse Ramona, sicura “Avevi detto Firenze, giusto Fernand?”.
Fernand annuì. Era quello che dimostrava più anni del gruppo, con la sua folta barba scura, ed era un tipo piuttosto taciturno. Da umano viveva da solo, in una casa isolata, vicino ad Arles. Il cavaliere della morte che l’aveva trasformato era terribile, a detta sua, e gli era sfuggito, nella disperata ricerca di compagni migliori. Aveva trovato Mathias, più vecchio di lui, sebbene col volto di un ragazzo, che aveva perso i contatti col suo creatore da molto tempo, e che girovagava da solo. Era stata una fortuna incontrarli. Fernand aveva offerto a tutti loro la sua casa, dove potevano rifugiarsi durante il giorno e stare nascosti di notte per progettare il loro piano. Inoltre aveva dato loro preziose informazioni su Lucius: il loro bersaglio risiedeva a Firenze, e aveva milleseicento anni.
Ma Acilia non aveva dimenticato il suo scopo principale. Ogni giorno insegnava a tutti loro come controllare la loro sete di sangue. Lyuben era un apprendista modello, e anche Dubris se la cavava. Ramona era molto migliorata, ma faceva fatica, non di meno dei due nuovi arrivati. A volte ad Acilia sembrava un’impresa impossibile, si sentiva spaventata e umiliata ogni volta che un umano moriva per un loro sbaglio. Ma lo spirito le si risollevava sempre quando vedeva dei progressi. Quella stessa sera Fernand era riuscito per la prima volta a incantare una persona, che aveva poi lasciato andare. Quella stessa sera Acilia l’aveva visto sorridere per la prima volta, e anche lei si sentiva più leggera.
“Non è solo il numero che conta” disse Lyuben, paziente “E’ soprattutto l’età”. Fece vagare il suo sguardo su tutti. “Ramona e Fernand non fanno neanche trecento anni insieme”.
“Io ne ho quasi cinquecento” intervenne Mathias, con un velo di orgoglio.
Lyuben si limitò a sospirare.
“Quindi dovremmo trovare cavalieri della morte vecchi” disse Acilia “E quelli più vecchi sono quelli più difficili da corrompere”.
“Io ho millenovecento anni, Acilia” disse l’altro, guardandola serio “Eppure mi hai conquistato subito”.
Acilia non ne sapeva il motivo ma quelle parole dette da lui la lusingarono molto.
“Quando si è vecchi e stufi, può essere salvifico avere qualcosa in cui sperare ”. Lyuben continuava a guardarla col suo volto gentile e Dubris sbottò, irritato senza apparente motivo: “Bene, allora usciamo e mettiamoci a cercare dei vecchi”.
Il biondo spostò lo sguardo su di lui, per nulla seccato. “Dovremo girare a lungo, e, se mi è permesso, vorrei insegnarvi qualcosa per andare ancora più veloci”.
“Vuoi insegnarci a volare?” scoppiò a ridere Ramona, sarcastica.
Lyuben la guardò sorridendo. “Esattamente, Ramona”. Lei e gli altri tre avevano la bocca aperta. Acilia lo sapeva che volare per loro era possibile, ma non ci aveva mai provato. L’idea di spiattellarsi, rompersi qualcosa e stare a guardare il suo corpo mentre si rigenerava non l’allettava.
“Fernand e Ramona sono troppo giovani per poter imparare. Mathias ha qualche possibilità…” rifletté Lyuben. Acilia lesse la delusione nei volti dei più giovani. Il biondo intanto si era alzato in piedi e aveva aperto la porta. Si fece da parte e con un gesto gentile invitò tutti ad uscire.
Uscirono nella notte fonda e si misero in cerchio intorno al più vecchio.
“A cosa pensate quando incantate un umano?” domandò quello.
“A niente” rispose Ramona, perplessa.
“Benissimo, dovete liberare la mente e focalizzarvi solo ed unicamente su quello che state facendo. Incantare qualcuno è più facile perché avete un punto di riferimento: gli occhi dell’umano. Per volare non potete concentrarvi su nulla se non sull’aria che sentite sulla pelle”.
Acilia inarcò le sopracciglia. Non sembrava una cosa molto semplice.
Lyuben si stava librando in aria, composto come sempre. Poi scomparve e riapparve proprio dietro di lei, sempre in volo. Acilia sbarrò gli occhi mentre sentiva gli altri lanciare esclamazioni entusiaste. Quando correvano loro andavano molto veloci, ma quello… quello era ancora di più.
“Ma se voi tutti imparate a volare” fece la voce di Ramona, un po’ intristita “Noi come faremo a stare al vostro passo?”.
Lyuben subito si diresse verso di lei e le tese la mano. “Mi permetti?”.
Ramona sbatté le palpebre, confusa, poi gli prese la mano. Per un momento sembrò che il biondo l’avvolgesse con le sue braccia ma poi divennero entrambi una macchia confusa e i loro colori si mischiarono per poi scomparire. Acilia sentì un grido dal cielo e alzò lo sguardo. Lyuben si era innalzato di almeno quindici braccia e Ramona era tra le sue braccia.
Subito furono di nuovo a terra e l’uomo fece scendere la donna a terra con delicatezza. Ramona era visibilmente scossa ma dall’espressione del suo viso non era tanto per il volo.
Acilia non poté fare a meno di rivolgere uno sguardo a Dubris e notò che lui era del tutto tranquillo, solo un vago cipiglio che però lo faceva sembrare concentrato, non contrariato. Tornò a fissare Lyuben.
Era tutto molto chiaro, volare per essere più veloci e portare con sé chi non sapeva volare. Molto chiaro, in teoria, e in pratica?
Si puntellò sulle punte, chiudendo gli occhi.
Vola, pensò, sentendosi parecchio stupida. I piedi erano ancora ben piantati al terreno. Ho la mente libera, si disse, ho la mente libera. Si rese conto che non era affatto vero. Pensava a Fernand con lo sguardo spento, a Ramona che guardava Lyuben quasi adulatoria, a Lucius che le aveva tolto la vita, a Miguel, ancora a Miguel e a Marcus, che non aveva potuto insegnarle a volare perché se n’era andato troppo presto…
Ramona a volte le chiedeva qualcosa sul conto di Marcus. Perché l’avesse trasformata, che tipo fosse, come se n’era andato. Acilia non l’aveva mai conosciuto fino in fondo. Troppo presa dal suo tormento, non aveva mai visto il suo, e ora non avrebbe potuto chiedergli più niente. Le sarebbe piaciuto che lui fosse lì, con loro. Sarebbe stato orgoglioso di lei, l’avrebbe aiutata a insegnare a tutti come essere meno mostri, lui e Lyuben insieme sarebbero stati fortissimi. Il suo sogno forse poteva realizzarsi.
Ma lui se n’è andato.
Se lui ci fosse stato, lei non avrebbe fatto quello che aveva fatto. Una bambina avrebbe potuto crescere insieme a suo padre, un uomo dagli occhi dorati avrebbe avuto dei nipoti e sarebbe morto felice, chissà quante persone non avrebbero vissuto nel terrore e meno sangue, meno sangue dappertutto…
“Non stai liberando la mente” le bisbigliò qualcuno all’orecchio sinistro.
Acilia volto la testa e vide Dubris, molto vicino a lei. Alto e allampanato, non era bellissimo, ma neanche brutto. Eppure lei vedeva Miguel, lo vedeva ancora dappertutto.
Libera la mente!
Lyuben faceva il creatore con loro, era un insegnante, proprio come lei… Le ricordava Marcus, anche se Marcus era diverso.
Libera la mente…
La polvere, la sentiva ancora la dita.
Ti odio…
L’odio che tanto aveva alimentato i suoi primi anni da non-morta si era sgonfiato ed esploso come una bolla di sapone quando aveva incontrato la famiglia di Miguel. Nemesio teneva una cinghia e frustrava le persone. Lolita bruciava nella crudeltà dell’uomo. Agnese, attaccata a una corda, penzolava nel vuoto, Acilia le vedeva i piedi e le caviglie sporche…
Non siamo bestie.
Marcus e Lyuben avrebbero potuto insegnare un po’ di umanità agli umani stessi. Lei? Lei, lei no… Aveva capito tutto in ritardo, era arrivata dopo, aveva pensato solo a se stessa. Ma il vento ancora le accarezzava la pelle, gelido, come la notte in cui era venuta alle tenebre.
Libera la mente.
Acilia inspirò a fondo e aprì gli occhi. Intorno a lei vedeva della polvere viaggiare così piano. Lei poteva vedere tutto. Al buio, distingueva i colori, vedeva, contava i granelli di polvere. I suoi sandali non toccavano nulla. Voleva andare sempre più in alto, andare sopra al mondo, sentire la musica perfetta dell’universo. Ma la polvere dalla Terra l’avrebbe seguita e non l’avrebbe mai lasciata andare…
 
Voleva morire, ma finiva sempre per obbedirgli. Aveva uno strano potere su di lei, non riusciva a dirgli di no. Era qualcosa che aveva a che fare col sangue, ne era sicura. Aveva il suo sangue dentro, era quello che la faceva parlare, che la faceva muovere, che la faceva urlare.
“Marcus” disse, con voce bassa e roca. La sua voce si consumava, a forza di urlare. Era l’unica cosa di lei  che si consumava.
L’uomo che era seduto al suo fianco si voltò, e i suoi lunghi capelli castano scuro ondeggiarono. Le puntò gli occhi addosso. Aveva i lineamenti delicati, ma quegli occhi erano sempre così severi.
“Ti prego” disse Acilia, stringendo nella mano un lembo della sua tunica “Voglio rivedere mia sorella”.
Marcus la fece fare, ma non mostrò pietà nel volto. “Tua sorella è grande ormai”.
“Voglio rivederla prima che muoia”.
“Non puoi”.
Acilia socchiuse gli occhi cercando di ricordarsi la sua piccola Lia. Il viso dolce, spensierato, i capelli mori uguali ai suoi. Aveva ancora tra le dita la tunica di Marcus. Come una bambina molto piccola, che rimane attaccata alla mano della madre o del padre, non lo voleva mai lasciare andare.
Quanto l’aveva odiato, quell’uomo. Quella notte di tanti anni prima, la notte in cui era risorta lei e morto Manlio, rimaneva colorata della disperazione più nera. Marcus le aveva detto che era possibile vivere anche per loro, ma lei non voleva farlo, non voleva più vivere. Nessuno poteva darle la felicità che neanche credeva di avere. Non lo sapeva, ma solo qualche anno prima lei aveva tutto, perché aveva la vita. Poteva tutto, perché era viva.
Invece ora doveva stare nascosta da tutti, l’unica sua compagnia era Marcus. Lui ogni tanto parlava con altri come loro, lo sentiva anche dare ordini. Allora non dà ordini solo a me, aveva pensato lei. Ma lei non aveva voglia di parlare con nessuno. Ombre che passavano e la guardavano, sentiva Marcus che diceva: “E’ giovane, e spaventata”.
Davanti a loro in quel momento c’era il corpo esanime di un uomo di circa quarant’anni. Acilia stringeva forte la tunica di Marcus, e teneva chiusi gli occhi.
Aveva fallito ancora. Marcus le diceva che poteva farcela, a controllare la sua sete. Aveva imparato a incantare le persone, non le piaceva ma l’aveva imparato. Era la sete che era ingestibile.
Sentì qualcosa di liscio sulla sua mano. Marcus la stava accarezzando.
Acilia si sentì per un momento meno debole e aprì un occhio. Come poco prima, gli occhi di Marcus erano severi. Erano marroni, con una strana spruzzata di verde al centro. I colori li vedevano bene, loro.
Voltò la testa lentamente. Manlio ricambiava uno sguardo orribile, in un volto incavato e vuoto.
Acilia urlò e le grida le riempirono immediatamente la testa. Urlare le serviva a non pensare.
Due mani le presero il volto e Acilia non vide più Manlio. Il volto di Marcus galleggiava davanti a lei. “Non è Manlio quello” disse, fermamente.
Non importava, era un uomo che lei aveva ucciso. E in tutti loro lei vedeva Manlio.
“Acilia, smettila di urlare” disse ancora Marcus.
Stava ancora urlando? Non se n’era resa conto.
“Acilia, smettila!”.
Non ci riusciva, era così difficile da capire?
Poteva urlare fortissimo, e finché avesse voluto. I polmoni non potevano scoppiarle.
“Smettila!”.
Un colpo la riscosse. Marcus le aveva dato uno schiaffo sul volto e lei scivolò mollemente lungo la parete a cui era appoggiata. Era quella la loro casa, vecchie macerie di un vecchio monumento.
Ritrovò la voce, ma non per gridare.
“Perché mi tratti così?” fece, fiocamente.
Marcus aveva un’espressione triste. “Non ti voglio ferire, ti voglio bene”.
“Se mi vuoi bene allora uccidimi”.
“L’ho già fatto una volta e non lo farò di nuovo”.
Acilia a volte aveva provato a pensare a che vita avesse condotto Marcus prima di incontrare lei. Ci pensava un po’, poi le veniva di nuovo voglia di urlare e allora non pensava più. Non glielo chiedeva mai, non gli chiedeva mai niente del suo passato. Avrebbe voluto, ma non ne trovava mai la forza.
A volte nelle sue mani forti che la sorreggevano rivedeva quelle di Manlio. Allora pensava che avrebbe potuto amare Marcus. A volte lo credeva davvero. Sentiva un gran trasporto verso di lui. Ma poi arrivavano la sete, il sangue che implorava, una nuova vittima, le urla.
“Potresti provarci di nuovo” disse Marcus.
“Cosa?”.
Non voleva provarci di nuovo, non voleva provarci più.
“Adesso hai sete?”.
“Poca”.
Aveva svuotato un uomo intero, per Castore! Avrebbe dovuto avere ancora sete? Eppure un po’ ce l’aveva. Non se ne andava mai, non del tutto.
“Sei ha poca sete riuscirai a trattenerti di più. Vuoi provare?”. Il suo tono di voce si era fatto dolce. Marcus aveva questa insopportabile presunzione di dare per certo che se lei fosse riuscita a non uccidere, si sarebbe sentita meglio. Beh, in realtà, forse aveva ragione.
“Perché lo fai?” chiese.
“Faccio cosa?”.
“Tu sei importante qui. Ti danno tutti ascolto? Nessuno uccide?”.
Marcus fece un sorriso triste. “Io sono il Superiore, però sono pochi che mi danno ascolto”.
“Quanti?”.
“Due”.
“E quanti siamo in tutto?”.
“A Roma? Una ventina al massimo”.
Acilia annuì. Venti meno Marcus, lei e altri due. C’erano sedici mostri assetati di sangue. Tra quei sedici c’era anche Lucius. Provò un moto di stizza nel pensare a quel nome e si sentì un attimo più vitale. Marcus era innocente, non era colpa sua. Lo odiava perché non l’aveva lasciata morire e non la lasciava bruciare ma in un certo senso gli era anche grata di questo. Quello che c’era dopo la morte la spaventava.
“Non li convincerai mai quei sedici” disse in un soffio.
Marcus la stava fissando intensamente. “Mi basta convincere te per ora”.
Acilia sentì un brivido percorrerle la schiena. Era una sensazione simile a quella che aveva provato con Manlio.
“Non siamo bestie” insistette Marcus.
“Non siamo tutti forti come te” replicò Acilia, stancamente.
L’altro le tese una mano, per aiutarla ad alzarsi. “Tra ottocento anni sarai forte anche tu. Aiuterai quelli come noi, come io ora sto aiutando te e sarai meravigliosa, fidati”.
 
Acilia vide il cielo ai suoi piedi. Il mondo si era capovolto e lei stava precipitando. Una scossa e un lieve dolore alla schiena l’avvertirono che era arrivata a terra.
“Aci! Stai bene?”.
Aprì gli occhi e a fatica si mise seduta. Non sapeva quanto stesse volando in alto ma probabilmente si era rotta qualcosa. Sentì dolorosamente le ossa che si ricomponevano e strinse i denti.
Dubris corse subito in suo aiuto e le tese le mani. Lei le prese e si alzò, sentendo di nuovo la forza che le scorreva nel corpo. Lui però non le lasciava le mani.
Dubris, piantala.
Sentì gli altri che accorrevano e lei si liberò dalla presa del ragazzo. Lyuben la guardava con un piccolo sorriso. “Sei stata su parecchio” disse, con disinvoltura.
“Per cadere poi come una pera da un albero” sghignazzò Mathias.
“Come se tu fossi riuscito ad alzarti di un piede” lo rimbeccò Ramona.
Acilia non si offese e si scrollò la polvere e la terra che aveva sui vestiti.
“Non ho liberato la mente, per niente” disse, guardando Lyuben, come se dovesse giustificarsi. Sentiva la polvere tra le dita e si sentiva smuovere un mare di ricordi che davvero l’avrebbero fatta piangere.
Tra ottocento anni.
Marcus aveva avuto torto. E quelle sue parole suonavano tanto come un addio.
 
 
“Non possiamo non fare niente!”.
Dubris, con un’esasperazione ben visibile in volto, camminava avanti e indietro, come al solito.
“Ha ragione Lyuben, Dubris” intervenne Ramona “Abbiamo le mani legate”.
Acilia ascoltava con attenzione ogni parola, nervosamente, seduta al tavolo tra Victoire e Ramona. Il discorso di Kaeso di due giorni prima aveva alzato un gran polverone e Lyuben aveva indetto una riunione segreta per discutere sul da farsi. Quella era la sua dimora, sempre sottoterra come lo era  la Sede e tutte le stanze in cui alloggiavano i membri della Rappresentanza. Anche Dubris ed Acilia ora ne avevano una, ma lei contava di fermarsi il meno possibile. L’agitazione di Dubris era quasi palpabile anche di giorno, mentre dormivano stesi sul pavimento l’uno accanto all’altra.
“Quello è un pazzo” disse Luca, con enfasi “Non possiamo stare fermi a guardare mentre la gente cambia partito solo perché fa ridere!”.
“Non è solo perché fa ridere” replicò Victoire, con disappunto “E’ tremendamente abile. Con poche parole ha smontato tutti i punti cardine del PPC, ha detto quello che tutti i vampiri, più o meno inconsciamente, sanno e che purtroppo vogliono sentirsi dire”.
“Erano cose che volevi sentirti dire?” fece Luca con una smorfia.
L’altra alzò gli occhi al cielo. “Dico solo che non dobbiamo sottovalutarlo etichettandolo come pagliaccio, Kaeso sa bene quello che fa e sa come farsi ascoltare”.
“Beh, non mi sembra di aver detto che…”.
Dubris batté improvvisamente le mani sul tavolo, di fronte a Lyuben, che teneva la testa tre le mani con espressione afflitta, e la frase di Luca terminò con un sussulto.
“Lyuben” fece il prefetto, con sguardo serissimo “Non crederai che quelle di Kaeso siano solo parole, sono cose che lui davvero vuole fare, sono cose che lui fa già! E quando porterà dalla sua parte abbastanza gente per…”.
“Lo so, Dubris, lo so” disse il presidente alzando la testa, leggermente scocciato “Lo so che Kaeso e qualche suo amico fanno stragi di umani, e non sono gli unici. Ma finché non lo cogliamo in flagrante non possiamo arrestarlo. Non sono solo parole ma quello che vediamo per ora è questo, solo parole! E per le parole non si arresta, non più”.
Dubris serrò la mascella, senza sapere cosa dire. Passò qualche istante prima che lui disse, con una luce terribile negli occhi: “Uccidiamolo”.
Acilia ebbe un fremito. Fissò il suo compagno rosso e pensò che era mosso da giustissimi ideali ma che così mostrava solo la sua stupidità. Tutti erano rimasti zitti, persino Luca. Allora Acilia prese la parola, rude: “Per fomentare una rivolta da parte del PO?”.
Dubris parve riflettere e Ramona intanto le diede manforte: “Ha ragione Aci. Quelli non aspettano altro che facciamo una mossa falsa per farci cadere e prendere in mano il governo!”.
“E’ vero” convenne Dubris “Ma…”. Non sembrava essere in grado di trovare le parole. Acilia lo capiva, lui aveva la sensazione che Kaeso potesse combinare qualcosa di terribile. Ma finché c’erano lei e Lyuben, cosa avrebbe potuto fare… Ci pensava ma ci pensava poco, forse non voleva trovare la risposta.
Lyuben si era alzato dalla sedia senza l’ombra di un sorriso.
“Non passeremo dalla parte del torto” dichiarò. Ramona gli sfiorò la mano, come per calmarlo. Come se ce ne fosse bisogno, pensò Acilia trattenendo un sorriso, Lyuben  è sempre stato un pacifista, e Ramona d’altronde è sempre stata perdutamente innamorata di lui.
Lyuben era alto e massiccio, coi capelli biondi lisci che gli arrivavano poco sopra alle spalle larghe. Coi suoi modi da signore e la sua fermezza, forse anche Acilia avrebbe potuto innamorarsi di lui. Sarebbe stata una storia d’amore perfetta, come lo era quella di lui con Ramona. Ma all’epoca in cui l’aveva conosciuto, Acilia aveva la mente invasa dai ricordi di Miguel e di quella calda umanità che avrebbe voluto ancora sentire addosso.
Anche Dubris era molto alto e, smilzo com’era, cercava di tenere testa al Presidente. “Abbiamo faticato tanto per costruire tutto questo, non farlo andare in polvere”. Più che una sfida, il suo tono celava quasi una supplica.
Ramona parve intenerirsi, con lo sguardo che guizzava dal suo creatore e al suo uomo.
Intervenne Victoire, col suo tono pratico: “Ecco cosa possiamo fare. Sorveglieremo Kaeso senza farci vedere. Prima o poi farà qualcosa per cui potremo arrestarlo”.
Ramona si mordicchiò il labbro. “Kaeso è più vecchio di molti di noi, potrebbe essere pericoloso” disse, guardandosi intorno “Ve la sentite?”.
Acilia in realtà non se la sentiva troppo, non che avesse paura. Ma poi ripensò al discorso che aveva dovuto sentire, che Kaeso aveva rivolto esclusivamente a lei, per farle sentire la sua presenza, per ricordarle chi fosse, per farla vacillare. Con quell’orazione aveva lentamente e violentemente cominciato a fare pezzi tutto il loro operato, il sogno di Marcus, su cui lui, viscido e brutale, non avrebbe mai potuto mettere i piedi, Acilia non l’avrebbe permesso.
Marcus non sarebbe fiero, Aci…
Nessuno ebbe niente da ribattere ma nessuno pareva davvero convinto.
Lyuben era ancora in piedi e Acilia pensò di non averlo mai visto così preoccupato.
“D’accordo” disse il presidente “Per oggi abbiamo finito”.
Era strano, il suo tono di voce era strano. Ramona continuava a tenergli la mano ed Acilia capì che se Lyuben Vladimir era preoccupato, la situazione era davvero grave.
 
 
Roma, 118
 
Gli occhi dell’umano erano piccoli e scuri. La pupilla si era dilatata tantissimo ma Acilia non poteva vederci il suo riflesso dentro.
“Vieni con me” disse, concentrata.
L’ometto, basso e un po’ tozzo, annuì docilmente. La guardava come se fosse innamorato di lei.
Acilia lo condusse via dalla strada e raggiunse un prato deserto. Sapeva che Marcus era dietro uno di quegli alberi e la osservava. Gli aveva chiesto di intervenire. Se lei non ci fosse ancora riuscita, lui sarebbe dovuto intervenire.
Toccò delicatamente la guancia dell’uomo, sforzandosi di sorridere. Scappa, gli avrebbe voluto dire, fuggi da me.
Aprì la bocca e i canini si allungarono. Li sentiva pungere il suo labbro inferiore. Li odiava, ma il sangue la stava inebriando e non sapeva più se sarebbe riuscita a controllarsi.
L’uomo aprì la bocca in una O, lievemente sorpreso, e Acilia gli sussurrò all’orecchio: “Non sentirai niente”. Poi azzannò il suo collo, lì dove vedeva la sua vena più grossa e il sangue cominciò a scorrerle, delizioso, sulla lingua, mentre sentiva l’umano lanciare basse esclamazioni moderate.
Tu non sei Aci!
Non era di Manlio, quello non era il sangue di Manlio, non lo era…
Cosa vuoi fare… Mostro! Cosa vuoi fare?!
Non aveva il collo di Manlio tra le mani, non era la sua pelle. Non era lui perché l’aveva già ucciso. Il suo terribile volto cinereo la guardava sempre quando chiudeva gli occhi. La verità era che lei non voleva morire per  non doverlo affrontare nel mondo dei morti, per non dover affrontare il suo sguardo mortificato, la sua rabbia o la sua tristezza. La sua domanda: Perché l’hai fatto?
Perché l’ha fatto? Perché lo stava facendo ancora e ancora?
Eppure la sua tristezza non si trasformava in pietà ma in rabbia e succhiava tutto il sangue che riusciva a trovarsi, voleva sentirsi sazia, trovare pace, voleva…
“Aci, ascolta il battito”.
Smettila, si disse avvertendo Marcus vicino a sé, devi concentrarti.
Per chi? Per cosa?!
Non voglio più vedere Manlio…
Il battito dell’uomo era diminuito parecchio. Suonava lento, come una triste canzone rassegnata.
“Lo senti?”.
Sì, era il momento, doveva fermarsi.
“Aci, fermati”.
Doveva fermarsi!
Manlio la guardava con gli occhi colmi d’orrore.
Si staccò dal collo dell’uomo quasi annaspando. Sentiva il sangue colarle sul labbro e sul mento.
“Mantieni il contatto visivo” diceva la voce di Marcus.
Acilia, trafelata, cercò gli occhi dell’umano. Lui aveva ancora lo sguardo incantato, con una mano accarezzava i due buchi sul collo.
Marcus, soddisfatto, le passò una ciotola piena di vino e aceto e lei vi intinse un pezzo di tela. Respirando con calma e continuando a rassicurare l’uomo con sguardo sicuro lavò la ferita che lui aveva sul collo.
Guardava i suoi occhi. Ora doveva lasciarlo andare. Era una strana sensazione non vederlo cadere morto ai suoi piedi, come Manlio…
Aveva di nuovo voglia di urlare ma quella volta si trattenne. Sentiva per la prima volta qualcosa di vagamente bello dentro di sé. Marcus aveva ragione, imparare controllare la sua sete l’avrebbe aiutata a non impazzire.
“Ti coprirai la ferita” disse lei “Ora vai, e non voltarti indietro”.
L’uomo obbedì e si voltò. Prese a camminare e non si girò mai indietro. Acilia e Marcus fuggirono in fretta, tenendosi per mano, prima che l’uomo si svegliasse dall’incanto.
 
 
“Vuoi ancora del succo?”
“Sì, grazie”.
Lydia versò in due bicchieri del succo d’arancia rossa e poggiò il cartoccio sul tavolo. Si sedette sullo sgabello e portò il bicchiere alla bocca.
Bevve, poi puntò uno sguardo curioso sulla sua amica.
Emily ricambiò con un’espressione sconcertata. Bevve un sorso anche lei ma quando il succo raggiunse le sue labbra ebbe un sussulto involontario. In quel momento aveva la bocca sporca di liquido rosso. Si pulì velocemente con la lingua, col rosso vivido nella mente. Jacque doveva averle spesso, le labbra sporche di rosso. La cosa di solito la spaventava ma a volte inspiegabilmente la eccitava, e questo forse la spaventava ancora di più.
Lydia aveva ancora quello sguardo curiosa.
“Stai bene, Emi? Sei un po’ strana ultimamente”.
“Io? Strana? Perché?”.
L’amica si mise a ridere. “C’entra un uomo?”.
Emily si sentì arrossire. Maledetto rosso!
“Macché, magari” disse, sperando di apparire convincente “Un po’ di caos a lavoro”.
“Beh, almeno non hai più scritto articoli provocatori” la punzecchiò Lydia.
Emily cercò di apparire disinvolta ma aveva voglia di mandarla al diavolo.
“Ehi, lo sai che io ammiro sempre chi va fuori dagli schemi” disse l’altra “Hai fatto una cosa interessante, hai adottato un altro punto di vista”.
“Già” bofonchiò Emily nel bicchiere.
Lydia era sua amica dai tempi delle superiori e avevano frequentato lo stesso corso di studi all’università. Amante dei libri – ancora più di Emily – Lydia era la più intelligente del loro anno e il suo sogno era quello di fare l’insegnante di letteratura inglese. Non avrebbe mai avuto il tipico aspetto da professoressa però, con la sua corporatura snella e slanciata e i suoi biondi capelli ondosi. Emily sospirò piano. E si chiedeva pure come facesse a essere fidanzata con lo stesso uomo da cinque anni.
“E il tirocinio come va?” chiese, per sviare il discorso vampiresco.
Lydia fece spallucce. “Ci sono studenti terribili. Parlottano continuamente tra loro, e il bello è che la professoressa non interviene per farli tacere! Credo che i professori in realtà odino i tirocinanti, e dire che devono esserci passati anche loro” commentò, lugubre.
Emily rise. “La gente dimentica, tesoro. Sei stata anche tu studentessa ma non mi pare che tu ami gli studenti!”.
L’amica sbuffò, con sguardo divertito. “Tu non me la racconti giusta” disse poi, con un sorrisetto preoccupante “Perché non mi vuoi dire che ti vedi con uno?”.
“Eh?”. Emily rimase spiazzata.
“Sam ti ha vista! A due isolati da qua, con un ragazzo, su una panchina!”.
Maledetto Sam. E perché tutta quell’enfasi sulla parola “panchina”? La panchina è la cosa più innocente che ci possa essere, cosa puoi fare su una panchina?
“Che cavolo vuol dire ‘su una panchina’?” sbottò Emily.
“Con gli amici si va al bar, si va a ballare… su una panchina ci stai col fidanzato”.
“Ah sì?”.
Davvero, a volte si vedeva che Lydia e Sam stessero insieme da cinque anni. Ad ogni modo, Sam era un maledetto impiccione. Cavolo, era diventato più pettegolo di una donna.
“Beh, era un amico… Jack” sparò Emily.
Lydia incrociò le braccia. “Non hai amici che si chiamano Jack” ribatté “E’ uno che hai conosciuto da poco? Vi state frequentando?”.
Emily cominciava a sentirsi a disagio. Non doveva succedere, non doveva succedere! Non avrebbe potuto dire niente di Jacque!
“Beh… Più o meno…” pigolò “Ma che ti ha detto Sam?”. Aveva notato il pallore? Gli occhi rossi? Uno schizzo di sangue?
Accidenti, stava proprio andando in paranoia.
“Niente” fece Lydia, scrollando le spalle. “Beh” disse poi, esitando “ha detto che sembrava… molto giovane”.
Oh, se solo sapessi.
Emily avvampò. Faceva pure la figura della pedofila.
“Sì, dimostra meno anni di quelli che ha” disse subito.
Molti meno.
Lydia annuì ma sembrava in attesa di altre spiegazioni. Emily decise di dargliene, dopotutto non poteva certo destare sospetti. Se avesse saputo, Lydia non l’avrebbe mai denunciata – ne era sicura – ma Emily non sopportava l’idea di metterla in pericolo. Le alternative erano due dopotutto: o il carcere o un bel morsetto poco amichevole.
Cercò di apparire naturale. Doveva smetterla di sentirsi a disagio, lo sapeva che avrebbe dovuto inventare bugie, lo sapeva che, con Jacque al suo fianco, non sarebbe stata una cosa facile!
“Ha ventiquattro anni e l’ho conosciuto… in un pub”.
Lydia sorrise. “Accidenti, Emi, ti sei data a quelli più piccoli! Cosa fa?”.
Piccolissimi.
“Ehm… niente. Si è laureato da poco e sta cercando lavoro”.
“In cosa?”.
“Lingue” sparò Emily, pensando che Jacque/Jack conosceva bene il francese e il tedesco.
Lydia era poco convinta. “Non mi sembra che ti vada di parlare di lui… C’è qualcosa che non va?”.
Emily sospirò. In realtà aveva una gran voglia di confidarsi e di chiedere aiuto, solo che non poteva farlo.
“Ci stiamo solo frequentando… Non so se funzionerà”.
Mezza bugia. Loro praticamente stavano insieme, anche se non alla luce del giorno, ma che non avrebbe funzionato era evidente. Si era ripromessa di vivere il presente, e così avrebbe fatto.
Sembra… molto giovane.
Era un ragazzino e sarebbe rimasto tale. Lei invece aveva quasi trent’anni, la differenza d’età sarebbe stata sempre evidente. Le sarebbe piaciuto stare con un ventenne? Non cercava l’uomo maturo?
Jacque è maturo eccome…
Non doveva pensarci, perché tanto non sarebbero stati insieme a lungo. La cosa le dispiaceva e pensava che avrebbe davvero voluto che Jacque, con la sua persona e il suo carattere, fosse Jack, un ragazzo di ventiquattro anni laureato in lingue. Con Jack avrebbe potuto lasciarsi andare a sogni e desideri. Avrebbe potuto pensare che era lui l’uomo della sua vita.
Guardò Lydia che la stava fissando dispiaciuta. Già conviveva con Sam, ancora un po’ e si sarebbero sposati. Mentre lei andava dietro a un vampiro, senza alcun senso.
Proprio perché la vita è una sola sei libera di sprecarla come e con chi vuoi. Non farti condizionare da quello che fanno gli altri, chiaro?
Emily si mordicchiò il labbro. Jacque aveva ragione. Non stava scritto da nessuna parte che una ragazza di ventisette anni dovesse essere già sistemata.
“Dai, non essere troppo pessimista, non si può mai sapere!” disse Lydia interrompendo il flusso dei suoi pensieri “Comunque… E’ su Facebook? Me lo fai vedere?”.
Emily sbarrò gli occhi. Facebook era una maledizione, altroché una rivoluzione!
“Ehm… no, non c’è”.
Probabilmente Jacque neanche sapeva cosa fosse, Facebook.
 
 
Una strana fitta al cuore la svegliò.
Si ritrovò a gridare, senza sapere perché. Come poteva il suo cuore provare dolore? Non era morto il suo cuore?
Provava una strana sensazione. Un tremito, la consapevolezza che non avrebbe dovuto essere lì. Ma era giorno, dove altro avrebbe dovuto essere?
Se chiudeva degli occhi vedeva delle tombe.
Perché aveva addosso questa sensazione di morte?
Perché sei morta, non giocare a fare la viva.
Vedeva bene una galleria davanti a sé, un muro di tufo… Era tutto illuminato di quel giallo che ricordava essere la luce del sole.
Non posso uscire, pensò. Sarebbe bruciata, e non voleva abbandonare Marcus.
Marcus…
Il petto continuava a farle male, ma dopo un po’ smise.
Dormi, si ordinò.
Chiuse gli occhi, nell’oscurità della sua cassa di legno. Affianco alla sua, dentro la terra, c’era quella di Marcus. Si strinse, sentendolo vicino al cuore.
Marcus…
Quel nome la pungeva, di nuovo il petto le faceva male. Voleva uscire. Doveva andare all’entrata delle catacombe.
Perché?!
Senza capire, si assopì di nuovo nel suo sonno di morte, ignorando il male che sembrava stranamente dipanarsi nel suo corpo.
Il sole calò e lei si svegliò di nuovo. Precipitosamente, senza neanche rendersene conto, si scagliò fuori dalla sua bara e scavò nella terra fino a raggiungere la superficie. La notte era sua, e finalmente era arrivata.
Il prato, la galleria, Marcus.
Guardò alla sua destra e vide il terriccio perfetto, intatto, senza buche. Si guardò intorno, spaventata. Possibile che Marcus non fosse andato sotto terra all’alba?
Catacombe.
I suoi piedi la spinsero fino al posto in cui aveva preso coscienza della sua esistenza da mostro. Cominciava a capire la sensazione che sentiva. Un presagio di morte? La consapevolezza che Marcus fosse lì? Ma cosa, cosa ci faceva lì?!
La morte…
“Marcus!” chiamò, guardandosi intorno. Il panico dentro di lei cresceva, mentre i sandali ciabattavano sul terreno, violentemente, e la galleria delle catacombe si faceva più visibile. Dov’era Marcus?
Girò la testa a destra e a manca più volte, e finalmente lo vide. Il dolore al petto si allentò mentre lei si avvicinava, e poi si inginocchiava, attonita, davanti a un mucchio di cenere.
Il suo cuore sapeva chi era quella cenere. Forse era perché gli voleva davvero bene, dopo tutti quegli anni, o era il sangue di lui, che le scorreva nelle vene, a dirglielo.
Alzò una mano tremante e coi polpastrelli sfiorò la cenere.
“Marcus” fece, con voce innaturalmente spezzata.
Ritirò la mano, con le dita sporche di polvere. La sentiva, sporca e brutta, appiccicata alla mano. Le faceva un male terribile.
“Perché l’hai fatto” fiatò, con lo sguardo fisso sul suo maestro ridotto a polvere “Perché l’hai fatto!”.
L’aveva creata, addestrata, aveva raggiunto il suo scopo? Ora, dopo averle detto che le voleva bene, dopo averle detto che loro potevano vivere, se ne andava così? L’abbandonava?!
L’odio cominciò a scorrerle nelle vene insieme al sangue che ribolliva. Buttò le mani sulla cenere e lanciò tutto all’aria, digrignando i denti e gemendo. Tutto il residuo di Marcus le cadde addosso e lei gridò, lasciandosi cadere a terra. Spalancò gli occhi e vide dietro la sua testa l’entrata delle catacombe.
Perché sei morta, non giocare a fare la viva.
Morto, era tutto morto, davvero morto. Era morta lei, era morto Manlio, era morto Marcus… Ma Marcus, solo Marcus aveva avuto scelta! E l’aveva abbandonata...
La testa le doleva, il cuore si stava accartocciando, il sangue zampava, i denti scalpitavano. Li sentì crescere, lunghi e affilati, cercavano vendetta, vendetta per tutti quegli insegnamenti che non valevano niente, che valevano polvere.












Non era previsto che Marcus facesse la tanto attesa comparsa in questo capitolo quindi il capitolo è un po' improvvisato.. XD e sono venuti tre livelli di tempo, spero sia convincente lo stesso!  

Sara, le palle da discoteca che brillano al sole mi ha fatto troppo ridere XD anche Dubris che la sa lunga XD vedo che è piaciuto molto in generale il confronto Acilia-Emily, non poteva mancare effettivamente.. E Kaeso, speravo risultasse più carismatico però.. beh, quello che dice lo rende un po' difficile XD
RedTears, che , crudele, mi smonta la povera Emily XD e mi prende in giro anche il "cucciolotto Dubris".. Almeno vedo una bella opinione per il Signor Lyuben! E anche Kaeso vedo che nonostante tutto affascina! :D
Nene, beh i nomi Marcus e Lucius si possono trovare anche nel Medioevo ma non è questo il caso..  Sono entrambi del primo secolo e, se ricordi, hanno avuto un ruolo importante nella trasformazione di Aci ;) ahahaha Acilia mamma isterica XD no dai, non ha fatto scenate XD Per la questione politica, no, non mi sono ispirata a niente.. A parte che è PPC, comunque non c'entrano i comunisti XD E Kaeso.. al massimo lo vedo vagamente come un Hitler..hai ragione, ci mancano solo gli umani da compagnia XD
(alla tua recensione al prologo ho risposto con un messaggio!)
Norine, bene bene vedo che piacciono Eike e Lyuben XD e anche la scena Emily-Acilia.. certo che sei perdonabile, basta che commenti anche questo capitolo ;)

Alcune di voi hanno pensato che, dato che siamo in Francia, a breve ci sarà la storia di Jacque.. Beh, sì, siamo in Francia ma siamo ancora nel quindicesimo secolo, aspetterete ancora un bel po'  :P
Baci!

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Capitolo 14
*** Scegliere ***


Tredicesimo capitolo
CAPITOLO XIII
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Firenze, 1487


Quella sera pioveva e la loro vista, per quanto fosse perfetta, ne era infastidita. Firenze era una grande città, la patria della cultura, della letteratura e della pace. Un gran signore era al governo, dicevano, il più buono e il più cattivo allo stesso tempo, una figura ambigua, pacifica ma tremendamente vendicativa.
Le cose erano cambiate nella sua terra, pensava Acilia. Dove una volta c’era l’Impero c’erano stati i comuni e c’erano ora le signorie. Le città erano vicine ma così abissalmente lontane. La sua Roma, che Acilia sentiva più vicina che mai, era sotto uno Stato che chiamavano Stato della Chiesa e lei non capiva che differenza ci fosse con una signoria.
Le gocce d’acque le colpivano la pelle, erano gocce calde e correvano via, mescolandosi al sangue.
Dicevano che Lucius si faceva chiamare Lucio e che risiedeva in un castello in cima a un colle. I cavalieri della morte che avevano incontrato in quei luoghi dicevano che Lucius avesse ucciso la famiglia dei baroni padroni del castello, e anche tutti i servi, tranne una fanciulla, e nessuno osava immaginare cosa ne facesse.
Acilia riemerse dal braccio di un brav’uomo e si pulì la bocca. La pioggia presto spazzò via il sangue e lei lasciò andare via l’uomo nella foschia. Sentiva vicino a sé i suoi compagni che si nutrivano. Dovevano essere in forze, per poter combattere Lucius.
Un grido lamentoso le arrivò alle orecchie e lei si voltò. Ramona teneva un ragazzo cinereo tra le braccia, con sguardo mortificato.
“L’ho ucciso” biascicò con voce vibrante, col sangue che ancora aveva in bocca. La donna tremava e sembrava aver perso ogni spirito combattivo. Era nervosa, ed essere nervosi non aiutava quando dovevano cibarsi.
Dubris si affrettò ad andarle vicino per darle sostegno.
Un altro corpo morto cadde a terra in una pozza di pioggia e sangue, davanti al volto colpevole di Fernand.
“State calmi” tuonò tranquilla la voce di Lyuben “Non agitatevi. Se non ve la sentite di combattere, nessuno vi obbligherà a farlo”.
Negli anni avevano trovato altri cavalieri della morte. Alcuni di loro volevano unirsi nella lotta contro Lucius perché volevano il potere, ma di seguire la loro linea di sopravvivenza non ne avevano nessuna voglia, allora, mentre Acilia li avrebbe volentieri usati per un po’ di addestramento, Lyuben li aveva gentilmente congedati. Quelli che invece avevano approvato il loro programma erano lì con loro. Erano poco più di una decina, non erano molti, ma contavano molto sul fattore sorpresa. E il più vecchio di loro aveva pressappoco l’età di Lucius, mentre gli altri avevano un’età compresa tra quella di Mathias e quella di Acilia.
“Io non voglio che Ramona combatta” dichiarò Dubris “E’ troppo giovane”.
“Dubris, ne abbiamo già parlato”ribatté lei, con di nuovo una lieve vitalità nel volto.
L’altro però non dava l’impressione di voler cedere. “Sono il tuo creatore e mi devi obbedire”.
Ramona lo guardò con odio. “Non sei mica mio padre!” gridò.
Dubris parve enormemente ferito e Acilia lo sapeva, per quanto fosse incredibile, lo sapeva come ci si sentiva. Lui aprì la bocca più volte, finché non recuperò l’uso della parola. “Tutto questo per te vuol dire morte certa! Possibile che non lo capisci?!”. La salvezza di Ramona, lui la considerava più importante, del suo orgoglio ferito.
“Voglio essere utile!” gridò di rimando Ramona “E se devo morire Dio solo lo sa”.
“Anche se Dio esistesse, ti pare che abbia la più minima considerazione di noi?”.
“Oh insomma” intervenne Victoire, seccata “Lascia che sia lei a decidere no?”.
Dubris guardò Lyuben, esasperato.“Qui tutti ascoltano solo te!” sbottò, pieno di disapprovazione“Impedisciglielo tu, per favore… Lo sai anche tu che morirebbe!”.
Lyuben aveva un’espressione comprensiva. “Non posso imporre niente a nessuno, Dubris. Ramona farà quello che si sente”. Guardò Dubris, che già era pronto a ribattere, dritto negli occhi: “Ma ti prometto che cercherò in tutti i modi di tenerla in vita”.
Ramona trasalì visibilmente e al suo creatore si dipinse in faccia un’espressione sorpresa.
“E’ improbabile che ci sia qualcuno di più vecchio e più forte di me” continuò Lyuben, con tutta la modestia che una frase del genere poteva avere “Cercherò di proteggere tutti i più giovani”.
Nessuno ebbe da ribattere e Acilia si chiese come facesse Lyuben ad essere così sicuro di sé. Come faceva a sapere di essere il più vecchio di tutti? Da dove veniva? Chi l’aveva creato?
Lui sembrava così distante e così diverso da loro, e lei non gli aveva mai chiesto niente.
Dubris aveva uno sguardo assorto e poco felice e Acilia gli si avvicinò. Senza che gli chiedesse niente, lui borbottò, pieno di rabbia: “E’ mia figlia. Sono io che devo proteggerla, e non lo farei certo mandandola a morire”.
Acilia gli prese un braccio e notò che lui aveva il volto fisso su Ramona, che non staccava gli occhi da Lyuben.
Io non l’abbandonerei…”.
“Dubris” fece Acilia, tirandogli il braccio “Non la stai abbandonando. Sei un bravissimo creatore”. Aveva improvvisamente voglia di piangere. Dubris non aveva avuto un creatore modello come Marcus, era cresciuto da solo, senza aiuti. Eppure con Ramona non aveva mai sbagliato nulla.
“Andiamo allora?” fece Mathias, lasciando trapelare una nota di irritazione che probabilmente era agitazione.
Dubris aveva ancora la mascella contratta ma non disse nulla.
“Andiamo” disse Lyuben.
Tutti si misero a camminare in silenzio, sotto lo scrosciare della pioggia, come in una sorta di marcia funebre. Solo che non stavano accompagnando nessun morto, i morti erano loro.
La terra si stava inclinando e loro andavano sempre più in alto.
Fortunatamente, con quel tempo, poca gente era in giro. Qualcuno si limitava ad ignorarli, altri li guardavano straniti perché, dopotutto, erano una bizzarra compagnia di persone pallide che non lavoravano, ma che passeggiavano tra la pioggia, con le loro espressioni fredde e serie e con paletti o bastoni di legno in mano.
Era tremendamente noioso camminare come un essere umano, ad Acilia sembrava di camminare da ore. Ma poi scorse finalmente la pietra grigia del castello e la colse una stretta allo stomaco. Le cose non andavano male. Se fosse riuscita ad uccidere Lucius, avrebbe avuto il potere e avrebbe potuto fare qualcosa di utile per il mondo. Se, al contrario, fosse rimasta uccisa lei, beh, non doveva più preoccuparsi di niente.
Manlio…
Miguel…
Morire però ancora le faceva una paura immensa. Non sapeva cosa ci fosse dopo la morte, la vera morte. Secondo Ramona, avrebbe rivisto tutti i suoi cari ed era una cosa che Acilia voleva assolutamente evitare.
C’era un fossato intorno al castello. Tutti si affrettarono a nascondere le armi e Acilia, guardandosi prima intorno, spiccò il volo e arrivò fino al portone. Bussò con convinzione, ignorando la tensione che si era creata sia nel gruppo sia dentro di lei.
Planò a terra e con uno sguardo fugace vide che Lyuben e Ramona si tenevano per mano.
Poi il ponte levatoio si abbassò e volarono verso di loro tre cavalieri della morte con sguardi arcigni.
“Che cosa volete?” chiese uno di loro, sgarbatamente.
“Chiedo udienza al Superiore Lucio” disse Acilia, a voce alta, avvicinandosi a loro.
I tre si guardarono, poi quello che di loro aveva parlato disse, indicando la compagnia di Acilia: “E loro?”.
“Loro sono miei accompagnatori”rispose lei, tranquilla “Mi aspetteranno qui”.
Doveva arrivare a Lucius, intrattenerlo, mentre gli altri avrebbero fatto piazza pulita nel castello, per poi raggiungerla. Poi sarebbe stata lei, lei,per diventare Superiore e per gridare vendetta, a uccidere Lucius.
Sperava tanto che andasse tutto per il meglio.
I tre tipi avevano un’aria stupida. Dopo qualche attimo si decisero a farla passare. Uno di loro, basso e con la barba, si avvicinò a lei.
“Ti accompagno”.
Acilia si mordicchiò il labbro.
Uno in più da fare fuori.
Lo seguì dentro al castello, su per le scale, lungo un corridoio stretto. Il pavimento e le pareti sembravano pregiate. Lungo i muri c’era un tunnel di quadri che sembravano rappresentare persone importanti. Acilia ricordò per un momento quelli che lei stessa aveva nella sua casa romana. Tanti quadri che per lei non avevano nessun significato…
Lo scagnozzo di Lucius bussò a una porta e Acilia si preparò mentalmente.
Non sapeva come sarebbe stato rivederlo dopo tutti quegli anni. Non ricordava quasi nulla del suo viso, a parte gli occhi, neri ed ipnotici, che l’avevano catturata in un mare d’oscurità, e non l’avevano mai più lasciata andare.
“Avanti” fece una voce.
Come ti chiami?
La sua voce era più melodiosa allora… Certo, perché lei era sotto incanto…
L’uomo che era con lei aprì la porta ed entrambi entrarono.
Seduto su un trono pacchiano stava un uomo dalla corporatura esile, con lunghi capelli scuri e il naso dritto ed Acilia ricordò improvvisamente ogni tratto del suo viso.
Lucius, senza l’ombra di un sorriso, si alzò in piedi di scatto e lei si sentì letteralmente raggelare il sangue nelle vene.


Eike stava facendo zapping di malavoglia, lo sguardo incollato al televisore.

Fece un sorriso quando capitò nel suo programma preferito. Era uno show stupidissimo di nome Mi è sembrato di vedere un vampiro! ed ad Eike faceva un sacco ridere.
La signora intervistata quella sera era molto anziana.
“Così lei sostiene di aver visto un vampiro a Preston?” stava dicendo il presentatore, un uomo tutto sorrisi, che immancabilmente rivolgeva uno sguardo ammiccante verso la telecamera.
“Sì, io l’ho visto!” rispose la signora con convinzione e la mascella tremolante.
“E com’era?”.
“Era brutto! Peloso… Volava! Ed era… piccolo”. La signora stava entrando visibilmente in confusione.
Il presentatore fece un enorme sorriso alla telecamera. “Signora, non è che lei ha visto un pipistrello?”.
Eike scoppiò a ridere.
Si voltò verso destra, per vedere se il programma faceva sorridere anche Acilia. Ma lei era acciambellata comodamente sul divano, con uno dei suoi soliti libri in mano, e la tv non sembrava neanche sentirla.
“Eh… Proprio un’altra generazione”sospirò Eike, tornando a guardare la vecchia piena di rughe in televisione.
Acilia era tornata da Arcangelo da due giorni, ed era a dir poco funerea. Le cose non dovevano andare un granché bene, lassù ai piani alti. E neanche in casa, a pensarci bene. Dopotutto Jacque ed Emily erano al piano di sopra.
Socchiuse gli occhi, cercando di non lasciarsi andare alla tristezza. Tutto quello che poteva fare lui era ridere. Non avrebbe mai potuto trovare una ragazza da portare al piano di sopra come Jacque. Avrebbe potuto trovare… una bambina? Una vampira piccola, trasformata come lui da ragazzina?
Ma non avrebbe le tette, pensò Eike, serio.
“Ma signora… Non sa che è stato dimostrato che i vampiri non possono trasformarsi in pipistrelli? Loro sono uguali a noi, per questo è difficile riconoscerli”.
Qualcuno bussò alla porta ed Eike sbuffò. Adesso anche Acilia sarebbe andata al piano di sopra a spassarsela con Dubris.
“Col pelo no? Si riconoscono dal pelo”.
Acilia non sembrava intenzionata a smuoversi ed Eike sbuffò di nuovo, alzandosi dal divano e andando pigramente verso la porta.
Si preparò mentalmente ad incantare qualcuno. Se era qualche umano che controllava la casa, o semplicemente in vena di scherzi, bisognava subito mandarlo via.
Aprì la porta, aspettandosi di trovare in realtà Dubris. Perciò fu sorpreso quando si ritrovò davanti un individuo affascinante, molto alto e ben slanciato.
Questo non è un umano, né tantomeno Dubris.
“Salve” disse lo sconosciuto, tendendo la mano “Il mio nome è Kaeso, sono il segretario del Partito Oscuro”.
Eike, inibito, gli strinse la mano pensando a come dovesse comportarsi. Il PO era il nemico, giusto? Cos’era venuto a fare in casa loro? Era una spia?
Ma chi se ne frega, pensò poi, io neanche ho l’età per votare.
“E’ casa di Acilia questa? Posso entrare?” domandò cortesemente Kaeso.
Non erano informazioni riservate gli indirizzi di residenza? Eike era parecchio confuso.
Kaeso strinse gli occhi e lo studiò con attenzione. “Sei suo figlio?”.
“Nipote” biascicò Eike.
“Oh!”. Gli occhi di Kaeso si illuminarono e divennero, se possibile, ancor più blu. “Quindi ha messo su una vera e propria famigliola, che cosa carina”.
Il tono era decisamente sarcastico ma Eike pensò che ormai non poteva più mandarlo via.
“Aci!” esclamò, girando la testa all’indietro “C’è qui un tuo… un tuo…”. Che cavolo era Kaeso? Un collega?
Nemico andrà benissimo” disse l’altro, con un enorme sorriso. Assomigliava un po’ al presentatore televisivo. Inquietante.
Eike non fece in tempo a dire niente che subito era apparsa Acilia al suo fianco.
“Eike, torna dentro” ordinò lei.
Kaeso si bagnò le labbra, meditabondo. “Sempre dietro a dare ordini, non è vero Aci?”.
Eike lasciò scivolare uno sguardo curioso dall’uno all’altra. Il capo del PO e quello del PPC a confronto? E chi se la perdeva quella scena?
“Eike” ripeté Acilia, adirata.
“Non mi inviti ad entrare?”s’intromise Kaeso “Pensavo che i vampiri buoniconoscessero anche le buone maniere”.
Acilia aveva tutta l’aria di volerlo cacciare fuori a pedate.
Anche quella non sarebbe stata male come scena.
“Guarda che è meno rischioso se parliamo dentro” disse Kaeso, tranquillo. Poi si guardò intorno, con aria perplessa. “Questa casa non era disabitata da anni?”.
Acilia si spostò di lato, freddamente, e Kaeso, con un piccolo inchino, scivolò dentro casa.
Subito la sua attenzione fu catturata dalla televisione e dalla voce della signora che ancora tentava di convincere il presentatore di aver visto un vampiro in carne ed ossa.
“Questo programma è spassosissimo”disse, sorridendo “Uno dei miei preferiti”.
Eike si illuminò. “Hai visto la puntata in cui un tizio dichiarava di essere stato morso da un vampiro e in realtà era stato punto da un’ape?”.
“Certamente. E quella in cui una donna ha sostenuto di essere andata a letto con trentaquattro vampiri?”.
“Oh sì! Quella penso che l’abbiano internata…”.
“Io ero tra quei trentaquattro”.
“Kaeso” tuonò la voce di Acilia, alterata.
“Oh, Aci, stavo solo scherzando, se fossi stato tra quei trentaquattro lei non sarebbe stata in grado di raccontarlo…”
“Cosa ci sei venuto a fare a casa mia?” disse bruscamente lei, ignorandolo “Sono appena tornata da Arcangelo, se avevi qualcosa da dirmi potevi benissimo…”.
“Mi sono trasferito” la interruppe lui, passandosi una mano tra i corti capelli neri “Adesso sto qui in Inghilterra”. Allargò la bocca in un sorriso, un sorriso che però non riusciva a raggiungere gli occhi. “Ho pensato potesse essere divertente”.
Acilia si era impietrita. Poi, stringendo le labbra, gli fece cenno di seguirlo nella stanza adibita alla cucina. Una volta che furono dentro entrambi la porta venne chiuse ed Eike sbuffò.
Subito si appostò dietro la porta.
“Vede, signora, i vampiri sono molto pallidi, hanno gli occhi rossi e le zanne…”.
“E io che ho detto?”.
Eike imprecò correndo verso il telecomando. Subito abbassò il volume e tornò dietro la porta, poggiando il telecomando per terra.
“Qual è esattamente il tuo piano?”stava dicendo Acilia.
“Mi sembra di aver già fatto un discorso in proposito, e tu c’eri”.
“E come pensi di ottenerlo?”.
La voce di Kaeso si fece impercettibile ed Eike spinse con vigore l’orecchio contro la porta. E meno male che i vampiri avevano i sensi molto più sviluppati degli umani.
“Me la vuoi far pagare, non è vero?”fece Acilia in un bisbiglio agitato.
Anche Kaeso sussurrò, ed era quasi dolce. “Oh no, come potrei?”.
Eike aggrottò la fronte. Perché Acilia e quel Kaeso sembravano così in confidenza? Acilia non era più in politica da molti anni. Kaeso diventa il capo del PO e lei torna a essere membro della Rappresentanza… E ora lui veniva a casa loro! Non poteva essere…Non poteva certo essere…
Sentì dei passi ed Eike si allontanò d’istinto dalla porta.
“Cosa fai lì?” fece la voce di Jacque ed Eike si voltò. Jacque ed Emily erano appena scesi dalle scale.
“Oh, niente” bofonchiò lui.
“Accompagno Emily a casa” disse Jacque, mentre Emily si guardava nervosamente intorno. “Ehm... ragazzi, la luce vi fa proprio schifo eh?”.
“Oh, le candele!” esclamò Eike “Mi dispiace, quando siete andati su le ho spente tutte. Mi davano fastidio”.
Emily fece un gesto noncurante con la mano. “Non fa niente, almeno c’è la luce della televisione…”.
“Ma ti rovinerai la vista” osservò Jacque, guardando torvo Eike.
“Mi sto rovinando anche il fisico se è per questo, a forza di fare questi… che ore sono?” fece Emily, strizzando gli occhi cercando di guardare il suo orologio.
“Le tre e mezza, più o meno”rispose prontamente Eike. Sapeva che Mi è sembrato di vedere un vampiro iniziava intorno alle tre.
“Oh cavolo” mugolò Emily “Tra meno di quattro ore mi devo alzare per andare a lavorare”.
“Il tempo passa in fretta quando ci si diverte eh?” fece Jacque, avvicinandosi a lei e sorridendole. Le si cancellò subito l’espressione corrucciata dal viso.
Eike fece una smorfia. Se fosse stato un umano avrebbe potuto dire: Ho voglia di vomitare.
La porta della cucina si aprì all’improvviso e tutti e tre sobbalzarono.
L’espressione di Acilia si allarmò mentre Kaeso inspirava l’aria a pieni polmoni.
Fece per avanzare verso Emily e Jacque le si parò davanti, con le zanne in fuori. Emily si portò una mano alla bocca e indietreggiò, senza emettere un suono.
Kaeso squadrò Jacque, senza dare segno di essere minimamente impressionato. “Mi ricordo di voi due… Siete gli innamorati sventurati che si sono presentati davanti a noi lo scorso mese” disse, melenso.
Jacque non si spostò di un centimetro.
“Ma voi non vi ricordate di me, certo, siamo talmente tanti nella Rappresentanza”. Le labbra di Kaeso si piegarono in un sorriso malvagio. “Troppia dire la verità, sei d’accordo, Aci?”.
Acilia non rispose e Kaeso si rivolse ad Emily, che lo guardava con’espressione intimorita. “Sono uno di quelli che ha votato per la tua trasformazione” disse, dolcemente.
“Secondo la legge numero ventisette chi fa il patto del sangue…” cominciò Acilia, in allarme.
“Non può essere toccato” completò Kaeso, guardandola “Grazie, Aci, conosco la legge, se no non sarei il segretario di un partito”.
Si voltò nuovamente verso i due.“Ma tu, Jacque… Dico bene? Tu la tocchi?” chiese, stringendo gli occhi con fare curioso.
Eike trattenne a stento una risata.
Jacque lanciò uno sguardo confuso verso Acilia e Kaeso inalò di nuovo il profumo che proveniva da Emily, con aria deliziata. “Se mai io andassi al potere” disse “Lo eliminerei il patto del sangue, non esisterebbero” e guardò fisso Emily “umani intoccabili”.
Eike d’un tratto avvertì una bruttissima tensione e per un momento pensò che Kaeso tirasse fuori le zanne e si scagliasse su Emily e Jacque.
Ma poi Kaeso scrollò le spalle e si mise a ridere. “E chi non sogna di andare al potere un giorno? Lasciatemi sognare un po’”. Poi tese la mano ad Acilia, con una formalità che colse Eike di sorpresa. “Ora devo andare, grazie per avermi ricevuto”.
Lo sguardo glaciale e pieno di disgusto di Acilia fece capire ad Eike che quelle cose che aveva pensato poco prima erano solo cretinate. Non poteva essere vero nemmeno in un altro mondo, Acilia non aveva a che fare col Partito Oscuro!
Dopo che Kaeso se ne fu andato il silenzio piombò nella casa, ma durò qualche attimo, prima che Jacque sbottasse, guardando Acilia: “Cosa ci faceva quello in casa nostra?”.
Eccoli, pensò Eike, deliziato, eccoli che litigano come marito e moglie, davanti ad Emily per di più.
“E’ il capo del PO” spiegò Acilia.
Jacque era allibito. “E che cosa voleva il capo del PO da te?!”.
“Minacciarmi” fece la sua creatrice, a occhi bassi. Sembrava triste, ma Jacque non si commosse neanche un po’. Anzi, avanzò verso di lei, con un’espressione rabbiosa. “Se essere membro della Rappresentanza comporta portare individui pericolosi a casa, ti puoi anche trasferire ad Arcangelo!” gridò.
Acilia aveva uno sguardo ferito, perso nel vuoto. Eike non l’aveva mai vista così. Sembrava una bambina che stava venendo rimproverata.
Eike guardò torvo il suo creatore. L’affetto per Emily gli stava dando alla testa, era ingiusto comportarsi così.
“Non sembrava pericoloso” disse, cercando di andare in aiuto di Acilia “Solo prepotente”.
“Per Emily sì che è pericoloso!”disse Jacque a denti stretti.
Emily sembrava terribilmente a disagio.
“Scusa, sai” esplose Acilia con voce tremante, guardando Jacque con occhi incendiati “Non l’ho invitato io qua Kaeso! Ma, dato che non ho il potere di prevedere chi verrà in casa per spaventarci, Emily forse non dovrebbe stare qui!”.
Eike guardò Jacque. Gli sembrava di seguire una partita di ping pong.
Il suo creatore ritirò le zanne, senza ammorbidire neanche un angolo del suo volto. “Andiamo” fece ad Emily.
Senza una parola e rossa in volto, la sua ragazza lo seguì ed entrambi uscirono.
Rimasto solo con un’Acilia fumante di rabbia, Eike ebbe il fortissimo desiderio di diventare minuscolo, invisibile.
“Io… Io non so proprio…” farfugliò lei, parlando da sola “Non so proprio cos’altro avrei potuto fare!”.
Eike la guardò. Era visibilmente agitata, ed era così strano vedere lei, sempre inflessibile e composta, così nervosa e arrabbiata. Era la gelosia che provava nei confronti di Jacque? O forse era per via di Kaeso?
E’ venuto davvero per minacciarti?
Acilia corse su per le scale ed Eike sentì una porta sbattere. Lui raccolse il telecomando da terra e alzò di nuovo il volume della televisione.
Il presentatore, palesemente stufo, stava ancora intervistando la vecchia.
“Comunque è questo che mi ha salvata!”stava dicendo lei, mostrando a tutti il crocefisso che portava al collo“Tenetene sempre uno attaccato alla vostra porta e i vampiri non potranno entrare!”.
Eike si buttò sul divano e disse in un soffio: “Oh, cara signora, magari bastasse così poco”.


Cadde morto ai suoi piedi.

Acilia aveva ancora le mani tese davanti a sé, che stringevano il nulla, incapace di realizzare quello che aveva appena fatto. Da quanto tempo era che non uccideva? La sua ultima vittima –perché era quello che era – era stata Jacque.
Fece un passo indietro, inorridita. La sua mente vorticò fino ai suoi primi anni di vita, quando uccidere la spaventava da morire. Si sentiva di nuovo così, di nuovo un mostro.
Cos’avrebbe detto Lyuben se l’avesse saputo? E Dubris? Ramona? Jacque?
Sarebbe stata arrestata, lo sapeva. Non avrebbe avuto importanza il fatto che era stata lei a fondare il PPC, lei a far sì che ora le cose andassero in quel modo.
Doveva allontanarsi subito da lì.
Ma cos’era successo? Non era riuscita a controllarsi. Aveva rabbia e fame, sentiva la sua mente schiacciata da una pressione fortissima che le impediva di concentrarsi. Possibile che ancora dopo duemila anni di vita provasse tutte queste emozioni?
E’ colpa sua, lo sai.
Non avrebbe dovuto tornare dentro alla Rappresentanza, lo sapeva fin dall’inizio! Ma Dubris l’aveva convinta… E poi c’era Jacque che… Cosa? Cosa c’entrava Jacque?! Perché le faceva così male il fatto che uscisse con Emily?
Camminò lontano dall’uomo che aveva appena ucciso in un angolo buio. La strada l’accolse, facce che, ignare di tutto, camminavano spensieratamente, assaporando l’aria di primavera. Non lo sapevano che presto per loro sarebbe stata la fine. Se Kaeso fosse riuscito ad andare davvero al potere… Per loro sarebbe stata la fine. Cosa voleva Kaeso da lei? Perché era venuto a vivere in Inghilterra, a trovarla a casa? La voleva tormentare, la voleva far impazzire per poi colpire. Perché lui era il suo nemico…
La risata di una bambina lì vicino la fece trasalire. Si voltò. La bambina teneva per mano suo padre e indicava una vetrina. Aveva i capelli scuri.
Tu non hai avuto figli.
Forse le sarebbe piaciuto, ad Acilia, avere un figlio. Non sarebbe stato come avere Jacque, il suo figlio di vampiro. Lo voleva provare un amore totalmente incondizionato e disinteressato…
Tu non puoi capire!
“Ci rincontriamo” disse una voce.
Lei si riscosse e spalancò gli occhi. Non era possibile, davanti a lei c’era ancora il tizio del bar! Quello dagli occhi grigi e tristi, quel maniaco che la cercava ogni sera…
Si guardò intorno. Il maledetto bar del loro incontro era proprio dall’altra parte della strada.
“Senta, mi lasci stare” sbottò Acilia. Non voleva far fuori un altro umano.
“La vedo turbata. Ha pianto?” fece lui, scrutandole il viso.
Acilia aveva voglia di ridergli in faccia.
Però era da molto tempo che qualcuno non la guardava così, con un vivo e sincero interesse sul volto. Forse l’ultimo era stato Jacque.
“No” rispose lei “E comunque non sono affari suoi”. Si sentiva vulnerabile, parlare con un umano alle otto di sera in una via affollata era pericoloso. Era così stanca di doversi nascondere…
“Dovrebbe rilassarsi, si prenda una cosa da bere con me, poi non la disturberò più”.
Non sembrava neanche male come proposta.
“Oh, mi perdoni, non mi sono mai neanche presentato” continuò lui, tendendole la mano. “Mi chiamo Curtis”.
Acilia evitò accuratamente di stringerla. “Emily” sparò.
Curtis la guardava speranzoso e lei fu tentata di seguirlo ovunque andasse. Era questa la vita degli umani? Incontrare gente per strada, fare amicizia, prendersi una cosa al bar? Oh, quanto le sarebbe piaciuto.
“Mi promette che dopo mi lascerà stare?” chiese.
Non farlo, si disse, lo sai quanto è pericoloso! Ma la voglia di tornare a casa e guardare in faccia Jacque era meno di zero. Poi forse sarebbe arrivato Dubris, a parlare di Kaeso, di cosa fare per fermarlo. E poi magari sarebbe arrivato Kaeso stesso, con altri discorsi intimidatori nazisti.
“Glielo prometto” disse Curtis, illuminandosi.
Non ci sarebbe veramente più voluta tornare a casa.
Lui avanzò con passo sicuro verso il bar e lei lo seguì, maledicendosi. L’ultima volta che aveva tentato di fare l’umana non era finita troppo bene.
Ma poi pensò a Jacque e a Kaeso, e concluse che anche fare la vampira ultimamente non era molto divertente.
Non ne poteva più, la sua mente galleggiava continuamente in un mare troppo inquinato di eventi e sentimenti, forse era per quello che il suo inconscio si era risvegliato dopo tanti secoli e lei era tornata a sognare. E nella morte vedeva lui…
Curtis si sedette a un tavolo per due e Acilia gli si sedette di fronte.
“Cosa prende?” le chiese.
“Acqua” rispose subito lei “Acqua naturale”. L’acqua era l’unica cosa che, per quanto disgustosa, riusciva a mandare giù senza che il suo corpo la rifiutasse.
Lui si alzò per andare verso il bancone e lei rimase sola, meditando di andarsene. Avrebbe dovuto farlo, subito. Non ci poteva credere che era dentro ad un bar in compagnia di un umano…
Alzati e vattene!
L’atmosfera di quel bar era intima e tranquillizzante. I tavolini erano tondi, di legno e attaccati alle pareti c’erano foto, poster, pezzi di giornali.
Anche il chiacchiericcio che sentiva era rassicurante. Vedere persone che parlavano, scherzavano davanti a un bicchiere era… era…
Non per me.
Curtis era tornato con in mano due bicchieri, uno di birra e uno di acqua.
Perché sarebbe dovuta tornare a casa ad affrontare discorsi e faccende complicate quando avrebbe potuto benissimo starsene lì a fare due futili chiacchiere?
L’uomo che aveva appena ucciso…Aveva ancora il suo sangue addosso… Tutte quelle persone che ora ridevano intorno a lei sarebbero potute morire se non avesse trovato il modo di fermare Kaeso… Non poteva continuare a fingere.
“Ti dispiace se ci diamo del tu?”fece la voce di Curtis.
“No, va bene” replicò Acilia.
Lo sguardo dell’uomo era accattivante. Non era chissà quale bellezza ma emanava un qualcosa di invitante, addirittura seducente. Il fascino dell’uomo maturo, che lei non aveva mai avuto.
“Emily” fece lui, dopo un sorso di birra “E’ un bel nome. Significa rivale”.
Acilia aggrottò la fronte. Un significato molto azzeccato.
“Hai imparato il significato di tutti i nomi femminili per rimorchiare?” chiese. Oddio, lo stava davvero facendo. Stava davvero flirtando.
Ricordò l’esperienza con Miguel, tutte le repliche fatte a Jacque e ora lei stava flirtando con un umano sconosciuto in un bar. Era ovvio che quella sera sarebbe stata l’unica loro sera.
Curtis sorrise. “No, solo dei nomi più carini”.
Acilia non sapeva più cosa dire. Aveva sempre considerato un’arte riuscire a condurre una conversazione con uno sconosciuto, e lei era da troppo tempo che non lo faceva.
“Cosa fai, Emily? Studi? Lavori?”.
Sono la fondatrice della politica vampiresca e capo del Patito Per la Convivenza.
“Lavoro” rispose lei “Faccio la commessa in un negozio in centro”.
“E tu?” si affrettò ad aggiungere.
“Sono un fotografo. Mi contattano spesso e viaggio molto”.
“Deve essere bello” commentò Acilia, sincera. Anche lei aveva viaggiato molto.
Curtis fece una piccola smorfia, come se non fosse troppo d’accordo.
“Una foto ci imprigiona in un momento perfetto ed eterno” disse, bevendo ancora un sorso di birra “Chi vuole tante foto di sé è perché ha l’impellente desiderio, spesso inconsapevole, di moltiplicarsi e di moltiplicare tutti i momenti che non torneranno mai, di incanalare il tempo, di controllarlo. Chi invece non vuole avere foto di sé, è perché ha paura” alzò lo sguardo su Acilia “di non riconoscersi”.
Acilia si sentì suggestionata. Lei era come in una foto, intrappolata in perfezione ed eternità.
“I primi tempi dopo l’invenzione della fotografia” disse “molti avevano paura, avevano come l’impressione che la foto spogliasse loro di qualcosa, sembrava una cosa…”.
“Demoniaca”. Curtis incurvò le labbra in un sorriso.
Era quello che era Acilia. Perfetta, eterna, demoniaca.
Però le piaceva conversare con Curtis.
“Vedo che hai studiato la storia, brava” scherzò lui.
L’ho vissuta.
Anche lei forse avrebbe avuto paura della macchina fotografica, ma probabilmente dopo l’avrebbe superata. Invece lei, vampira, non poteva superare quella paura.
Perché ha paura di non riconoscersi.
Era come guardare uno specchio, guardare la realtà e non riconoscerla perché tu non eri nessuna realtà.
“La paura del doppio è qualche di molto radicato” continuò Curtis “Anche se non ce ne rendiamo conto, l’abbiamo sempre con noi”.
Bevve la birra. Ne era rimasta metà.
“Tu invece da che parti stai?”domandò “Le ami o le odi le foto?”.
Le odio.
“Vengo sempre male in foto”rispose Acilia con una scrollata di spalle.
Curtis rise. “Non ci credo”.
E fai bene.
Lui trafficò con la mano nella sua tasca e lei ebbe l’orribile sensazione che stesse per tirare fuori una macchina fotografica. Sarebbe stata la fine. Ma lui aveva estratto solo il suo telefono cellulare. Guardò il display, sospirò poi lo rimise in tasca. Tornò a guardare Acilia come se niente fosse.
“Dalla foto di una persona si possono capire molte cose, sai” disse “Come si mette in posa, come sorride, sono tutti dettagli che dicono qualcosa”.
Immagino di sì, pensò lei.
“E tu stai molto attento ai dettagli” disse.
“Esatto” disse Curtis “Per esempio non mi è sfuggito il fatto che non hai bevuto ancora neanche un sorso”.
Acilia sgranò gli occhi. Forse era davvero meglio non rivederlo più quel tipo.
“Non avevo poi così sete” disse, con un sorriso forzato.
Curtis bevve un sorso e la invitò a fare altrettanto. “Coraggio, ti si secca la gola a forza di parlare”.
Acilia si fece coraggio e bevve un sorso d’acqua. Aveva un sapore orribile e mentre la sentiva scivolare in gola le si accese nel petto il desiderio di sangue. Cercò di mantenere l’espressione del viso impassibile e bevve ancora.
Curtis continuava a guardarla e lei, a disagio, prese fuori dalla tasca dei jeans il cellulare e finse di controllare l’ora.
“Si è fatto tardi” disse “Devo proprio andare”.
“Ma certo” fece l’altro, gentilmente. La guardò negli occhi. “Ci rivedremo?”.
Acilia si alzò. “Non credo sia una buona idea”.
Curtis bevve un altro sorso, con gli occhi grigi non meno sicuri di prima.
“A presto, Emily”.


Lucius stava avanzando verso di lei, scrutandola con attenzione.
“Il tuo volto non mi è nuovo”.
Acilia trattenne un fremito di rabbia.
“Allora almeno hai la decenza di ricordarti le facce di chi uccidi”.
Lui sorrise. Poi si rivolse al tirapiedi che aveva fatto entrare Acilia.
“Lasciaci soli”.
Quello obbedì all’istante e Acilia diede un’occhiata nervosa alla stanza. Era sfarzosa, piena di decorazioni. Dietro al trono di Lucius c’era un camino acceso, presumibilmente solo per bellezza.
Doveva sforzarsi di fare conversazione, almeno per il tempo che serviva agli altri per raggiungerla.
“Vedo che ti sei sistemato bene”disse, senza riuscire a tenere a freno l’odio che dilagava nella sua voce.
“Cosa sei venuta a fare qui, Acilia? A vendicarti?” fece Lucius, cominciando a girarle intorno.
Acilia si affrettò a uscire dal cerchio e si mise a girare in tondo, sulla stessa linea di lui. Non ne voleva sapere di sentirsi braccata, di nuovo, da lui.
“Io ti volevo solo uccidere”continuò lui, senza fermare il suo cammino “Avevo fame, puoi capirmi no? Non hai mai ucciso nessuno?”.
Acilia capiva, capiva perfettamente. Non poteva neanche permettersi di giudicarlo, Lucius.
“Sì” disse, tenendo la testa alta“Posso capire come deve essere crescere senza un creatore come Marcus”.
Lucius si mise a ridere. “Marcus…Il buon vecchio Marcus… Allora perché sei qui? Prenditela con lui no?”. Si fermò, piantandole gli occhi neri e cupi in faccia, con sguardo serissimo. “Io ti avrei solo uccisa, lui invece ti ha trasformata nel mostro che ora sei! Era il tuo fidanzato quello che hai ammazzato, vero?”.
Acilia strinse i pugni. Manlio non era stata vittima di Marcus, era colpa sua, di lei, solo ed unicamente sua…
“Come se non sapessi che Marcus è morto!” sbottò.
L’espressione di Lucius si fece attenta e lei andò avanti, gridando tutto il dolore e tutto il rancore: “Non voglio vendicare la mia vita… Tu eri solo uno come me, un mostro che non è riuscito ad evolversi e a trovare la luce nelle tenebre! No, non sono qui per la vita che mi hai tolto”.
La cenere di Marcus, che lei aveva lanciato in aria, che il vento aveva portato via e che lei aveva così ingiustamente odiato.
“Sono qui per la vita che hai tolto a Marcus!” urlò.
Lucius alzò un sopracciglio.“Allora l’avevi capito. Mi chiedevo perché non venissi a cercarmi, un figlio che non vendica la morte del proprio creatore…”. Terminò scuotendo la testa e con una mezza risata.
“L’ho capito tardi” disse lei, quasi vergognandosi “Marcus e i suoi pochi seguaci… tutti morti nello stesso giorno! Ma allora ero troppo giovane e stupida per capire”.
Era vero. Allora non capiva quanti nemici si stesse facendo Marcus, Superiore della zona, che impediva agli altri come lui di uccidere. E Lucius lo detestava, sicuramente detestava una persona che gli toglieva il pasto di bocca… Poi quando Acilia aveva appreso che Lucius era Superiore e che per diventarlo bisognava uccidere il precedente, beh, allora tutto era diventato lampante. E poi non aveva senso, non aveva alcun senso che Marcus si uccidesse, dopo tutto quello che le aveva detto, quello che le aveva insegnato…
“Ma c’è una cosa che non mi è chiara” disse, serrando i pugni e fissando Lucius “Avete ucciso Marcus e coloro che come lui credevano in una possibile convivenza con gli umani. Perché non avete ucciso anche me?”.
L’altro sorrise, compiaciuto.
“Francamente, cara Acilia, pensavo che lasciarti in vita sarebbe stato molto più doloroso per te, e più utile per noi”.
“Utile?”.
Lucius si avvicinò, stringendo gli occhi.
“Eri un giovane ed assetato cavaliere della morte” spiegò “Avevi passato troppo poco tempo con Marcus perché le sue idee ti si radicassero bene in testa. E se tu avessi creduto al suo suicidio allora ti saresti ribellata a tutte quelle stupide e fantasiose idee”.
Acilia abbassò lo sguardo, quasi senza rendersene conto.
Lui si era avvicinato ancora di più, si chinò su di lei e sussurrò: “Avresti fatto né più né meno di tutto quello che faccio io”.
Acilia non disse nulla e lui si allontanò, rialzando la voce. “Ed è stato così, dico bene?”.
Il suo viso era in ombra per via della luce che proveniva dal camino acceso e Acilia, respingendo i ricordi, trovò la forza di guardarlo in faccia.
“No” disse, con voce ferma. Si puntò le mani sui fianchi e lo guardò con aria di sfida. “Avresti fatto meglio ad uccidermi allora, Lucius”.
Lui rise. “Ti posso uccidere anche adesso”.
Acilia sentiva lo strepitio del fuoco nel camino, ma sentiva anche altro. Dei passi che correvano. Era quello il momento.
Sorrise, per la prima volta da quando era entrata in quella stanza.
“Mi puoi anche uccidere, ma non potrai più uccidere le idee di Marcus”.
Un grosso tonfo la fece trasalire e dietro di lei la porta cadde a terra.
Sulla soglia comparve Mathias col piede a mezz’aria.
“Bastava semplicemente aprirla, la porta” fece la voce di Lyuben.
“Sì, e magari bussare anche, giusto?” replicò Mathias, con una smorfia.
Comparve anche la nuca rossa di Dubris che reggeva la testa dello scagnozzo di Lucius che aveva accompagnato dentro Acilia. Aveva occhi rossi di fuoco, un rivolo di sangue che gli usciva dal naso e i denti che digrignavano in maniera agghiacciante. Ancora qualche attimo e la testa cominciò a gonfiarsi, sempre più velocemente, e la pelle che veniva tirata e lacerata lasciava intravedere solo il rosso sangue che colava. Dubris la lanciò per terra e quella esplose imbrattando il pavimento di sangue poltiglioso e sporco. “Non sei l’unico che ama fare scena, Mathias” disse il rosso, scrollando le spalle.
Acilia fissò l’espressione attonita di Lucius con un largo sorriso. “Perché, come vedi, siamo troppi”.
Lucius si riprese in fretta. Tramutò la sua espressione sorpresa in pura collera e urlò: “Cavalieri!”.
Le grandi vetrate sulle pareti si ruppero in miriadi di frantumi e proruppero nella stanza uomini e donne con lunghe zanne. Ramona urlò ed Acilia si voltò. Anche alle spalle dei suoi compagni ne erano arrivati altri.
Era il momento della battaglia, in cui i più giovani sarebbero morti, e sarebbe stata colpa sua? Colpa del suo desiderio di vendetta? Era questo che avrebbe voluto Marcus? Avrebbe fatto di tutto pur di raggiungere il suo scopo? Non lo so, pensò Acilia, non lo so cos’avrebbe voluto fare perché è morto troppo presto! Sentì la rabbia che montava dentro di lei mentre vedeva i suoi compagni uscire dalla stanza e lanciarsi all’inseguimento dei cavalieri di Lucius. I cavalieri entrati dalle finestre fecero altrettanto e le oscurarono la vista di Lucius. Non lo trovava più e anche lei si buttò nella mischia.
Presto si ritrovò per le scale circondata da tappeti rossi, pareti scure ed enorme finestre da cui entrava la pacata luce della luna. Non doveva perdere di vista il suo obiettivo. Il suo unico obiettivo era Lucius.
Si guardò intorno, sforzando la vista. Ma non riusciva a districare i corpi in lotta tra loro, sentì varie esplosioni e si buttò a terra d’istinto. Sentì qualcosa comprimerle il corpo e con una mano si toccò la schiena. La ritrasse piena di poltiglia rossa e si alzò di scatto, cercando di capire chi fosse morto. Le scale erano imbrattate di sangue, ai piedi dei combattenti, e lei voleva sapere a chi apparteneva quel sangue. Era quello che diventavano, quando morivano… Loro erano un’enorme sacca di sangue ricoperta da pelle finta di morto e se ti colpivano la finzione spariva e ti rivelavi per quello che eri, una rossa materia collosa… Era quello che lei aveva dentro… Un pugno la colpì a pieno viso e lei cadde all’indietro.
“Aci! Che stai facendo?!” urlò la voce di Dubris da qualche parte.
Lei si rialzò in piedi e vide Dubris conficcare un bastone nel petto dell’uomo che l’aveva aggredita. Quello si buttò a terra, contorcendosi, prima di scoppiare.
Il legno.
Acilia estrasse il suo paletto da sotto la veste, guardando con riconoscenza Dubris.
“Dov’è Lucius?” le chiese lui, con gli occhi rossi sbarrati e le zanne che sembravano più lunghe del solito. Faceva paura. Ma era questo il loro vero aspetto, la loro vera natura, quando lottavano erano davvero loro stessi.
“Lo ritroverò” disse Acilia, con convinzione.
I cavalieri che entravano dalle finestre… Non l’avevano previsto. Non pensavano fosse così numeroso l’esercito di Lucius. Ma non era ancora finita.
Sentì i suoi canini spingere e una strana sensazione di euforia le infiammò tutto il sangue, che prese a scorrere tumultuoso. Si buttò su qualcuno che era lì vicino e avvicinò il paletto, glielo conficcò dritto nel cuore prima che quello potesse difendersi e lei rimase lì, ferma e immobile, a farsi ricoprire di sangue. Si pulì il volto e si leccò le labbra, pronta ad attaccare di nuovo.
Lyuben diceva che avrebbero dovuto dare a tutti loro la possibilità di scegliere. Quelli non erano più cattivi di loro, erano solo stati più sfortunati.
Avrebbero dovuto imprigionarli? E poi chiedere loro da che parte volevano stare?
Acilia sentì qualcuno tirarla con forza inaudita per i capelli e per un momento temette che le si staccasse la testa. Ma i suoi piedi furono svelti e le diedero la giusta spinta verso l’alto. Si librava in aria. Ma certo, stando in alto, sarebbe stato più facile trovare Lucius.
La possibilità di scegliere…
No, era molto più semplice ucciderli tutti.
Il suo sguardo saettava in giro e non sapeva se cercare i suoi amici o se cercare il suo bersaglio. Una botta nelle costole la fece quasi planare a terra. Urlò di rabbia mentre guardava negli occhi chi l’aveva colpita. Era un grosso uomo che volava esattamente come lei. La prese per il bavero della tunica e la percosse ripetutamente il volto con il pugno finché lei non sentì la pelle della guancia che le si lacerava in più punti. Cercando tutta la forza che aveva gli prese la mano e gliela morse. Quello urlò e lei continuò a spingere i canini in profondità finché non gli staccò tutta la mano. Rabbioso, l’uomo la colpì con un calcio e lei volò via. Si sentì prendere da due braccia muscolose e lei alzò lo sguardo per vedere chi fosse. La testa le vorticò mentre non era sicura di star vedendo due occhi blu di un viso splendido. L’aveva presa per le braccia e ora gliele stava stritolando, gliele avrebbe staccate… Non aveva la forza di reagire, non voleva…
Il paletto di legno che teneva nella mano destra planò a terra e lei capì che quel cavaliere l’avrebbe uccisa…
Lo faresti veramente?!
Ma le braccia improvvisamente la lasciarono andare e lei tracciò col corpo una storta linea in aria, prima di ritrovare stabilità. Fernand stava lottando con l’uomo dagli occhi blu.
No, pensò Acilia, terrorizzata, che sta facendo… Che sta facendo…
“Fernand!” urlò, tentando di soccorrere quell’imprudente che l’aveva salvata.
Ma subito Fernand esplose in getti e fiotti di sangue e lei volò via, per non farsi vedere dal suo assassino.
Stordita, cercò di recuperare la situazione visiva del castello.
Fernand era morto, non doveva essere scioccata, sapeva che sarebbe successo, probabilmente lo sapeva anche lui stesso. Era troppo giovane per una cosa del genere.
Ma è morto salvandomi da…
E Ramona?! Ramona era ancora viva?
La cercò disperatamente con lo sguardo ma non la trovava.
Il paletto di legno…
Era disarmata. Non sarebbe sopravvissuta in quel luogo disarmata!
Cercò di ricordare in che esatto punto fosse quando le era caduto di mano.
Si buttò in picchiata e lo cercò tra la massa di corpi e la massa di sangue…
Di chi è questo sangue?!
Non importava, non doveva pensarci…
Vide Ramona china a terra, spaventata, mentre davanti a lei Lyuben le faceva da scudo, immobile.
Lyuben era un pacifista. Voleva dare a tutti la possibilità di scegliere ma non si poteva! Avevano appena ucciso Fernand, dovevano fermarli tutti, tutti!
Voleva urlargli di darsi una scrollata ma poi qualcosa di marrone in mezzo alle gambe di due lottatori catturò la sua attenzione. Era il suo paletto. Si buttò con una mano sui capelli di uno di loro e con l’altro braccio gli circondò il collo. Sentendosi un animale tirò con tutta la forza che aveva finché non le rimase la sua testa in mano, che la guardava con odio e disperazione. Poi esplose e lei non vide altro che rosso. Cadde a terra, pulendosi gli occhi e cercando a tastoni il suo paletto. Lo vide e lo prese, sentendosi vincente, anche se in realtà era tornata esattamente alla situazione di partenza. Si alzò e lo vide.
I capelli lunghi e liscissimi, macchiati di rosso, di Lucius stavano ondeggiando in una corsa frenetica, che puntava proprio verso Lyuben.
Perché proprio Lyuben? Gli sembrava un debole, a vederlo così, distante dalla battaglia?
Acilia fece per gridare un avvertimento ma poi vide Lyuben alzare una mano e spezzare il braccio di Lucius dal suo corpo come se fosse uno pezzo di pane.
Il volto di Lucius si deformò in un grido e lui cadde sulle ginocchia.
Tutti i cavalieri cessarono di combattere impietriti, fissando il loro capo che si era chinato in una pozza di sangue.
“E così… tu sei” ansimò Lucius, mentre il braccio gli stava lentamente ricrescendo “Lyuben Vladimir, giusto?”.
Acilia avanzò verso di loro, tenendo bene saldo il paletto nella mano. Come faceva Lucius a conoscere il suo nome?
Lyuben non rispose. Aveva lo sguardo pieno di disprezzo.
Gli si avvicinò e lo prese per i capelli.
“Sono ciò che tu non sarai mai”disse, pacatamente.
Lucius cercò di afferrargli le gambe col braccio sano ma Lyuben balzò via e Acilia ne approfittò per correre verso il primo, e conficcargli il paletto nel petto. Lucius le prese il braccio e lo tenne fermo, a pochi centimetri dal suo petto. Acilia spingeva digrignando i denti e sentì del gran trambusto dietro di lei. I cavalieri di Lucius probabilmente stavano cercando di soccorrerlo ma trovavano la strada sbarrata da Dubris, Victoire e Mathias. Li sentiva che la incitavano.
Devo farlo io… Devo riuscirci…
“Non-sei-più-forte-di-me” ringhiò Lucius, a denti stretti.
Il braccio destro gli era ricresciuto e ora teneva entrambe le mani sul paletto, e lo spingevano verso di lei. Acilia sentì il legno scalfirle il petto.
Urlò, cercando in ogni angolo di se stessa la forza, e la trovò per Marcus, per Manlio e Miguel…
“Aci!” urlò Ramona.
Gli occhi neri di Lucius la guardavano con aria di sfida. Non l’avrebbero incantata, non avrebbe provato pietà, mentre sentiva ancora tutta la paura che aveva provato quella gelida notte che era risorta dalla terra, e tutta la disperazione che aveva provato nel tenere Manlio morto tra le sue braccia, e tutta la sua frustrazione mentre cercava il perché tra la cenere di Marcus…
Gli occhi di Lucius rotearono, il suo corpo vacillò e lasciò la presa del paletto con entrambe le mani. Acilia capì che Lyuben doveva avergli dato un pugno in faccia perché il naso si era fratturato in più punti e il sangue gli colava fino alle labbra, il mento e scivolava giù imbrattando il paletto. Acilia colse al volo l’attimo e lo premette in profondità. Lucius sputò sangue mentre la sua faccia veniva tirata, le cavità oculari si allargavano e un bulbo oculare cadde, insieme a uno zampillo di sangue.
“Non… salverai… la tua… anima…”fece la voce bassa e strascicata di Lucius. Si stava rompendo anche essa, come la sua faccia, come il suo corpo. “E’… troppo… sporca!”.
Un’ultima spinta e tutto di Lucius esplose avvolgendo Acilia in un orripilante manto di sangue.
Lei si pulì per l’ennesima volta il volto e si alzò in piedi, sfinita. Si guardò intorno e notò che i cavalieri di Lucius si erano messi in fuga.
Dubris ne stava inseguendo un paio brandendo il paletto con aria assatanata.
“Fermi!” gridò Acilia, con fare autoritario “Non vi uccideremo. Chi vuole passare dalla nostra parte, può restare. Altrimenti che se ne vada per sempre”.
Non sapeva se era la cosa giusta da fare, ma vedere l’espressione di approvazione sul viso di Lyuben la rassicurò.
Ci fu un borbottio generale, poi alcuni si diressero verso l’uscita del castello, altri invece rimasero.
Lo sguardo di Acilia si posò sull’assassino di Fernand. Anche imbrattato di sangue, non perdeva il suo fascino. Aveva i capelli neri e lucenti e gli occhi blu come il mare erano gelidi, pieni di odio. L’espressione con cui la guardava era atroce e Acilia quasi si sentì vacillare sotto il suo sguardo.
Poi lui le diede le spalle e lei provò l’impulso di fermarlo.
Ma era meglio così, era meglio lasciarlo andare. Chissà poi se l’avrebbe più rivisto.
“Congratulazioni” fece una voce.
Acilia si voltò, sorpresa. Dubris la stava guardando, sporco dalla punta dei capelli fino ai piedi, con un sorriso. “Sei il nostro Superiore adesso”.
“Oh, già”.
“Che c’è?” fece lui, con una mezza risata “Avevi dimenticato per quale motivo hai ucciso Lucius?”.
Acilia si girò e guardò ciò che era rimasto di Lucius. Una poltiglia orribile che mescolava il sangue di chissà quanti umani. Però Marcus non sarebbe certo potuto tornare in vita.
“No” rispose, piattamente “Certo che no”.
Dubris rimase fermo a guardarla, come incerto sul da farsi. Acilia, a disagio, avrebbe preferito che non lo facesse. Poi il rosso si girò e lei lo vide che cercava ed abbracciava Ramona.
Acilia avanzò verso Lyuben, che stava tentando di pulirsi. Si sentiva in dovere di ringraziarlo.
“Lyuben, io…”.
“E’ stato solo un incoraggiamento”disse lui, sorridendo.
Lei annuì. “Dovresti essere tu il Superiore”.
Lyuben alzò un sopracciglio. “Aci, questa è la tua battaglia”.
Ma lui era così forte, e aveva gli ideali giusti… Acilia si mordicchiò il labbro. Era un uomo avvolto nel mistero.
“Lyuben… Perché Lucius conosceva il tuo nome?”.
Lui le puntò addosso gli occhi azzurri, attraversati da venature quasi bianche. “E perché Lucius ha detto che la tua anima è sporca?”.
Acilia esitò e lui sorrise.
“Ognuno ha i suoi segreti, Aci”.
Le strizzò un occhio, poi si voltò.
Lei si guardò intorno. Il castello era proprio ridotto male. Vetri rotti, quadri a terra in pezzi, pareti pieni di fori, per non parlare del sangue che era ovunque.
Lì in mezzo, da qualche parte, c’era anche quello di Fernand.
Perché Lucius ha detto che la tua anima è sporca?
Forse aveva capito come faceva Lucius a conoscerla così bene, se gli occhi non l’avevano ingannata.
Vide Mathias, fermo a fissare un punto del pavimento.
“Mathias” lo chiamò lei, raggiungendolo “Mi dispiace per Fernand”.
Lui annuì, distrattamente.“Dispiace anche a me”.
Acilia si sentiva in dovere di dire qualcosa, due parole di circostanza, che però in quel caso erano verissime.
“E’ stato molto coraggioso, lui…lui mi ha salvata! E’ un eroe”.
Sperava che quelle parole facessero piacere a Mathias ma lui aveva il viso come oscurato.
“Credeva che la sua vita valesse meno della tua, no?”.
Nelle sue parole c’era solo amarezza ma Acilia ci trovò anche un velo di rimprovero. Forse era la sua immaginazione ma si sentì triste, ed era da tanto che non si sentiva così. La disperazione, il dolore, l’angoscia… quelli li conosceva bene. Ma la tristezza, quella pacata ma pur così fastidiosa, non la ricordava, e l’avvolse come una coperta ruvida e sporca che voleva togliersi, ma non ci riusciva.
“Cosa facciamo con tutta questa roba?” fece la voce di Mathias. Il ragazzo stava indicando il pavimento screziato e maculato.
Acilia guardò le finestre. Molte tende erano cadute, alcuni vetri si erano rotti.
“Domattina entreranno i raggi del sole, e bruceranno ogni cosa” disse. Si sarebbe trasformato tutto in polvere. Forse anche il castello sarebbe bruciato.
“Acilia!”.
Acilia si voltò sentendosi chiamare.
Victoire stava trascinando verso di lei una ragazzina bionda, che urlava e si dimenava. Era visibilmente umana.
“Chi è?” chiese Mathias. Anche Dubris, Ramona, Lyuben e gli altri si avvicinarono.
Acilia guardò bene l’umana. Aveva una veste sporca e rotta in più punti, il volto pieno di graffi e lividi e gli occhi gonfi di lacrime.
Ricordò quello che diceva la gente. Che Lucius aveva ucciso tutti gli abitanti del castello, compresi i servitori, tranne una fanciulla.
“Era nascosta dietro una tenda”spiegò Victoire “Cosa ne facciamo?”.
L’umana singhiozzò, biascicando qualcosa in fiorentino.
Acilia provò a chiederle come si chiamasse nella sua lingua. Sentiva gli occhi straniti di tutti su di sé.
“L-Laura” balbettò la ragazzina. Non dimostrava più di sedici anni.
“Deve averla torturata Lucius”intervenne Ramona, guardandola con tristezza “Lasciamola andare, no?”.
“Non possiamo” disse Acilia, mestamente “Ha visto troppo”.
Ramona si voltò di scatto verso Lyuben ma lui si limitò ad annuire.
“Allora trasformiamola” tentò Dubris.
Nessuno ebbe niente da ribattere ma Acilia non credeva fosse la cosa giusta da fare. Negli occhi spalancati e tormentati di Laura vedeva un atroce inferno, troppo grande per una ragazzina adolescente. Cercò Lyuben con lo sguardo, sapendo che lui sarebbe stato d’accordo.
“Deve avere la possibilità di scegliere” dichiarò. Guardò tutti i presenti. “Quella che non abbiamo avuto noi”.
La guardò fisso in volto, cercando di controllare il tremito della voce.
“Hai visto quello che siamo. O diventerai come noi o ti uccideremo” disse.
Aveva mischiato elementi di francese, spagnolo, latino e qualcosa di fiorentino. “Capisci quello che dico?”.
Laura fece segno di sì con la testa poi riprese a gridare e a dimenarsi, in un tentativo di fuga. Ma Victoire la teneva stretta.
Acilia le si avvicinò. “Scegli”.
La ragazzina urlava, scuotendo la testa e scalciando e lei le prese il volto tra le dita costringendola a stare ferma. “Scegli!” ordinò.
Laura piangeva a dirotto, ma teneva gli occhi ben aperti, reggendo lo sguardo di Acilia. “Dovrei…diventare…” farfugliò “come chi mi ha fatto questo?!”.
Acilia provò ad immaginare e vide una ragazzina costretta a vivere nella sporcizia e nella fame, che veniva ripetutamente violentata e privata del suo sangue fino quasi a morire, abbandonata su un letto sudicio sul quale pregava che tutto finisse, sul quale pregava di morire perché non aveva abbastanza coraggio per uccidersi lei stessa.
“La morte!” urlò Laura “Scelgo la morte…”. Pianse fortissimo. Acilia odiava sentir piangere, sì, ma quella volta no. Non odiò nulla. In realtà aveva sperato che Laura scegliesse l’altra opzione.
Guardò i volti degli altri e capì che non c’era bisogno di traduzioni. Morteera una parola grandiosa e terribile allo stesso tempo, che non evolveva, che non cambiava e rimaneva la stessa spaventosa cosa per tutti.
“Bene” disse, tetra “Qualcuno proceda”.
Un gruppetto di cavalieri che aveva combattuto per Lucius si fece avanti, leccandosi i baffi, e Acilia si chiese se mai sarebbe riuscita ad educarli. Victoire lasciò andare Laura e quella cadde in ginocchio, con le mani congiunte mentre mormorava delle preghiere spezzate da singhiozzi disperati.
Acilia si voltò per non guardare, mentre sentiva i suoi singulti che si trasformavano in urla strazianti. Davanti a lei c’era Dubris che, titubante, alzò le braccia verso di lei, e lei si lasciò abbracciare, sentendo scivolare via la coperta ruvida di tristezza, almeno un po'.














Beh beh, un po' di sangue in una storia di vampiri non guasta mai XD


Sara, ahahah "facebook è la risposta in fatto di gossip" mi piace molto come frase XD Jacque con troppe donne per la testa, Lyuben che è un figo, Marcus il padre modello e i campi di concentramento umani di Kaeso (i pecoroni XD).. sì, nella tua recensione c'è tutto come al solito ;) aspetto la prossima!
Nene, ahahah sei molto carina a preoccuparti per Kaeso ma tranquilla che non va verso la distruzione.. ha parlato di recinti pieni di umani, non ha detto "uccidiamoli tutti" (il che è molto inquietante, li fa riprodurre a forza D:).. ahahahah Jacque che fa il reticente e la chicca di facebook sì XD Hai visto che ho approfondito la morte di Marcus? ;) Devo farti i complimenti perché sei stata l'unica ad aver azzardato l'ipotesi che potesse essere stato Lucius a ucciderlo :DDD ottimo intuito, però in materia di vampiri siamo più carenti u.u come ti ho già scritto nel messaggio in risposta all'altra recensione non è certo una mia fantasia che i vampiri volino XD aspetto le prossime recensioni!
Norine, ohh qualcuno che comincia a rivalutare il povero Dubris ^^ (a me sta così simpatico, ma è schifato da tutte XD) ahahah che bello hai notato il paradosso di Emily che canta le lodi di Acilia eheheh XD ora attendo altre opinioni :DD
Red, cosa c'è di così porcelloso nel fare un pompino? DD: povera Emily, lasciale almeno la sua dignità di donna, e poi è una donna adulta u.u va beh un po' di conversazione dopo il sesso ci sta sempre.. potevi aggiungere anche "parlare di Acilia", quello deve aver turbato Jacque XD No niente suicidio per il tuo caro Marcus, anche tu avevi il dubbio XD I pipistrelli no li ho tolti perché non mi piacevano.. XD per il vampiro più famoso del mondo ci stavo ancora pensando..ho paura di incappare in qualche "blasfemia"..vedrò :D

Aaaaal prossimo capitolo!
(vado troppo a busso, probabilmente riesco a finire il libro quest'inverno!)

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Capitolo 15
*** La leggenda ***


Quattordicesimo capitolo
CAPITOLO XIV
LA LEGGENDA
 
 




Istria, 1672

 
Stavano avvenendo strani morti nel paese.
Ulika affrettò il passo mentre tornava a casa. Da quando era morto suo marito, usciva poco e la sera le incuteva timore, soprattutto ora che la gente aveva cominciato a morire.
“Ulika!” si sentì chiamare.
La donna si voltò, con un soprassalto.
Un uomo in calzoni e giubba, col volto avvolto nell’oscurità, stava avanzando e lei trattenne il fiato.
“Ulika, non volevo spaventarvi” disse l’uomo.
“Ivan” sospirò la donna, premendosi una mano sul cuore “Con tutte queste morti, io…”.
“Lo so” disse subito Ivan, con un certo nervosismo “E’ proprio di questo che volevo parlarvi”.
Ulika in realtà non vedeva l’ora di andarsene a casa e l’idea di parlare di morti di notte, in strada, col governatore non l’attirava particolarmente.
Fece scorrere uno sguardo inquieto per i campi e sul volto stanco e rugoso di Ivan. Stava invecchiando, proprio come lei.
“C’è stata un altro assassinio” disse lui, senza aspettare una risposta “Si tratta di Zoran”.
Ulika si portò una mano alla bocca. “Ed è…”.
“Come gli altri, sì. I medici dicono che non ha più neanche una goccia di sangue nelle vene”.
Quella cosa del sangue, era così strana. Ulika sentiva il suo cuore battere forte. Era possibile che smettesse di battere perché il sangue si era… volatilizzato?
“Non può essere un’epidemia?” disse, con un tremito nella voce.
“No” rispose Ivan “Il sangue sembra essere risucchiato dall’esterno, ci sono dei buchi nella pelle del collo di Zoran”.
“Oh Signore, risucchiato… da cosa?”.
“Dalla bocca. I denti possono essere in grado di bucare la pelle”.
Ulika fece una risatina nervosa. “I denti di un animale forse!”.
Ivan sospirò. “Nessun animale succhierebbe tutto quel sangue…”.
“E allora cos’altro può essere?” squittì la donna “E poi perché ne parlate proprio con me?”. Lei era figlia di contadini, moglie di un contadino defunto e contadina lei stessa. Non se ne intendeva di tutte quelle faccende, che parlasse con altri medici!
Ivan esitava. Poi finalmente parlò: “Zoran era in pessimi rapporti con vostro marito, dico bene?”.
“Oh buon Dio, non lo so… Qualche scaramuccia, ogni tanto…”.
“Si sono azzuffati più di una volta, se la memoria non mi inganna”.
Ulika fece uno sforzo per ricordarsi. Ma suo marito era morto tanto tempo, e il ricordo di lui era ancora così amaro…
“Sì, forse, può essere” farfugliò, nel dolore.
Ivan aveva la fronte aggrottata e lo sguardo pensoso.
“Mi volete dire cosa vorrebbe dire questo?” sbottò Ulika “Jure è morto! Da sedici anni…”.
“La terra vicino alla sua fossa” disse Ivan, lentamente “è smossa”.
Ulika non riusciva a capire.
“So che per voi sarà uno shock e che non vorrete credermi” si affrettò a dire l’altro “Ma ascoltatemi vi prego… Jure potrebbe essere tornato…”.
“Tornato?” strillò Ulika, facendo un passo indietro “Un fantasma?!”.
“Qualcosa di peggio di un fantasma” disse Ivan, in tono grave.
Erano sciocchezze, solo sciocchezze! Solo perché qualcuno che stava antipatico a Jure veniva assassinato non significava certo che Jure era uscito dalla sua tomba per ammazzarlo!
“Se voi… poteste dirmi qualcosa” continuò Ivan, speranzoso “Jure è forse tornato a farvi visita? L’avete visto da qualche parte? Avete avvertito…”.
“Basta!” sbottò Ulika, fuori di sé. Si allontanò, doveva assolutamente tornare a casa. “Io vedo Jure ogni notte da quando è morto!” singhiozzò “Lo vedo nei miei ricordi e so che lui non mi abbandonerà mai… E voi insultate la sua memoria dicendo che sarebbe tornato dal mondo dei morti per uccidere! Un assassino! Il mio Jure non era un assassino!”.
Ivan aveva il volto mortificato. Tese le braccia, provando a calmare la donna ma lei lo respinse, mandandolo al diavolo.
Con le lacrime agli occhi corse verso casa. Le mani le tremavano quando aprì la porta e subito si fiondò a prepararsi qualcosa di caldo. Un tè l’avrebbe fatta sentire meglio.
Non doveva fermarsi a parlare con Ivan. Tutto quello che stava capitando gli stava dando alla testa! Poveretto, era il governatore di un villaggio fantasma ormai… Il comune gli avrebbe tolto il potere. Sicuramente aveva paura, come tutti loro, come lei stessa.
Jure potrebbe essere tornato…
Ulika lanciò un gridolino sommesso e frammentato dai singulti. Non voleva cedere alla speranza che dal mondo dei morti si potesse tornare.
Rovesciò il tè dalla teiera in un bicchiere. Poggiò la teiera, che vibrava visibilmente nella sua mano, sul tavolo, cercando di stare calma.
Avrebbe bevuto un po’ poi sarebbe andata a dormire. Era già tardi e la vita nei campi non prevedeva che facesse quegli orari.
“Ulika”.
Il bicchiere le cadde di mano e pezzi di terracotta, foglie verdi e liquido andarono a spargersi sul pavimento.
Quella era la sua voce.
Alzò lo sguardo tremolante, indietreggiando e mormorando confuse parole di terrore.
Jure, alto e giovane come lo ricordava, era davanti a lei, pallido come un cencio e con un mesto sorriso.
“E’…è… uno scherzo” balbettò Ulika, le mani davanti alla bocca “E’…è…”.
Jure avanzò verso di lei, allargando le braccia. “Sono io! Sono proprio io!”.
Ulika scoppiò fragorosamente a piangere e quando lui l’abbracciò lei non si tirò indietro. Ivan… Ivan aveva detto…
“Sei tornato! Hai ucciso tu Zoran? E gli altri?”.
Lui le sussurrò all’orecchio: “Non so di cosa tu stia parlando”.
Ulika si sentì nascere sul volto un enorme sorriso e rimase aggrappata a suo marito tutta la notte.
 
 
Quel giorno Ulika aveva lavorato sodo nei campi. Esausta, ma con un sorriso raggiante sul volto, stava tornando a casa col sole che calava. Avrebbe rivisto Jure quella sera. La mattina si era svegliata e lui non c’era più ma lei sapeva che sarebbe tornato.
Ma c’era un gran ciabattare di sandali in strada e vari mormorii. La gente era agitata, sconvolta. Qualcuno gridava e qualcuno piangeva.
Ulika si avvicinò titubante a un gruppo di persone. Possibile che fosse successo ancora? Una donna piangeva, disperata, sorretta da un uomo che aveva mille sfumature di dolore nel volto. Rispondeva con cenni e parole a testa china alle domande che Ivan gli faceva.
“Cos’è successo?” chiese Ulika, col cuore in gola.
Uno tra le persone che aveva avvicinato si voltò. “E’ morto un ragazzo, Nikola”.
Chi fosse Nikola, Ulika non lo sapeva, ma non importava.
“Non ha più sangue…” stava dicendo qualcuno.
“Che sia stato un mostro?!”.
“Allora esistono davvero!”.
“Quando finirà tutto questo?!”.
Ulika si fece largo tra le voci angosciate e disperate e raggiunse Ivan, che aveva appena congedato quelli che dovevano essere i genitori di Nikola.
Ivan fu sorpreso quando la vide.
“Ulika, per ieri sera… Io…”.
“Quando è successo?” lo interruppe lei, bruscamente.
“Cosa?”.
“Quando è morto Nikola?”.
Ivan si strinse nelle spalle. “Il medico ha detto poco prima dell’alba”.
Ulika batté le mani, trionfante, guadagnandosi parecchie occhiatacce. “Non può essere stato Jure!”.
Ivan era a disagio. “Vi volevo dire che mi dispiace, per quello che vi ho detto ieri sera”.
La donna non lo ascoltò. “Non può essere stato lui perché è stato tutta la notte con me!” disse, entusiasta “E’ tornato, è tornato! Ma non è un assassino!”.
Ivan era a bocca aperta. “Come dite… E’ tornato?”.
Ulika scandì bene le parole. “Io l’ho visto”.
Tutti smisero di parlare e lei si sentì osservata. Ivan la prese per un braccio e la condusse via.
“Ulika” disse, in tono grave, dopo qualche passo “Siete sicura di quello che dite?”.
Lei annuì. “E vi dico che non può essere stato lui a…”.
“Lo sapete” la interruppe lui, con uno sguardo strano “che ci sono storie strane sulle persone che tornano dall’aldilà?”.
“Persone che tornano per succhiare sangue?” sbottò Ulika “Oh cielo, Ivan, ancora con questa storia…”.
Ivan si passò una mano sui folti capelli sbiaditi e ingrigiti. Guardò la donna, con una smorfia di preoccupazione che lo invecchiava ancora di più. “Io devo fare qualcosa, Ulika. Non posso restare a guardare mentre gli abitanti della mia comunità muoiono uno dopo l’altro!”.
Ulika si sentiva il volto paonazzo. Non capiva il senso di quello che Ivan stava dicendo. Perché collegava le morti che stavano avvenendo nel villaggio a suo marito… Suo marito era morto da sedici anni…
Ma tu l’hai visto, la scorsa notte.
Non avrebbe fatto del male a nessuno! Chi svuotava le persone del proprio sangue? Chi?! Se quei mostri di cui la gente parlava esistevano davvero, Jure non era tra quelli, non poteva essere.
Cercò di mantenere la calma, mentre domandava: “E allora cosa vorreste fare?”.
“Credete che si presenterà a casa vostra casa stanotte, di nuovo?”.
Ulika sentì il panico nella gola, che saliva insieme alla sua voce. “Non lo ucciderete!”.
E’ già morto…
Ivan sospirò. Ulika gli vedeva negli occhi la paura di essere ridotto a una sacca di pelle vuota, come Nikola e Zoran.
“Riunirò il consiglio, subito. Decideremo sul da farsi”.
Ulika annuì, con aria di sfida. Con un breve cenno del capo si discostò e fece per andarsene.
“Aspettate!” fece l’uomo, guardandola dritto negli occhi. Lei si fermò e lo guardò. Lui deglutì, esitando. Disse solo: “Fate attenzione”.
Ulika alzò un pelo il capo. “E’ mio marito”.
Non avrebbe mai avuto paura di suo marito. Prima che Ivan potesse replicare, lei si allontanò, andando verso casa.
Jure sarebbe tornato da lei, ne era sicura.
Quella notte non dormì. Aspettò la sua comparsa tutto il tempo, sobbalzando per ogni minimo rumore, piangendo ad ogni ostinato silenzio.
Ma lui non si presentò.

 
 
Non ci poteva credere che stava davvero avvenendo. Non poteva lasciarglielo fare.
Eppure era lì, inerme, che piangeva rumorosamente contro un pezzo di stoffa mentre farfugliava pietà.
I suoi compaesani erano intorno a lei, a fissare la tomba di Jure. Erano tutti complici della crudeltà che stava per compiersi.
“Non profanate” biascicò, guardando la tomba offuscata davanti a lei “Non profanate il suo cadavere!”.
Era giorno, sentiva il sole che le picchiava sulla testa. Secondo alcune storie e secondo molti alcuni cadaveri avrebbero potuto prendere vita di notte, e sarebbero andati in giro a nutrirsi di sangue umano.
Ma lei sentiva ancora il profumo di Jure a casa sua, e quello non era odore di sangue!
Il suo sguardo lacrimoso incrociò quello della madre di Nikola. Aveva il volto magro, scavato di disperazione ma quando la guardò, una traccia di odio le luccicò negli occhi.
“Non è stato lui!” ululò Ulika.
Ma era tutto inutile. Due uomini del consiglio la tenevano per le braccia, per evitare che intervenisse. Ma che credevano? Che avrebbe potuto fare lei contro tutto il villaggio?
Ivan la guardava con sguardo rassegnato e lei ricambiò con gli occhi più sprezzanti che conosceva.
“In seguito agli orribili assassinii che si sono compiuti nella nostra comunità” disse Ivan a voce alta, voltandosi immediatamente da un’altra parte “abbiamo deciso di prendere un provvedimento mai preso prima”.  Tutti subito presero a parlottare tra loro, spaventati, e lui fece una pausa, schiarendosi la voce, e Ulika urlò: “Non si profanano i morti! Finirete all’inferno!”.
Ivan le lanciò uno sguardo implorante, prima di continuare: “Questi assassinii sono avvenuti di notte. Abbiamo motivo di credere che sia stato un nostro compagno defunto. Cosa ci sia nell’aldilà non ci è dato saperlo, ma qualcosa lo deve aver fatto tornare in vita, e trasformato in…”.
“Non è vero” pianse Ulika, per la frustrazione “Lui non è un assassino…”.
Ivan si voltò a guardarla mentre proseguiva il discorso: “In un essere diverso, che non è più quello di un tempo e che non sa quello che fa”.
Ulika si strattonò dai due uomini ma loro la tennero ferma. Aveva voglia di prendere a schiaffi Ivan, l’uomo che un tempo, qualche anno dopo la morte di Jure, lei, abbattuta e afflitta, aveva creduto di amare… Ma ora lui era lì, pronto a credere a stupide dicerie, ad aprire la tomba di Jure e la ferita che lei ancora aveva nel cuore, che ci aveva messo così tanto a rimarginarsi e che ora di nuovo perdeva così tanto sangue.
“Jure Grando era un brav’uomo, un gran lavoratore e, soprattutto, era uno di noi” dichiarò Ivan, e ad Ulika non importava che gli luccicassero gli occhi. “Ma ora non è più lui, e noi dobbiamo proteggere la nostra comunità”.
Ulika guardò tutti i presenti, uno ad uno. Nessuno che avesse qualcosa da ridire. Eppure c’erano anche quelli che si definivano amici di Jure…
“Dicono che questi morti che camminano” proseguì Ivan “si possano sconfiggere piantando loro un paletto di legno nel cuore”.
Lo sguardo di Ulika cadde su Premil, un uomo che doveva essere un combattente, ma che tremava visibilmente, con in mano un bastone di legno.
Non c’era più nulla da fare. Avrebbero ucciso per sempre Jure, avrebbero rovinato il suo corpo e fatto a pezzi il cuore di lei.
Qualcuno si offrì per scavare la fossa e lei rimase a fissare, con sguardo vacuo, coloro che si misero al lavoro.
 
Venne aperta la tomba e gli abitanti trovarono un corpo dal viso vermiglio, che li accolse con un sorriso, ciò ebbe l’effetto di disperdere la maggioranza dei presenti.
 
Il corpo venne riesumato. Era perfetto, intatto, come fosse appena morto e Ulika, senza neanche riuscire a guardarlo, crollò in pianto, sulle ginocchia.
Premil avvicinò il braccio tremante ma non riusciva a spingere il legno nel petto. Dopo poco lasciò cadere il bastone e si allontanò, dichiarando di avere paura.
 
Ma il paletto non riusciva a entrare nel cadavere.
 
Ulika si accorse che molti se ne stavano andando, tra mormorii confusi, qualcuno addirittura urlava che Jure si fosse mosso. Ivan e altri uomini cercarono di mantenere l’ordine.
Un uomo, che si chiamava Nikolo, avanzò con sguardo deciso dicendo che lo avrebbe decapitato.
 
Giacché il corpo non poteva essere impalato, un uomo chiamato Nikolo Nyena si assunse il compito di decapitarlo.
 
Ulika gridò e altre voci si mescolarono al suo grido. Non capì più niente e fuggì via, lontano, nei boschi, non senza aver lanciato uno sguardo fugace a Ivan, che ricambiava con un'espressione di affranto e amareggiato amore.
 
Ma cercò di farlo in modo non convinto e un certo Stipan Milasich, più coraggioso, gli staccò la testa di netto.
Allora il morto lanciò un grido e si contorse come un vivente. Gran sangue si disperse nella bara.
Imma, finita la lettura, chiuse di scatto il libro di Valvasor. Sentiva il suo stesso respiro che si faceva affannoso. Poggiò il libro sul comodino e si raggomitolò sotto le coperte.
Non esistono i vampiri.
Leggeva quelle storie ad Eike, gliele leggeva tutte le sere.
Strinse la stoffa del cuscino tra i polpastrelli fino quasi a farsi male. Le sembrava di morire, ogni volta.
Si asciugò gli occhi e si rigirò dall’altra parte. Era buio e lei aveva paura. Aveva paura come ne aveva sempre avuta Eike.
Ma erano solo storie, solo storie.
Sono tornato!
Batté un pugno sul cuscino, trattenendo un grido strozzato.
Non era davvero venuto da lei. Jure Grando era tornato dalla moglie, ma Jure Grando era un personaggio di fantasia, Eike invece era la realtà, era il suo fratellino…
Era.
Le lacrime scorrevano silenziose sulle sue guance. Eike non era tornato e non l’avrebbe mai fatto, ciò che aveva visto qualche mese prima era stato frutto della sua mente addolorata e delirante. Era sicura di esserselo inventata. Ma il ricordo era così nitido, chiaro… Il suo viso fanciullesco con quei denti…
Ormai aveva paura dei vampiri, però continuava a leggere storie che li riguardavano. Voleva capire se potessero davvero esistere, se Eike poteva davvero essere…
Non può.
Ma io l’ho visto, pensò Imma, continuando a piangere, l’ho visto!
Perché mi racconti queste storie?
“Mi dispiace” sussurrò lei, a occhi chiusi, tenendo stretto il cuscino “Mi dispiace, Eike…”.
Se lui era davvero un vampiro, perché non tornava da lei?
Perché ti odia.
“Scusami…”. Le parole erano inutili se non poteva pronunciarle davanti a lui. Sua madre ancora non riusciva a parlare di lui e suo padre, beh, suo padre forse era troppo impegnato per accorgersene.
Perché voglio farti crescere! Come farai ad affrontare la guerra se hai paura di cose che non esistono?!
La guerra ci sarebbe stata ma Eike era già caduto. Il sorriso più triste che poteva esserci le crebbe sul volto, quando pensò che almeno Eike non l’avrebbe conosciuta, la guerra.
Un piccolo rumore e lei si mise seduta con un sobbalzo.
“Chi c’è?” chiese in un soffio. Ogni notte il cuore le martellava nel petto come mai aveva fatto nei suoi quindici anni di vita.
Immaginò che fosse Eike. Lo immaginò piccolo e fragile come era sempre stato, ma con quel sorriso maligno, dal quale spuntavano due zanne. Poi il viso di Eike diventava più grande, si incattiviva, dalla bocca usciva del sangue, gli occhi erano vermigli. Lo vedeva proprio davanti a sé, nel buio, un volto pallido che galleggiava…
Si coprì il volto con le mani e gridò, senza riuscire a trattenersi. Poi pianse, poi di nuovo urlò, e la porta si aprì e lei si trovò accoccolata tra le braccia di sua madre, che piangeva con lei.
 
 
Acilia aggirava il cadavere, con sguardo triste.
“Donna, sui quarant’anni” dichiarò “E’ stato uno di noi”.
Aveva il volto spento e incredulo, la bocca semiaperta e gli occhi raggelati.
“Ma che ci faceva nei boschi?” fece Dubris “Sembra una contadina… Non doveva essere nei campi a zappare?”.
Acilia si strinse nelle spalle. Anche l’Istria era sotto la sua giurisdizione, ma i cavalieri della morte continuavano a fare come volevano. Non c’era un modo per impedire loro di uccidere. Lei, Dubris e gli altri avevano fatto così tanto negli ultimi due secoli, lei ormai era conosciuta come la Regina e molti cavalieri la rispettavano. Ma per quanti passi avanti avevano fatto, ora le sembrava solo di camminare all’indietro.
Vide una figurina venire verso di loro e lei e Dubris si prepararono alla fuga, ma poi la figura divenne Mathias ed entrambi si calmarono.
Il nuovo arrivato lanciò uno sguardo alla donna. “Ho sentito delle voci. Questa donna era al cimitero questo pomeriggio” disse “C’era un sacco di gente. Hanno tentato di impalare un morto”.
“Impalare?” esclamò Dubris.
“Non ci sono riusciti” si affrettò a dire Mathias “Poi l’hanno decapitato”.
“Vuoi dire che…” cominciò Acilia.
Mathias scosse vigorosamente la testa. “Non credo fosse un cavaliere della morte, quando l’hanno tirato fuori dalla fossa sarebbe dovuto bruciare no?”.
“E poi nessuno è così stupido da fare della propria tomba il proprio nascondiglio diurno” aggiunse lei, meditabonda.
“Probabilmente era solo un cadavere” convenne Mathias.
“Poverino” fece Dubris in un soffio “Cos’avrà mai fatto per meritarsi un tale trattamento?”.
Acilia sentiva l’aria tiepida sfiorarle le braccia nude. Gli umani non erano così stupidi, non avrebbero potuto essere stupidi per sempre.
“Gli umani hanno paura” disse, non riuscendo a distogliere lo sguardo dall’espressione terrificata della signora “E il terrore deforma gli occhi”. Gli occhi della donna chissà cos’avrebbero detto, se avessero potuto parlare.
La vista degli umani è debole, è condizionata dalla mente. Non tutto ciò che vedono è reale.
“Cosa vuoi dire?” domandò Mathias.
“Che quegli umani probabilmente credevano che quel morto fosse un cavaliere” spiegò Acilia.
I due uomini si lanciarono uno sguardo allarmato e lei continuò, indicando lo spazio al di là degli alberi: “Quel villaggio lo sto tenendo d’occhio. La gente muore, in modo strano, inspiegabile! Siamo noi che li uccidiamo e se le cose vanno avanti così, non riusciremo a nasconderci ancora per molto!”
“Quegli stronzi” sbuffò Mathias “Ci faranno scoprire”.
Acilia si sedette per terra, con la testa tra le mani, pensosa.
Sentì qualcuno che si sedeva accanto a lei, neanche doveva chiedersi chi fosse.
“Ehi” fece la voce dolce di Dubris “Tutto bene?”.
Perché non la smetteva di preoccuparsi così tanto per lei? Ma dopotutto era colpa sua, era lei che lo aveva illuso, abbandonandosi a lui. Ma lei non voleva impegni, non voleva complicazioni perché anche se erano passati tre secoli la vita distrutta di Miguel era ancora lì a un passo da lei.
“Quanti siamo?” disse lei, bruscamente “Quanti cavalieri siamo in Europa? E’ impossibile tenerli sotto controllo tutti!”.
“Bisognerebbe punirli” disse Mathias “Sai, come fanno gli umani… Fai un reato e un minuto dopo bruci sul rogo”.
Lo disse col sorriso sul volto ma Acilia tremò vistosamente.
Lolita bruciava e non perdonava…
“Aci?”. Dubris la guardava preoccupato.
Smettila!
Odiava essere così debole ma non sarebbe mai più finita tra le braccia di un uomo per sentirsi protetta e amata… Perché lei non amava più, non lo voleva più fare.
“Delle leggi, sì, ci vogliono delle leggi” disse con sguardo vitreo, alzandosi in piedi “Ma sarà comunque impossibile tenere sotto controllo tutti, siamo sempre di più… Non la smettono mai di trasformare”.
Dubris aveva un’espressione risentita. “Spesso trasformano perché si sentono soli”.
“Lo so” disse subito lei, voltando di scatto la testa verso di lui “Non volevo giudicarti, lo so come ci si sente”.
Dubris fece un debole sorriso e lei guardò di nuovo da un’altra parte, sentendosi in colpa. 
“Torniamo alla base” disse. Forse era meglio discuterne anche con Lyuben.
Si guardarono intorno e poi tutti e tre si librarono in aria e sparirono, lasciando solo la solitudine in compagnia della misera donna.
 
 
Curtis aveva trentasei anni, viveva da solo ed era un fotografo.
Acilia gli aveva detto di avere diciotto anni, sperando che lui desistesse dal tentativo di conquistarla. In realtà lui non sembrava neanche volerla conquistare. Non si avvicinava a lei, non cercava la sua mano o un suo bacio, non chiedeva di accompagnarla a casa.
Quella era già la terza sera che si vedevano, e per la terza volta lui era oltre un bicchiere d’acqua, davanti a lei, con una birra in mano.
A lei andava bene così. Finché non si fossero toccati lei sarebbe stata al sicuro e finché continuavano a parlare lei poteva non pensare ai suoi guai.
Forse si stava cacciando nell’ennesimo guaio, perché Curtis aveva qualcosa che l’attirava. Il suo sguardo, le sue parole, il suo comportarsi come se lei fosse umana, l’atmosfera tiepida del bar.
Quando lei gli aveva detto di avere diciotto anni aveva sperato che lui la lasciasse stare, ma in realtà in un angolo aveva anche sperato l’esatto opposto. Com’era possibile una cosa del genere?
Dubris le chiedeva dove andasse ogni sera. Mostrava quella gelosia di un tempo che Acilia non sopportava. Ma dopotutto Dubris lo sapeva che lei non era sua, che non lo era mai veramente stata. Le spiegava che stavano tenendo d’occhio Kaeso, specie ora che era in Inghilterra. Che ci faceva in Inghilterra? Aveva un piano? Un piano che riguardava lei? Le domande erano tante ma quella che Dubris implicitamente le indirizzava ogni volta era una sola.
Perché sembra che non te ne freghi un cazzo?
Non era così, in realtà le importava. La verità era le importava più del dovuto. Le importava troppo e più ci pensava più le importava, mentre tutto quello che voleva fare era dimenticare.
“Hai la faccia di chi vuole dimenticare qualcosa” scherzò Curtis.
Acilia si riscosse e lo guardò, facendo attenzione. Non voleva rischiare di perdersi nei suoi occhi grigi.
“Cosa?”.
Dimenticare sembra una cosa da niente, quando vivi per duemila anni. Eppure non era mai stato davvero così.
Curtis era molto diverso da Miguel. Miguel era un ragazzo che non era mai davvero diventato uomo. Esternamente cresceva ma la pazzia l’aveva divorato, da dentro. Curtis era un uomo adulto di una società nuova, con addosso il peso della coscienza, non della fame e della malattia.
Quando guardava Curtis, Acilia non rivedeva Miguel. Era la prima volta che le succedeva da quando lui era morto. Guardare un uomo, desiderare un uomo senza percepire Miguel.
“Non dimostri l’età che hai, sai” stava dicendo Curtis.
“Mi dicono che sembro più grande” disse Acilia, riciclando una frase che avrebbe potuto essere di una qualsiasi ragazzina.
“Non è quello” replicò l’altro, con un sorriso “La tua espressione… è adulta”.
Acilia sbatté le palpebre e per un momento le venne la folle idea di spalancare gli occhi, e farsi guardare.
“Troppo sofferta per una ragazza di diciotto anni” continuò Curtis. Bevve un sorso e tornò a fissarla. “Perché non mi racconti la tua storia, Emily?”.
Acilia fece una risatina. “Non è così facile”.
Capì che l’avrebbe davvero voluto fare. L’avrebbe voluta davvero raccontare a qualcuno la sua storia. Perché non l’aveva mai fatto? Perché non si era mai confidata con Dubris? Perché aveva lasciato che Jacque si allontanasse da lei senza dargli neanche una spiegazione? Faceva terra bruciata intorno a sé, solo perché duemila anni erano tanti, scottanti, immutabili, e mai rivelati.
Si rese conto che con Curtis doveva fingere. Perché aveva voglia di dire tutto proprio  all’unica persona con cui doveva fingere? Perché aveva sempre finto con Jacque?! Il loro rapporto avrebbe potuto salvarsi…
“Non ho niente che non va, davvero” disse lei “Mi dispiace se sono di pessima compagnia, ho dei… problemi”.
Confidarsi con gli estranei era sempre stato più facile, perché loro non sono coinvolti in niente. Ma lei non poteva fare certo di testa sua.
Curtis ridacchiò, divertito. “Io trovo che sia una pessima compagnia una persona che non ne ha di problemi. Che noia sarebbe?”.
La noia, Acilia l’agognava tanto la noia.
“E tu?” chiese “Tu li hai dei problemi?”.
L’uomo sospirò. “Sì”.
Acilia inarcò le sopracciglia e lui si affrettò ad aggiungere: “I problemi di tutti… Quelli che hanno gli adulti”.
Gli adulti.
Curtis era misterioso. Sembrava avesse qualcosa da nascondere. Beh, come lei.
Prese coraggio. “Posso chiederti perché… Perché esci con me? Sono una ragazzina”. Fu strano definirsi in quel modo. Le ragazzine che vedeva camminare in divisa scolastica sghignazzando e guardando le vetrine dei negozi erano in un altro mondo rispetto al suo. Cercava di ricordare come era quando era davvero ragazzina, quando era viva. Più immatura di ora, certo, ma era diversa. I tempi erano diversi.
Curtis sorrise. “Non pensi più che io sia un maniaco?”.
“Diciamo che il tuo approccio è stato strano”.
Lui bevve lentamente. Sembrava dovesse riflettere prima di rispondere. Non sembrava un maniaco, ma era strano.
“Te l’ho detto, non sembri una ragazzina. I tuoi occhi hanno qualcosa da raccontare e io li ho notati”.
Acilia pensò di dover arrossire. Si addiceva a una ragazzina. I suoi occhi avevano qualcosa da raccontare? Jacque diceva che i suoi occhi erano freddi, spenti, senza un’anima.
“Non ho cattive intenzioni” disse ancora Curtis “Sei una bella ragazza e chissà quanti ragazzi più belli e più giovani di me ti fanno la corte”.
Acilia si fece sfuggire un piccolo sorriso. Avrebbe avuto da ridire sia sul più belli sia sul più giovani.
“Tu hai i tuoi problemi, io ho i miei” continuò l’uomo “Concediamoci solo qualche serata di spensierate chiacchiere”.
Era proprio quello che Acilia voleva. Ma sarebbe riuscita a mantenere le distanze?
“Ci sto”. Le parole le sfuggirono di bocca prima lei potesse riflettere.
Lei è un’umana! Cosa credi di fare?
Cos’avrebbe detto Jacque?
Ma non c’era bisogno che Curtis sapesse la sua natura, non c’era bisogno di niente…
Ti puoi anche trasferire ad Arcangelo!
Jacque la odiava ormai…
Si sforzò di bere un sorso d’acqua che, viscida e fastidiosa, andò ad accenderle il corpo in un lamento.
Si mosse leggermente sulla sedia, tentando di mantenere il sorriso sul volto.
Di giorno ormai i sogni, sempre più impotenti, la demolivano. Jacque le urlava addosso e Dubris le chiedeva che stesse facendo e perché non  stesse prendendo più la loro causa sul serio. Lyuben la guardava deluso e Ramona le chiedeva perché li avesse traditi.
Ma soprattutto il mondo dei suoi strani sogni era popolato da occhi blu, tremendi e glaciali.

 
 
Emily si mise la giacca e si accinse ad uscire.
Aveva già afferrato la maniglia della porta di casa quando sentì lo sguardo torvo di sua madre su di sé.
“Che c’è?” chiese, voltandosi a guardarla, un po’ scocciata.
Sua madre strinse le labbra. “Sei sicura di voler uscire? Sembri distrutta”.
Emily scrollò le spalle. “Sto bene”. Non era vero per niente, cascava dal sonno. Probabilmente a casa di Jacque si sarebbe addormentata.
“Torni sempre così tardi” si lamentò sua madre, alzando gli occhi al cielo “Come fai a concentrarti a lavoro? Non ti farai mica licenziare! Sai quant’è difficile trovare…”.
“Non mi farò licenziare, mamma” sbottò Emily. Ci mancava solo quello, farsi licenziare, non trovare più nessun altro lavoro e dipendere tutta la vita dai suoi genitori. La sola idea era repellente. “Tranquilla, a lavoro va tutto bene”.
Sua madre aveva il volto preoccupato ed Emily si sentì in colpa. Si sentiva sempre in colpa, tutte le volte. Del resto non poteva certo dirle la verità.
“Stasera non farò tardissimo” disse, per rassicurarla. Effettivamente la avrebbe fatto bene evitare di tornare alle quattro del mattino.
Ottenne l’effetto sperato perché sua madre annuì, un po’ più serena. Però aveva ancora un velo di preoccupazione negli occhi ed Emily sapeva che c’era dell’altro. Al telegiornale ogni sera venivano elencati i nomi di decine di vittime dei vampiri. Le cose erano peggiorate, ed Emily sapeva che era colpa della campagna di orrore di Kaeso.
“Ma perché devi uscire tutte le sere?” esclamò sua madre, lamentosamente “Coi tempi che corrono…”. Era spaventata a morte. Dopo il lavoro tornava precipitosamente a casa, si arrabbiava col marito se tornava tardi e permetteva a Michael di uscire tutti i pomeriggi, ma mai la sera. Con Emily però era diverso. Lei era grande, non poteva più comandarla.
“Andrà tutto bene, mamma” disse, la mano ancora ferma sulla maniglia.
Sua madre aveva l’espressione di chi stava per mettersi a piangere. Anche lei era stanca, perché – anche se non lo ammetteva – aspettava tutte le notti che Emily rincasasse sana e salva, prima di addormentarsi.
Tante volte la ragazza era stata tentata di dirle che non poteva accaderle niente, che i vampiri avevano un parlamento e delle leggi e che lei era sotto la tutela di un patto. Chissà, l’avrebbe sconvolta ma l’avrebbe fatta sentire meglio forse, dopo.
Si tolse la borsa dal braccio e prese a frugare dentro essa. Ne estrasse una pistola e la mostrò alla madre.
Costavano tanto le pistole con proiettili di legno ma i suoi genitori ne avevano acquistate due, e chiunque uscisse alla sera doveva portarsela dietro.
“Basta puntarla dritto al cuore, premere il grilletto e il vampiro è morto” disse Emily, cercando di apparire convinta. Non era affatto sicura che sarebbe stato così facile. Quell’arma la spaventava. Era una delle poche cose che potevano uccidere Jacque, per sempre…
Sua madre annuì, con un tremito ed Emily rimise la pistola nella borsa. Fece per uscire ma l’altra ancora la chiamò.
“Emi, ma dove vai tutte le sere?”.
Lei si voltò, incerta.
La donna abbozzò un piccolo sorriso incerto. “C’entra un uomo?”.
Emily sorrise, suo malgrado.
“Ti prometto che non farò tardi” disse, e poi uscì.
Chiuse la porta e si guardò intorno.
Le strade erano deserte, la gente se ne stava chiusa in casa. C’era solo una persona, al di là della strada, che guardava proprio nella sua direzione.
Emily si avviò verso Jacque. Da quando era comparso Kaeso, Jacque aveva deciso di andare a prenderla per portarla a casa sua, piuttosto che farle fare la strada da sola.
“Ciao” la salutò.
“Non è necessario che tu venga sempre fino a qua” disse lei “Se non vuoi che venga a piedi, posso sempre prendere la macchina”.
Jacque alzò le sopracciglia. “Credi che una macchina possa fermare Kaeso Virnius?”.
Emily ebbe una fugace visione di lei al volante, col parabrezza oscurato dal volto di Kaeso, che la guardava assatanato e con le zanne di fuori.
Cominciamo coi pensieri macabri.
“Guarda che non mi scoccia per niente venirti a prendere” disse Jacque “Cosa vuoi che mi faccia fare due passi?”.
“Per te è pericoloso uscire” tagliò corto Emily.
“Devo comunque uscire per nutrirmi” replicò il ragazzo, con sguardo incredulo “E renditi conto che sei molto più in pericolo tu di me!”.
Emily lo guardò in cagnesco. Si sentiva arrabbiata. Sua madre aveva tutto il diritto di essere preoccupata, ma Jacque no! Lo sapeva del patto.
“Guarda che Kaeso non ha il potere, non può fare quello che vuole! Non credo proprio mi attaccherebbe, sapendo che sono la ragazza del figlio di Acilia. Risalirebbero subito a lui e lo arresterebbero! E non mi sembra uno stupido” spiegò, stancamente. Non si era resa conto di aver alzato la voce.
Jacque aveva uno sguardo corrucciato. “Perché vuoi litigare?”.
“Io non voglio litigare”.
Lui si incamminò, sbuffando. “Se ti dà così fastidio che io ti venga a prendere, mi pare proprio di sì”.
Emily lo seguì, sentendosi in colpa. Lui era solo preoccupato per lei. Era ovvio che fosse preoccupato, lei era solo un’umana armata di una stupida pistola caricata con proiettili di legno!
Una volta che gli fu affianco, gli disse: “Scusami, è che sono stanca”.
Jacque sembrava ancora arrabbiato e non pareva intenzionato a rispondere. 
“Però se fai così mi rendi solo le cose ancora più difficili!” sbottò lei, sentendosi saltare i nervi.
Che diritto aveva lui di fare così?!
Jacque si voltò a guardarla, sbigottito. “Le cose difficili per te?”.
Emily sgranò gli occhi e si fermò. Cos’era quel tono? Era ovvio che fosse difficile per lei! Per lui cosa c’era di difficile? Qual era il problema, che mentre facevano l’amore le veniva voglia di mangiarla?!
“Credi che per me sia facile?” esclamò lei “Credi che sia facile stare con un vampiro? Non dormo la notte, mi dimentico di mangiare, a lavoro ho l’aspetto di una pazza, mia madre è preoccupata e la mia miglior amica ti vuole conoscere!”.
Si sentiva il volto in fiamme, mentre Jacque la fissava attonito. Passò qualche istante poi lui si mise a ridere, lasciandola di stucco.
“La tua miglior amica mi vuole conoscere?”.
“E’ tutto ciò che hai capito?” sibilò lei, mentre la rabbia dentro di lei cominciava a placarsi.
Jacque tornò serio. “Mi dispiace, io non vorrei che le cose fossero così difficili per te”.
Emily scrollò le spalle. Non voleva fare una scenata, la verità era che era stanca, molto stanca, e la stanchezza era una brutta bestia.
“E per te cosa c’è di difficile?” chiese. Tanto valeva guardarsi in faccia e dirsi la verità.
Jacque esitava e lei andò avanti: “La tua preoccupazione per me? Il fatto che litighi sempre con Acilia?”.
Lui la guardò sorpreso, addirittura a disagio.
Emily si strinse nelle spalle, ricordando il disagio di qualche giorno prima.
“Hai esagerato l’altra volta” disse “Le hai detto delle cose ingiuste, che colpa ne ha lei se Kaeso…”.
“Eike mi ha detto di averli sentiti confabulare” la interruppe Jacque, bruscamente.
“Confabulare?”.
“Sono entrati in cucina, hanno chiuso la porta e parlavano come se si conoscessero da un sacco di tempo”.
Emily inarcò le sopracciglia. “Questo non è confabulare”.
A Jacque era tornata sul volto quell’espressione arrabbiata. “Non hai sentito quello che ho detto? Acilia non ci ha mai detto nulla su Kaeso!”.
Emily non capiva proprio. Perché Jacque l’accusava così?
“Tu credi davvero che lei stia confabulando con il capo del PO? Stai parlando della tua creatrice!”.
Jacque abbassò lo sguardo e lei sentì una strana sensazione dentro di sé.
La domanda le attraversò le cavità orali prima che lei se ne rendesse conto: “Perché quando si parla di Acilia diventi così strano?”.
Lui aveva gli occhi meno freddi. Erano occhi tristi.
Emily si rese conto che Jacque aveva passato con Acilia praticamente tutta la sua vita, più di cento anni… Provò una fitta di gelosia, così, all’improvviso, mentre guardava i suoi occhi.
Per lui non era certo come una madre, era ovvio.
Ricacciò indietro le lacrime, così inutili e imbarazzanti.
Ti prego, Jacque, dì qualcosa…
“E’ lei che è strana” disse lui.
Lei era così forte, intelligente e così bella. Possibile che Jacque non avesse mai avuto pensieri su di lei? Emily era così insignificante in confronto.
Cercò di inghiottire il boccone amaro.
“Credi che lei vi stia nascondendo qualcosa?”.
“Non lo so” ammise Jacque.
Presero di nuovo a camminare. Erano quasi arrivati, Emily già scorgeva quella casa per lei così piena di misteri.
Cos’è avvenuto in quella casa?
Qualunque cosa fosse avvenuta, apparteneva al passato. E chissà, magari Jacque un giorno gliene avrebbe parlato. Stavano insieme solo da due mesi dopotutto, non era tenuta a sapere ogni cosa.
“Eike dice che è ovvio che Acilia abbia dei segreti, dopotutto ha quasi duemila anni di vita” disse Jacque, meditabondo.
Emily si sentì sollevata. Il fatto che lui parlasse di Acilia tranquillamente rendeva in qualche modo meno chiaro il suo sospetto.
“E’ strano pensare a una persona che ha vissuto così tanto” disse, fantasticando.
Si voltò verso Jacque. “Ha conosciuto Dracula?”.
Lui la guardò allibita. “Dracula?”.
Emily arrossì lievemente. “Ho fatto delle ricerche” disse “Ma non ho ancora capito se Dracula sia realmente esistito”.
Jacque fece un mezzo sorriso. “E’ solo un libro”.
Emily si sentì stupida, e si sentì arrossire ancora di più.
“Ma che ricerche hai fatto?” aggiunse lui.
“Volevo capire quando gli umani si sono accorti per la prima volta dell’esistenza dei vampiri… Però poi è stato tutto messo a tacere fino alla fine del Novecento no? Credevano fossero solo leggende” spiegò lei.
“Esatto”.
“La prima leggenda riguardante vampiri è quella di Jure Grando, vero?”.
“Sì”.
Erano arrivati davanti a casa e si fermarono.
“E lui è esistito?” insistette Emily “Voglio dire, come vampiro”.
Jacque scosse la testa. “Non credo proprio”.
La guardò con un sorriso malizioso. “Non siete mai stati tanto bravi in questo voi umani”.
Emily ricambiò lo sguardo confusa. “In cosa?”.
Jacque strinse gli occhi e si avvicinò a lei, fino a sfiorarle la bocca. Poi subito si allontanò e disse: “Prenderci”.
Sparì e un secondo dopo era sulla soglia di casa, con la porta aperta.
Emily si mise a ridere e si lanciò nel suo impossibile inseguimento.
 
 
“Si fanno chiamare i Cavalieri di Lucius” stava spiegando Lyuben, seduto su un divano di velluto.
Dubris, accanto a lui, fece una smorfia. “L’avevo detto che bisognava ucciderli tutti quando abbiamo preso il suo castello”.
Lyuben non parve turbato. “Oh” disse, tranquillo “Non credo proprio siano solo loro. Il loro gruppo sarà sicuramente aumentato”.
“Fantastico” commentò Ramona.
Acilia, in piedi, si stava mordicchiando il labbro e contorcendo le mani. Che si fosse immischiata in una faccenda troppo grande? Era la regina ma come avrebbe potuto farsi rispettare da tutti?
Fece scivolare lo sguardo sui presenti. Lyuben era calmo ma serio, Ramona preoccupata, Dubris nervoso, Mathias scocciato e Victoire annoiata. Acilia aveva scelto loro cinque come consiglieri, aiutanti o come altro avrebbe dovuto chiamarli. In realtà prendevano le decisioni tutti insieme, e lei si sentiva un po’ inutile come regina. Si sentiva più un simbolo che altro ma, dopotutto, come le diceva sempre Lyuben, era stata lei ad alzare tutto quel polverone. Aveva fatto bene? Non le conveniva continuare la sua vita indifferente senza preoccuparsi degli altri cavalieri?
No, pensò, incrociando lo sguardo di Dubris, non sarebbe più riuscita a vivere nell’indifferenza. Vivere per il gusto di vivere non aveva proprio più alcun senso per lei, avere qualcosa per cui combattere invece non l’avrebbe lasciata morire. E poi c’era il sogno di Marcus, quello così violentemente spezzato.
“Temo ci sarà un’altra guerra” disse Victoire, con noncuranza.
Mathias fece un suono che sembrava una specie di lamento. Acilia sapeva che era inevitabile ma si sentì comunque oppressa. Avevano combattuto così tanto, contro ogni Superiore che non si volesse piegare alla sua volontà. Era davvero la cosa giusta? Non era una regina, era una tiranna. Si guardava intorno. Quella sala di quell’ultimo castello che avevano conquistato era molto bella, ma era ancora intrisa dell’odore del sangue.
Nessun Superiore di nessuna zona avrebbe mai rinunciato al divertimento di essere un cavaliere – all’uccidere – e Acilia si convinceva che stesse facendo la cosa giusta. Lei aveva ucciso tanti umani, ora aveva smesso ma… uccideva tanti cavalieri. Era poi così diverso?
Guardò Mathias e ripensò alla morte di Fernand.
Credeva che la sua vita valesse meno della tua no?
Avrebbe perso qualche altro compagno, succedeva di continuo.
“Tutti sanno di me” dichiarò “tutti sanno di noi e di quello che facciamo da circa due secoli. Credo abbiano già avuto tutti modo di scegliere da che parte stare”. Guardò i volti di quelli che ormai aveva cominciato a considerare amici, cercando di apparire convinta.
“Quindi non ci resta altro da fare che ucciderli”.












Salve a tutte, vi scrivo ammalata e dolorante  quindi fatevi piacere questo capitolo ancora di più :3

Dunque, volevo allegare qualche chiarimento, se serve.
La leggenda di Jure Grando è la prima leggenda riguardante vampiri e risale appunto alla fine del diciassettesimo secolo. In Internet ho trovato poco, e cioè che questo Jure era un contadino istriano che, nel 1672, dopo sedici anni dalla sua morte, era tornato sotto forma di vampiro e uccideva nel suo stesso villaggio, ed era pure apparso alla moglie. Il governatore aveva deciso di provare a impalarlo ma senza successo, quindi poi è stato decapitato. Le frasi in corsivo (che sarebbero quelle che Imma legge) appartengono al libro Die Ehre des Hertzogthums di Johann Weichard von Valvasor, libro che ha reso famosa tale leggenda. Comunque, dato che non ho letto il libro e dato che tanto è solo una leggenda, ho aggiunto dei fronzoli come avete letto XD Nella mia storia, come avrete capito, la leggenda è solo una leggenda (come è effettivamente nella realtà). Il povero Jure Grando non è mai diventato vampiro e la povera Ulika, suggestionata dalle parole di Ivan, ha solo immaginato di vederlo. Per il fatto che poi, scavando nella sua tomba, hanno trovato un corpo intatto e perfetto, a voi la scelta: potrebbero aver avuto tutti (o comunque buona parte dei presenti) gli occhi deformati del terrore (come dice Acilia) oppure potrebbero aver sbagliato tomba.. il che li rende ancora più stupidi ma va beh D:


Poooi.. Fa qui il suo rientro nella storia Imma, così anche questo capitolo ha tre livelli temporali. L'ordine che seguo per le sequenze è tutto studiato e motivato quindi vi volevo chiedere.. non è che visto dall'esterno sembra un gran macello? D:

Passiamo ai ringraziamenti vari :D

Sara, sempre puntuale :D il nome del programma certamente è stato fatto apposta.. Insomma, con tutti questi drammi ci vuole qualcosa per spezzare XD Stessa cosa vale per l'intermezzo di Kaeso ed Eike, e anche per la scena di Dubris indemoniato che ti ha fatto ridere (la battaglia se no diventava troppo seriosa u.u). Sapevo che il discorso di Curtis avrebbe risvegliato ricordi di piacevoli esami passati (ebbene sì, a sto mondo esiste anche qualche esame piacevole, per così dire) XD Per il resto, che dire, hai commentato tutto e aspetto con trepidazione altri commenti ;)
Nene, qualunque tipo di vampiro tu abbia in mente, il fatto che i vampiri volino non può essere una mia "bella trovata" (ti cito testualmente) se milioni di altri scrittori ne hanno già parlato prima di me.. ma magari non lo sapevi, lo preciso semplicemente perché non voglio meriti che non ho ^_^ Poi ci tenevo a ricordarti che i vampiri sono esseri inesistenti e ognuno se li crea come vuole (a meno uno non tolga loro il tratto principale: bere sangue umano D:).. quindi se il mio paletto di legno ti sembra "una cagata" mi dispiace ma ho scelto di costruirmi il "mio" vampiro in questo modo ;) Inoltre, ehm, definire Bram Stoker una mente malata.. ehm, è un'affermazione moolto azzardata : Parlando della storia, certo, il "cavaliere dagli occhi blu" è Kaeso e, sì, Jacque ha davvero esagerato XD Mi fa molto piacere che ti sia piaciuta l'atmosfera pre battaglia e ti abbia divertito Eike (il mio punto di forza è sempre il dramma, a fare della comicità ci provo XD).. Per Curtis ahahahah, che ci vuoi fare.. sti "stalker".. ne sappiamo qualcosa eh XDXD 
Norine, non sarai mai in superritardissimo quando c'è RedTears di mezzo (frecciatina :D).. Grazie mille per l'"ottimo capitolo" e vedo che ho suscitato in te tutte le sensazioni giuste :D alla prossima recensione!

Ringrazio anche tutti coloro che leggono solo. Non siate timidi, lasciatemi una piccola recensione :DDDD

Ooooggi devo dire che la sezione post-capitolo è davvero lunga. Sarò ispirata? Ho pure fatto tutto in due colori.. Beh, già che ci sono vi dico anche che ho ripianificato per l'ennesima volta i capitoli che mancano alla fine (ma potrei farlo ancora mille altre volte) e ce ne sono ancora diiieeciii (aiuto -.-)

Alla prossima! :)









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Capitolo 16
*** Isteria ***


Quindicesimo capitolo

CAPITOLO XV
ISTERIA

 

 


Austria, 1726 

 
I Cavalieri di Lucius che Acilia e i suoi compagni avevano combattuto più volte ormai non si facevano chiamare più così. Dopotutto Lucius era morto ormai tre secoli prima e il suo nome, seppur così imponente e maestoso un tempo, non sarebbe rimasto nella storia. Era solo un pretesto, perché loro non volevano essere il portavoce di nessuno, né volevano vendetta. Volevano il sangue e dicevano in giro di essere i veri vampiri. Vampiro era un termine recente, che gli umani sussurravano con terrore. Che diavolo significa vampiro, aveva chiesto Dubris, la prima volta che l’aveva sentito.
Il termine veniva dalla Serbia e si era diffuso come una macchia d’olio in tutta Europa. Significava qualcosa come stregone che succhia sangue.
Ma non importava veramente che cosa significasse, era qualcos’altro che importava. Il fatto che avessero un nome, il fatto che gli umani sapessero come chiamarli… dimostrava palesemente che il loro mondo non era più nascosto.
Era ovvio che sarebbe finita così. I cosiddetti veri vampiri non si preoccupavano di incantare le persone, non si preoccupavano di nutrirsi in privato, spaventavano ma soprattutto uccidevano, e tanto. Andavano in giro dicendo agli altri vampiri che la regina non era legittima, che aveva preso il potere con la forza e accumulavano sempre più seguito. La sfidavano, le chiedevano di avere dei diritti, dicevano che non era giusto che fosse lei a decidere per tutti. E Acilia li combatteva. E rimaneva a guardare gli esseri umani, al colmo della disperazione, che disseppellivano i loro cari e li impalavano, per il terrore di vederli ricomparire sottoforma di vampiri.
Erano in molti a crederci, tanti che lo facevano davvero. Pochi ancora non credevano ai vampiri. Dicevano che erano tutte storie, che la morte è un punto di non ritorno e cercavano di mantenere l’ordine.
“E’ il caos là fuori, Dubris”.
Era stanca di combattere e di vederli morire.
Alla fine ciò che le piaceva di più era stare accoccolata tra le braccia di Dubris all’interno del loro palazzo. Non che Dubris le piacesse più di tanto. Poteva esserci chiunque altro al suo posto, il punto era che scegliere Dubris era stato più facile, perché lui era completamente stregato da lei. E quando ci pensava, pensava di piacergli veramente, ed era allora che si sentiva una stronza. Ma che importanza aveva? Tanto erano tutti e due morti, ed erano destinati a morire di nuovo. Voleva solo un po’ di pace e quella pace la trovava nel calore dell’amore di qualcun altro, mentre il suo non riusciva più ad accendersi.
“Morti per strada, tombe che vanno a fuoco, cadaveri profanati per strada… Non è un bello spettacolo eh?” fece Dubris, accarezzandole i capelli.
“E’ colpa mia?” disse lei, lasciando scorrere i suoi pensieri e abbandonandosi al suo tocco “Ho sbagliato qualcosa?”.
“Hai fatto il possibile”.
Non poteva essere tutto finito lì.
“E se invece avessero ragione i VV?” domandò ancora lei, riferendosi ai veri vampiri.
“Ma che stai dicendo?”. Dubris era sorpreso.
“Forse dovremmo seguire la nostra natura e basta”.
Lui le prese il volto e glielo girò e lei si ritrovò faccia a facca col suo sguardo severo. Ricordò che tre secoli prima era stato difficile convincerlo a seguirla nei suoi ideali e ora provò vergogna.
“Se seguissimo la nostra natura, tutti gli umani morirebbero o si trasforemerebbero in vampiri, e il mondo andrebbe a puttane”.
Era vero. Quello che facevano i VV era controproducente, ma allora loro per cosa stavano lottando? Non solo proteggevano gli umani, proteggevano il loro cibo
Si discostò un pelo da Dubris, sentendo un malessere che cresceva dentro di sé.
“Allora noi… Siamo così migliori dei VV?” fece.
“Certo che lo siamo!” esclamò Dubris. La guardò negli occhi. “Aci, dobbiamo pensare anche alla nostra di salvaguardia! Guarda che ne hai parlato tu per prima… convivenza tra umani e vampiri”.
Acilia evitò il suo sguardo ma lui le prese di nuovo il volto.
“Non voglio sentirti parlare così, Aci, non tu, non dopo tutto quello che abbiamo fatto, e quello che abbiamo perduto”.
Lei lentamente annuì, sentendosi di nuovo triste.
“Credi che a Mathias farebbe piacere?” insistette lui.
Mathias era morto l’anno scorso e lei aveva scoperto che le avrebbe fatto piacere seppellirlo da qualche parte. Ma non c’era nessun cadavere da sotterrare perché in realtà lui era morto tanti secoli prima e la sua tomba era già da qualche parte in Francia.   
Dubris aveva uno sguardo strano. “Tu e Mathias avete avuto dei rapporti?” domandò.
Acilia sussultò e si sentì inquietata dalla sua espressione. Che cosa c’entrava  ora una sciocchezza come un rapporto?
“Un paio di volte” rispose.
Dubris non rispose e lei lo fissò, un pelo arrabbiata.
“Sono affari miei” disse.
“Lo so” rispose l’altro. Aveva gli occhi tristi. Forse era perché il loro taglio era inclinato verso il basso, Acilia non se n’era mai accorta. O forse era triste davvero.
“Io non ti devo niente!” esclamò, sulla difensiva. Si mise seduta sul letto, stirandosi la veste stropicciata. Era sempre stata chiara in proposito, ma si sentiva in colpa lo stesso.
Dubris tentò un sorriso forzato. “Posso ancora sperare?”.
Acilia socchiuse gli occhi e sospirò. Ne aveva davvero abbastanza di veri vampiri, di umani… Non doveva complicarsi ancora di più le cose! Mathias almeno si faceva meno problemi. E forse, in fondo, era per questo che lei preferiva Dubris. E si odiava per questo…
“Perché?” le chiese lui, prendendola una mano “Dimmi perché”.
Acilia rivide nei suoi occhi e nella sua voce quelli di Miguel e si sentì smarrire.
Dimmi cosa sei.
Dubris non le toccava le corde del cuore come Miguel, e lei non si sentiva in grado di dargli niente.
Si lasciò prendere la mano e se la lasciò avvicinare al volto di lui. Lui la baciò, poi si avvicinò al suo viso, in cerca delle sue labbra.
“E perché tu invece non mi lasci perdere?” domandò lei.
Dubris la baciò dolcemente. “Non chiedermi questo”.
Ad Acilia dispiaceva. Non voleva lasciarsi andare così. A volte aveva l’impressione che vivere per millesettecento anni non l’avesse fortificata affatto. E se continuava a fare del male agli altri, allora dalla vita non aveva proprio capito niente.
Possibile che in realtà non crescesse? Possibile che sarebbe rimasta in eterna la stessa insicura ragazzina di diciotto anni che tenta di giustificare i suoi errori e mascherare i ricordi?
In uno slancio sentimentale abbracciò il freddo ed esile Dubris, immaginando che fosse il corpo caldo e forte di Miguel.
“Che cosa devo fare, Dubris?” chiese in un sussurro “Cosa devo per l’Europa?”.
L’Europa stava cadendo, si stava accortacciando sotto le urla mescolate dei vivi e dei morti, degli umani che combattevano una guerra persa in partenza e sotto il sangue innocente, che ricopriva ogni angolo buio, dove non batteva il sole.
 
 
Germania, 1934
 
“L’hanno chiamata Controversia sui vampiri del diciottesimo secolo” stava spiegando il dottor Pohl.
“E che cosa diavolo sarebbe?” replicò la signora Lehmann, con un moto di stizza.
“Una vera e propria isteria, signora” rispose il medico, con un sorriso, paziente “Le persone avevano veramente paura dei vampiri. Attribuivano la morte dei loro cari a questi esseri leggendari e tiravano fuori i loro morti dalle fosse per finirli definitivamente con un paletto di legno, per evitare la loro trasformazione. Oserei definirla una psicosi”.
Il signor Lehmann borbottò qualcosa e la moglie si coprì la bocca con una mano. “E’ questo che ha Imma, dottore? E’ psico… psico…”. Le sue parole sfumarono in un sospiro.
Imma se ne stava seduta in un angolo dello studio medico, corrucciata.
Sapeva bene cosa significava il termine psicosi. Non si trattava semplicemente di nevrosi, psicosi era quando perdevi il contatto con la realtà.
“Oh no” disse subito Pohl, alzando le mani “Non siamo ancora a questi livelli”. Al di là degli occhiali, grandi e spessi, aveva occhi piccoli e rassicuranti.
Il padre di Imma si chinò sulla scrivania per avvicinarsi a lui. “Dice che suo fratello morto è diventato un vampiro!”. Aveva bisbigliato, quasi digrignato, ma Imma aveva sentito ogni singola parola.
“Signore” ribatté Pohl in tono calmo e professionale “Possono esserci molteplici motivi. La nostra mente non è una macchina perfetta e se qualcosa non funziona, non necessariamente è del tutto guasta”.
I signori Lehmann avevano delle espressioni visibilmente confuse.
Imma odiava essere lì. Ma le mani le tremavano, la sera voleva andare in giro a cercare Eike e la notte urlava.
Eike è morto, Imma! Smettila di cercarlo!
Sua madre pensava che Imma non accettasse la morte di Eike, ma la verità era diversa. Imma l’aveva accettata e aveva accettato anche la sua conseguenza. Eike, anche se non da vivo, calpestava il terreno là fuori da qualche parte!
Era un anno che andavano avanti così.
Quelle storie! Quelle maledette storie che leggi ti hanno dato alla testa! Sua madre le aveva confiscato ogni singolo libro sui vampiri. Al momento erano in uno scatolone, in attesa del loro ignoto destino.
Dopo un anno di sopportazione il signor Lehmann aveva concluso che Imma doveva essere pazza e aveva deciso di portarla da uno psichiatra.
Imma aveva gridato fino allo sfinimento che non era matta e che non sarebbe andata da nessun medico ma alla fine anche sua madre si era convinta a portarla dal dottor Pohl. Per il suo bene diceva. Imma credeva davvero che sua madre fosse preoccupata. Suo padre invece forse sperava solo che la rinchiudessero in qualche gabbia di matti così si sarebbe sbarazzato di lei.
“Per poter capire qualcosa di più” disse Pohl, sbirciando oltre le spalle dei signori Lehmann “ho bisogno della collaborazione di Imma”.
Collaborazione significava farsi curare. E Imma non aveva bisogno di nessuna cura.
“Quindi vi pregherei cortesemente di lasciarmi solo con vostra figlia” continuò il medico, affabile, pronto a stringere la mano ai due coniugi. Questi ci misero qualche secondo a reagire ma poi gliela strinsero con un piccolo accenno di sorriso incerto e uscirono dallo studio.
Pohl attese che la porta fu chiusa per rivolgere uno sguardo speranzoso a Imma, seduta sul divanetto in fondo allo studio.
“Vuoi che venga io lì?” domandò, zuccherino.
Imma si alzò e si andò a sedere sulla sedia occupata poco prima da sua madre.
Guardò Pohl con aria di sfida. “Non mi parli come se fossi una bambina”.
Lui sembrò compiaciuto. “E quanti anni hai, Imma?”.
“Quasi sedici”.
“E quanti anni avevi quando è morto tuo fratello?”.
Imma sgranò gli occhi. Allora era già cominciato l’interrogatorio dello strizzacervelli.
“Quattordici” rispose, dopo qualche attimo di esitazione.
“E lui?”.
Imma strinse i pollici. Teneva le mani serrate in un pugno, appoggiate sopra alla gonna. Lui aveva… aveva…
“Quanti anni aveva Eike, Imma?”.
“Dodici”.
“Come è morto?”.
Imma si sentì accapponare la pelle. Ogni volta che pensava a quella mattina, in cui aveva trovato suo fratello morto nel suo letto… Sembrava dormisse, ma non si destava ai suoi richiami. Poi aveva notato che era freddo, e con una strana espressione serena sul viso. L’immagine di Eike che aveva ora nella mente aprì gli occhi, rossi, e lei sussultò.
“E’ morto all’improvviso… di notte. I medici non hanno mai capito di cosa, pensano sia una malattia legata al cuore” spiegò, mantenendo ferma la voce.
“Sì, ho sentito di casi del genere. Casi strani” fece Pohl, a bassa voce, come se parlasse con se stesso.
Troppo strani. Non poteva essere un caso che un bambino morisse in circostanze misteriosissime e che poi lei lo vedesse tornare vampiro! Aveva chiesto ai suoi genitori di poter aprire la bara, di poter verificare che lui fosse davvero lì. Ma loro si erano rifiutati. L’ho già sepolto una volta, aveva detto sua madre con gli occhi lucidi, non lo farò un’altra volta.
“Perché non mi parli di lui?” continuò Pohl.
Imma non aveva nessunissima voglia di parlare di Eike. Quando pensava a lui i ricordi si assottigliavano così tanto da diventare nebbia, che non riusciva ad afferrare, ma che le offuscava terribilmente la vista.
“Imma”.
La voce del dottore arrivava come un eco lontano. Perché lei non riusciva più a essere razionale? Perché cominciava a sentirsi strana, a vedere il tutto come se fosse sconnesso da lei, a credere a cose fantasiose, a leggende?
“Imma, riesci a ricordarti il volto di Eike?”.
“Sì”.
“Descrivimelo”.
Imma provò a concentrarsi. Eike, da qualche parte, in qualche momento, la stava guardando col volto traboccante di rimprovero e paura. Era il solito fifone, quello che credeva a tutto e si spaventava con niente.
“Ha il viso piccolo, le guance piene, il naso a patata…”.
“Perché dici ha?”.
“Poi ha gli occhi azzurri, i capelli corti e biondi…”.
“Imma, perché dici ha?”.
Imma si fermò, confusa. Cos’altro avrebbe dovuto dire?
“Quanti anni ha Eike?” domandò Pohl.
“Dodici” ripeté Imma, sorpresa “Me l’ha aveva già chiesto”.
“Ti avevo chiesto quanti anni aveva quando è morto”.
“Dodici” insistette Imma, arrabbiata “E’ morto a dodici anni quindi avrà sempre dodici anni!”.
E avrebbe sempre avuto i capelli biondi, e le guance piene e il naso a patata. Pohl non capiva.
“In che rapporti eravate?”.
“Buoni”.
“Buoni quanto?”.
Imma lo sapeva di voler sviare la domanda. “Come si fa a quantificare? Erano buoni e basta”. Era nervosa, e Pohl se ne accorse.
Si avvicinò a lei, con lo sguardo di chi aveva già capito tutto.
“C’è qualche cosa che non hai fatto in tempo a dirgli? Qualcosa di cui ti rimproveri?”.
Mi dispiace, Eike.
“Io… sì, forse”.
La concentrazione del dottore era quasi palpabile. “Di cosa ti rimproveri?”.
Imma non voleva dirglielo, ma le parole vennero da sé. Le mani le tremavano, nel tentativo di afferrare tutta la sua razionalità che era scivolata via.
“Gli raccontavo delle storie dell’orrore” disse, fissando una pila di fogli sulla scrivania “Gli mettevo paura”.
Pohl sospirò. “Rigurdanti cosa?”.
Lo sa già.
“Imma, queste storie di che cosa parlavano?”.
Di zanne, di sangue, di esseri mortali, di Eike, che era sia vittima sia carnefice…
“Di vampiri”.
Il dottore incrociò le braccia e strinse le labbra. Attese qualche attimo prima di parlare di nuovo.
“Eike si è trasformato nelle tue storie dell’orrore” disse. Si sistemò gli occhiali sul naso, che stavano scivolando giù. “Ti sta punendo”.
“Sì” rispose subito la voce tremante di Imma. Dopotutto lo sapeva che era questo che voleva Eike. Qualche ignobile essere l’aveva trasformato in un vampiro e lui era tornato per farle vedere che non aveva più paura, che doveva averne lei ora… Si voleva vendicare…
“Però” esclamò lei, alzando un po’ la voce “Se mi vuole punire perché è venuto da me solo una volta?”
“Imma…”
“Perché non torna?!”.
“Imma” insistette Pohl, sempre calmo “Lo sai chi ti sta punendo?”.
Eike. Non l’avevano appena concluso?
Ma lei non rispose e il dottore dichiarò: “Il tuo inconscio”.
Imma aggrottò la fronte. Inconscio era una parola che negli ultimi tempi andava tanto di moda, ma lei proprio non riusciva a capire cosa fosse.
Pohl decifrò la sua espressione. “L’inconscio è una parte di noi inconsapevole e inaccessibile. E’ quel luogo della mente in cui finisce tutto ciò che rimuoviamo”.
“Cioè dimentichiamo?”.
“No, le cose che dimentichiamo le possiamo recuperare. Ti ho detto che è un luogo inaccessibile. Tu non puoi entrarci, solo un estraneo – il medico – può aiutarti a fare luce”.
Imma scosse vigorosamente la testa. Una parte di lei in cui lei non poteva accedere? Una parte della mente che non conosceva? Non aveva senso.
“E che cosa rimuoviamo? I ricordi?”.
“Sì, per esempio”.
Gli occhiali di Pohl scintillavano di sicurezza.
“E perché li rimuoviamo?” chiese ancora lei.
Lui chinò la testa un momento, poi la rialzò. “Perché ci danno fastidio. Non li accettiamo, li neghiamo o, peggio, li rinneghiamo”.
Imma cominciava a sentire caldo. Quello studio, quelle parole, lo sguardo del medico la soffocavano.
“Io non ce l’ho questo inconscio, io non ho mai rimosso niente”.
Pohl la ignorò con un sorriso.
“L’inconscio manifesta la sua presenza attraverso sintomi”.
La sensazione che quello che le stava intorno fosse sconnesso da lei…
Basta, pensò Imma, basta! Che la smettesse di parlare, perché la verità era che lei stava cominciando a capire.
“Nell’inconscio tu, Imma, ti vuoi punire. Tu ti odi per quello che hai fatto ad Eike e non puoi sopportare il peso di quest’odio. L’inconscio è quella parte di te che è senza freni, che vuole il tuo bene, che insegue i tuoi desideri. Sta cercando di farti stare meglio, ti punisce perché è quello che tu vuoi”.
“La smetta”. La voce di Imma era un bisbiglio, ma lei la sentiva vibrante di rabbia. I suoi pensieri lei li conosceva molto bene, quel medico non poteva venirle a dire che la conosceva meglio di se stessa!
“Quell’Eike vampiro che tu credi di aver visto…”.
“Io non credo niente!” sbottò la ragazza, sempre più arrabbiata “Io l’ho visto!”.
Pohl cercò di sovrastare la voce di lei alzando la sua. “…era una proiezione del tuo inconscio!”.
“Era Eike!” gridò Imma, alzandosi in piedi e sentendosi le lacrime agli occhi “L’ho visto distintamente, con questi occhi! Non me lo sono immaginato!”.
Pohl si alzò con lei e cercò di acquietarla con le mani. “Non tutto ciò che vediamo è reale”.
Imma si asciugò gli occhi. Che cavolo significava? Se non si poteva più fidare neanche di se stessa di chi si poteva fidare?
Pohl indicò la propria tempia. “E’ la mente, Imma. La nostra psiche è potentissima, neanche hai idea di cosa ci sta là dentro”.
“Io le dico che l’ho visto” piagnucolò lei. La testa le faceva male e chiuse gli occhi. Aveva paura di vedere cose che non avrebbe dovuto vedere.
Non tutto ciò che vediamo è reale.
Davvero la sua mente poteva condizionare la realtà che la circondava? La realtà, quella che vedeva, quella che toccava… E qual era la vera realtà?!
Sentì due mani che le si poggiavano sulle spalle e lei si placò un poco.
“Imma” la chiamò la voce di Pohl e lei si decise ad aprire gli occhi “Cosa non hai fatto in tempo a dire ad Eike?”.
Ancora quella domanda.
Questa volta Imma rispose.
“Che mi dispiace” farfugliò. Si abbandonò sulla sedia e scoppiò in lacrime. Possibile che la sua mente avesse creato l’immagine di Eike e l’avesse fatta sembrare reale cosicché lei potesse chiedergli scusa?
Nella sua testa una sola parola veniva gridata con sicurezza. Psicosi.
“Ma io l’ho visto…” continuava a singhiozzare. Senza quasi rendersene conto, strinse i pugni e li batté sulla scrivania, digrignando i denti. Non si vergognava di fronte al medico, voleva solo sfogare il suo dolore per la morte del fratello, la sua disperazione per averlo visto tornare come lui non avrebbe mai voluto essere, la sua frustrazione perché non capiva più quello che era reale e quello che era frutto della sua mente.
Qualcuno bussò alla porta e qualcuno subito scivolò dentro la stanza. Imma sentì due braccia sulla schiena e capì che doveva essere sua madre.
“Cos’è successo?” chiese la signora Lehmann, trafelata “Cos’ha scoperto?”.
Imma non vedeva quello che stava accadendo, nascosta tra le sue braccia, al riparo dalla realtà, sentì solo dei sussurri. E sua madre poi le disse: “Imma, perché non ci aspetti fuori? Prenditi un tè intanto”.
Continuavano a trattarla come se fosse una bambina. Si alzò di malavoglia ed evitò accuratamente di incrociare lo sguardo deluso del padre. Pohl doveva sputare il verdetto? Doveva dire ai suoi genitori che era pazza e non voleva dirlo in sua presenza? Doveva scrivere loro l’indirizzo del manicomio più vicino?
Uscì dallo studio ma, incapace di avanzare, rimase lì inchiodata e, combattendo contro se stessa, incapace di reagire, avvicinò l’orecchio alla porta, in ascolto.
“Allora, dottor Pohl? Noi la paghiamo e vorremmo delle risposte” stava dicendo suo padre, in tono poco amichevole.
“Non è nulla di grave, signor Lehmann” rispose Pohl, con tutt’altro tono “Quando perdiamo una persona cara, la nostra mente ci può tirare dei brutti scherzi”.
Imma sentì distintamente sua madre emettere un sospiro.
“Ma viviamo in una società strana, signori” continuò il dottore, annettendo una nota preoccupata nella voce “Sono tempi strani questi e sarebbe meglio per tutti che Imma si convincesse che Eike è morto e sepolto, e che non è un vampiro. Deve venire da me ogni tanto, per semplici conversazioni”.
Il signor Lehmann emise uno sbuffo. “E quanto costerebbe questo?”.
“Non è questione di prezzo, signor Lehmann”. Pohl era, per la prima volta, lievemente irritato. “Vostra figlia rischia di diventare isterica”.
Isterica?
Imma si allontanò dalla porta con uno scatto, senza voler ascoltare altro.
Una vera e propria isteria, signora. Le persone credevano veramente nei vampiri.
Ricordò improvvisamente di quando poco prima si era messa a piagnucolare e a battere i pugni sul tavolo. Si vergognò, ma cercò di tranquillizzarsi. Prima era convinta di non aver bisogno di nessuna cura, adesso cercava di calmarsi ripetendosi che il dottore aveva detto che non era nulla di grado.
Era diventata matta?
Eppure lo sapeva che i vampiri non esistevano. Quella parte razionale che ancora era da qualche parte dentro di lei, lo sapeva.
Continuò a piangere, silenziosamente, finché la porta non si aprì e allora incrociò gli sguardi funerei dei suoi genitori.
Tutti e tre, senza una parola, uscirono dall’edificio poi sua madre si girò a guardare l’insegna sul portone che dichiarava il divieto agli ebrei di entrare.
Imma guardò da un’altra parte, nauseata.
“La gente non vuole problemi” dichiarò improvvisamente sua madre, fissando l’insegna. Si voltò verso Imma, che la guardava smarrita, con gli occhi gonfi di pianto. Ma fu suo padre a parlare, in tutta sicurezza: “La parola vampiro è ora vietata quanto la parola ebreo, Imma. Mettitelo ben in testa”.  



La vetrina della pasticceria non mostrava il suo riflesso.

La gente non se ne accorgeva, probabilmente era troppo impegnata a fissare i dolci.
“Non ti manca il sapore dei dolci?” gli chiese Emily, prendendolo sotto braccio.
Jacque fece vagare il suo sguardo sulle torte. Erano così belle da guardare. Grandi, colorate e decorate, sembravano finte, sembravano oggetti.
“I sapori si dimenticano” disse “E i dolci… I dolci danno assuefazione vero? Più ne mangi, più ne vuoi. E se non li mangi per molto tempo, poi non ne senti più il bisogno”.
“Molto tempo come cent’anni?” sussurrò Emily, senza lasciarlo andare.
Jacque ridacchiò. “Ne bastano molti meno, credo”.
“Non sarebbe male, sai?” disse lei, fissando la vetrina con occhi golosi “Dovrei provare a smettere di mangiarli”.
Lui la guardò, divertito. “Se lo dici con quegli occhi sei molto credibile!”.
Emily gli diede un pugnetto affettuoso. Era visibilmente contenta. Si erano concessi una passeggiata in quella serata di fine maggio che pareva tranquilla e anche lui si sentiva qualcosa di bello germogliare dentro. Camminare per strada tenendosi per mano, guardare le vetrine… Fare cose da fidanzati era strano, ma bello.
“Passiamo oltre, prima che tu compra l’intera pasticceria” disse Jacque, allontanandosi e tirandola per un braccio. Lei si lasciò trascinare, sorridendo. Perché le cose non potevano essere sempre così facili? Se il tempo si bloccava, se per un attimo esistevano solo loro due… Senza pensare che non potevano stare insieme, che lei era in pericolo, che lui era in pericolo, che l’intera umanità era in pericolo, che esistevano due occhi verdi sempre pronti a guardarlo, e a giudicarlo… La mano di Emily era piccola e calda. Non ricordava nemmeno di aver mai tenuto Acilia per mano, no, non era cosa da vampiri. Però a volte pensava ancora alle sue carezze, i suoi baci, ma erano freddi, lei era fredda…
“Jacque, allenta un po’ la presa!”.
Jacque si riscosse. Stava stringendo la mano di Emily molto forte, neanche se n’era accorto.
Fece scivolare via la sua forza e intrecciò le dita in quelle della ragazza.
Ripresero a camminare, lui ogni tanto le lanciava uno sguardo. Chissà cosa le passava per la testa. Chissà cosa pensava quando lo vedeva, chissà se a volte aveva paura di quello che stava facendo. Erano passati quasi tre mesi dal loro primo bacio e tre mesi non erano niente, erano una piccolissima porzione della vita di lei e un infinitesimo trascurabile di quella di  lui. Però più passava il tempo più lei era così radiosa.
Non è che si sta innamorando?
Come funzionavano le cose tra gli umani? Si frequentavano, si mettevano insieme, si innamoravano, a volte si sposavano, così in fretta. Emily non poteva certo innamorarsi di lui, come lui non avrebbe potuto innamorarsi di lei. E allora cosa stavano insieme a fare? Perché camminavano per strada lanciandosi sguardi d’amore?
Chissà cosa ne pensava lei.
Perché quando si parla di Acilia diventi così strano?
Era stare con un’umana che era strano. Possibile che ancora pensasse ad Acilia? Acilia era tutto ciò che lui non voleva essere, come si spiegava questo? Strinse con più vigore la mano di Emily e capì che lo faceva perché non voleva lasciarla andare. E perché non volesse lasciarla andare, davvero non lo sapeva.
“Jacque” lo chiamò lei “Forse è meglio se rientriamo”.
Le persone in giro si erano disperse, si sentivano solo ultimi frettolosi passi e porte che si chiudevano. Arrivato un certo orario, la gente aveva paura a stare fuori casa.
“D’accordo”.
Qualcuno da qualche parte urlò ed entrambi si voltarono di scatto. Una donna tremante e pallidissima brandiva una pistola contro un uomo, terrorizzato, che aveva le mani in alto.
“Non sono un vampiro! Non lo sono!” gridava lui.
La donna indietreggiò lentamente, poi si mise a correre all’impazzata, tenendo stretta la pistola in mano, in uno scalpito di tacchi. Le poche persone che erano ancora in giro affrettarono il passo, lasciando l’uomo accusato di stucco.
“Non è un vampiro” disse Jacque in un soffio, riprendendo a camminare.
Emily stette al suo passo. “C’è parecchia isteria in giro, eh?” chiese, con aria poco scherzosa.
“E’ paura” disse lui “Più aumentano gli attacchi più la gente ha paura”.
“Ma non possono fare niente? Acilia e gli altri?”.
Jacque annuì. “Dubris è riuscito ad arrestare un paio di vampiri. Il problema è che sono sempre di più”.
Emily si strinse nelle spalle, con un velo d’ombra sul suo sorriso.
“Stai tranquilla, adesso andiamo a casa” le disse lui.
“Sono più preoccupata per la mia famiglia in realtà” replicò lei “Casa non sarà un posto sicuro per sempre, vero?”.
“Non lo so” ammise Jacque. Sinceramente non sapeva fino a che punto si sarebbe spinto Kaeso.
Emily annuì, sospirando. Era più bassa di Acilia, ma sembrava più adulta. Lo era, più adulta. Aveva un’espressione viva in volto, mentre Acilia rifletteva la morte, eppure lui a volte le vedeva così tante sfumature diverse nei suoi occhi, tonalità di sentimenti sconosciuti. Era così strano, non capiva se fosse più vera l’una o l’altra, a volte le confondeva, a volte… Credeva di vederla, persino in quel momento, credeva…
“Jacque! E’ Acilia quella?”.
Era davvero lei quella che vedeva oltre al vetro della finestra di un bar?
“No, non può essere…”.
Eppure vedeva il suo profilo perfetto, i suoi capelli nerissimi… Un accenno di un sorriso? Impossibile, Acilia non sorrideva mai. Aveva denti bianchissimi, quasi risplendevano.
“Jacque, è lei… Con chi sta parlando?”.
Quello non era un vampiro. Era un uomo adulto, più vecchio di Emily, e aveva un’espressione che a Jacque non piaceva.
Che ci faceva lei con un umano?!
“Jacque” lo chiamò ancora lei “Tu lo conosci? Non è normale vero? Perché sta in un bar a parlare con…”.
Lei gli sorrideva. Sorrideva, flirtava in un bar con un umano! Dopo aver rimproverato lui perché voleva uscire con Emily… Ma che diavolo le era saltato in testa?! Perché lui non ne sapeva niente?
Quand’è che avevano smesso di parlare…
Emily lo tirò per un braccio. “Jacque… Jacque!”.
Lui si strattonò d’istinto, in un moto di rabbia, e lei si scurì in volto.
Mi dispiace, non volevo.
Non voleva rattristarla, non voleva… Perché lo guardava così?
Perché quando si parla di Acilia diventi così strano?
Tentò di placare l’ondata di rabbia che lo aveva preso. In un solo momento aveva ricordato il sorriso di Acilia, quello che lei aveva per lui, lo sguardo arrabbiato di Dubris, il suo odio per lui, la gelosia e l’amore… il patto del sangue di Emily, la rabbia di Acilia… era gelosia anche quella?! E che ci faceva ora nel bar con un umano?!
Strinse le labbra e concentrò i suoi occhi solo su Emily, che lo guardava preoccupata.
“Andiamo a casa, dai”. Tentò un sorriso, il sorriso di un morto che voleva tornare a vivere, e anche ad amare.


Claire, seduta su una sedia, con espressione concentrata, si stava dando la seconda mano di smalto rosa sulle unghie.

Eike era seduto nella sedia accanto a lei, annoiato.
“Claire” disse dopo un po’ “Tu non ce l’hai un fidanzato?”.
Lei alzò lo sguardo su di lui e con un movimento della testa cercò di scostare la sua frangia bionda da davanti agli occhi.
“No”.
“E perché no?”.
Lei alzò un sopracciglio e fece un sorrisetto. “Sono uno spirito libero”.
Eike si mise a ridere.
Claire era molto bella, superficiale, un po’ strana, ma bella. Alta, magra, bionda, quelle labbra così rosse che Eike avrebbe voluto mordere.
Lei pose il pennellino e si accorse del suo sguardo.
“Perché mi guardi così?”.
Eike scivolò sulla sedia incrociando le braccia e sbuffando.
Claire alzò gli occhi al cielo. “Eike, ne abbiamo già parlato. No, non è fattibile”.
Erano in momenti come quelli che Eike odiava il suo corpo.
“Con Jacque l’hai mai fatto?” chiese, senza neanche guardarla in faccia.
“Oh no” fece subito lei “Mi farebbe troppa impressione. Siete entrambi due ragazzini per me”.
Sentirsi dire che la sua età era vicina quella di Jacque lo fece sentire un po’ meglio. Si voltò con sguardo beffardo ed estrasse le zanne.
“Però quando ti mordiamo, ti piace”.
Claire scoppiò a ridere ed Eike si immusonì.
“La verità” disse lei dopo qualche attimo “è che mi sento sola anch’io”.
Lui la scrutò in volto e percepì un barlume di tristezza in quei suoi occhi superficiali e pesantemente truccati.
“Io non mi sento solo” ribatté “Ho solo impellenti bisogni maschili”.
Claire sbatté le lunghe ciglia recuperando la sua usuale espressione e allontanando da sé le mani per rimirare il suo lavoro.
“Usa i termini che vuoi ma la sostanza non cambia”.
Eike non disse nulla e lei andò avanti: “Jacque si è fidanzato e Acilia è sempre fuori per lavoro. Ti senti solo, se no perché mi avresti chiesto di rimanere?”.
Lui sviò la domanda e disse, con una smorfia: “Acilia non è fuori per lavoro. Spesso Dubris viene qui con la speranza di incontrarla ma non la trova mai, e io non so che dirgli”.
“Credi che si veda con un uomo?”.
Oddio. Eike si accasciò sul tavolo, chinando la testa, sbuffando ancora.
“Ti dispiace molto che Jacque e Acilia non stiano insieme, vero?” domandò Claire, guardandolo amabilmente.
“Io ho sempre fatto il tifo per Jacque, perciò se Jacque vuole stare con Emily, che stia con Emily” ribatté lui, stupefatto.
La ragazza continuava a guardarlo con viso amorevole, quella bruttissima espressione che si ha quando si guarda un bambino.
“Hai sempre visto Jacque e Acilia come i tuoi genitori, non è vero?”.
Se Eike ripensava ai suoi genitori, a come avevano trattato Imma e alla loro posizione nei confronti del nazismo, gli veniva da vomitare. La parte di lui che era bambina poteva aver identificato Jacque come suo padre e Acilia come sua madre. Dopotutto aveva passato molto più tempo con loro che con la sua vera famiglia.
“Sono così stupidi” disse “Basterebbe solo che si parlassero un po’ di più delle loro cose”.
Claire soffiò sulle unghie con aria perplessa.
“Non avevi detto che Jacque vuole stare con Emily?”.
Eike scrollò le spalle. “Mica può durare per sempre. Siamo noi che duriamo per sempre”.
Claire sbatté le palpebre, più volte. I suoi occhi quasi presero la forma di due cuoricini.
“E se Emily fosse così innamorata di Jacque da volersi far trasformare?”.
“Non durerebbe comunque”.
“E perché?”.
Eike ghignò, vedendo l’espressione delusa di Claire che già si era fatta un film d’amore in testa. “Semplice, perché Emily non è Acilia”.
Inaspettatamente, Claire sorrise. “In fondo sei un tenerone, Eike”.
Lui sgranò gli occhi.
E che aveva detto di tenero?
Lei scrollò le mani e mise lo smalto dentro la borsetta. Si alzò e chinò la testa verso Eike.
“Ora devo andare”.
Gli diede un bacetto a stampo sulle labbra e lui si sentì irretire fino alla punta dei capelli. Con gli occhi spalancati, rimase a guardarla mentre camminava disinibita sui suoi trampoli fino alla porta.
Ritrovata la voce, le disse: “Ehi, Claire!”.
Lei si voltò, la mano sulla maniglia.
Lui fece un sorrisetto triste, sentendo sulle labbra tirate traccia del rossetto di Claire. “Trovati qualcuno, tu che puoi”.
La ragazza annuì. “Ci proverò, te lo prometto”.
Uscì ed Eike distese le gambe. Si toccò le labbra nel punto in cui Claire l’aveva baciato e si rese conto di avere ancora le zanne a penzoloni. Le sfiorò con un dito. Erano piccole, non facevano paura. Lui era piccolo, poteva essere solo piccolo.
Si alzò tristemente e andò ad accasciarsi sul divano, aspettando un allegro rientro rumoroso di qualcuno.
 
 
Un punto qualunque d’Europa, 1730
 
Aveva aperto gli occhi dopo un lungo sonno. Aveva inseguito la luce ma l’aveva lasciata andare, ecco perché ora si trovava nell’oscurità.
Cercò di aprire di più gli occhi ma erano già spalancati al massimo. Intorno a lei era buio, non poteva vedere niente. Sentiva un ronzio fastidioso nelle orecchie e cercò di muovere una mano per raggiungerle. Non ci riusciva perché il suo braccio sbatteva contro qualcosa che non riusciva a vedere. Dov’era finita? Perché era lì?
Il suo respiro era affannoso e spaventato. L’ultima cosa che ricordava… Si era fatta male… Era caduta da…
E dov’erano i suoi genitori?! Dov’erano i suoi amici? Dov’era finita lei? Si sentiva incastrata in un buco. Alzò le mani e tastò tutto ciò che le era intorno. Era in una… scatola?
Urlò a squarciagola, mentre le sue mani colpivano con violenza il legno che era sopra di lei. Era una bara, una maledettissima bara!
Urlò per giorni finché le sue grida non si smorzarono in singhiozzi e i suoi colpi si affievolirono in unghiate. A volte si addormentava ma dopo un po’ non riuscì neanche più a dormire perché la sete la stava divorando. Aveva provato a bere le sue lacrime e si mordeva le mani per placare la fame. Sentiva la terribile puzza di se stessa e il dolore che si dipanava in tutti i suoi arti. Aveva perso la voce e tra poco avrebbe perso anche il battito del suo cuore.
Un giorno – chissà quanti ne erano passati – il legno che era sopra di lei sparì e lei intravide nella sua vista appannata un pezzo di azzurro.
Il cielo?
C’era un volto davanti a lei che la guardava terrorizzato e lei provò a muovere le sue labbra maciullate dai morsi e dalle screpolature. Voleva chiedere dell’acqua. Quell’uomo aveva qualcosa in mano.
Le sue labbra si mossero per formare la parola acqua, ne era sicura.
Ma poi i suoi occhi accecati dalla luce videro solo qualcosa di marrone e bianco che le si avvicinava al petto. Sentì l’urlo dell’uomo ma non sentì il suo, perché la voce non ce l’aveva più, neanche per esprimere protesta, neanche per esprimere dolore, e la morte arrivò al posto dell’acqua, e lei all’uomo fu grata ugualmente.
 
 

Non riusciva più a bere il latte. Le rimaneva sullo stomaco e si sentiva la pancia sempre più gonfia, finché non doveva correre in bagno a vomitare.

Addentò un pezzo di pane ricoperto di marmellata e sospirò, sforzandosi di tenere gli occhi aperti.
Sua madre la scrutava dall’altra parte del tavolo.
“Non hai dormito?”.
Imma si scostò i capelli biondi da davanti alle spalle. Ormai erano lunghissimi, doveva proprio farseli tagliare.
“Non molto”.
Aveva sognato di svegliarsi in una bara, di svegliarsi morta, forse vampira. Qualcuno poi l’aveva trafitta con un paletto di legno e lei si era svegliata di nuovo nella morte, nella sua morte quotidiana.
Sua madre sospirò, ma non fece altre domande.
La terapia dal dottor Pohl stava andando bene, Imma sognava sempre più raramente vampiri, ma a volte accadeva. Pensava spesso ad Eike, ma non ricordava più bene di averlo visto fuori dal balcone, con le zanne. Non riusciva più a figurarselo, probabilmente non l’aveva mai davvero visto. Aveva creduto di vederlo, sì, come diceva Pohl.
“Imma” la chiamò sua madre “andrà tutto bene”.
Imma apprezzava la buona volontà di sua madre. Solo che la buona volontà non sempre bastava.
“Tuo padre si è arruolato nelle SS” continuò lei “Saremo al sicuro”.
Imma inghiottì il boccone.
“Che cosa?” fece.
“Andrà tutto bene” ripeté l’altra, convinta.
Non va tutto bene, mamma!
Imma abbandonò il pezzo di pane sul tavolo, senza più voglia di mangiare niente. Guardò il proprio esile braccio. Quanto era dimagrita nell’ultimo anno che era passato?
Sei solo un burattino in mano alla società. Diventerai come papà.
Eike non sarebbe mai diventato come loro padre, ne era sicura. Trattenne un singhiozzo, ci provò disperatamente ma le lacrime presero a sgorgarle tempestosamente dagli occhi.
Si sentì prendere le mani e un tocco che le accarezzava la testa.
Sua madre era lì e ancora le ripeteva che andava tutto bene.
Imma piangeva e non riusciva a fermarsi. “Dove li portano gli ebrei, mamma? Dove li portano?”.
“Li vogliono solo tenere sotto controllo” rispose lei, stringendola “Non gli fanno niente, non gli fanno niente…”.
Imma continuò a piangere, diffidente, ma si accovacciò tra le sue braccia, sentendosi una bambina troppo cresciuta. Quella che era sempre stata, una bambina che cresceva troppo in fretta, che pensava con la sua testa, che aveva già il folle sogno di cambiare il mondo. Ma non poteva cambiare niente, la realtà la inchiodava a terra e le mozzava il respiro, non poteva fare niente per nessuno, la morte di Eike aveva preso tutta la sua lucidità, e la sua mente contorta, che vedeva cose che non esistevano, l’aveva fatta a pezzi.
 
 

Acilia guardò oltre il vetro ma vedeva solo il blu scuro della notte.

Erano passati quarant’anni da quel pericoloso e atroce periodo in cui la gente vedeva vampiri ovunque. Le urla di terrore, il correre via, impalare i vivi e dissotterrare i propri morti. Eppure non l’avevano mai neanche visto, un vero vampiro.
Non sanno neanche distinguere i morti dai vivi, aveva detto Dubris – notando quante persone vive venivano sepolte e poi dissotterrate, e impalate, in seguito ad angoscianti rumori che provocavano dentro la proprio bara –  non riusciranno a scovarci.
Per questo c’era ancora tanta gente che non credeva ai vampiri. Gerard van Swieten, medico personale dell’Imperatrice d’Austria, aveva indagato su queste entità chiamati vampiri. Aveva studiato ogni cadavere accusato di essere stato un vampiro e aveva concluso che questi mostri non esistevano, e neanche potevano esistere. Maria Teresa d’Austra aveva allora promulgato una legge che proibisse l’apertura delle tombe e la profanazione dei cadaveri.
Le acque si erano poco a poco placate, e loro erano salvi.
Acilia continuò a guardare il cielo. Aveva voglia di lanciarsi e di volare, di mescolarsi con l’oscurità ma ormai aveva preso una decisione e non poteva più tornare indietro. Era stanca di essere la regina e di essere chiamata la tiranna. E aveva capito che le continue lotte tra vampiri non potevano passare inosservate, gli umani prima o poi avrebbero davvero capito.
Si voltò e vide una decina di vampiri seduti a un lungo tavolo, impegnati ad aprire vecchie buste ingiallie o spiegare rotoli.
Circa un anno prima Acilia aveva affidato a una cinquantina di vampiri di andare in tutta Europa a spargere la voce. La regina abbandonava il suo posto, abbandonava la monarchia e avrebbe costituito un regime poltico parlamentare. I VV si erano fatti sempre più insistenti e crudeli e Acilia credeva di tenerli più facilmente sotto controllo, ammettendoli nello spazio del potere. Non voleva più essere la tiranna che dava ordini a tutti, non ne aveva più la forza. Guardò il vampiro che, di fianco a Ramona, leggeva con attenzione ogni pezzo di carta. Quello era Luca, uno dei rappresentanti dei VV, quello che le aveva detto che lei non poteva pretendere di essere un esempio per tutti i vampiri. Acilia aveva ceduto, sotto lo sguardo incredulo di Dubris che le diceva che era pericoloso, non doveva lasciare niente ai VV! Non doveva concedere loro niente perché poi avrebbero trovato il modo di prendersi tutto.
Ma Acilia era stanca di lottare ed era stanca di vedere morire i suoi compagni per lei. Lyuben, pacifista come sempre, non aveva trovato da ribattere. I due partiti erano nati ed Acilia era a capo di quello che si faceva chiamare Partito Per la Convivenza. I VV erano diventati il Partito Oscuro.
E stava agli altri vampiri, tutti gli altri, decidere da chi sarebbero stati rappresentati.
I cinquanta vampiri che Acilia aveva mandato in giro avevano promulgato la voce che tutti coloro che avessero voluto votare sarebbero dovuti andare nel loro castello austriaco e lasciare a Dubris un qualunque pezzo di carta con inciso sopra una delle sue sigle: PPC o PO. Chi non sapeva scrivere poteva dirglielo a voce, e Dubris avrebbe preso nota. Potevano votare solo coloro che avevano raggiunto il loro primo secolo da vampiri. Spesso i più giovani erano quelli più affamati e accecati, e Acilia sperava in questo modo di riuscire a salvaguardare il suo PPC. Ramona le aveva chiesto cosa sarebbe successo se avesse vinto il PO. Io non voglio tornare a uccidere, aveva detto, poi non sarei più capace di smettere. Acilia le aveva spiegato che lei avrebbe sempre, fermamente, tenuto la sua posizione, perché sarebbe stata comunque un membro del PPC, e a questo non doveva rinunciare.
Dubris, nervosamente, stava scrivendo con una piuma su un lunghissimo rotolo il resoconto dei voti. Finché Victoire non lesse l’ultimo pezzo di carta: PO.
Luca si stiracchiò. “Bene” disse, gioiosamente “Qualcuno conti”.
Sembrava convinto di vincere e Acilia provò, per la prima volta, paura.
La conta durò quasi fino all’alba e alla fine Dubris aveva un mezzo sorriso.
“Abbiamo vinto” disse “Milleseicentoquarantotto voti contro milleseicentotrenta”.
Luca estrasse le zanne e strappò il foglio dalle mani del rosso. “Dà qua”.
Dubris lo guardò, gelido. “Controlla se vuoi”.
Un altro vampiro del PO si alzò in piedi, indignato. “Li ha raccolti lui i voti! Ci ha senz’altro ingannati!”.
“Basta così!” tuonò Acilia, scocciata e sollevata al tempo stesso. “Finché non verrà eletto il Presidente, io sono ancora la regina quindi vi ordino di controllare i voti e di stare zitti”.
Luca aveva uno sguardo feroce e Ramona sorrideva radiosa.
“E velocemente” sibilò Dubris con un ghigno “Dato che tra un po’ sorge il sole”.
Mentre i membri del PO si affrettavano a contare, Lyuben si alzò dal tavolo e si affacciò alla finestra chiusa, di fianco ad Acilia.
“Hai intenzione di candidarti?” gli chiese lei, avvicinandosi a lui.
Lui sorrise. “No. Perché dovrei?”.
“Saresti perfetto come Presidente”.
“Non ho ambizioni di questo genere”. Lyuben si voltò a guardarla. “Tu piuttosto, perché non vuoi candidarti?”.
Acilia scrollò le spalle. “Sinceramente mi sono bastati questi tre secoli da regina, lascio la palla a qualcun altro”.
Non ne voleva proprio sapere di diventare Presidentessa dei vampiri, avrebbe avuto una Rappresentanza, certo, ma le sarebbe sembrato sempre di essere troppo responsabile, e giudicata, continuamente.
“Vedremo chi sarà a prenderla, questa palla” scherzò Lyuben.
“Ho piena fiducia in tutti i nostri compagni” disse Acilia “Sono tranquilla, sul serio”.
Era vero. Forse non era mai stata così serena. Il PPC aveva vinto e lei non sarebbe stata più regina. Ci sarebbero stata una Rappresentanza, leggi, votazioni e lei sarebbe stata, finalmente, solo un ingranaggio all’interno della grande macchina dei vampiri.
Avevano passato un brutto periodo ma forse, davvero, gli umani non li avrebbero scoperti. Eppure il fatto di chiamarsi vampiro la faceva rabbrividire. Vampiro era una parola vera, con un significato vero, e ogni volta che un umano la pronunciava era sempre più vicino di un passo alla verità.
 

Questi vampiri erano cadaveri, che uscivano dalle loro tombe la notte per succhiare il sangue dei vivi, sia dalle loro gole che dai loro stomachi, e poi tornavano nei loro cimiteri. Le persone a cui succhiavano il sangue si indebolivano, divenivano pallide e iniziavano a consumarsi, mentre i cadaveri che succhiavano il sangue prendevano peso, la loro carnagione si faceva rosea e godevano di un grande appetito.


[dal Dizionario filosofico di Voltaire, 1764]
















Mi scuso per il ritardo ma sono stata via e in generale ho avuto da fare ^^

Mi scuso anche per il capitolo in sè. Non so per voi come sia stato leggerlo, ma per me scriverlo è stato un po' palloso.. Negli ultimi due capitoli il ritmo è stato piuttosto lento (per quel che riguarda il presente dove praticamente non succede mai niente, visto che ho lasciato molto spazio ai due passati) ma vi prometto che la storia tornerà ad essere interessante, subito, dal prossimo capitolo! XD

Sara, mi piace lo stile Loda!! :D mi è venuto in mente "lo stilo della Loda" dello stilnovismo, ovviamente i miei compagni di scuola all'epoca (oddio, sembra passata una vita) non avevano certo mancato di notarlo.. XD Eh, la libido viscosa! E scommetto che troverai un bel po' di Freud anche in questo capitolo! E' una bella ispirazione il nostro amico XD Bene sono riuscita a rendere Curtis un bel soggetto misterioso e mi fa piacere che tu capisca Emily, finalmente un po' di comprensione! XDXD ahahahah "Lyuben, tu che sei tanto saggio , saprai cosa fare" X°°D alla prossima crocchetta di patate cara!
Nene, che papiro papirissssssimo! Ehhh no leggi bene la tua scorsa recensione, hai esplicitamente detto che il paletto di legno è una cavolata, hai parlato dopo del frassino :PP non mi sfugge niente :PP ma se consideri solo una cavolata la cosa del frassino tanto meglio, anche se non mi cambia molto, sono inutili queste inezie! Passiamo ben oltre XD siii certo che ho capito cosa intendi, bene bene, la "bidimensionalità" è apprezzata ^^ ti ringrazio per la nota in cui hai parlato di gente viva che si trovava sepolta sotto terra, mi ha ispirato un pezzo di questo capitolo XD ahahaha la scena del parabrezza sì doveva far ridere, in fondo Emily è sempre Emily, coi suoi pensieri assurdi! Comunque no non ho visto Paranorman, ma pare interessante XD per il tuo PS: immagino che da sempre ci siano leggende che circolino su esseri dannati succhiatori di sangue che però solo nel '700 hanno acquistato un nome, ti ringrazio molto magari mi spiegherai, però per questa storia è un po' tardino :
RedTears - per la recensione al capitolo 13 - questa poca fiducia in Eike?? :( e questa rabbia per Jacque? Dai almeno mi pare che Acilia ti piaccia molto :DD grazie per le spiegazioni sul frassino che è considerato sacro eccetera.. allora appena vedi un vampiro fammi sapere in che modo muore, ci conto eh!! ;) Curtis e Lyuben che ti fanno venire tante domande.. bene bene! Beh, recensione a dir poco esilarante come al solito (e per molti motivi!) XD Ma su Dubris non cambierai mai ideaaaa??

Bon, aspetto che Red (la solita ritardataria) faccia la sua recensione e che anche Norine torni a darmi dei pareri :DDD Eeeee se qualcun altro si volesse aggiungere alla lista dei recensori non mi farebbe schifo :DDD (no, non vi sto supplicando :DD)
Vi lascio con un piccolo spoiler! Secondo me Jacque non vi sta più così simpatico come all'inizio della storia, ne ho qualche vago sentore.. E' normalissimo, soprattutto perché Jacque è l'unico personaggio di cui ancora non è stata esplicitata la storia! Beh, nel prossimo capitolo.. comincia la storia di Jacque! Non perdetevelo! Mi sembra veramente di star facendo la pubblicità di una serie tv..

Ciao a tutte!

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Capitolo 17
*** Vittima e oppressore ***


Capitolo 16
CAPITOLO XVI
VITTIMA E OPPRESSORE
 
 
 
Sei carino, vieni con me.
 
Jacque si riscosse quando sentì la porta aprirsi e l’usuale rumore di tacchi di Acilia che entrava.
La guardò, sforzandosi di non salutarla come al solito. Troppe volte aveva creduto di odiarla, e alla fine non era vero niente.
I capelli neri e lunghi le ricadevano sulle spalle ricoperte da una camicetta verde.
 
Una donna si era avvicinata ad un soldato, con capelli lunghi e neri, perfetti.
 
“Ciao” fece Acilia fermandosi a guardarlo.
Lui era rientrato da poco, dopo essersi nutrito, ed era seduto sul divano. I giorni passano così lenti e inesorabili, quando sei un vampiro e non hai niente da fare.
“Ciao” ricambiò, dopo un po’.
 
Sei carino, vieni con me, gli aveva probabilmente detto.
 
Acilia sembrava volesse dire altro ma poi i suoi piedi si mossero verso le scale.
“Chi è il tipo del bar?” chiese Jacque, di punto in bianco.
 
Lui non capiva perché la stesse seguendo. Lei era così bella, un angelo arrivato per alleviargli le ferite di guerra?
 
“Ti sei messo a seguirmi?” scattò Acilia, voltandosi di scatto verso di lui con espressione allarmata.
 
Se era un angelo, perché gli stava facendo così male?
 
“No” ribatté Jacque, alzandosi in piedi “Ti ho semplicemente vista”.
“Chi sia non ti riguarda” rispose lei.
Jacque si mise a ridere, sentendo così poca allegria.
Se era un angelo, perché gli faceva sempre male?
 
“Sai che cosa mi fa ridere?”.
Acilia non aveva l’aria di chi volesse sapere ma rimase ferma, gli occhi incastrati nella sua direzione.
“Mi fa ridere che tu volessi che Emily venisse trasformata, che non ti andasse giù che facesse il patto del sangue e che tu ti sia arrabbiata perché io ho iniziato a frequentarla!” sbottò Jacque “E ora tu cosa fai, frequenti un umano?”.
“Non lo sto frequentando!” esclamò Acilia “Tu non capisci…”.
 
Allora lui, che aveva visto tutto, si chiedeva, perché aveva trovato sulla sua strada quell’angelo demoniaco?
 
“Già” disse l’altro, oscurandosi “Io non posso mai capire, non è vero?”.
Era sempre stato così. Lui era sempre troppo giovane, troppo ingenuo, troppo innocente.
 
Un giorno forse ti dirò cosa ho fatto, gli diceva lei.
 
Di lui lei non si era mai fidato.
Acilia sembrava non riuscire a dire niente.
 
Sempre così perfetta, sempre così impeccabile… È stata umana troppo tempo fa, questa macchina.
 
“Sono contento” disse lui in un soffio “che tu abbia trovato qualcuno di cui ti possa fidare”.
“Jacque, non lo sto frequentando!” ripeté Acilia “Non sa che neanche che sono un vampiro”.
“Ti rendi conto di quanto è pericoloso?” fece lui, incredulo. Strinse gli occhi, rievocando spiacevoli ricordi. “Cosa direbbe Dubris?”.
Acilia strinse le dita delle mani, e abbassò lo sguardo.
“Io ho sempre capito il tuo interesse per Emily, lo so benissimo cosa ti piace di lei”.
Jacque sgranò gli occhi.
L’ha capito lei, pensò, e non l’ho capito io.
“Non ascoltarmi più perché io sbaglio tutto” continuò Acilia fissandolo negli occhi “Ho sempre sbagliato tutto”.
 
Non avrai mica creduto che steste insieme, vero?
 
“Ho amato un umano più di me stessa tanto tempo fa” proseguì lei, con la voce che tremava leggermanete “Per tutta la sua vita. Non mi perdonerò mai quello che gli ho fatto ma l’amore è così, può essere solo così. Solo gli umani ci fanno sentire di nuovo umani”.
Lo guardava e a Jacque sembrò di camminare su un filo sospeso. Sotto di lui c’era il baratro di tanti anni d’amore. Emily lo teneva su quel filo, ma cosa preferiva lui? Camminare come un equilibrista o cadere?
Acilia gli stava parlando di se stessa per la prima volta. Quell’umano di cui parlava… Non è che lo vedeva nell’uomo del bar?
“Emily ha capito tutto questo” disse ancora Acilia, scrollando le spalle “È brava. Sono contenta, davvero”.
Non aveva sorriso né i suoi occhi ridevano.
Jacque non disse niente, sentendo il suo viso ancora pungente, per la rabbia che provava. Non aveva voglia di abbracciarla, gli sarebbe sembrato di fare un torto ad Emily. Ma non aveva neanche voglia di lasciarla andare così.
“Mi dispiace per quello che ti ho detto quando Kaeso è venuto qui” disse.
Acilia fece un piccolo sorriso e lui non poté trattenersi: “Ma perché era qui? Tu già lo conoscevi, vero?”.
 
Un giorno ti dirò cosa ho fatto, gli diceva. Ma non gli aveva mai detto niente, lui per lei non era niente.
 
Lei scosse la testa, con quel piccolo sorriso, che le era sbocciato sul volto, che lentamente moriva. Il volto di Medusa, che se lo guardavi non potevi raccontarlo. Jacque voleva dire qualcos’altro ma non trovò niente, perché tanto lei avrebbe reso inutile ogni suo tentativo.
E lei girò i tacchi, e se ne andò.
 
Lei se n’era andata.
Se era morto, non aveva mai sofferto da vivo come ora soffriva da morto.
 
 
 
Francia, 1918
 
Quelli erano tempi bui per tutti.
Tra gli umani c’era stata una grande guerra le cui conseguenze già pesavano e sarebbero pesate per molto tempo. La guerra non era una novità ma quella si diceva avesse coinvolto così tanti Paesi da essere chiamata mondiale.
Neanche per i vampiri la guerra era una novità. La guerra per loro aveva due risvolti. Uno positivo, perché permetteva a loro di nascondersi ancora meglio, e uno negativo, perché di nutrimento in giro ce n’era poco, e di scarsa qualità. Il sangue di una persona debole che non mangiava da giorni saziava poco i vampiri, sempre più inquieti, che vagavano e attaccavano, sempre di più. Certo, ora lo potevano fare, ora non avevano nulla da temere.
Alle ultime elezioni, avvenute circa trent’anni prima, aveva vinto il PO. Haris, il nuovo presidente, più che sadico, era stupido. Non vedeva altra via d’uscita dell’essere vampiro che non fosse quella di vivere per il sangue.
Le leggi erano cambiate, certo. Quelle leggi a cui così tanto devotamente si erano dedicati alla fine del diciottesimo secolo Theodolf (il primo presidente in carica) e il resto della Rappresentanza non contavano più. Ma le leggi che riguardavano la loro tutela, le leggi che negavano in modo assoluto di mostrarsi agli umani… Non era forse uno stupido Haris a non farle rispettare?
Acilia camminava sulla costa della Francia, ignorava il nome della città a lei più vicina. Camminava affranta e affamata. La guerra era stata dichiarata finita proprio qualche giorno prima, ancora un po’ e gli umani sopravvissuti si sarebbero resi conto che parallela alla loro storia ce n’era sempre stata un’altra, un’altra storia, un’altra guerra.
L’hai voluto tu, Aci, le aveva detto Dubris. Durante il secolo scorso, in cui era al governo il PPC, c’era stata qualche sporadica sommossa di gruppi irredentisti del PO. L’avevano messa a tacere, ma ora… ora che potevano fare? Il PO aveva vinto in maniera pulita.
Hai gettato la tua corona di giusta e ora guardi il mondo in mano ai malvagi.
I suoi piedi finirono nel fango.
Si guardò intorno. C’era un gran traffico di gente, la guerra era finita e si vedeva. Molti uomini, sporchi e carichi di borse, stavano tornando dal fronte e lei, con una tunica pulita e i piedi nel fango, senza neanche una borsa, non passava certo inosservata. Qualche ragazzo fischiò nella sua direzione, qualcuno tentò di avvicinarla ma lei scivolò via.
Doveva nutrirsi ma voleva ancora rispettare le sue stesse leggi. Doveva trovare un umano solo e incantarlo. Avrebbe difeso la sua specie e avrebbe protetto gli umani dal terrore… Ma per quale motivo? Quale scopo poteva avere ormai?
Non l’aveva gettata la sua corona di giusta, l’aveva venduta. L’aveva venduta al diavolo.
Ma la fame incalzava e non la lasciava ragionare. Doveva muoversi, per cosa? Per tornare alla base e discutere con Dubris, Lyuben e gli altri su come muoversi?
Adocchiò un ragazzo che si teneva a distanza dalle altre persone. Aveva la divisa da soldato, il viso angustiato sporco e graffiato.
Non era solo perché era privo di compagnia, che Acilia scelse lui. Era poco più alto di lei, magrissimo. Nei suoi occhi si vedeva la guerra. Non aveva neanche un’ombra di sorriso, neanche un briciolo di gioia per il fatto che stava tornando a casa, sano e salvo.
Acilia gli si avvicinò. Il sangue di un reduce di guerra non doveva avere un buon sapore, ma il mercato non offriva altro.
Lui le lanciò un’occhiata incerta poi passò oltre.
Aveva sì e no vent’anni.
Da quanto tempo non vedi una donna, giovane soldato?
Acilia lo inseguì e gli si piazzò davanti. Lui non poteva più ignorarla.
Spalancò gli occhi grandi e marroni, come avrebbe fatto un bambino. Solo che le iridi di quegli occhi non avevano nulla di fanciullesco, come avrebbero potuto averlo dopo quello che avevano visto?
“Ha bisogno di qualcosa, signorina?” chiese il soldato, impacciato.
C’era qualcosa in lui… Forse era lo stesso colore dei capelli, forse era la stessa espressione addolorata di chi è in balia del destino, forse la stessa triste umanità che emanava dagli occhi. Di Miguel.
Buffo come Acilia si ricordasse di Miguel dopo quasi cinque secoli. Si diceva che il vero amore, quello non lo scordi mai, neanche se vivi per sempre.
Sorrise al soldato.
“Sei carino” gli sussurrò, mantenendo il contatto visivo “Vieni con me”. Lo stava incantando.
Lui la seguì, docile, dietro alle macerie di una casa.
Lei lo fece sedere, gli era sopra, gli circondò la testa col braccio come se volesse baciarlo. Il soldato pendeva dalle sue labbra.
Acilia lo morse sul collo, sentendosi inebriare dal sangue, come sempre. Era sangue sporco, sangue sofferto, quando sentiva scivolare lungo la gola del sangue le pareva di sentire la storia del corpo al quale apparteneva. Sangue di un ricco, dolce e succulento. Sangue di un povero, secco. Sangue di un reduce di guerra, scarso e tormentato.
Acilia gli teneva la testa con una mano, con l’altra gli teneva il collo. Sentì il suo cuore quasi fermarsi e riemerse da quel bagno di odori e sapori. Dovette trattenersi, ancora un po’ affamata, perché quel debole soldato sarebbe potuto morire, in un lampo, tra le sue braccia.
Gli pulì la ferita. I buchi si sarebbero rimarginati, sarebbe rimasto solo un livido. Quale cosa più naturale per uno che tornava dalla guerra?
Tenendo stretti i capelli fece girare la testa del ragazzo e riprese assoluto controllo sul contatto visivo.
“È stato un bel bacio” disse “Ora vai”.
Lui si alzò lentamente, tramortito, poi fece per correre via. Oltre ai suoi passi, Acilia captò un rumore.
Si voltò e vide un ragazzo cereo che la fissava atterrito. Era seminascosto da delle macerie e quando si accorse di essere stato scoperto si diede all’immediata fuga, lasciando cadere a terra la sua borsa.
No.
Legge numero due: mai farsi vedere, mai farsi vedere!
Acilia si lanciò nel suo inseguimento e in attimo lo braccò. Gli gridò di fermarsi e lo bloccò per le braccia. Lui cercò di strattonarsi, per minuti, finché non si immobilizzò, senza osare voltarsi.
Acilia gli vedeva solo la nuca bruna. I capelli lunghi e unti lasciavano intravedere  un collo pieno di ferite. Notò, all’estremità del braccio che gli teneva fermo, che gli mancava una mano. Era un soldato anche lui.
Era scampato alla guerra per farsi uccidere da un vampiro?
Acilia annaspò. Non poteva lasciarlo andare e basta? Non poteva fingere di non essersi accorta di lui? Ma se pure lei infrangeva le leggi, allora non c’era proprio più speranza.
Lo devo uccidere?
Il ragazzo ansimava. Aveva il respiro grosso per la corsa, e dopo qualche attimo parlò: “Che cosa sei?”.
“Non ti deve interessare” sospirò Acilia sul suo collo.
“Lasciami voltare” digrignò il giovane “Fatti vedere!”.
Era strano parlare con un umano che non fosse sotto incanto. Miguel era stato l’ultimo.
Acilia lo lasciò andare. Avrebbe potuto incantarlo e ordinargli di andarsene. Ma non avrebbe potuto in alcun modo cancellare quello che lui aveva visto.
Lui si era voltato con sguardo rude e impaurito allo stesso tempo. Era lo sguardo di un combattente, che non si voleva lasciare sopraffare ma che sapeva che prima o poi sarebbe successo.
Aveva gli occhi color nocciola scavati da profonde occhiaia, le guance incavate rivestite di barba, un taglio che gli sfregiava diagonalmente lo zigomo sinistro. Anche lui doveva essere sui vent’anni.
“Cosa sei? Cos’hai fatto a Victor? Non ho paura” disse, mantenendo il suo sguardo. Ma certo, doveva aver seguito il suo compagno, insospettito dalla sua dipartita.
Ci credo che non hai paura, pensò Acilia, guardando com’era ridotto.
“Hai imparato a non averne, paura” disse “Proprio come me”.
Lo devo uccidere?
No, Acilia non voleva. Guardò il suo braccio monco. Non voleva ucciderlo!
“Sei un vampiro?” disse lui, ignorandola. “La morte che non guarda nazionalità o provenienza, come la guerra”.
Perché si sentiva quasi rimproverata da quel ragazzo?
“Come ti chiami?” chiese lei.
“Ha importanza?”. La sua voce tremava.
“Sì”.
Il mio nome è Miguel.
Era un combattente, che però avrebbe perso.
“Jacque”.
Acilia si guardò in giro. Aveva rincorso Jacque in un vicolo dove non passava nessuno. Avrebbe dovuto chiederglielo. Avrebbe dovuto fargli quella stessa domanda che tanto tempo prima aveva posto a quella ragazzina nel castello di Camelio, Laura si chiamava.
Legge numero ventotto: concedere una scelta, sempre.
La preferita di Lyuben.
“Non posso lasciarti andare, Jacque” disse lei “E tu non puoi scappare”.
Avrebbe preferito morire in un vicolo della Francia, non in guerra, non come un eroe, o avrebbe preferito condividere con lei la dannazione?
Acilia non voleva trasformare, aveva paura di come sarebbe andata a finire…
Avrebbe spento per sempre la scintilla fiera di quegli occhi? Avrebbe acceso la crudeltà e sepolto ogni speranza di dimenticare?
Gli sfiorò la ferita sulla guancia con la mano e lui serrò la mascella.
D’altra parte, era così tanto tempo che non uccideva.
Jacque lasciò intravedere la paura e Acilia capì che non era sopravvissuto alla guerra per rimanere ucciso nella strada di ritorno. Lui voleva essere un testimone, magari voleva scrivere poesie sulla guerra!
Beh, non avrebbe potuto essere un testimone, ma le poesie le poteva scrivere. Solo per lei.
Si stava costruendo un quadretto famigliare inquietante che le metteva solo paura e la spingeva nel rimorso.
Lo vuoi fare davvero?
Non voleva annientare la sua scintilla, ma l’avrebbe fatto comunque, ancora…
Lo prese d’un tratto e lo morse, ignorando le sue urla e i suoi scalpiti. Il suo cuore presto arrivò al limite e lui cadde a terra, quasi svenuto. Lei gli fece scivolare in bocca il suo sangue dal braccio e pronunciò quelle parole.
Chissà se lui la stava ascoltando, chissà se la capiva, o aveva in mente ancora i cannoni e gli spari, e i morti che gli coloravano di rosso il mondo, e gli occhi. Il sangue che aveva visto in guerra, ora non avrebbe mai smesso di tormentarlo.
Riavrai la tua mano, pensò Acilia mentre lui si alzava, leggermente rinvigorito e le domandava come impazzito cosa lei gli avesse fatto.
“Va a casa, Jacque” gli disse solo lei.
Ci mise un po’ a convincerlo ad andarsene. Lui forse si convinse che era stato tutto uno scherzo della sua mente, ma lei lo avrebbe seguito e lo avrebbe cercato, quando sarebbe stato il momento.
Riavrai la tua mano, Jacque, ma non avrai più nient’altro.
 
*
 
 
Acilia uscì di casa con il telefono cellulare in una mano.
Curtis le aveva dato il suo numero e lei aveva voglia di chiamarlo, nonostante la sera prima Jacque stesso le avesse ricordato quanto era pericoloso. Aveva detto di Miguel a Jacque e non era stato difficile. Probabilmente non sarebbe stato difficile parlare con lui, solo che non l’aveva mai voluto fare, come non aveva mai voluto farlo con Dubris. Loro, che erano pronto a darle tutto… Cosa c’era che non andava in loro? Era in lei, c’era qualcosa che non andava in lei. Vampiri troppo giovani o troppo diversi per capirla, e perché mai un umano invece avrebbe dovuto ascoltarla? Perché, forse, non l’avrebbe giudicata. Quando una situazione non la vivi, non puoi giudicare. Dubris non faceva altro che sputare sentenze e della ribellione di Jacque lei aveva paura. Aveva paura a lasciarlo andare, aveva paura a tenerselo troppo stretto. Lo sapeva cosa poteva succedere, lo sapeva, fingeva di non saperlo ma lo sapeva, e ne era continuamente tormentata…
A me è sempre piaciuto intrattenermi con la gente che non conosco, scriveva Zeno per penna di Svevo. Con loro si sentiva sano e sicuro.
Acilia con Curtis era protetta, poteva dimenticare quello che era, anche se era tutta illusione.
Scorse i pochissimi nomi che aveva in rubrica. C’erano quelli di Jacque, Eike, Dubris, Ramona, Lyuben e Victoire. A volte sorrideva quando si chiedeva perché non avesse salvato il numero di Miguel. Sarebbe stato bello fare una telefonata a sentirlo. La tecnologia avanzava, avrebbero trovato il modo di comunicare con i morti? Il dito le scivolò sul nome di Jacque e lo cliccò per sbaglio. Imprecò digitando annulla chiamata. Era una trappola mortale quella tecnologia.
Curtis era il primo nome della lista. Poteva chiamarlo? O l’avrebbe trovato al bar? Ne dubitava, ormai era già quasi mezzanotte. Non gli avrebbe dato un’impressione sbagliata se l’avesse chiamato?
Abbandonò l’idea, dandosi della stupida.
Cosa voleva fare? Innamorarsi di lui, fargli fare il patto del sangue e guardarlo morire nel suo letto?
Doveva troncare i rapporti, era ovvio. Infilò il telefonino nella tasca dei jeans e prese la direzione del parco. Se proprio non poteva stare con Curtis, sarebbe rimasta da sola. Anche se spesso i propri pensieri sono la compagnia peggiore che si possa avere, soprattutto dopo averli ascoltati per millenovecento anni.
Il parco era avvolto nell’oscurità. Aveva un qualcosa di tetro ma lei ci vedeva benissimo. Sospirò. L’estate si stava avvicinando e le notti erano sempre più brevi.
Nel parco una panchina si affacciava sul sentiero e lei non ci credette quando vide chi vi era seduto su quella panchina.
No, la compagnia peggiore non erano i propri pensieri, decisamente.
Non c’era limite al peggio, ma quello che aveva davanti era proprio il peggio.
“Ciao” le sorrise Kaeso, le gambe rivestite di blu jeans stretti distese.
Acilia ci mise un po’ a riprendersi dalla sorpresa.
“Allora è proprio vero che ti sei trasferito in Inghilterra per me” sbottò.
Kaeso si stiracchiò. “Egocentrica” fece.
Egocentrica? Lui era casualmente a pochi metri da casa sua e lei era egocentrica, certo.
Pensò di voltarsi e di andarsene ma qualcosa dentro di lei la fece sedere, proprio accanto a Kaeso.
“Sei molto attento, non è vero?” chiese.
“A cosa?”.
“A non farti beccare”.
Kaeso rise. “Ma io non faccio niente di male, Aci”.
“Infrangi la legge”.
Lui la fissò, con quel sorriso perfetto e con quegli occhi gelidi. “Cerco solo di guadagnare credito per le prossime elezioni” disse, amabile.
“Davvero ammirevole” disse lei, reggendo il suo sguardo.
Kaeso ridacchiò. Aveva una risata quasi confortante. Sentire ridere qualcuno era sempre confortante.
Ma anche i cattivi ridono.
Lui la guardò e allargò le braccia. “Allora, posso portarti a cena?” disse, gentilmente.
“Ho già mangiato, grazie” rispose lei a denti stretti.
Kaeso le scivolò più vicino e Acilia sentì la coscia di lui a stretto contatto con la sua. Per un attimo trattenne il respiro.
Lui avvicinò anche il volto e le sussurrò: “Perché ti sei seduta, Aci? Perché sei rimasta?”.
Il suo nomignolo, Aci, pronunciato da lui era davvero snervante.
Perché sei rimasta?
Lei strinse le labbra, pensando a cosa dire.
Alla fine disse ciò che davvero pensava: “Vorrei riuscire a convincerti a lasciar perdere”.
Kaeso non aveva l’aria di essere sorpreso. Il sorriso falso che aveva sul viso gli donava, ma non lasciava intravedere niente.
E’ la nostra natura. Gli umani sono solo nutrimento. Non possiamo convivere con loro, possiamo solo mangiarli” disse, in tono teatrale, come se stesse recitando qualcosa che aveva imparato a memoria.
Acilia si sentì ferita nel profondo e istintivamente abbassò lo sguardo. Il mare di sangue che aveva nel corpo era in tumulto, e cercava di annegare tutto quello che doveva essere annegato.
Lui scrollò le spalle, guardando un punto davanti a sé. “Smettila. Credi di riuscire sempre a far fare agli altri quello che vuoi? ”.
Lei si girò di scatto a guardarlo, per vedere se qualcosa trapelava dai suoi occhi o dalla sua bocca. Un guizzo di rabbia, un moto di tristezza, qualunque cosa…
Kaeso ricambiò lo sguardo, tagliente e senza sorriso. “Me ne frego dell’autorità che hai avuto. Ora ho la tua stessa identica autorità”.
Acilia ricordò di quando si sentiva chiamare tiranna. C’era anche lui là fuori che la chiamava in quel modo. Tentò di calmarsi e a non pensare alla sua autorità che aveva buttato al vento. Forse ora non avrebbe dovuto fare i conti con la cruda realtà di ciò che era andato, se fosse stata ancora regina. Ma non sarei potuto esserla per sempre, pensò, mi avrebbero uccisa prima. Guardò con occhi tremanti quelli di Kaeso. L’avrebbe uccisa lui.
Lui tornò a sorridere, forse si era accorto dell’effetto che avevano avuto le sue parole su di lei.
“Sai” disse “Primo Levi aveva scritto una cosa…”. Strinse gli occhi e buttò indietro la testa, cercando di ricordare.
L’oppressore resta tale, e così la vittima” recitò a memoria “non sono intercambiabili”.
“Saresti tu l’oppressore?” chiese Acilia, confusa ed accigliata.
Ma entrambi hanno bisogno di rifugio e difesa, e ne vanno istintivamente in cerca”.
“O gli oppressori siamo noi e le vittime sono gli umani?”.
Kaeso piegò il suo sorriso da un lato. “Anche”.
Acilia aggrottò la fronte. “Mi pare un po’ paradossale che tu ti metta a citare Primo Levi” osservò dopo un po’.
“È uno scrittore italiano come un altro. Mi piacciono gli scrittori italiani” rispose Kaeso. Fece un gesto con la mano come se dovesse scacciare una mosca. “Quelli veri, intendo. Non quelli di oggi”.
Beh, era Kaeso ad essere completamente paradossale. Un terribile vampiro sadico che nel tempo libero, tra uno spuntino e l’altro, si metteva a leggere.
Lui si accorse dello sguardo ancora attonito di lei e continuò a parlare: “Io non sono razzista, Aci. Ti assicuro che se davvero mettessi gli umani in dei recinti, non li dividirei per razza, né per nazionalità, né per qualunque altra cosa”. Sorrise, amabile.
“Mi fai venire i brividi” ribatté lei.
Kaeso si fece serio. “Sono stupidi” disse “Gli umani sono stupidi. Si mangiano l’un con l’altro per delle inezie e poi i cattivi siamo noi, che li mangiamo perché siamo costretti”.
“Non siamo costretti!” sbottò Acilia.
“La convivenza è tutta una favola, piccola Aci” fece lui, mieloso e macabro allo stesso tempo “I cacciatori non farebbero differenza tra me e te, ti sparerebbero un proiettile di legno proprio lì, dove hai il cuore”. Le indicò il petto. “Sono stupidi. Noi siamo più forti e più intelligenti, siamo la loro evoluzione” continuò “Loro mangiano le piante – le verdure – per stare in salute, no? E noi dobbiamo mangiare loro. Bisogna stare al passo coi tempi”.
Acilia lo guardava e non trovava neanche una traccia di umanità, in nessun angolo della sua pelle. Non doveva rimanere lì, non doveva stare ad ascoltarlo perché ogni parola che lui diceva era come una pallottola di legno. E faceva venire tutto a galla, ogni maledetta stupida sua parola di un tempo…
E com’era possibile che un essere tanto meschino avesse letto Levi?
La passione per la letteratura, sapeva da dove proveniva.
“E gli scrittori che ti piacciono tanto?” fece Acilia, arrabbiata “Anche loro sono stupidi umani?”.
Kaeso la guardò sorpreo. Sembrava stesse riflettendo. “No, loro no” disse dopo un po’ “Ma loro sono già tutti morti”.
Rise e poi andò avanti: “La nostra dannazione può essere un dono, Aci, pensaci bene. Vivere per sempre… Non è bellissimo? La vita non si esaurisce mai e neanche la sete di conoscenza… Puoi leggere all’infinito, guardare così tante forme d’arte, giudicare, apprendere, tutto con gli occhi di un eterno passante, un estraneo che non verrà mai coinvolto. Non è bellissimo questo?”.
Anche Acilia amava l’arte. Ma non amava vivere in eterno. Aveva letto tantissimi libri, visto qualche film, guardato qualche mostra e ascoltato la musica, solo perché sono le uniche cose belle che può concedersi un vampiro. Non bellissime, consolazioni.
Non rispose alla domanda di Kaeso e lui la guardò con espressione pensosa. “Ora che mi ci fai pensare, se dovesse spuntare fuori un nuovo grande artista gli risparmierei le sofferenze che infliggerei agli altri umani” disse.
Acilia si alzò, cupa, decisa a non ascoltare altro. Ma rimase ancora ferma, a fissare quel folle che parlava. “Non nasceranno più grandi artisti se attuerai il tuo piano, Kaeso. Gli umani che vengono trattati come bestie si abbrutiscono e non pensano più, pensano solo al loro immediato presente, proprio come gli animali”.
Si voltò, pronta ad andarsene. Ma poi si girò di nuovo per guardare un’ultima volta Kaeso. Lui la guardava con uno strano sorriso. Non era il solito, presuntuoso e irritante sorriso. Era solo… strano.
“Se davvero hai letto Primo Levi” disse ancora lei “dovresti saperlo bene”. Si voltò, questa volta definitivamente e si allontanò, sentendo un grosso macigno che la comprimeva da tutte le parti, e la schiacciava, l’accartocciava, come fosse un foglio scritto pieno di errori, da buttare.
 
*
 
La guerra non era finita.
Non per lui.
Jacque si sforzò di mandare giù un po’ di zuppa. Si era abituato a mangiare poco, e ora il suo stomaco faticava a ricevere quantità copiose di cibo. Anche se in realtà copiose non lo erano di certo.
Distrattamente si mise a mescolare la zuppa col cucchiaio, senza avere più voglia di mangiare.
L’altro braccio era abbandonato lungo la sua gamba sinistra.
“Sei in pensiero?” fece una voce.
Jacque alzò lo sguardo e vide che una giovane ragazza con un grembiule gli stava riempiendo il bicchiere di birra. Lo guardava con occhi avidi. “Stai tornando a casa dalla guerra?”.
Jacque non aveva idea di che orribile aspetto avesse. Si sentiva il volto secco e bruciante, sinceramente non pensava avrebbe mai riscosso successo con le donne.
La donna si poggiò coi gomiti sul tavolo e si avvicinò a lui. Alzò un dito e gli indicò la guancia. “Ti fa male?”.
Sì, gli faceva male, doveva avere un brutto taglio.
Lei aveva gli occhi azzurri e provocanti.
“Prendo una stanza” disse Jacque. Il viaggio sarebbe stato ancora lungo. Aveva fretta di tornare a casa ma se non si fosse riposato non ce l’avrebbe fatta. Aveva fretta perché non sapeva se sarebbe riuscito a tornarci, a casa. Quella strega, quel vampiro, dagli occhi verdi… Non era avvenuto nella sua testa. Ma i vampiri non esistevano… La ferita sul collo gli faceva male. Cosa gli aveva fatto? Cosa gli sarebbe successo?
Non posso lasciarti andare.
Pensava che l’avrebbe ucciso, invece poi l’aveva lasciato andare. Aveva pronunciato delle parole, sembravano una formula. Jacque non le aveva capite bene… Sapeva poco sui vampiri. Aveva sentito qualcosa su Dracula, un libro che continuava ad avere successo. Sapeva che i vampiri uccidevano o… trasformavano.
Ma lui non si era trasformato. O sì?
“Certamente”.
Le labbra della cameriera erano carnose e invitanti. Jacque aveva fretta di tornare a casa ma aveva anche fretta di qualcos’altro. Se davvero si sarebbe trasformato nel giro di poco… Da così tanto tempo non possedeva una donna! Ma non sentiva niente dentro di sé. Non era possibile pensare che si sarebbe trasformato. In cosa poi? Un vampiro?
Non aveva senso…
Però lui che aveva visto morire i suoi compagni, lui che aveva visto la morte in faccia… aveva di nuovo paura.
Alzò il braccio monco, come se si sentisse in dovere di far vedere com’era fatto alla cameriera. Lei sgranò un poco gli occhi ma non disse niente.
“Non voglio stare da solo stanotte” disse lui, sentendo il suo cuore che batteva forte. Cosa sarebbe successo quella notte? Sul fronte non voleva  addormentarsi perché aveva paura di non svegliarsi più. In viaggio non voleva addormentarsi perché aveva paura di vedere i visi dei suoi amici morti. Nei sogni l’orrore non finiva mai, mai… E ora? Quella notte… Non voleva dormire, come si sarebbe svegliato? Come?! Gli occhi verdi di quel mostro… Li avrebbe rivisti, quella notte?
La ragazza dagli occhi azzurri sorrise e annuì, poi se ne andò. Jacque non sapeva neanche il suo nome, ma a cosa importava?
Rinunciò a finire la zuppa. Il panico lo stava divorando. Aveva così tanta voglia di rivedere la sua famiglia… Sua madre e sua sorella gli avevano mandato delle lettere, stavano bene. Ma i suoi fratelli? Dov’erano? Erano sopravvissuti? Erano in viaggio? Le due donne a casa avevano perso i contatti con Fabien. Davvero poteva essere morto…
Le lacrime che avevano imparato col tempo a non uscire, si formarono dentro ai suoi occhi, senza cadere. Lui chiuse gli occhi e se li asciugò. In un lampo rivide il corpo di Hugo, quello di Tom… Il sangue scorreva dopo ogni sparo e sempre quella domanda, che si insinuava fastidiosa nella sua testa: perché lui e non io? Perché io sono ancora vivo e lui no?!
Il destino amava giocare a scacchi col mondo e ora lui doveva vincere una nuova prova. Ma si trattava di vincere? Aprì gli occhi e vide davanti a sé una donna dai capelli neri e gli occhi verdissimi, lucenti e malvagi. Lanciò un’esclamazione di spavento e si guadagnò una buona dose di occhiatacce da parte degli altri clienti. Il vampiro sparì e lui riprese a respirare normalmente. Il sangue dei suoi amici, lo stesso di Victor, lo stesso suo, e quello della strega… Sotto le sue palpebre tutto il rosso si mescolava e lui si ritrovò ad annaspare.
Non devi pensarci, si disse, dov’è finito tutto il tuo coraggio?!
Aveva corso sotto le bombe, aveva dato coraggio a Tom mentre stava morando, aveva tentato di portare in salvo Simon. Ora doveva solo arrivare nella camera della locanda a lui destinata. Se la sarebbe spassata con una bella ragazza e la mattina dopo avrebbe continuato il suo viaggio, per tornare dai suoi cari…
Si alzò con uno scatto dal tavolo e si avviò verso il bancone. La locandiera gli diede una chiave e lui le chiese se poteva pagare l’indomani. Lei acconsentì e lui si sentì per un attimo felice, come se un domani davvero ci fosse. Si avviò verso le scale e fece l’occhiolino alla cameriera.
Cercò la porta della sua stanza, entrò e si sistemò.
Il letto era caldo e accogliente. Si distese, contento della comodità che gli era stata concessa. Nel momento in cui il suo viso sfiorò il cuscino, ripensò alla terra, dura e bruciata, su cui doveva dormire. Non appena stirò gambe e braccia ricordò che riusciva a stare caldo solo se stava rannicchiato, accanto ai suoi compagni.
Immaginò di essere morto, immaginò di non essere su quel letto, immaginò di essere dentro a una tomba, accanto agli altri soldati, tutti insieme perché era così che sarebbero dovuti stare d’ora in poi: tutti insieme, uniti dal coraggio, dalla paura, dalla passione. Ma loro se n’erano andati e lui era rimasto solo, li aveva abbandonati lui. Il fatto era che lui era vivo e loro no. Il senso di colpa lo invase e quando sentì bussare alla porta si accorse che stava piangendo. 
 
 
Ricordava tutto, però con quell’opaca trasparenza tipica dei sogni. La verità era che ricordava tutta la sua vita da umano come se fosse stato un sogno, un lungo sogno dal quale si era risvegliato. Un sogno che non aveva potuto fare mai più, del resto i sogni non si ripetono mai.
Ricordava di essere andato ad aprire la porta. Si era trovato davanti la cameriera della taverna, quella tanto buona e gentile da aver acconsentito a passare la notte con un soldato ferito e menomato. Non ne ricordava affatto il volto, niente, neanche i lineamenti, neanche il colore dei capelli o degli occhi. Il suo viso era sfumato in una nuvola rosa, proprio come i visi dei sogni. Anche se non poteva più sognare, ricordava com’erano i sogni. Forse da umano ne aveva fatti tanti, o forse confondeva la sua vita da umano con i sogni. Forse era la sua condizione di vampiro ad essere un sogno e doveva ancora svegliarsi, svegliarsi in quella stanza di quella locanda, accanto alla cameriera, senza una mano ma felice. Tante volte l’aveva pensato, eppure non si era mai svegliato.
Ricordava che la giovane donna si era spogliata. Si era spogliato anche lui e i loro corpi si erano avvinghiati in una stretta che sarebbe diventata mortale. Lui quasi non riusciva a respirare, era sopraffatto dall’emozione, dalla gioia e dal dolore, il calore che tanto gli era mancato. Quella donna era una perfetta sconosciuta e neanche gli importava di lei, come del resto a lei non importava di lui. Importava solo il momento, sentirsi vivo ed essere felice perché era vivo. La colpa era scivolata via, la guerra e l’orrore erano dietro le quinte per un attimo. Lei ansimava, poi gli aveva chiesto preoccupata cosa non andasse.
Lui l’aveva lasciata andare, sentendo che il calore stava prendendo il sopravvento su di lui. C’era troppo calore, era troppo caldo e il suo corpo stava prendendo fuoco. La ragazza urlò allora lui pensò che davvero stesse bruciando. La baciò perché se stava morendo la voleva portare con sé, quella donna di cui non sapeva neanche il nome. La baciava e lei si dimenò, gli diceva di calmarsi ma lui la teneva stretta. Non vedeva più la cameriera ma vedeva il volto della vampira, quella dagli occhi verdi, e ne vedeva bene i lineamenti, oh sì. Le voleva fare del male, più male che poteva. La odiava ma allo stesso tempo avrebbe voluto giacere con lei. Tutto bruciava nella stanza, la donna urlava e lui piangeva. Ad un certo punto si rese conto di quello che stava facendo e la lasciò andare. Entrambi caddero sul pavimento. Lui aveva preso a contorcersi e lei gli aveva gridato una cosa. Gli aveva gridato che aveva bisogno di cure, che avrebbe chiamato un medico.
Non ho bisogno di un medico, aveva pensato lui tra le fiamme, non ne ho bisogno perché sto morendo. Voleva anche scusarsi se le aveva fatto male in qualche modo, involontariamente, ma non riusciva a parlare. Voleva chiederle di restare con lui, di assisterlo mentre moriva, di fargli compagnia. Non voleva morire da solo. Adesso capiva perché Tom l’avesse ringraziato prima di morire, perché era rimasto con lui fino alla fine. Adesso capiva quanto fosse importante, non sentirsi soli…
Ma la ragazza era uscita dalla stanza, forse per fuggire da lui, forse per cercare aiuto.
Il motivo per cui lui non aveva mai voluto parlare della sua trasformazione ad Emily era la vergogna. Si vergognava di avere avuto un rapporto con una sconosciuta, di averle fatto del male, di aver pensato ad Acilia mentre lo faceva…
I ricordi a questo punto erano davvero confusi perché lui non vedeva più niente. Tutto si era fatto rosso, come il sangue dei feriti e dei morti. Il sangue che aveva visto bere e che lui stesso aveva bevuto.
La passione si era trasformata in violenza, e la violenza si trasformò in morte.
 
 
Quando riaprì gli occhi sentì subito un puzzo terribile. Subito dopo capì che non riusciva a muoversi, incastrato com’era tra degli oggetti. Toccò gli oggetti e si rese conto che non lo erano, oggetti, e lanciò un grido strozzato. Era incastrato in un cumulo di cadaveri.
Li sentiva, freddissimi e viscidi, appiccicati al suo corpo che, per qualche motivo, era completamente nudo. Tentò di muoversi, di districarsi dai morti, cercando di non pensarci e di non urlare… Liberatosi da quell’abbraccio mortuario non poté fare a meno di guardarli. Corpi bianchi e sporchi, alcuni nudi, alcuni ricoperti di stracci. Violacei in volto, gli occhi spalancati e vitrei, braccia e gambe come quelle di bambole bianche, rotte e abbandonate. Erano tetralmente illuminati da una pallida luce di luna e Jacque alzò la testa. Sopra di loro c’era un foro, erano in… una buca! Una buca scavata sotto terra, ecco perché erano tutti così sporchi… Si scrollò di dosso il terriccio e cercò di mantenere la calma.
Qual era l’ultima cosa che ricordava?
Stava facendo l’amore con la cameriera della taverna poi, poi… Cos’era successo? A lei cos’era successo?
Preso dalla nausea, rovistò tra i cadaveri, cercandola. Ogni viso di donna cereo lo faceva sobbalzare, ma i bambini… C’erano anche dei bambini! Minuscoli esserini, piccole marionette abbandonate al loro destino. Dov’era la ragazza? No, non la trovava, non c’era… Gli veniva da piangere ma non lo fece.
Perché era lì sotto, sotto terra insieme ai morti?!
Era… Era dunque morto? Davvero morto?
Non aveva l’aspetto di un morto. Ricordava di essere così magro… E invece ora si era rinvigorito. Sembrava essere tornato nella stessa forma fisica in cui era prima della guerra.
Si prese la testa tra le mani e lanciò un altro grido.
“Aiuto! Qualcuno mi aiuti!” urlò, ma nessuno rispondeva.
Doveva darsi una calmata e ragionare. La prima cosa da fare era uscire da lì.
Ai cadaveri e alle situazioni estreme era avvezzo, si trattava semplicemente di uscire da quella buca. Però il fatto di essere nudo lo faceva sentire scoperto, disarmato, inerme. E cosa diamine gli era successo? Era morto? Resuscitato? Un vampiro?
C’era una frase nella sua mente, quasi un ritornello di una canzone…
Torna al tuo creatore quando risorgerai.
Nonostante avesse solo una mano e un polso su cui contare fu veloce a scalare la montagna di morti. E mentre avanzava, sempre più in alto, verso la superficie, gli venne in mente che lo stava di nuovo facendo. Si stava di nuovo salvando, lasciando una scia di morti dietro di sé. Si stava arrampicando sui cadaveri, lui era l’unico sopravvissuto! Il senso di vergogna che provò in quel momento lui, lì, unico vivo, tra uomini, donne e bambini morti, quasi gli impedì di andare avanti. Ma poi si riaccese dentro di sé la speranza di poter tornare a casa e la luna fu di nuovo vicina. Si ancorò al terreno con una mano mentre l’altro braccio rimase a penzoloni lungo il suo corpo. Lo sentì sbattere contro la terra scavata e digrignò i denti. Qualcosa lo aveva colpito proprio là dove avrebbe dovuto esserci la mano ma lo ignorò. Un taglietto non sarebbe stato nulla.
Lanciò un’esclamazione di trionfo quando fu fuori ma subito lo invase la paura. Il freddo era pungente e lui era nudo. Sarebbe morto assiderato? Si guardò. Come avrebbe resistito? Notò il taglio nella parte monca del suo braccio. Era piuttosto lungo, non immaginava di essersi fatto così male. Infatti gli bruciava, quel taglio bruciava terribilmente. Ma che stava succedendo? Si stava… allargando? Il taglio era sempre più lungo, e largo… Gocce di sangue cominciarono a uscire, sempre più copiosamente… Faceva un gran male e lui si mise a gridare. Cadde sul terreno freddo e si contorse. Cosa stava succedendo? Quando aveva perso la sua mano… il male era stato atroce, ma poi era passato, se n’era andato, con la sua mano. Perché ora il male era tornato?! Urlò, si prese il polso con la mano dell’altro braccio e lo guardò, lo guardò mentre la ferita si spaccava e il sangue usciva. Un osso sporgeva, Jacque vedeva bene il bianco intagliato nella notte e quel bianco cresceva. L’osso stava crescendo, ossicini spuntarono dal nulla, legamenti e sangue… Jacque urlò tantissimo, il dolore era insopportabile e non riusciva a distogliere gli occhi dalla sua mano, che stava tornando, che si stava formando… Pelle bianca proprio come l’osso ricoprì tutto.
Com’è possibile…
Il dolore cessò così come era venuto e lui annaspò a terra, sulle sue due mani. Era felice… Quando aveva perso la mano si era disperato così tanto, ora… ora l’aveva di nuovo! Ma com’era possibile?!
Cosa sono diventato?! Cosa?!
“Ti ho portato dei vestiti” disse una voce e lui sobbalzò.
Subito si alzò in piedi e fu sorpreso dalla sua prontezza. Il freddo lo sentiva eccome, ma sembrava che non lo stesse indebolendo.
Davanti a lui c’era la donna dagli occhi verdi e dai lunghi e lisci capelli neri. Aveva un volto impassibile e in braccio teneva una casacca e un paio di pantaloni scoloriti.
La buca, la mano, quella donna vampiro… La consapevolezza di non essere più un ragazzo normale lo invase e per un momento fu incapace di parlare. Poi ritrovò la voce, e quella esplose.
“Cosa mi hai fatto?!” gridò “Perché?!”.
Lei si mordicchiò il labbro. Il suo viso era freddo, ma qualcosa come il dispiacere lo attraversò. “Non avevo scelta, mi dispiace”.
Jacque si avvicinò a lei, rabbioso. “Io volevo tornare a casa!” urlò “Volevo solo tornare a casa!”. Il suo coraggio, la sua fermezza si sciolsero in un grido strozzato e disperato… Davvero non sarebbe più tornato a casa? La guerra l’aveva intrappolato per sempre nel suo mondo di morti e lui non avrebbe mai potuto liberarsi?
Avvicinò le sue mani agli occhi per asciugarli ma non c’era nulla da asciugare. Non poteva nemmeno piangere?!
Si avvicinò ancora di più alla vampira, sempre più gonfio di rabbia. Voleva urlarle addosso, voleva picchiarla, farle tutto il male possibile… Alzò le mani ma lei aveva il viso di una ragazzina e lui non voleva veramente toccarla. La sua frustrazione esplose nelle sue gengive e lui urlò di dolore. Qualcosa stava venendo fuori, sotto i denti, qualcosa spingeva… Chinò la testa, gridando. Si toccò il labbro, la bocca, i denti… I suoi canini si erano allungati, orribilmente.
Rialzò la testa e vide la sua assassina che lo guardava stringendo le labbra.
“Sono un vampiro” biascicò Jacque, con la mano ancora sulle zanne “Sono un…”.
“Mettiti questi, ti prego” disse lei spingendo verso di lui il vestiario “E ti prego di non urlare più, potrebbero sentirci. Poi ti spiegherò ogni cosa”.
Jacque si ricordò di essere nudo e per un momento si vergognò.
Strappò con violenza i vestiti di mano alla donna e se li infilò in un lampo. Gli stavano un po’ larghi.
“La tua divisa è in una catasta di vestiti. So dove trovarla se la rivuoi” disse la ragazza, a mò di giustificazione.
Jacque annuì, poi la guardò. I denti tornarono a fargli male e lui fece una smorfia. Le sue zanne si erano ritirate.
“Dopo un po’ smette di far male” disse l’altra.
Lui non disse niente. Attendeva spiegazioni. Di certo non poteva fuggire a gambe levate, non avrebbe avuto senso… E non aveva senso neanche cedere alla rabbia o alla tristezza… Aveva imparato a prendere cosa gli veniva dato dal destino, sì, ma quello, quello era troppo.
“Mi chiamo Acilia” disse la vampira “e sono la tua creatrice. Ho milleottocento anni”.
Jacque si impietrì. Non era affatto morto, era solo diventato immortale…
“Dalla taverna… Ti ricordi della taverna?” continuò lei.
Lui annuì.
“Dalla taverna hanno portato qui il tuo cadavere. Credevano fossi morto di spagnola e ti hanno buttato in questa fossa comune”.
Jacque deglutì. Quindi era morto sul serio. Non l’avrebbero mica messo in una fossa se non fosse morto davvero?
“È passata una settimana, e ora sei… risorto. E sei un vampiro”.
Una settimana?!
“Cos’è successo alla… alla cameriera?”.
Acilia lo guardò confusa.
“C’era una ragazza” disse dopo un po’ “Castana… aveva gli occhi azzurri. Aveva dei lividi sulle braccia, e piangeva”.
Lividi sulle braccia…
Jacque abbassò lo sguardo, sentendo qualcosa di spregevole dentro di sé.
Poi guardò di nuovo Acilia.
“Un mostro…” ansimò “Mi hai fatto diventare un mostro…”.
“Sta bene” ribatté lei.
“Sono io che non sto bene!” urlò Jacque.
Si prese la testa tra le mani e si chinò. C’era qualcosa che tormentava, era fame…
Sentì la voce di Acilia su di sé, che gli cadeva addosso, in frammenti.
“Non avrei mai voluto… Io… Tu mi hai vista e io…”.
“Non me ne frega un cazzo!” gridò lui.
“Non urlare!” sbottò lei e lui si sentì prendere le spalle e si ritrovò due occhi verdi dritti nei suoi.
“Non urlare” ripeté Acilia “Non è facile per nessuno, all’inizio”.
La fame… Cosa, cos’avrebbe dovuto mangiare?
“Io” continuò lei, inspirando a fondo “Quando sono diventata vampiro sono andata dal mio fidanzato. Non potevo controllarmi, l’ho ucciso, ho bevuto il suo sangue”.
Sangue…
Jacque rabbrividì. “Questo… questo…” farfugliò “Dovrebbe farmi sentire meglio?”.
Acilia lo prese per un braccio. “Ti insegnerò a nutrirti senza uccidere. Ora vieni, devi mangiare”.
“No!” esclamò lui, strattonandosi. “No! Mai!”.
Oh no, non avrebbe bevuto neanche una goccia di sangue, aveva già fin troppe morti sulla coscienza! Sarebbe rimasto lì e si sarebbe lasciato morire di fame!
Devi nutrirti!” fece l’altra, impaziente.
Lui la guardò negli occhi e sentì montare di nuovo la rabbia. “No” ripeté.
Si allontanò da lei e non le parlò più.
Dopo un po’ lei lo prese per un braccio e lui si lasciò condurre via. Lei scavò una fossa nel terreno e gli disse che avrebbero dovuto stare lì dentro per tutta la durata del dì. Jacque cercò di ribellarsi ma alla fine lei vinse. Era così forte. Le prime luci dell’alba stavano sorgendo e i due si seppellirono insieme. Lei voleva toccarlo ma lui si girò dall’altra parte. Provò a piangere ma non ci riuscì, poi tutto fu buio. Parevano passati pochi minuti quando Acilia lo destò però si sentiva riposato. C’era un’unica cosa, che tentava in tutti i modi di ignorare… La fame.
“Vieni, ci nutriremo insieme” gli disse Acilia, ma lui rifiutò ancora.
Non sapeva neanche dove fosse. Non vedeva mai persone, mai delle case. Si limitava a stare in un angolo. Acilia se n’era andata per nutrirsi e lui era rimasto lì. Non aveva senso fuggire, non voleva andare da nessuna parte, non voleva incontrare nessuno. Era diventato un mostro, non avrebbe mai più potuto incontrare nessuno.
Quando Acilia tornò, lui le chiese: “Ce ne sono altri come noi?”.
Lei lo guardò, sorpresa. Forse era contenta che lui avesse di nuovo parlato.
“Sì” rispose “Molti. Io faccio parte della Rappresentanza Vampiresca d’Europa. Sai, come un Parlameno”.
A Jacque non importava.
“E perché non sei nella tua Rappresentanza ora?” domandò, un po’ acido.
“Ho diritto a qualche giorno perché sono diventata creatrice” disse lei, dopo un po’ “Devo stare col… mio vampiro infante”.
Infante?
Jacque fece una mezza risata. “Quando dici creatrice… intendi genitore?”.
“Non è proprio la stessa cosa” disse Acilia, avvicinandosi a lui “Però in un certo senso sì”.
Lui sospirò. “Mio padre è morto quando ero piccolo. Un incidente in fabbrica” disse. Alzò lo sguardo su Acilia, uno sguardo pieno di odio. “Ma una madre ce l’avevo già”. Lei si era seduta accanto a lui e non lo guardava arrabbiata né risentita e lui si sentì sciogliere. La tristezza era troppa. La fame incalzava ma non voleva cedere, e i ricordi di casa sua… I ricordi di sua madre e dei suoi fratelli presto sarebbero sfumati… Non avrebbe più ricordato i loro volti? “Vorrei rivederla…” fece, con la voce che si era trasformata in un pigolio “Vorrei rivedere mia madre…”. Nascose il volto tra le braccia, anche se non aveva senso. Non c’era nulla da nascondere, nessuna lacrima sarebbe scesa.
“Almeno in guerra…” gemette “Almeno in guerra potevo piangere!”. La sua voce si era lievemente alzata, impastata di disperazione, rabbia e fame e sentì un braccio freddo che gli circondò le spalle.
Non respinse Acilia, non ne aveva voglia. Ricordava quando la notte prima gli aveva detto di aver ucciso il suo ragazzo perché non poteva controllarsi. Per quanto lei fosse vecchia, erano simili. Erano legati dallo stesso destino e dalla stessa commiserazione. Fece scivolare la sua testa sulla spalla di lei e si lasciò abbracciare.
A volte le cose vanno in modo strano. A volte la vittima finisce per affezionarsi al suo oppressore. L’oppressore è l’unica fonte di sostentamento che la vittima ha, e la vittima finisce per dimenticare che la causa di tutti i suoi mali è proprio l’oppressore.
La terza notte che risorse da quella buca che condivideva con Acilia aveva un vago pensiero in testa. Si sentiva debole e fiacco, la fame che lo divorava ma era riuscito comunque a raggiungere una conclusione.
“Non sento più quel senso di colpa” disse, più rivolto a se stesso che ad Acilia “Così tanti sono morti in guerra, perché proprio io dovevo sopravvivere? Tanta gente migliore di me è morta…”.
Acilia non diceva niente e lui andò avanti: “Ora sono stato punito anch’io, ora sono libero”. Si alzò in piedi, vacillando. Aveva la lingua e la gola secca. Il suo corpo implorava sangue.
“È l’unica cosa” disse, stringendo i pugni e guardando le stelle nel cielo “che mi fa sentire un po’ meglio”. Gli mancava anche il sole ora.
Rivolse il suo sguardo ad Acilia. “Portami a mangiare”.
Lei, sorpresa e sollevata, come una madre che finalmente si sente dire dal dottore che il proprio figlio è guarito, annuì. Gli tese una mano, serenamente, e lui, prendendogliela, si sentì più accettato, più forte.
Acilia gli disse che avrebbero cercato un uomo abbastanza avanti con l’età, Jacque non sapeva perché.
Ma quando affondò i canini nel suo collo e sentì il sangue che scorreva dentro di lui, lo capì. Acilia gli diceva di fermarsi ma lui non ci riusciva. E l’uomo cadde morto ai suoi piedi.
 
*
 
 
Curtis premette il tasto rosso del cellulare per porre fine alla chiamata.
Emily l’aveva appena chiamato e gli aveva chiesto se potevano vedersi. Lui faticava a capirla. Gli aveva mandato ogni segnale possibile per metterlo in guardia, sembrava non ne volesse sapere di lui. E ora gli telefonava.
Sospirò. Non voleva certo finire con una ragazzina. Ma c’era qualcosa in lei… Era bella, ma non era solo bella. I suoi occhi erano freddi ma allo stesso tempo sprigionavano un gran bisogno di raccontare. Quegli occhi avevano dietro un mondo.
Dalla camera da letto si avviò verso il salotto. In corridoio si fermò e prese in mano la sua macchina fotografica dal mobile.
Lo vuoi davvero fare?
“Con chi eri al telefono?”.
Curtis si voltò. Dalla soglia del salotto Karen lo guardava sospettosa.
“Lavoro” disse lui, prontamente, sollevando la macchina fotografica “Devo andare, mi dispiace”.
Lo vuoi davvero fare?!
Ad Emily si stava affezionando.
Karen strinse le labbra, fino a nasconderle e i suoi piccoli occhi erano gelidi. Proprio come ogni volta che lui le diceva che doveva lavorare.
Si avvicinò a lei, incerto. Alla fine le diede un bacio sulla guancia e lei rimase immobile.
Curtis si avviò verso la porta, mettendo la macchina nella sua borsa a tracolla. Abbassò la maniglia lentamente, sperando che Karen lo salutasse. Ma lei non lo fece, chiusa nella sua ostinata rabbia.
“Papà! Papà!”.
Curtis si voltò e vide che in corridoio i suoi bambini Sally e Selwyn stavano saltellando in corridoio.
Sorrise. Ogni volta che usciva di casa non poteva fare a meno di domandarsi se…
“Dove vai?” gli chiese Sally.
“Devo lavorare, piccola”.
“Ma torni vero?”.
“Certo!”. Curtis si avvicinò ai due gemelli. “Non sono sempre tornato?”.
Sentiva lo sguardo arrabbiato di sua moglie su di sé.
Sally annuì. Selwyn non diceva mai niente. Si limitava a guardare il suo papà con i suoi grandi e tristi occhi. Una volta gli aveva chiesto se la mamma lo odiava. No, certo che no, Selwyin, io e la mamma ci amiamo, gli aveva risposto lui. Diede a un bacio a entrambi e poi uscì, curandosi di non incrociare lo sguardo di Karen.
Non poteva farne a meno, ogni volta.











Eccomi qui : D 

Alla fine anche questo capitolo è lento.. anzi, in certi punti mi è venuto fuori poetico.. Spero non sia stato troppo pesante XD

Nene, wow è stato così favoloso il capitolo scorso? D: beh, bene XD ti ringrazio molto per i complimenti e anche per aver annesso l'episodio del villaggio che voleva ditruggere il cimitero: potrei farne buon uso per quando revisionerò/riscriverò il libro : DD Per la questione politica non saprei se mi sono ispirata.. direi di no perché in ogni caso il capitolo avrebbe avuto quell'andazzo, poi se il clima aiuta, tanto meglio :) beh, aspetto una prossima recensione, a qualunque capitolo la lascerai (che brava recensitrice che sei XD)! eee un personaggio normale nella storia? Io? Ma mi conosci? :PP baci!
Sara, anche a te è piaciuto molto il capitolo scorso XD beh, che dire ragazze, mi commuovete! Pochi (pochissimi) fan ma buoni! Sapevo che ti sarebbe piaciuta la seduta col dottor Pohl! XDXD Jacque sì.. è un po' così, spero che con questo capitolo e i prossimi (mica è finita qui la sua storia) ti aiuteranno a comprenderlo meglio XD E così scopri che anche Claire è una persona più o meno normale.. eh sì, i miei personaggi hanno tutti un perché XD anche se ammetto che Claire non verrà sviscerata a fondo.. ho troppi personaggi T.T alla prossima e grazie mille! baci! w w le crocchette! 

Tornate a recensirmiiiiii ç_ç oppure, venite a recensirmiiii! Non vedete quanto è carina e coccolosa questa storia? (sto impazzendo..) 
Credo che non riuscirò ad aggiornare la prossima domenica, quindi temo di dovervi dare appuntamento a quella dopo ancora! : D
Per darvi un'idea di quanto state leggendo: compreso questo capitolo, siamo a 331 pagine! 

Byeeeee! 

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Capitolo 18
*** Assente ***


Capitolo 17
CAPITOLO XVII
ASSENTE
 
 
 


Era sera tarda quel giorno sul termine di giugno e una fila di persone stava entrando in un condominio. Avevano visi poco allegri ed erano vestiti di nero.

S’infilò dietro all’ultima persona, una donna dai capelli biondo rame, con un lungo abito scuro coperto da un coprispalle velato, che si trascinava dietro una bimbetta. La bimba si voltò sulle sue scarpette nere e lo guardò con una traccia di confusione tra le palpebre, che stringeva. Aveva un visetto vispo e il colore degli occhi molto simile a quello di lui.  
Lui si avvicinò l’indice alla bocca e fece “Sssst”. Le fece l’occhiolino e quella si girò di nuovo sghignazzando.
Quella che presumibilmente era sua madre le diede uno scossone. Non doveva ridere. Dovevano essere tutti tristi e immobili: erano queste le regole del mondo.
“L’ultimo chiuda la porta, per favore” disse una voce triste e pacata.
Era lui l’ultimo. Appoggiò delicatamente la porta sulla soglia, lasciandola socchiusa. Si voltò e vide una tetra sala, un tetro tavolo con sopra dei tetri stuzzichini.
Per Giove, pensò lui, se proprio dovevano fare una festa, che almeno la facessero bene! Ci voleva proprio lui per movimentarla.
Anche se non c’era molto da festeggiare, pensò guardando l’angoscia che alcuni volti trapelavano. Ma perché diamine bisognava festeggiare un morto? Se diventava un vampiro allora sì che c’era da festeggiare! Ma se era morto e basta, che senso avevano tutte quelle persone, tutti quei salatini e tutte quelle bevande? Un’anziana signora in carrozzella piangeva senza ritegno davanti a due uomini che cercavano di darle conforto. Doveva essere la padrona di casa.
Si diresse in corridoio e sulla sua destra vide una stanzetta gremita di persone, scarsamente illuminata. Volevano darle un’aria lugubre? Eccola, l’attrazione della serata, la star!
Si avvicinò alla bara e vide un raggrinzito cadavere. Doveva essere stato il marito della signora in carrozzella. Quanta inutile tristezza! Insomma, quell’uomo ormai aveva più di novant’anni! Che gusto c’era a vivere così? Quella cosa che nessuno voleva, quanto la volevano in verità! Piangerebbero mai, quegli stupidi umani, per la vecchiaia e la morte se davvero non volessero diventare vampiri? Vivere per sempre e per sempre giovani! Chi poteva non volerlo?
“Vorrei dire due parole” disse un ometto con gli occhiali, alzando un pelo il bicchiere che aveva in mano.
Ma perché? Bisognava fare i discorsi come ai matrimoni? Proprio non capiva, un morto è morto e basta. Non ti può sentire, gli avrebbe voluto dire, perché io lo so com’è la morte. Non c’è nessun cielo, nessun al di là, dal quale vedere e sentire i propri cari. Non c’è niente.
“Non so se tutti mi conoscono, mi chiamo Larry Stevens” continuò l’ometto “Ho lavorato per Abner, e posso dire era un brav’uomo, onesto, efficiente e severo nella giusta misura. Si faceva rispettare e amare allo stesso tempo”.
Face vagare i suoi occhi inquieti per la sala in cerca di visi d’approvazione. “In questo doloroso momento, sono vicino a tutti i familiari e gli amici di Abner. Quest’uomo ha vissuto al meglio, e ora, che riposi in pace”.
Conoscete qualche morto che non sia stato bravo, onesto ed efficiente in vita? Ci fu qualche mormorio d’assenso, qualche sorriso, qualcuno applaudì. La piccola – che era l’unica bambina presente – incrociò le mani come se dovesse pregare e socchiuse gli occhi, e aveva un piccolo sorrisino compiaciuto. Probabilmente non capiva, forse nemmeno sapeva chi fosse Abner.
Lui sospirò, pensando al da farsi.
La bambina aveva incrociato il suo sguardo e lui le strizzò ancora l’occhio. Poi avanzò verso Larry e gli tese la mano.
“Gran bel discorso, signor Stevens” disse, con una smorfia di educazione sul volto.
Larry gliela strinse con un sorriso incerto. “Oh, grazie mille, lei è…”. Lo guardò, in attesa di una risposta, un po’ stupito, forse perché la sua mano era freddissima.
“Un amico di famiglia” rispose lui prontamente. Poi si voltò verso la folla e disse, a voce più alta: “Potrei avere l’onore anch’io di dire due paroline?”.
Tutti si zittirono e lo guardarono. La bambina aveva un sorriso enorme.
“Per i morti” disse lui “si spendono sempre belle parole. Muoiono sempre i migliori, non è vero?”. Si sporse per guardare il vecchio Abner, vestito di tutto punto, comodo nella sua morbida bara. Ah, beati tempi che corrono, una volta le tombe mica erano così accoglienti! Guardò il suo rugoso e spigoloso visto. Aveva davvero un signor naso, quel tizio.
“Oh” fece, senza distogliere lo sguardo dal cadavere “Ma Abner era il migliore, certo, lo era davvero” si affrettò ad aggiungere. Indicò la bara. “Si vede dalla faccia, ha una gran faccia simpatica” continuò, sbirciando con piacere i volti attoniti dei presenti. “Efficiente, rispettoso, onesto, amabile, carino…”. Si voltò concentrato verso Larry, gesticolando con una mano. “Che altri aggettivi aveva usato, signor Stevens?”.
Larry era diventato scarlatto e aveva la bocca semiaperta.
“Ma chi è lei?” fece una voce frustrata.
Apparteneva alla vecchia in carrozzella, con una di quelle espressioni tipiche che assumono le signore quando il loro uomo viene messo in mezzo.
“Signora” disse lui, amabilmente “Non pianga per suo marito, presto lo raggiungerà anche lei”.
Ci furono mormorii scocciati e qualuno disse: “Ma chi è questo? Ma qualcuno lo cacci via!”.
La bambina invece avanzò verso di lui con una faccia furbetta, la faccia di chi aveva capito tutto. Sua madre se ne accorse troppo tardi ed esclamò: “Charlene! Torna qua!”.
Lui sorrise alla bambina. Doveva avere sei o sette anni. Gli stava simpatica.
La guardò con sguardo amorevole. “Charlene, lo sai dov’è il bagno?”.
Quella spalancò gli occhi e annuì.
“Vai lì dentro, e chiudi a chiave la porta. Poi getta la chave nel gabinetto. Lì sarai al sicuro”.
Charlene lo guardava con quel suo nasino all’insù e le sue guance piene. Gli veniva davvero voglia di mangiarsela.
Docilmente lei gli diede le spalle mostrando i folti riccioli chiari e andò fuori dalla stanza. Lui sapeva che avrebe obbedito.
La donna fulva, madre di Charlene, dopo qualche attimo di esitazione attonita, uscì dalla stanza e ben presto arrivò chiara e limpida la sua voce che intimava alla figlia di aprire la porta.
Kaeso sogghignò e camminò lentamente, verso la carrozzella su cui la signora lo guardava in cagnesco, enfatizzando ogni singola ruga. Un bello spettacolo. “Mi piacerebbe davvero dirle che quando morirà, rivedrà il suo efficiente, onesto e amabile Abner” disse, chinandosi su di lei. Inalò il suo odore. Sapeva di  vecchio. Era ora di finirla no? “Ma la verità è che… Non lo so”. In un lampo estrasse le zanne e fu sul suo collo. Un sangue poco gustoso, poco caldo ma era come… una bibita rinfrescante. La donna e tutti in quella stanza urlarono e lui riemerse, lasciando gocciolare il sangue dal suo labbro sulla foto del marito che la signora teneva in mano. Lei lo guardava terrea e terrorizzata, le lacrime agli occhi e la bocca aperta, mentre le mani freneticamente tentavano di portare indietro la carrozzella.
 “Sono morto solo per una settimana e devo dire che è stata una settimana assai deludente” disse ancora Kaeso, proseguendo il discorso “Però, sa, sperare non costa nulla, lo speri, signora. Preghi di incontrare di nuovo suo marito!”. La sua voce si fece cattiva, per qualche motivo.
La vecchia boccheggiò mentre intorno a lei ancora la gente urlava.
Lei unì la sua voce stridula e gracchiante al coro di terrore e lui le prese la mascella. “Lo dica, perché è l’ultima possibilità che ha di farlo”.
“I-io” boccheggiò lei, gli occhi colmi di terrore “prego di… r-rivedere… A-a… Abner…”.
“Ora basta!” strillò qualcuno.
Kaeso si voltò e vide l’ometto Larry Stevenson che gli puntava, tutto sudato, una pistola addosso.
Kaeso sbuffò. Era davvero una seccatura venire interrotti sul più bello.
Ma Larry aprì la bocca e ne uscì un rivolo di sangue, mentre con gli occhi sgranati chinava il capo. Aveva un buco nel petto e il sangue usciva a fiotti. Tra le urla, cereo si voltò e vide che dietro di lui c’era una donna dai capelli biondi platino, quasi argentei, che teneva appeso il suo cuore, tenendolo per le arterie. Era grande, rosso, ancora pulsava. Delizioso.
Larry cadde a terra e dopo qualche attimo non si mosse più.
Svetlana lo scavalcò con una smorfia di disgusto, stando attenta a non calpestare coi suoi tacchi bordeaux le interiora dell’uomo. Si chinò a terra e raccolse la pistola. Lanciò il cuore sul corpo inerme di Larry e gli puntò contro la pistola. Premette il grilletto e lo centrò in pieno. Il cuore esplose in grumi di sangue, un piccolo fuoco d’artificio meraviglioso.
Qualcuno piangeva rumorosamente, fastidiosamente, stupidamente. Quelli che piangono sono sempre i primi a morire.
“Grazie, Sve” salutò cordialmente Kaeso. Tornò a guardare la vecchia, pronto a colpire ma la trovò bianca latte, afflosciata sulla sua sedia a rotelle, con gli occhi chiusi.
“Maledizione” borbottò Kaeso “Le è venuto un infarto! Non c’è gusto così”.
Svetlana fece un sorrisetto.
“Tu parli troppo e la gente si prende dei colpi” disse, imprimendo una lunga unghia rossa sulla ruvida guancia della vecchia. La ferì e il suo dito si tinse di sangue. “Un giorno capirai che tutte quelle cerimonie che fai sono inutili”.
“Guarda che sei stata tu a farle venire un colpo” ribatté Kaeso, indicando Larry e il suo cuore.
“Che ci vuoi fare” disse lei, ammiccando “Sono una rubacuori”.
Gli umani gridavano e provarono a fuggire da tutte le parti ma dalla porta, in salotto, erano entrati altri vampiri, famelici e divertiti.
“Calmi!” gridò Kaeso, per sovrastare il rumore “Li ho invitati io, per onorare Abner!”.
“Lo vedi come fai tu” disse Svetlana, succhiandosi il dito serenamente “Devi sempre parlare”.
Kaeso scrollò le spalle. Per lui l’unica differenza che c’era tra loro e le bestie era la parola. Non voleva rinunciarci, perché loro non lo erano bestie. Invece per Svetlana probabilmente la differenza tra loro e gli animali era che loro potevano indossare dei bei vestiti.
Le persone inciampavano le une sulle altre, i suoi amici vampiri non avevano pietà per nessuno e il sangue cominciò presto a sgorgare. Kaeso socchiuse gli occhi e respirò l’aria, compiaciuto.
“Spero di non sporcarmi il vestito più del dovuto” lo raggiunse la voce di Svetlana, che guardava la scena stringendo i suoi occhi, talmente chiari da sembrare bianchi, tutto di lei era accecante.
Kaeso rise. “Lo vedi come fai tu” scherzò, ripetendo le parole di lei “Devi sempre vestirti bene per queste occasioni”.
Svetlana sbarrò la strada ad una ragazza che stava ignorantemente tentando di fuggire dalla loro parte. Aveva un bel fisico nascosto da un abito nero succinto. Ma dove pensava di andare? Alla veglia del nonno – o bisnonno, o prozio, chissà – o in discoteca?
Svetlana la tirò per i capelli e quella urlò con una voce così acuta e squillante che avrebbe potuto rompere i vetri delle finestre.
“Mi hanno insegnato a vestirmi bene alle feste” disse la vampira con un sorriso perverso, accarezzando il corpo della ragazza “Dopotutto si possono fare dei belli incontri”. Con un gesto e un verso voglioso, le strappò il vestito in prossimità del ventre e la morse nell’inguine mentre delicatamente la poggiava a terra e violentemente le toccava le cosce nude.
La ragazza si dimenò e urlò, guardando, con quella divertente espressione che tutti gli umani hanno quando hanno paura, il suo stesso sangue, la sua stessa morte.
Kaeso alzò le spalle. “Ti sporcherai eccome, Sve” disse.
Si lanciò nel vortice di calore, odore e gusto, tra le grida, i pianti e le risate. Un uomo aveva ormai la testa completamente staccata dal collo, una donna nuda veniva morsa in più punti da più bocche fameliche, un uomo stava tentando disperatamente di salvare sua moglie; i soprammobili, le fotoricordo e tutto il resto caddero a terra e si imbrattarono di sangue. Feste come quelle erano sempre piaciute ai suoi seguaci.
La bara si era capovolta ed Abner era caduto a testa in giù, non più padrone, calpestato e macchiato del sangue dei suoi cari, nel giorno che doveva onorare la sua memoria.
Peccato che tu non possa vederla la veglia del tuo funerale Abner, pensò Kaeso, ti sarebbe piaciuta. Afferrò dei capelli e morse il collo della donna a cui appartenevano, il sangue scivolava dolcemente giù per la gola, gli riempiva lo stomaco fatto di sangue, sangue che si aggiungeva ad altro sangue, in un ciclo infinito di piacere, dolore, morte, arte… Come una statua, la donna cadde per terra, in una pozza di sangue, con un’espressione di morte perfetta e in una posizione perfetta gambe e braccia si appoggiarono al pavimento.
“Eliza!” gridava qualcuno “Eliza, vieni via! Dobbiamo andarcene!”.
In un lampo Kaeso fu in corridoio e vide che un ragazzo stava gridando disperatamente alla donna fulva. Questa era in lacrime, in ginocchio, con le mani che picchiavano ad una porta.
“Charlene, apri la porta!” gridava. Si voltò come una furia verso l’uomo. I capelli ramati, mossi, le si erano appiccicati alla fronte e alle guance, e gli occhi sgranati lasciavano trapelare un mondo d’orrore. “C’è mia figlia lì dentro, Ralph! Ti prego! Aiutami!”.
Ralph si passò una mano tra i capelli, tremante, mentre decideva sul da farsi. Poi fece per precipitarsi verso Eliza. Voleva buttare giù la porta? Coraggioso il ragazzo.
Kaeso fu più veloce di lui e gli si parò davanti cosicché Raplh gli finì dritto tra le braccia e lui lo stritolò in un abbraccio mortale. Sentiva le sue ossa rompersi, lentamente, in uno stridio così musicale, anche quello così perfetto. C’era così tanta arte nel mondo… Al ragazzo mancava il fiato per gridare, era la voce della donna quella che Kaeso aveva così sgradevolmente nelle orecchie. Morse il collo di Ralph e quello rovesciò la testa. Dopo pochi attimi Kaeso lo lasciò cadere al pavimento e si voltò verso Eliza. Quella aveva bocca e occhi spalancati – com’era divertente! – e strisciò fino al cadavere di Ralph con mani tremanti.
“Era un po’ giovane per te, non ti pare, Eliza?” fece Kaeso, punzecchiante.
Lei lo guardò mutando espressione. Gli  occhi, nonostante fossero di uno strano verde palude, parveano incendiati e i suoi capelli color fuoco erano un quadro perfetto e Kaeso non riuscì a pensare altro se non wow.
In quel momento però qualcosa dentro di sé esplose, un grumo di sangue si lamentò e un male atroce gli prese il corpo costringendolo a chinarsi a terra. Dopo pochi secondi si calmò e si rialzò, ansante, ribollente di rabbia, consapevole di quello che era appena venuto. In un lampo afferrò Eliza e, ignorando le sue grida, si precipitò nel salone. Tenendo la donna sollevata davanti a sé senza alcun sforzo, frugò furiosamente con lo sguardo tutto il pavimento. Bicchieri rotti, salatini insanguinati, cadaveri e quadri a pezzi… Eccola: una poltiglia viscosa di sangue e Kaeso sapeva a chi apparteneva, lo gridavano le sue ossa, lo strillava il suo sangue. Era Warren, uno dei vampiri da lui creati, uno dei più giovani.
Colmo di rabbia, cercò il colpevole e nello stesso istante capì che erano stati scoperti. Era una figura ancor più rossa di Eliza, quella che aveva in mano una pistola e che stava venendo verso di lui con un’espressione arrabbiata e trionfante allo stesso tempo.
“Dubris” digrignò la sua voce tra le zanne.
I vampiri fermarono le loro bocche e presto sia loro sia gli umani che ancora erano in grado di muoversi si misero precipitosamente in fuga. Ma non solo Kaeso era sotto il tiro di una pistola, altri due compagni di Dubris, con i loro gilè blu, avevano bloccato due seguaci di Kaeso.
“Una volta andavamo in giro a uccidere quelli come voi con paletti di legno” fece Dubris, con disprezzo, senza abbassare l’arma “Questa è molto più pratica, e lo dobbiamo agli umani”.
Kaeso strinse ancora di più Eliza, anche se non avrebbe mai potuto scappare. Non la sentiva piangere, ed era strano.
“Finalmente ti abbiamo beccato, Kaeso!” fece una donna vampiro, alle spalle di Dubris. Doveva essere Victoire.
Kaeso ghignò. I suoi compari si stavano facendo ammanettare dai membri della Corporazione. Erano manette d’argento quelle, e i tirapiedi di Dubris le maneggivanao cautamente, con le mani rivestite di guanti. Ma lui, no, non si sarebbe lasciato intimorire. Non gli avrebbero legato le mani!
“Se fai un altro passo, Dubris, questa donna muore” sibilò, tra le zanne.
“Sparagli” intervenne subito Victoire.
Sparargli? Il suo petto era completamente protetto dal corpo di Eliza. Non le vedeva il volto ma la sentiva respirare affannosamente. Sentiva tutto il suo corpo rigido. Non piangeva, voleva fare la dura?
“È ovvio che non posso, Vicky” disse Dubris, lievemente spazientito.
Invece era abbastanza ovvio che Dubris fosse un tonto.
“Ma guardati intorno!” sbottò la donna “Siamo un cimitero! Che differenza vuoi che faccia un morto in più? Se lo lasci fuggire invece ci saranno sempre più morti!”.
Dubris non disse niente ed Eliza esplose: “Salvate mia figlia! Vi prego!”. Il suo tono era disperato e fermo allo stesso tempo. Li aveva presi per cacciatori?
“Dov’è?” chiese il rosso.
Ma prima che Eliza potesse rispondere, Svetlana apparve dal nulla e con un calcio disarmò Dubris.
Ci furono grida di sgomento e Kaeso subito ne approfittò per fiondarsi in corridoio. Sentiva la presenza di Svetlana dietro di sé e in un attimo sfondò la porta del bagno. La piccola Charlene era lì, con gli occhi blu lacrimanti e la boccuccia incurvato verso il basso. Non appena vide la madre si mise a urlare e Kaeso afferrò anche lei.
Svetlana nel frattempo volò fino alla finestra del bagno e in un lampo di bianco abbagliante sparì. Kaeso fece per seguirla ma sentì Dubris dietro di sé e subito si voltò, per evitare che gli sparasse alla schiena.
Aveva ripreso possesso dell’arma e dalla soglia del bagno lo guardava furioso.
“Mettile subito giù!” urlò.
“Non credo” ribatté Kaeso, tranquillo “Lo sai che il sangue dei bambini è quello più buono in assoluto?”.
“Sparagli!” gridava Victoire.
Avrebbe colpito la donna o la bambina, per raggiungere e penetrare il suo cuore?
“Dobbiamo prenderlo, Dubris!”
Ma Dubris era così pateticamente sentimentale… Tutto quel tempo in compagnia di Acilia gli aveva fatto male.
“Anche a voi conviene andarvene, sapete, tra poco arriveranno i cacciatori, quelli veri” disse Kaeso, mentre sentiva il cuore dei suoi ostaggi battere all’impazzata “E loro non la vedono la differenze tra me e voi. Sono saggi. La differenza non c’è”.
“Sì che c’è!” gridò Dubris.
Victoire, spazientita, alzò il suo braccio, nella mano stringeva una pistola. Sparò un colpo ma Dubris si lanciò su di lei e il proiettile di legno colpì lo specchio, sopra al lavandino.
In un frastuono di vetri e schegge, in un gioco di specchi, tintinnii e pioggia scrociante Kaeso si librò in aria e vide i volti di Dubris e Victoire allontanarsi sempre di più. Le loro urla di rabbia erano sempre più lontane e lui fu fuori, in volo, nell’oscurità del cielo, ancora le due umane urlanti strette al suo petto, e i denti che sgocciolavano sangue. 
 
 
 
Emily si domandava il perché di tante cose. Scavare nel passato di Jacque le faceva paura, ma forse solo in quel modo sarebbe riuscita a capirlo. In faccia non gli si leggeva niente, o era lei che non voleva leggere niente?
Era seduto su quella vecchia poltrona beige che aveva in camera, assorto, le braccia penzoloni, le gambe divaricate.
“Vuoi guardare un film?” tentò Emily.
Lui si riscosse e la guardò. “Non è un po’ tardi?”.
Già, lei tra poco sarebbe dovuta tornare a casa. Ma non era lui a doverlo stabilire! Lui sarebbe stato in piedi tutta la notte, che razza di problema aveva?
Era strano. Da quando avevano visto Acilia con un uomo, era strano.
Perché quando si tratta di Acilia diventi così strano?
Strano non era la parola più adatta, ma Emily riusciva a pensare solo a quella. Ce n’erano tantissime altre di parole. Pensieroso, passionale… assente.
Acilia è un fantasma tra di noi, non è vero, Jacque?
Emily si alzò dal letto e gli fu di fronte. Lui non disse niente, si limitò a farsi guardare. Un profilo scolpito nella neve e quegli occhi scuri ma di ghiaccio… Aveva un viso da ragazzino, ma aveva un’aria così adulta.
Proprio come Acilia…
Gli piaceva, gli piaceva così tanto! Odiava pensare che non potevano avere nessun futuro. Lei, così infantilmente volubile, che finiva per rovinare tutto, con ogni ragazzo… Ora non stava rovinando niente ma lui era troppo, troppo… strano. L’unico che volesse veramente al suo fianco era un vampiro?! E lui… perché voleva stare con lei? Cosa voleva da lei? Gliel’aveva mai chiesto?
Sapeva che ci sarebbe dovuta essere una fine prima o poi, ma non immaginava accadesse in quel modo, o che accadesse così presto. Lascialo, si diceva, cosa vuoi fare, innamorarti di lui? Non avevi cominciato per gioco? Lui le piaceva davvero, ma si comincia ogni volta per gioco. Le aveva detto che poteva lasciarlo, in ogni momento, quando lei non se la fosse sentita più. Certo, perché per lui era facile. Lui aveva più di cent’anni, cinque mesi passati con una ragazza se li sarebbe scordati in un lampo!
Ma poi cos’avrebbe fatto senza di lui? Mi hai giocato un brutto tiro, Jacque, pensava, mi hai coinvolto nel tuo mondo, ti sei divertito a fare l’umano e ora… ora dove sei?!
Jacque alzò lo sguardo e si accorse finalmente di lei. Le sorrise.
E per che cosa sorridi ora?!
Emily inspirò a fondo. Bastava poco per sciogliere il volto freddo di Jacque, bastava un sorriso e si riempiva così in fretta di umanità… Un sorriso può fare tanto, solo se è sincero però.
Mi stai sorridendo davvero?
“Hai poi scoperto chi era quell’uomo che parlava con Acilia?” chiese. Scavare nel passato di Jacque, sarebbe stato come scavare nel suo cuore.
Come temeva, il suo sorriso scomparve.
“È un umano, che non sa neanche che lei è un vampiro” disse a denti stretti “Sta facendo davvero l’incosciente”.
Emily si stupì. Non era certo da Acilia comportarsi in quel modo. Ma Jacque come al solito non si chiedeva il perché… Si arrabbiava e basta, diventava strano. Quando c’era in ballo Acilia.
“C’è stato qualcosa tra te e lei, vero?” domandò Emily, facendosi coraggio.
Jacque alzò un sopracciglio, sorpreso. Esitò e lei intese la risposta.
Allora gli fece un’altra domanda: “Che cos’è Acilia per te?”. Si sentiva stupidamente vicino alle lacrime e se lui non rispondeva, non faceva altro che peggiorare le cose. “Che cos’è ti ho chiesto!” sbottò “Una madre? Una sorella? Una ex ragazza?”. La voce le si ruppe quando gli lesse la risposta negli occhi ma la lesse ad alta voce. “Un amore perduto?”.
Si strofinò in fretta gli occhi, vergognandosi.
Jacque si alzò dalla poltrona. Fece per avvicinarsi a lei, con le mani protese, ma dovette ripensarci, perché lei non sentì il suo tocco.
“Abbiamo trascorso molti anni insieme” disse lui.
Emily annuì e strinse le labbra. “Quanti?”.
“Non mi ricordo…”.
“Più o meno, quanti?” insistette la ragazza, cercando di tenere ferma la sua voce. Se solo fosse stata assolutamente certa che quegli anni di cui parlava Jacque appartenessero al passato… Ma non era così, non era così!
Jacque si strinse nelle spalle. “Quasi venti”.
Emily spalancò la bocca. Venti? Non poteva aver capito male. Vent’anni… erano tutta la vita umana di Jacque ed erano quasi tutta la sua.
“Vent’anni” ripeté, scioccata “Vent’anni!”. La sua voce si era alzata, lo shock l’aveva fatta riprendere e le aveva ridato sicurezza. “Ti avevo chiesto… ti avevo chiesto se eri stato insieme a delle vampire! Avevi detto di no… E sei stato insieme ad Acilia per…”.
“Non ti ho mai mentito” ribatté Jacque, un po’ rude.
Emily aveva voglia di prenderlo a schiaffi. Represse il suo malessere e fece per voltarsi, senza neanche sapere il perché ma lui la prese per un braccio.
“Io e Acilia non stavamo insieme! Non nello stesso modo in cui stiamo insieme io e te” disse, con foga.
Emily non si voltò ma rifletté sulle sue parole. Non si lasciava abbindolare, di che cosa stava parlando? Come faceva a paragonare vent’anni con Acilia a cinque mesi con lei? Di che modo parlava?
Si girò e, di nuovo, inspirò a fondo. “E a te quale modo piace?”.
Lui rimase spiazzato.
Perché non rispondi?!
Perché non la rassicurava? Perché non le diceva che voleva lei, solo lei, che Acilia non aveva più importanza?
Emily si strattonò e lui la lasciò andare.
Rimase a guardarlo, tristemente, le lacrime che scorrevano silenziose, come il silenzio che si era creato tra di loro.
“A volte penso che se tu mi trasformassi” disse “forse riuscirei finalmente a capire quello che ti passa per la testa”.
Tirù su col naso. Si imponeva di non piangere, perché sapeva quanto dava fastidio a Jacque, ma non ci riusciva. Quel pensiero così assurdo, di diventare vampiro, le era balenato nella testa quando aveva paura. La paura è una forma di difesa, le avevano spiegato, ma la paura fa fare cose stupide, è un’arma a doppio taglio.
“Però non lo vorrei mai” continuò “La verità è che non sono disposta a rinunciare a niente di quello che ho per te, la mia famiglia, i miei amici, il mio lavoro… Niente…”.
Jacque aveva aggrottato la fronte, la guardava con dispiacere. No, non erano quelli gli occhi dell’amore.
“E tu non sei disposto a rinunciare alla tua vita precendente” proseguì lei “Non mi farai mai entrare completamente nella tua vita…”.
Lui fece per aprire la bocca ma Emily, con un singhiozzo, si sforzò di concludere: “E allora… come si fa a stare insieme così?”.
Era dunque arrivata davvero la fine?
“Emily, ma che stai dicendo?” fece Jacque, le sopracciglia inarcate “Io non ti chiederei mai di rinunciare alla tua vita per me!”.
Lydia le diceva che l’amore vero era quello disinteressato, era voler vedere l’altra persona felice, in qualunque modo e a qualunque prezzo. Ma, in qualunque modo e a qualunque prezzo, quando amavi non volevi anche tenere l’altra persona tutta per te? Forse era lei che amava nella maniera sbagliata, egoista e gelosa. Ma perché ora parlava di amore? Sentiva un sentimento che germogliava dentro di sé, quando guardava Jacque, quando lo toccava, ma soprattutto quando non c’era, quando era assente, proprio come in quel momento. Perché le mancava davvero tanto.
“Vado a casa” disse, senza voler aggiungere altro.
Si voltò senza guardarlo e fece per andarsene ma lui, di nuovo, la trattenne.
“Non ci vai a casa da sola” disse, tenendola ferma per un braccio.
Emily inghiottì la rabbia, ma quella le risalì per la gola e lei si voltò, senza riuscire a tenerla a freno.
“Ti ho chiesto che cos’è Acilia per te! Se ancora non mi vuoi rispondere, puoi risparmiarti di accompagnarmi!”.
Jacque la lasciò andare e sospirò.
“Acilia è stata importante per me” disse, con voce bassa e controllata “Ma lei mi ha trasformato in quello che sono… Che senso ha mi chiedo?”. Fece una pausa ed Emily percepì un grande malessere, che proveniva da lui, che era dentro di lei, era terribile. “Quello che tu non capisci” continuò lui “non ha senso neanche per me. Era un amore malato e ho provato a guarire”.
Aveva usato la parola amore, a Emily non importava sapere altro.
“Hai usato me per provare a guarire” disse, con lo sguardo basso. Si sentiva il volto in fiamme e gli occhi erano di nuovo umidi.
“Tu mi piaci, Emily!” replicò Jacque “Io ti voglio bene davvero!”.
Amare però è diverso, pensò lei amaramente.
La gelosia che le infuocava il cuore, che batteva, che pompava sangue fino al suo viso, che era rosso di umiliazione, che le scendeva dagli occhi, lacrime aspre e inutili.
In ogni coppia, in ogni relazione, c’è sempre qualcuno che si innamora per primo, cosa c’era di male se era capitato a lei?
Ma se io ti aspettassi, ti innamorerai mai di me, Jacque?
A quale scopo, pensava poi, a quale scopo! Cosa ti aspetti da lui?! Non doveva succedere, ed era successo.
Scrollò le spalle e disse: “Andiamo”.
Insieme uscirono dalla stanza. Lui l’accompagnava perché le voleva bene, perché era preoccupato per lei, perché si sentiva responsabile di lei. Non per altro.
Era arrivata davvero la fine?
La verità era che quando aveva iniziato la relazione con Jacque era attratta dalla novità e da quello che lui rappresentava. Era forse scioccamente attratta dall’idea che un vampiro – un essere che tutti temevano! – provasse qualcosa per lei.
Non pensava si sarebbe innamorata, non lo pensava nemmeno in quel momento, all’inizio non lo si pensa mai, all’inizio neanche ce ne si accorge.
 
 
 
 
 
Francia, 1920
 
Quanti uomini aveva ucciso? A volte Jacque cercava di contarli, voleva imprimere i loro volti nella sua mente. Acilia gli diceva che in quel modo si faceva solo del male, ma lui non riusciva ad evitarlo. Gli uomini che aveva ucciso in guerra, quelli non poteva ricordarseli. Sentiva la sensazione di dover riparare qualcosa, di dover dare un senso a quello che faceva.
Ma il primo uomo che aveva ucciso, quello se lo teneva stretto, stava attento a non lasciarlo andare, come fosse un primo amore. Il paragone era macabro ma era questo che voleva, ricordare. Perché, per quanto volesse rimuovere tutto dal suo corpo, ogni sensazione, ogni immagine, ogni paura, dimenticare era la cosa più spregevole, sarebbe stata solo un’altra cosa orrenda – così effimera ma così terribile – da aggiungere al cumulo macerato della sua vita, violenta e ingiusta.
Era un ragazzo, il primo uomo che aveva ucciso. Lui aveva compiuto da poco diciotto anni e senza neanche fargli fare dell’esercizio, l’avevano cacciato subito in quel marasma che era la guerra. La situazione era disperata, i ragazzi appena entravano in età militare venivano subito mandati al fronte. Sua madre, Jacque la ricordava bene mentre piangeva e pregava che almeno uno dei suoi figli, il più piccolo, Jacque, non andasse in guerra… Che la guerra finisse prima dei suoi diciotto anni! Camille, la figlia più grande, le diceva che anche se la guerra non fosse finita, non avrebbero certo potuto mandare Jacque subito al fronte. Ci volevano anni di esercizio militare prima di poter combattere davvero! Era sempre stata molto razionale e logica, Camille. Jacque la ricordava serrando i pugni e stringendo gli occhi, l’espressione dolce ma sicura del suo viso. Non aveva avuto ragione e Jacque era dovuto partire subito, in fretta e furia! Non le aveva salutate per bene: sua madre, Camille e la piccola Ginette. Quando era partito, pieno di lacrime e col cuore in gola, lo sapeva che probabilmente non sarebbe più tornato, e lo capiva ora perché Simon, il suo fratello più grande, piangeva quando era partito, mentre lui aveva il cuore gonfio di speranza, insieme alla tristezza.
E così era stato, non era mai tornato a casa, esattamente come quel tedesco che aveva ucciso. Era la sua punizione. Era un ragazzo anche lui, quel primo tedesco che aveva ucciso, era uguale a lui, forse anche lui aveva diciotto anni, forse ne aveva di più, era difficile capirlo. Erano così coperti, mascherati, dalla divisa, dall’elmo, dalla fuliggine e la sporcizia. Ricordava solo i suoi occhi così azzurri, che spiccavano tra il nero, il bianco e il rosso della pelle che si mescolavano. Era uguale a lui, semplicemente era tedesco. E l’aveva ucciso perché doveva farlo.
Quel tedesco l’aveva accompagnato in ogni morte che aveva successivamente visto, lo accompagnava ancora, quando qualcuno gli moriva tra le braccia, non perché fosse tedesco, austriaco o bulgaro, ma perché era il suo cibo. Non sapeva quale condizione –  o motivazione, se si poteva chiamare così – fosse peggio, non lo sapeva, ma i pensieri lo tormentavano, i ricordi si mescolavano, i rimorsi, macchiati di sangue, continuamente.
Anche ora, che era seduto ad un tavolo di legno con quel pennino in mano –  affianco a lui c’era l’inchiostro – non riusciva a concentrarsi. Non l’aveva mai neanche avuto un tavolo tutto per lui, era così strano.
Si era tagliato i capelli e rasato la barba. Non sarebbe cresciuta, mai più… Ma odiava avere la barba continuamente increspata di sangue: ora si sentiva… pulito. Pulito, che ridere.
Aveva un fiume di parole nella mente che avrebbe voluto scrivere, ma come si faceva? Lui sapeva leggere, poco ma sapeva leggere. Sua madre lo aveva pregato di mandar loro delle lettere dal fronte e lui così aveva fatto. Camille, l’unica della famiglia che aveva imparato a leggere e a scrivere in maniera sufficiente, leggeva le lettere alla madre e alla sorella, e rispondeva per conto di tutte e tre, in un francese elementare, che Jacque si sforzava di capire. Jacque rispondeva, ma a scrivere era un disastro. Le lettere le confondeva, non riusciva a imprimere la parola che aveva in mente sulla carta, non aveva lo stesso suono se la leggeva. Aveva imparato qualche formula tipo Sto bene, a volte se aveva cose più articolate da dire chiedeva a qualche suo compagno di scrivere per lui.
Acilia ora voleva che imparasse a scrivere e a leggere per bene. Jacque non aveva capito se lo riteneva davvero necessario o era solo un modo per trovargli qualcosa da fare. In ogni caso lui le era grato, a scuola non ci andava da dodici anni, non ricordava più nulla. Però scrivere era così difficile… Come si fa a trasportare tutte le parole della mente sulla carta? Com’era possibile?
Sentì dei passi e la porta di casa si aprì.
Quella era una casa in cui non viveva più nessuno. Ce n’erano tante, dopo la guerra.
Jacque si voltò e vide Acilia che entrava, con un’espressione stanca.
“Come va?” gli chiese lei.
Bella domanda, pensò lui. Cosa glielo chiedeva a fare? Non poteva prendere il posto di sua madre né di sua sorella.
Lei gli si avvicinò e vide il foglio di carta completamente bianco. Sospirò e si sedette di fianco a lui. Era stata con quelli del suo partito, supponeva Jacque. Era sempre più stanca e triste. Al potere c’era il PO, gli aveva spiegato, ed era un male. Erano quelli che volevano uccidere e mangiare senza preoccuparsi di nulla. Erano stupidi, dopo due anni di allenamento Jacque cominciava a capire come si potesse fare per trattenersi. Bisognava solo fare un fottuto sforzo.
“Prova a scrivere sangue” gli disse Acilia.
Lui la guardò in cagnesco. Lo faceva apposta?
“Che c’è?” si difese lei.
“Ne ho abbastanza di sangue” sbottò lui.
Acilia fece un sorrisetto. “Oh, non credo”.
Jacque si alzò dal tavolo, arrabbiato. La odiava, sì, la detestava!
Lei si alzò con lui e lo trattenne.
“Ehi, Jacque, scusa. È la prima parola che mi è venuta in mente”.
“Chissà perché” borbottò lui.
Acilia gli accarezzò un bracco. “Jacque, ti prego. Smettila di tormentarti. Impara a scrivere, concentrati su qualcosa, non lasciare che i brutti penseri abbiano la meglio”.
Jacque alzò un sopracciglio e le diede le spalle. A volte aveva l’impressione che Acilia si sentisse in colpa per averlo trasformato. Lei predicava una possibile convivenza tra umani e vampiri, che cosa stupida. Era tutto inutile, perché doveva concentrarsi e stare buono mentre lei cercava di raggiungere l’impossibile?
“Hanno già la meglio”.
“I pensieri sono pericolosi” disse lei, seria “Ti si annidano dentro e ti fanno fare cose orribili”.
Jacque scrollò le spalle. “Ho già fatto cose orribili”.
In un lampo – era dannatamente veloce – Acilia gli fu davanti e gli puntava un dito contro. “Tu non hai idea di cosa voglia dire fare cose orribili, solo perché sei un vampiro non vuol dire che tu sia orribile!”.
Molto carino da parte sua, considerato che lui era un vampiro per colpa di lei. Ma allora perché continuava a stare con lei sotto lo stesso tetto? Non la odiava? Beh, del resto, senza di lei cos’avrebbe fatto?
Le diede le spalle di nuovo, sperando che lo lasciasse in pace. Gli era sempre così addosso! Creatrice si definiva, madre. Una madre alquanto apprensiva!
“Jacque, ascoltami, per favore” disse lei.
Lui sbuffò e si voltò di nuovo a guardarla. Odiava lei o odiava quello che lui provava quando la guardava? Perché a volte lei gli faceva tenerezza, a volte provava affetto per lei. A volte la maschera fredda e disumana spariva e lui si trovava davanti a una ragazza triste, sola, bella.
“Lo sai come siamo appena veniamo trasformati?” disse lei “Siamo come animali. Andiamo in cerca di cibo e, senza capire neanche come, uccidiamo, beviamo tutto il sangue che troviamo in una persona!”.
Fece una pausa e lui non disse nulla.
Lei proseguì: “Tu non sei stato così. Sei l’unico vampiro che conosca che non si è nutrito nelle sue prime due notti. Due notti, Jacque! Non volevi nutrirti, non volevi bere il sangue di nessuno!”.
E questo che cosa voleva dire? Aveva notevolmente recuperato poi. La sete non l’aveva fatta sparire, l’aveva solo accantonata e quella era creciuta.
“E in due anni hai fatto notevoli progressi!” continuò Acilia, infervorandosi “Hai un grande autocontrollo, e questo è perché sei davvero buono”.
Jacque sbuffò. Se fosse stato davvero buono si sarebbe fatto ammazzare alla prima occasione in guerra. Non avrebbe lottato con le unghie e con i denti per poter sopravvivere, non avrebbe avuto il coraggio di sparare su nessuno!
“Un vampiro buono, un bel contrasto” disse lui, con amarezza “Pensavo fossi anche tu un vampiro buono”.
Acilia scrollò le spalle. “Forse lo sono diventata, ma il mio in origine non era affatto un animo buono come il tuo”.
Jacque non capiva. Era lei che gli aveva insegnato a non uccidere per mangiare. “All’inizio avrai ucciso, come abbiamo fatto tutti, no?” fece. Che differenza c’era? Erano tutti buoni trasformati in qualcosa di cattivo che, solo col tempo, forse, poteva riprendere le sue antiche tracce di umanità.
“Uccidere non è abbastanza, Jacque, non è abbastanza per definire quello che ho fatto” disse lei, stringendosi nelle spalle.
Ecco, erano in quei momenti, che sembrava così piccola e fragile…
Lui le si avvicinò, un po’ confuso. “Forse è solo perché non avevi accanto qualcuno che ti diceva come fare a gestire la situazione, come io ho te”.
Nel momento in cui pronunciò le parole io ho te, quelle stesse parole gli sembrarono strane, gli rimasero sulla lingua, come un sapore che non riusciva a identificare.
Lei fece un piccolo sorriso e alzò lo sguardo verso di lui.
Jacque sentì che voleva sapere qualcosa in più sul suo conto. Del resto, perché fingere di odiarla? Lei era qualcosa che vagamente si avvicinava a una famiglia. Poteva comprenderlo più di chiunque altro.
“Quali sono queste cose orribili?” chiese.
Il piccolo sorriso di Acilia sparì, così come l’incanto. Il suo volto tornò fermo e immobile, come quello di una statua.
“Un giorno ti dirò cosa ho fatto” disse solo.
Jacque non la voleva lasciare andare, odiava ammetterlo ma voleva aggrapparsi a qualcuno, a volte pensava di volersi aggrappare proprio a lei.
È lei che ti ha trasformato, si diceva, è a causa sua che non potrai più rivedere tua madre e i tuoi fratelli!
Ma anche lei era stata trasformata, come lui, anche lei aveva sofferto, come lui.
“Beh” disse “lo sei diventata, buona, per poter credere che vampiri e umani possano convivere”.
Acilia sgranò un pelo gli occhi. Erano molto belli. Erano spenti e luminosi allo stesso tempo, un contrasto anche quello, come lo era lei stessa, come si sentiva lui stesso.
“Credi che sia una sciocchezza, vero?”.
Jacque esitò. “Sì”.
Lei non disse niente e lui si affrettò ad aggiungere: “Credo che sia giustissimo non uccidere e combattere contro il PO, come stai facendo ma…”.
“Si accorgeranno della nostra esistenza prima o poi” disse lei, decisa “E ci combatteranno! Dobbiamo trovare un modo per far capire loro che…”.
“Non è possibile” la interruppe Jacque, più rude di quel che avrebbe voluto essere.
Se sei così buona, Aci, perché mi hai trasformato?
“Umani e vampiri non potranno mai convivere pacificamente” concluse lui.
Perché diceva così? Allora la voleva ferire.
Lei, come una bambina spaesata, non capiva. Come poteva tramutarsi da severa e autoritaria a così dolce e confusa?
Per lui, lei era così… inspiegabile.
Però glielo disse, non poteva negarlo. “Perché noi ci nutriamo di loro, Aci”.
Acilia strinse le labbra e annuì lentamente. Abbassò lo sguardo. Lei era così vecchia, così grande e importante e… Perché Jacque sentiva il bisogno di proteggerla? Era così assurdo, voleva proteggere colei che lo proteggeva, e anche lo dannava, al tempo stesso…
Le prese le mani e la condusse al centro della stanza. Lei, le sopracciglia inarcate, si lasciò portare e lui portò avanti un piede, costringendo lei a muovere i suoi. Improvvisò un ballo, così stupido senza musica. Non sapeva scrivere ma sapeva ballare un poco. Gliel’aveva insegnato Camille da più piccoli, gli diceva che se sapeva ballare un po’ avrebbe conquistato un sacco di ragazze.
Quanta nostalgia…
“Che stai facendo?” chiese Acilia, dopo un po’, continuando a seguire i passi.
“Tra noi possiamo essere umani, per un po’, qualche volta” disse lui, con un lieve sorriso.
Acilia non l’aveva mai guardato così come stava facendo ora. La pelle bianca, gli occhi verdi e le labbra rosse; Jacque provava un misto di sensazioni indicibile. Sorpresa, paura, irretimento, sospensione. Era sospeso insieme a lei, in un mondo che stava tra l’umano e il mostro.
Si avvicinò al suo viso e lei non si allontanò.
Se una ragazza non si allontana, diceva Camille, vuol dire che ti dà il permesso!
Gli veniva da ridere e fu col sorriso che baciò Acilia. Era un bacio freddo, come se lo aspettava, ma era un bacio che voleva, e del resto lui era un uomo, tutto il suo corpo era in fermento mentre si avvinghiava a lei e la toccava. E lei lo lasciava fare, ma aveva un’espressione triste. Lo notò quando entrambi si poggiarono sul pavimento, prima di ricominciare a intrecciarsi. Aveva proprio un’espressione triste.
 
*
 
 
La tensione era tesa intorno a quel tavolo.
Dubris aveva la testa tra le mani e Victoire un’espressione di orgoglio arrabbiato. Lyuben aveva detto che le cose non andavano così male. Perlomeno ora avevano la prova schiacciante che Kaeso andava arrestato. Non era più il segretario del PO, non poteva più esserlo. Non si era più presentato alla Rappresentanza, ovviamente, era un fuggitivo, come tutti coloro che erano riusciti a fuggire quella notte in quella palazzina. Ora potevano davvero fare di tutto per fermarli.
“Ora però è più difficile” obiettò Victoire, con un velo di disprezzo “Perché non sappiamo dove si trovi. Era un po’ più facile quando lo vedevamo tutte le settimane”.
“Vicky” intervenne Ramona, stancamente “Le cose sono andate come sono andate”.
“Avreste potuto ucciderlo” fece Luca, con una smorfia “La questione poteva già essere risolta”.
Lyuben fece per aprire bocca ma Victoire, infervorandosi, prese di nuovo la parola: “Abbiamo avuto la fortuna di coglierlo in flagrante! Non capiterà mai più, mai più!”.
Dubris aveva ancora il volto nascosto e Acilia gli accarezzò un braccio. Lo comprendeva, eccome se lo comprendeva. Ma c’era sempre gente che pensava che il mondo fosse nero o bianco, che riusciva a prendere sempre una decisione in fretta, che si convinceva che fosse quella giusta.
Dubris aveva lasciato scappare Kaeso perché aveva due ostaggi. Colpirlo avrebbe voluto dire uccidere uno dei due.
“Credi di aver salvato due vite, Dubris” sibilò ancora Victoire “Ma in realtà ne hai condannate a morte centinaia!”.
Dubris riemerse, il volto pallido e gli occhi scintillanti nel loro color rame, ancora più acceso del solito.
Aveva il volto contratto in una smorfia di insofferenza. “Non ne ho avuto il coraggio, va bene?” fece, a bassa voce, come se si stesse trattenendo dal gridare.
“Perché sei debole” sbottò Victoire “Uccidiamolo, dicevi! Dobbiamo fermarlo, dobbiamo ucciderlo! Hai le idee chiare, non è vero?”.
Qualcosa dentro Dubris parve esplodere e lui batté le mani sul tavolo. “Se l’avessi davanti in questo momento non esiterei un secondo a sparargli! Teneva in braccio una bambina! Una bambina!”.
“Sei così stupido, quella bambina avrebbe preferito essere colpita da un proiettile piuttosto che essere prosciugata da un maniaco psicopatico!”.
Il viso di Victoire, incorniciato in corti e precisi capelli castani, emanava convinzione da tutti i pori, Luca annuiva vigorosamente e Dubris venne sconfitto. Le sue sopracciglia si incurvarono e il suo sguardo di abbassò mentre mormorava: “Lo so, lo so…”.
“Non ne avevi il coraggio?” continuò Victoire, velenosa “Benissimo! Ce l’avevo io, l’avrei fatto io! Ma tu mi hai fermata!”.
Dubris aveva ancora gli occhi fissi sul tavolo. “Perché tu devi stare sotto i miei ordini” mormorò.
“Come?”.
Lui alzò la testa ed esclamò: “Perché sono io che comando la Corporazione inglese!”.
Victoire esitò e lui si voltò verso Luca, arrabbiato: “E non sopporto di venire criticato da uno che faceva parte del PO!”.
Tutti tacquero, finché Lyuben non si schiarì la voce e intervenne: “Se avete finito, col vostro permesso, vorrei discutere di cose più serie”.
Victoire lo guardò male e Dubris parve confuso.
“Sì” insistette il biondo “Parlare di quel che è stato non è utile. Comunque” il suo sguardo piroettò sulla donna “Anch’io probabilmente avrei fatto lo stesso sciocco errore di Dubris, Vicky, ma in ogni caso è lui il prefetto, puoi consigliargli, puoi confrontarti con lui. Ma ricordati di stare al tuo posto”.
Lei non disse niente, il volto cereo e impassibile.
Lyuben si rivolse a Dubris, in maniera eloquente. “E se rinvangare faccende di una settimana fa non ha senso, ha ancora meno senso parlare di ciò che è stato un secolo fa”. Si riferiva evidentemente a quello che lui aveva detto di Luca.
Lui annuì, serrando le labbra.
Dopo un po’ disse, piano: “Non ci sono delle possibilità che la donna e la bambina siano ancora vive, vero?”.
“No” rispose secca Victoire.
“Temo di no, Dubris” rispose Lyuben “Kaeso le ha usate solo per fuggire. Non credo proprio si faccia impietosire”.
Acilia invece temeva che Kaeso potesse fare ben di peggio a quelle due umane che ucciderle, ma non disse niente. Non diceva mai niente.
“D’accordo” fece Luca “Come ci organizziamo per cercarlo?”. Il suo volto vagò da Lyuben ad Acilia. Certo, una volta erano loro due che prendevano le decisioni.
“Era in Inghilterra” disse Ramona “Ma suppongo che ora potrebbe essere ovunque”.
“Contatterò le Corporazioni di tutte le nazioni” disse Lyuben “Ognuna setaccerà la propria zona, manderò qualcuno anche nelle Americhe”.
“E noi?” chiese Luca.
“Faremo altrettanto”.
Gli occhi azzurri di Lyuben si posarono su Acilia e si strinsero. Lei si sentì in dovere di dire qualcosa. Del resto anche lei avrebbe tanto voluto acciuffare Kaeso. “Si potrebbero interrogare gli umani” disse “Se vedono o sentono qualcosa, o se qualcuno a loro vicino viene ucciso da un vampiro. Potrebbero darci delle piste”.
Le sopracciglia di Luca si erano alzate tantissimo. “Sì, andiamo da un umano e ci presentiamo… Salve, sono un vampiro buono, sto cercando di acchiappare uno dei cattivi, mi daresti una mano?”.
“Non c’è bisogno di presentazioni” ribatté Acilia. Sarebbe stato bello, se umani e vampiri avessero imparato a collaborare. Era quello per cui si era battuta per secoli e secoli, no? La convivenza tra umani e vampiri. Jacque le diceva che era una cosa impossibile, lui che non aveva trascorso neanche un anno di quello che aveva passato lei, ma lei gli aveva creduto, semplicemente.
“Potrebbe servire invece” disse Victoire “Data la situazione disperata, tutto è utile”.
“Anche guardare i telegiornali” aggiunse Dubris “Strage come quella della settimana scorsa non è passata inosservata… Ce ne saranno altre, e ci possono dare dei riferimenti”.
Ognuno disse la propria idea nell’ora che trascorse. Acilia sentiva che forse non avrebbe più potuto credere a quello che diceva il PPC, ma Kaeso andava fermato, lo doveva fermare…
A fine riunione, Lyuben disse a Ramona di andare avanti e si accostò ad Acilia. Quest’ultima ne fu sorpresa ma fu ancora più sorpresa dell’ansia che scoprì di avere. Cosa voleva dirle Lyuben? E perché quell’improvvisa paura? Non erano forse amici da secoli? Eppure… Lei si definiva amica di Dubris, di Ramona. Con Lyuben le cose erano sempre state più strane, più misteriose.
Ma il vampiro fece la cosa che lei meno si aspettava. Le porse una busta.
Acilia lo guardò con aria interrogativa.
“Una volta ti dissi che ognuno ha i suoi segreti, ricordi?” le disse lui.
Lei si sforzò di ricordare e fece un accenno di sorriso. “Hai la tua solita grande memoria, Lyuben”.
Lui tese in avanti la lettera, con un’espressione che non era la sua solita.
“Qui dentro c’è il mio segreto” disse. Lei sgranò gli occhi ma lui non aveva ancora finito. “E anche il tuo”.
Acilia, prima di pensarci un attimo, gli strappò la lettera di mano, con una strana sensazione.
Lyuben aveva gli occhi ridenti, ma la bocca rimase seria. “Ti chiedo però di leggera questa lettera solo quando avrai preso una decisione”.
Acilia si sentiva stordita… Possibile che Lyuben… Di che decisione parlava?
“Quale decisione?” domandò, confusa.
Lui le si avvicinò e sussurrò: “La più importante della tua vita”.
Acilia si guardò intorno. Nella sala non c’era più nessuno, perché Lyuben aveva sussurrato?
“La più importante…” rifletté lei ad alta voce “Quando deciderò di morire?”.
Lyuben lasciò intendere la sua risposta e fece un cenno col capo. Le sue labbra si distesero in un sorriso misterioso e si allontanò.
La ragazza si affrettò a infilare la lettera in una tasca e anche lei uscì.
Trovò Dubris in corridoio, che la guardava spaesato.
Lei subito stette sulla difensiva. “Non lo so, io…”.
Ma lui la interruppe. “Aci, secondo te ho sbagliato?”.
Acilia rimase a bocca aperta. Squadrò il viso di Dubris. Era chiaro che era avvolto da una nube di suoi pensieri. Ed era strano, vedere il suo vecchio amico così insicuro.
Probabilmente il Dubris di una volta avrebbe saputo cosa fare, ma quella vita li aveva ammorbiditi tutti. Erano sempre più vecchi, la loro vita da classico vampiro era lontana e loro erano sempre più svigoriti.
“Hai fatto quello che ti sentivi” gli rispose, dopo un po’ “Non è sbagliato”.
“La verità è che non volevo assumermi la responsabilità della morte di un umano” disse lui “Perché lo sapevo che sarebbero morte comunque, solo che non volevo ucciderle io. E ora moriranno sotto atroci dolori perché io sono stato egoista e codardo”.
“Non è vero” replicò Acilia, cercando di togliersi dalla testa il pensiero della lettera di Lyuben “Non è solo perché non volevi assumerti la responsabilità, se no non avresti sventato il colpo sparato di Victoire”.
Dubris si mordicchiò il labbro e lei continuò: “Quando hai davanti un innocente, e devi decidere in un minuto del suo destino, è normale che si pensi di salvarlo. È una cosa che agli umani viene automatica. Non è né giusto né sbagliato, è umano”.
Dubris fece un sorrisetto. “Interessante teoria, sono umano”.
Acilia aggrottò la fronte, poi fece per andarsene ma lui parlò ancora: “Me lo spieghi perché non prendi una posizione?”.
Lei si stupì. “Cosa intendi?”.
Dubris resse il suo sguardo. Non era un volto duro, solo ansioso di sapere. “Sei tornata nella Rappresentanza, ma non sei tornata davvero. Sei assente”.
Leggi questa lettera quando avrai preso una decisione.
“Beh, perché me n’ero andata lo sapevi” ribatté lei con un certo nervosismo.
 
 
Erano passati dieci anni dalla trasformazione di Jacque. Acilia a volte se ne pentiva. A volte pensava che avrebbe potuto lasciarlo andare e basta. Se avesse detto in giro di aver visto un vampiro, chi gli avrebbe creduto? Ma d’altronde sapeva che non poteva comportarsi così. Se tutti loro l’avessero fatto, ora ci sarebbero stati centinaia di umani dichiaranti di aver visto un vampiro. E a centinaia di umani, dopo un po’, si crede.
Altre volte invece, era contenta di averlo fatto. Le piaceva la compagnia di Jacque. Si baciavano, facevano l’amore. Lei gli aveva detto che era meglio mantenere le distanze, come se davvero fossero madre e figlio, e quello fosse un rapporto incestuoso, ma finiva sempre per cedere.
Aveva paura di quello che provava lui, e anche di quello che provava lei. Aveva paura che le cose precipitassero, che lei non riuscisse più a controllarle. Aveva paura dell’effetto che lui le faceva. Perché si era ritrovata a prendere quella decisione, tutti quei secoli passati a lottare, le parole di Marco cancellate da un vampiro di dieci anni?
La verità è che lui aveva ragione, e che lei era stanca. Non aveva più voglia di lottare. Quel presidente li avrebbe fatti scoprire. Gli umani avrebbero avuto paura, li avrebbero cacciati, come si fa con gli animali. E che cosa poteva farci lei? Passavano i secoli, e la convivenza nella quale credeva era sempre più lontana.
“Sei davvero convinta di quello che hai fatto?” le chiese Dubris, arrabbiato.
“Sì” rispose lei. Aveva appena detto a tutti che lasciava la Rappresentanza, dichiarando che non ci credeva più. Nessuno l’aveva presa bene. Ramona era sconvolta, Lyuben amareggiato. Quello che aveva reagito peggio di tutti però era Dubris.
“È per via di Jacque, non è vero? Da quando c’è lui, sei strana”.
Acilia non disse niente, lasciando intendere la risposta.
“Diventare creatori è una cosa che ti cambia, certo, ma non pensavo che ti…”. Dubris si trattenne, serrando i pugni, per non essere volgare, immaginò Acilia.
“Non sarà per sempre, potrei tornare” disse “Ma ora voglio occuparmi di lui”.
 
 
“Sì ma qui non si tratta di combattere per un posto nella società, quello è passato in secondo piano, no?” fece lui “Stiamo combattendo contro Kaeso. Mi ricordo il tuo fervore quando abbiamo combattuto contro Camelio! Dov’è finito?”.
Acilia aprì la bocca ma non ne uscì niente. Rimase a guardare gli occhi accusatori di Dubris. Non erano accusatori, solo che… Beh, per lei lo erano. Si sentiva sotto accusa, ecco perché non diceva mai niente!
Perché sembra che non te ne freghi più un cazzo?
Ma nessuno l’accusava, era tutto dentro la sua testa.
Quando avrai preso una decisione…
“E mi dici che io sono umano” continuò Dubris, scuotendo la testa e con un mezzo sorriso “Riesci sempre a dire la cosa giusta, quando vuoi, eh?”.
Acilia si sentì ferita. Non lo voleva più ascoltare. Dubris non aveva il diritto di fare così!
Lui aveva lo sguardo nel vuoto. “Sono così stanco di essere preso in giro da te”.
Lo disse in un sussurro. No, non aveva il diritto.
“Scusa” disse subito dopo, socchiudendo gli occhi. Lo sapeva anche lui di non averlo.
“Dubris, mi dispiace” fece lei “Io invece sono stanca di vivere, e non voglio complicazioni, nella mia testa… non c’è più spazio per niente”.
Dubris non disse niente, neanche la guardava.
“Ma sono qui per combattere insieme a te. Lo fermeremo insieme, ce la faremo” disse ancora lei.
Ti prego, pensava, ti prego, Dubris, non odiarmi anche tu.
Ma ciò che lui provava, doveva averlo accantonato in un angolo. Dopo così tanto tempo, l’amore assume una diversa prospettiva, così come la vita.
La guardò senza sorriso e annuì.
Insieme si avviarono verso l’uscita.
 
 
Lesse un’acuta gelosia negli occhi di Dubris, insieme alla rabbia, il risentimento e la delusione. Gli occhi dei vampiri sono inespressivi, ma a forza di starci vicino impari a conoscerli, impari che non è vero.
Jacque le piaceva più di Dubris. Gli voleva così tanto bene, avrebbe anche potuto innamorarsi di lui.
Ma quello che provava per lui non era uguale a quello che aveva provato per Miguel, ma a quello che aveva provato per qualcun altro.
E questo la spaventava, troppo.













In gran ritardo rispetto ai miei standard ma ci sono! Ci ho messo tanto a scrivere questo capitolo per impegni vari ma, avendo più giorni per rifletterci (sotto la doccia, in corriera, a letto prima di addormentarmi..) devo dire che non è venuto male, sono abbastanza soddisfatta u.u 

Lo splatter vi è piaciuto? XD Il mio ragazzo mi ha fatto appassionare a telefilm come True Blood e The Walking Dead, mi fanno male.. XD no comunque, se si parla di vampiri un po' di splatter ci vuole, se no andiamo a pettinare le bambole u.u Ad ogni modo, credo di essere stata nei confini del mio rating, senza sfociare nel rosso. 

Nene, grazie mille :) sono contenta che la storia di Jacque ti sia piaciuta, e che ti abbia fatto provare compassione.. Sì, è stato proprio sfigato, ma d'altronde devo dire.. chiunque venga trasformato è proprio sfortunato.. Mi dispiace invece che tu non riesca a comprendere quello che prova Acilia XD Io cerco di riprodurre una specie di flusso di coscienza all'italiana (molto diverso da quello del caro Joyce), quindi non prendere sul serio tutti i suoi pensieri.. Se noi andassimo in giro con tutti i pensieri idioti che abbiamo in mente scritti sulla fronte saremmo tutti dei cretini XD Inoltre di far fare il patto del sangue a Curtis l'ha pensato in maniera molto ironica e sarcastica; per il resto.. credo la comprenderai meglio verso gli ultimi capitoli, certe cose le lascio ambigue e "strane" apposta ;) Curtis che ti fa più paura di Kaeso lo capisco XDXD E' un personaggio che non si riesce a inquadrare! I progetti di Kaeso sugli artisti infatti sono inattuabili, serve giusto per sottolineare la sua pazzia XD 
Norine, non ti preoccupare se tralasci dei capitoli, l'importante è non sparire per sempre T.T Ha così pochi lettori questa storia che cerco di tenermeli stretti XD Che Jacque capisca qualcosa di più su se stesso.. temo che leggendo questo capitolo ti risponderai da sola XD grazie mille per la recensione :)
Sara, molto contenta che ti sia piaciuto il doppio piano tra presente e passato. Ormai descrivere la trasformazione di ognuno dei protagonisti è diventato scontato, cerco sempre degli espedienti per farlo ogni volta in maniera un po' "diversa" XD Un punto di incontro tra Acilia e Jacque.. ehh è difficile, vedrai vedrai.. Certo che puoi dire che Jacque è truloso, è tristemente truloso, e lo è di più nel passato che nel presente immagino XD Ahahaha Curtis sfuggiva dalla routine e andava a caccia di ragazze, ma poi scoprì che non importava più perché aveva trovato The Big Bang Theory, grazie al quale riusciva a tirare avanti e a sopportare la moglie Karen: un bel risvolto anche questo XD

Grazie ancora e buone vacanze a tutti! Vacanze.. Diciamo in bocca al lupo a tutti per gli esami!!  
E, dato che non credo di riuscire ad aggiornare prima del 25, vi auguro un buon Natale! Non esagerate col cibo eh XD
Tornerò comunque prima del nuovo anno ;) 
 
..sempre che venerdì non finisca il mondo, penso che giovedì sera in centro a Bologna sarà come se avessimo vinto gli europei o i mondiali D:
 

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Capitolo 19
*** D'incanto e d'inganno ***


Capitolo 18
CAPITOLO XVIII
D’INCANTO E D’INGANNO
 
 
 
Germania, 1934
 
Quando Jacque aveva visto gli occhi azzurri di quel ragazzino tedesco, aveva visto la sua prima vittima. Anche se erano passati già sedici anni, forse era per quel motivo che non aveva potuto lasciar morire Eike, mentre Acilia glielo gridava nelle orecchie. Glielo diceva sempre. Non contare le vittime, non pensarci, non fare l’eroe.
Ora che guardava Eike giocare con un pallone di cuoio nel giardinetto della loro casa, pensava quasi di poter dare un senso a quello che faceva. Aveva salvato la vita di quella donna aggredita dai nazisti, aveva salvato la vita di Eike e ora lo avrebbe allevato lui. Si sentiva un padre mentre Eike faceva saltare la palla sul suo ginocchio. Ma poi, tra il buio e la foschia, racchiusi nella pelle perfettamente bianca del ragazzetto, stavano i suoi occhi, che non erano quasi mai azzurri, erano rossi, rossi come il sangue che lui voleva e chiedeva, continuamente. Avrebbe posato la palla, quando Jacque gli avrebbe detto che era ora di cena.
Non l’aveva salvato davvero, aveva ragione Acilia. Non poteva davvero dare il senso che voleva alla sua vita. Non poteva credere di essere sposato con Acilia, di avere un figlio, non poteva credere niente!
La palla stava rotolando verso di lui e Jacque la fermò con un piede. Eike gli corse incontro allegramente.
Aveva reagito in maniera così strana. Mentre Jacque ancora si chiedeva come stessero e che fine avessero fatto i suoi familiari, Eike, così piccolo, non sembrava sentirne la mancanza. Non si era disperato la prima volta che aveva nutrito e ucciso, rideva così tanto che presto quelle risate gli si sarebbero ritorte contro. Sarebbero cadute e crollate, lasciandolo scoperto e indifeso?
È un bambino, diceva Acilia, un bambino che è diventato la cosa più potente del mondo.
“Jacque, ho fame” gli disse Eike.
Si sentiva potente, era tutto lì. Quello che Jacque non aveva mai pensato di essere, perché lui vedeva tutto il male che c’era, perché lui non poteva più ragionare come un ragazzino.
“Andiamo” rispose Jacque, facendogli un cenno. S’incamminarono, si allontanarono dal parco. “Però mi devi promettere che ti impegnerai stavolta” disse dopo un po’ “Cosa ti devi ricordare di fare?”.
Eike sbuffò, come se Jacque gli avesse chiesto di ripetere una lezione.
“Di non uccidere” fece, scocciato.
“Come si fa?”.
“Devo ascoltare il battito del cuore”. La voce cantilenosa e ironica di Eike imitava quella di una maestra indispettita. Jacque pensò che stesse fingendo di essere Acilia e gli scappò un sorriso.
“Mi prometti che lo farai?”.
Eike si mise a saltellare.
“Eike? Mi stai ascoltando?”.
Il ragazzino alzò la testa e gli puntò uno sguardo innocente addosso. “Quando mi insegnerete cose più interessanti? Tipo volare?”.
Jacque sospirò. Ci provava, ci stava davvero provando ma non riusciva a farsi obbedire. Era da due anni che provava a farsi ascoltare. Acilia gli diceva di non scoraggiarsi. Che pretendeva, era vampiro da sedici anni ed era già creatore! Però poi a volte Acilia si arrabbiava, con lui o con Eike, non si capiva. Ad Eike non stava poi così simpatica, lo sgridava troppo.
“Io non so volare” disse Jacque, pazientemente.
“E perché Acilia sì?”.
“Perché è più… grande”.
Eike lo guardò stranito. “Più grande di te?”.
Jacque esitò. L’avrebbe capito Eike che non sarebbe più cresciuto? Lo guardava il suo corpo? Lo vedeva che era sempre uguale?
È un bambino, diceva Acilia. Sarebbe però sempre rimasto un bambino. E si sarebbe sempre sentito la cosa più potente del mondo? Come funzionavano le cose? Jacque si sentiva più maturo ma aveva davvero quasi quarant’anni? Quanti anni aveva la sua testa?
Sentì delle foglie che si accartocciavano e subito Jacque girò la testa davanti a sé. C’era una lieve, grigia, niebbolina nell’aria quella sera ma Acilia risplendeva come sempre, anche con un misero cappottino grigio sgualcito addosso.
A Jacque mancava il suo paese, nella Francia del sud. Tirava un’aria strana in quel posto. E non si trattava del clima, lì qualcosa stava per esplodere, e non sarebbe stato piacevole. Aveva voglia di far qualcosa, avrebbe potuto far qualcosa. Bastava solo ficcare le zanne nel collo delle persone giuste, pensava. Ma quali erano le persone giuste? Chi meritava di morire e chi no? Davvero lui pensava di poterlo stabilire?
Erano calcoli che solo una mente fredda poteva fare, ma Acilia non ne voleva sapere. Era fuori dal mondo da troppo tempo, gli affari degli umani non la toccavano e paradossalmente avrebbe voluto convivere pacificamente con loro. Ma da quando aveva mollato la Rappresentanza e si erano trasferiti a Berlino, non aveva più l’aria di una che ci credeva. Era diventata più fredda. Quando gli aveva chiesto di non intervenire contro le Camicie Brune, quando gli aveva chiesto di non trasformare Eike, di lasciarlo morire, un ragazzino…
“Avete mangiato?” chiese.
“Ancora no” rispose Eike, con un sorrisetto. Si rivolse a Jacque, con la sua solita voce cristallina e innocente: “Posso mangiarmi una ragazza? Non mi avete mai fatto mangiare una ragazza”.
Lo sguardo di Acilia guizzò sul volto di Jacque. Era delusa, come sempre. Perché gli diceva di non perdersi d’animo se poi lo doveva guardare così?!
“Ci sto provando” disse il ragazzo in un sussurro.
Non era facile. Non era facile trasformare un ragazzino di dodici anni e poi insegnargli… cosa? Cosa poteva insegnargli? Che era un morto che cammina, un pericolo pubblico, un assassino?
“Non mangerai nessuno, Eike” disse Acilia, bruscamente, e voltò le spalle ad entrambi.
Jacque le fu subito affianco, lasciando il piccolo indietro.
“Aci…”.
Lei lo guardò arrabbiata. “Occupati di lui, non di me!”.
Jacque non distolse lo sguardo. “Perché mi tratti così?”.
Acilia abbandonò per un attimo il suo sguardo duro e alzò gli occhi al cielo. “Jacque, non dovevi farlo, non dovevi…”.
Tu l’hai fatto” replicò lui, sentendosi innervosire.
“Non è la stessa cosa!”.
“È vero!” sbottò Jacque, col risentimento che cresceva dentro di sé “Non lo è! Tu avevi la possibilità di lasciarmi andare, io invece avevo solo la possibilità di lasciarlo morire!”.
Acilia aveva il viso ferito, sembrava stesse per piangere ma poi ogni centimetro della sua pelle si ricompose.
Non volevo dirlo, pensò Jacque, se lei non mi avesse trasformato non l’avrei mai conosciuta. Sarebbe stato meglio? Ma ora come ora non riusciva ad immaginare una vita senza di lei…
“Non litigate” disse Eike, dietro di loro.
Entrambi si voltarono.
Eike era a pochi passi da loro, immusonito.
Jacque gli andò vicino e gli disse: “Stiamo solo discutendo, non litigando”.
Acilia lo guardò incredula e lui non riusciva mai a cancellare quello sguardo dai suoi ricordi.
Devi fare il creatore, non il padre!
Ma Eike non lo stava più guardando, i suoi occhi rossi erano diretti verso un terzetto di ragazze ben vestite che, civettando ad alta voce, stavano camminando scuotendo borsette e cappelli.
Jacque lo tenne per un braccio. “No, Eike, mai attaccare qualcuno che è in compagnia, te lo ricordi?”.
“Ma se le uccidiamo tutte non c’è problema” fece quello, scrollando le spalle. Le sue piccole, affamate e crudeli zanne vennero fuori e prima che Jacque potesse fermarlo, Eike piombò su una delle tre che si mise a gridare con voce strozzata. Le amiche urlarono per lo spavento e si avvicinarono alla donna ma qualcosa dovette spaventarle a morte – il sangue, le zanne di Eike – e si misero in fuga.
“Eike, NO!” gridò Jacque. Lo prese per le braccia e lo tirò via, quel mostro assatanato che grondava sangue.
La ragazza, il volto deformato dall’orrore, aveva il vestito rosa macchiato di rosso e dal suo collo gramolato continuava a uscire, brillante e profumato, il suo sangue. Jacque si lasciò inebriare, allentò la presa, i denti spingevano…
Qualcosa lo spinse e si ritrovò di fronte un’Acilia furiosa.
“Vattene e portalo via! Ci penso io qui”.
Jacque si riscosse e si accorse che Eike era ancora tra le sue braccia, che rideva e si dimenava. Si allontanò camminando all’indietro, portando con sè il piccolo. Vide Acilia chinarsi, accarezzare i capelli della ragazza. Poi la sua testa si abbassò e le gambe dell’umana – l’unica cosa che Jacque poteva vedere – presero a muoversi freneticamente da sotto il vestito. Una nuvola agitata di rosa e poi più niente: l’immobilità.
Si girò, con in braccio Eike e continuò a camminare, verso il giardino dal quale erano venuti. Si infilò una mano in tasca ed estrasse un fazzoletto bianco. Senza dire niente, amorevolemente, pulì il viso di Eike. Eppure aveva dimenticato qualcosa…
Arrivati al giardinetto scorse la palla di cuoio. La palla di cuoio di un bambino che poco prima giocava innocentemente…
Con orrore, posò Eike a terra e lo guardò, ansimando. Cosa poteva dirgli? Non sapeva più cosa fare, quello non sarebbe mai diventato come lui e Acilia… Era così piccolo e così cattivo, gli diceva di incantare le persone, gli diceva di non uccidere… cos’altro doveva dirgli?! Non lo ascoltava… Non lo ascoltava…
Una spinta violenta che gli arrivò alle spalle lo fece vacillare e lui si voltò confuso.
Acilia aveva i pugni stretti e il volto contratto della rabbia.
“Io potevo diventare creatrice perché avevo milleottocento anni di esperienza! E tu eri un adulto, non un moccioso ingestibile! È per questo che non è la stessa cosa!”.
Jacque alzò le mani per calmarla. Ma la verità era che non sapeva proprio cosa dire, neanche a lei…
“Gli anni passeranno, l’esperienza fa l’età ma non è sufficiente di per sé” continuò lei, senza preoccuparsi di abbassare la voce “Il suo cervello non crescerà! È imprigionato in quell’età e rimarrà così per sempre!”.
Jacque lanciò inavvertitamente uno sguardo ad Eike. Quello aveva la bocca serrata e le sopracciglia inarcate, ma non disse niente. Si limitò a fuggire via, in casa e Jacque lo definì un ragazzino impossibile, un ragazzino sbagliato. Si preoccupava molto di più di Acilia, allora era vero che era un pessimo creatore.
Si avvicinò alla ragazza e l’abbracciò. Lei si strinse a lui e lui non sapeva chi dei due dovesse essere consolato.
“L’ho uccisa” fece Acilia, con un tono di voce normale, i pugni stretti sul petto di Jacque “Eike non ha imparato neanche a bucare il collo per bene, gliel’ha stracciato. Le altre due… quelle due…”.
Non sarebbe cambiato molto. C’erano sempre più storie di vampiri, alcuni forse già ci credevano. Non faceva differenza, la verità sarebbe venuta a galla, era solo questione di tempo.
“Non pensare a questo” disse lui.
“Mi dispiace” proseguì lei, con la voce fresca sul suo collo “Mi dispiace… Tu l’hai salvato perché sei troppo buono… Avrei dovuto lasciarti andare… Sei troppo buono per vivere in questo modo…”.
La voce le si era rotta ma lui non le vedeva il viso, nascosto dai capelli. La strinse ancora di più e le diede un bacio in fronte.
“Vivere con te mi va bene” le sussurrò.
Lo pensava davvero.
 
*
 
 
Giorno –
 
Sinceramente ho perso il conto dei giorni. È da mesi che non scrivo niente qui sopra, semplice, ho smesso di scrivere perché non avevo più paura. Non ne avevo più bisogno, Jacque mi ha reso felice, anche se per poco, e quando sei felice e tranquilla, cosa scrivi a fare?
Ho riletto le pagine passate e avrei voglia di strappare questo quaderno, perché non doveva succedere niente di tutto quello che è successo. Sembra passata una vita ma si tratta solo di sette mesi. Sette mesi sono passati dal giorno 1 e la situazione era già assurda in partenza. Mi chiedo se altre ragazze, o anche ragazzi, siano finiti nella mia stessa situazione…
Non gliel’ho detto che mi sono innamorata di lui e non ho intenzione di dirglielo. Il mio orgoglio e la mia gelosia hanno distrutto altre relazioni in passato, bene, lascerò che succeda anche questa volta perché io e Jacque, insieme, non possiamo andare da nessuna parte. Sono sempre stata cocciuta e impulsiva, beh, ora basta. Non si può fare sempre come si vuole, sono cresciuta anch’io, è tempo di essere razionale, avrei dovuto esserlo fin dall’inizio. Ma cosa pensavo di fare? Pensavo di starci insieme per un po’, pensavo che mi sarei stufata, pensavo che fosse solo un divertimento passeggero? Non poteva esserlo, perché ci ho messo anima e corpo. L’ho seguito fino ad Arcangelo, mi sono fidata di lui, ho tentato di capirlo, ho scavato nelle sue memorie. Sono stata maledettamente stupida, mi sono tenuta questo segreto addosso, ho creato un Jack alternativo che non avrei mai potuto presentare né alla mia famiglia né ai miei amici e ora vorrei strapparmelo di dosso! Vorrei strappare i ricordi, le pagine della paura e dell’angoscia da cui è nato un amore folle e stupido!
Due giorni dopo il nostro litigio è tornato da me. Ma non dice niente di quello che vorrei sentirmi dire e, dopotutto, è meglio così. Se mi dicesse che mi ama – quale sogno impossibile! – e che Acilia per lui non vale più niente, finirei per credergli e mi troverei imprigionata nell’amore più sbagliato che ci possa essere! Un vampiro… È un vampiro!
È migliore di tanti umani, questo vampiro, e io lo so, nel profondo lo so. Ha addosso il fascino del passato, del dannato che prova ad essere uomo, il coraggio di un guerriero e l’amore di un ragazzo puro. Sto piangendo mentre scrivo, perché lo immagino, immagino il suo viso, la sua sofferenza e la sua perfezione, il ragazzo di altri tempi che non avrei mai potuto conoscere se non fosse stato maledetto. Maledico il fatto che sia un vampiro, ma se non fosse stato vampiro non avrei neanche avuto il privilegio – non so che altra parola usare – di conoscerlo. Probabilmente neanche l’avrei notato. Un Jacque francese, buono e simpatico, ma senza una storia interessante alle spalle, senza il dolore e la serietà che anni di dannazione gli hanno impresso sul volto… Cosa lo maledico a fare il fatto che sia un vampiro?!
Ho sognato che sarei stata insieme a lui per l’eternità, avevo gli occhi rossi ed ero felice. I sogni non sono desideri, non sono così stupida da credere che sia questo quello che voglio. Sarebbe l’unico modo per poter stare con lui no? Lo amo, ma non lo amo fino a quel punto. Amare fino a perdere la testa, fino a perdere la concezione con la realtà, quello non l’ho mai provato. Allora mi dico, per cosa soffri. Per cosa soffri, stupida, neanche lo ami così tanto. Ma è il mio modo di amare, il mio stupido e egoista modo di amare… E passerà, mi dico, ne sono passate così tante, anche se nessuna bruciava in questo modo. Jacque se ne andrà, sarà solo un ricordo e si porterà con sé tutto un mondo mostruoso e meraviglioso allo stesso tempo. Devo accettare che sia così, e basta.
Il resto verrà da sé, piangendo, ma verrà da sé.
 
 
 
Germania, 1938
 
Era una vita strana la sua. Molto vagamente ricordava sua sorella Imma che gli raccontava storie di vampiri. Era diventato uno di loro, uno di quegli esseri mostruosi e bramosi di sangue, sì. Ma quanto tempo era passato ormai? Non riusciva a tenere conto del tempo che passava ma vedeva le stagioni che si susseguivano. Era autunno, poi la neve… poi il sole, il caldo, il freddo, di nuovo. Tante volte. Imma doveva essere diventata grande ormai. La ricordava un po’ più alta di lui, il viso da ragazzina sveglia. La ricordava impaurita. Lui l’aveva spaventata. Ma perché l’aveva fatto? Non poteva piuttosto salutarla? Non l’aveva capito allora, che non l’avrebbe più vista.
Se Jacque avesse scoperto che lui era tornato a far visita a sua sorella, l’avrebbe sgridato. Se l’avesse scoperto Acilia, sarebbe diventata furiosa.
Eike stava seduto nell’erba di quel loro giardino. Neanche sapeva di preciso dove fosse. Il prato era verde, i fiori erano sbocciati per l’ennesima volta. C’era un buon profumo e lui si sentiva sereno. Chi lo stava trattenendo? Non voleva tornare dalla sua famiglia?
Strappò scocciato dei fili d’erba. Si divertiva a strapparli, a romperli, a ridurli in pezzi sempre più piccoli, sempre più fini. Poi li lasciava cadere a terra, una pioggia di brandelli verdi. Un po’ gli mancavano i suoi genitori. Acilia e Jacque glieli ricordavano. Litigavano spesso, poi si baciavano. E soprattutto lo sgridavano. Però ricordava sua madre taciturna e indifesa. Acilia era diversa, era più autoritaria di Jacque, era lei che comandava. Era una famiglia strana la loro, una famiglia al contrario.
La sua manina, sempre piccola, strappò una margherita. Allora considerava Jacque e Acilia la sua famiglia. Se, lì dov’era ora, guardava indietro, verso il suo passato, si rendeva conto che quei due ragazzi – poco più vecchi di lui in effetti – si erano presi più cura di lui che i suoi veri genitori. Forse era più corretto definirli fratelli… Eike lanciò via la margherita. No, nessuno avrebbe preso il posto di Imma. Nessuno.
Il suo sguardo non riusciva a spostarsi, guardava la margherita morta, il suo cadavere steso sul prato, bianca, pura, il fiore dell’innocenza. Aveva visto tanto rosso su bianco, tanto sangue sull’innocenza.
Ansimava, quando i ricordi diventavano velenosi.
Era davvero diventato uno di quegli esseri mostruosi e bramosi di sangue, sì. Infastidito, si alzò da terra, sulle sue gambette, sempre così corte.
Le stagioni si susseguivano. Freddo, neve, sole, caldo. Sì. Lui invece rimaneva sempre uguale. Anche Acilia e Jacque erano sempre uguali. Acilia era molto bella, a volte pensava di… Ma lei era di Jacque. E lui del resto… Lui cos’era? Ancora un bambino, per sempre…
Girava nervosamente per il giardino.  
È imprigionato in quell’età e rimarrà così per sempre!
Arrabbiato si tolse la maglietta, poi le scarpe, i pantaloni. Disgustato, odiò le sua pelle così candida, morbida, liscia. Esitando, si tolse le mutande e si detestò ancora di più. Aveva scoperto di non poter piangere e tutta la sua frustrazione crollò con lui, in ginocchio, nudo e vergognoso. Digrignò qualcosa, a fatica, perché già per la rabbia i suoi denti spingevano. Non riusciva a controllarle quelle maledette zanne! Erano loro, quelle dannate che gli facevano venire fame, ma lui non la voleva, non la voleva più… Ciò che faceva solo pochi anni prima era una macchia confusa di ricordi orribili, lui era diventato ciò di cui aveva sempre avuto paura… Posso spaventare, si diceva, posso spaventare a morte la gente, che bello!
Che orrore, pensò tristemente, guardando ancora il suo corpicino…
“Eike! Che succede?”.
Eike alzò lo sguardo. Se avesse potuto arrossire, l’avrebbe fatto. Si infilò le mutande in fretta, senza dire una parola, sotto lo sguardo muto di Jacque. Era stato lui, era lui il suo creatore. L’aveva trasformato, i ricordi erano strani, confusi… Risate di esseri umani orribili, uno sparo e Jacque che arrivava, che lo salvava. L’aveva salvato e aveva creato un altro essere orribile, più di quegli umani con la divisa marrone!
Gli era davanti, con sguardo dolce. Forse era quello un vero sguardo paterno, non lo sapeva, suo padre non l’aveva mai guardato così.
Jacque si chinò e raccolse gli indumenti, mentre Eike era impegnato a fissare un punto imprecisato nel prato.
“Ti sei messo a fare uno spogliarello?” scherzò Jacque, aiutandolo a infilarsi la maglietta.
Eike si srotolò la maglia addosso dopo aver infilato le braccia nelle maniche, si tolse i capelli biondi da davanti agli occhi e lo fissò.
“Io non cresco più, vero, Jacque?”.
Jacque sospirò. Era un’inutile domanda del resto.
“No” rispose dopo un po’. Non aggiunse altro, che poteva dire?
“Sognavo di diventare grande” disse Eike, con gli occhi abbassati “Di diventare forte e sicuro”.
Forte lo era, ma Jacque non obiettò e il ragazzino gliene fu grato. Non sognava certo di essere forte in quel modo.
“Ti dispiace che io ti abbia trasformato?” chiese il suo creatore, i pantaloni in mano.
Eike scrollò le spalle.
La verità era che ammirava Jacque, lo ammirava perché aveva combattuto le Camicie Brune e salvato una donna, e anche lui, aveva salvato anche lui, a suo modo, nell’unico modo che c’era.
“Voglio riuscire ad essere come te” disse. Avrebbe voluto non provare più sete di sangue. I ricordi, quelli potevano scivolare via…
Jacque sorrise e passò i pantaloni ad Eike. “Stai già facendo grandi progressi”.
Eike infilò le gambe nei pantaloni, tenendosi aggrappato alle spalle del suo creatore.
Jacque lo teneva fermo, lo guardava seneramente. Gli era vicino.
“Non crescerai fisicamente” disse dopo un po’, serio “Ma non è vero che resterai imprigionato per sempre in quest’età”. Avvicinò un dito alla sua tempia. “Crescerai qui”.
Eike finì di abbottonarsi i pantoloni e scrollò di nuovo le spalle, con indifferenza.
Esitò un momento prima di dire quello che pensava. “Sei più bravo del papà che avevo”.
Gli occhi di Jacque, seppur scuri, in quel momento, parvero brillare, di contentezza.
 
 
 
Jacque ed Eike si stavano abbracciando, Acilia li vedeva nel giardino, attraverso il vetro sporco e graffiato della finestra.
“È molto migliorato” disse “Non lo credevo possibile ma sta mostrando un maturamento”.
Si voltò, dando le spalle al cielo che si stava scurendo sempre di più. La notte stava avanzando.
Dubris era seduto sul letto a baldacchino, le braccia stese e le mani appoggiate dietro al busto.
“Gli anni passano per tutti” disse, con noncuranza “Non mi dirai che ti senti ancora come se avessi diciotto anni”.
Acilia si sedette accanto a lui e il materasso cigolò appena. Era su quel letto che si stringeva addosso a Jacque. Era strano stare lì insieme a Dubris, forse.
“Diciotto no” disse, riflettendo “Ma non molti di più, non millenovecento di certo”. Era adulta, certo, ma le sembrava che la sua fosse una corsa senza fine e le sembrava di inciampare sempre negli stessi errori.
Dubris le diede una piccola spinta affettuosa al braccio. “Per il resto, va tutto bene qui?”.
Nonostante si fossero trasferiti in Germania, Dubris spesso andava a trovarla. A lei non dispiaceva la sua compagnia. Erano amici da così tanto tempo, aveva abbandonato la Rappresentanza sì, ma non voleva seppellire anche tutto il resto.
“Gli umani sono impegnati in una caccia all’ebreo qui, a quanto pare” rispose Acilia, alzando e riabbassando le spalle “Non so per quanto ancora sarà un posto sicuro”.
“La caccia all’ebreo diventerà una caccia al vampiro” assentì Dubris “È solo questione di tempo”. Fece una smorfia socciata.
“Il presidente ancora non vuole sentire ragioni?”.
Dubris si buttò all’indietro, sul letto, sospirando. “Bisognerebbe ucciderlo” disse in un bisbiglio.
Acilia non volle ribattere. “Immagino che Lyuben voglia seguire una linea più diplomatica”. Lyuben aveva preso il comando del PPC, dieci anni prima, quando Acilia aveva preso la decisione di andarsene. Era stata una scelta di lei, e nessuno aveva avuto da ridire.
Dubris ridacchiò. “Chi l’avrebbe mai detto, eh?”.
Acilia si sdraiò, avvicinandosi a lui. “Jacque dice che dovremmo fare qualcosa. Non sopporta quello che sta capitando nel mondo degli umani”.
“Umani contro umani” bofonchiò Dubris “È la cosa più stupida del mondo, ma anche la più vecchia”.
Acilia non disse niente. Lo sapeva fin dove si poteva spingere l’uomo, che si definiva uomo ma sapeva essere una bestia.
“E Jacque, l’uomo vissuto, vorrebbe far qualcosa” proseguì il rosso, con un mezzo sorriso. Si girò su un fianco, puntando uno sguardo fastidioso su Acila. Lei aggrottò la fronte. Non le piaceva l’espressione che assumeva la faccia di lui quando si parlava di Jacque.
“Come quella volta che ha tentato di salvare una donna ed ha finito col trasformare un bambino?” fece ancora Dubris.
“L’ha salvata” precisò Acilia, scocciata.
“Aci, andiamo” disse l’altro “Lo sai anche tu che non si può fare”.
“Lo so” fece subito lei, senza guardarlo “Dopotutto noi viviamo nell’ombra o nelle storie dell’orrore”.
Dubris le si avvicinò con sguardo deciso. “Non deve essere così per sempre”.
“Noi li mangiamo, Dubris” ribatté lei “Magari non li uccidiamo, ma ci nutriamo di loro! Come potranno mai accettarci?”.
Dubris batté una mano sul materasso e si mise seduto, scuro in volto.
“E questo non lo sapevi anche seicento anno fa quando mi hai convinto ad aderire ai tuoi ideali?” sbottò.
Acilia rimase sdraiata, senza dire niente.
“Cosa vorrebbe fare il tuo Jacque, eh? Andare in giro a salvare la gente come un eroe senza mai farsi vedere, senza mai sperare di potersi fare vedere?!” s’infervorò Dubris.
Anche lei si mise seduta, senza guardarlo in faccia. Fece per alzarsi ma lui la trattenne, prendendole una mano.
“E tu ascolti lui”.
Acilia non allontanò la mano, ma ancora voleva evitava il suo sguardo.
“Aci, guardami”.
Perché… perché…
Per favore”.
Acilia si decise a guardarlo negli occhi e ci vide proprio quello che temeva. Ancora quel velo di gelosia, palpabile e una domanda che lei non voleva affrontare.
“Lo ami?”.
Non riusciva a sostenerlo e il suo sguardo cadde, sulle loro mani intrecciate, come lo erano un tempo.
Un animo come quello di Jacque, forse l’aveva incontrato solo in Miguel. Eppure era così facile gridare che aveva amato Miguel, con tutto il cuore, invece ora… ora non era più in grado, neanche di pensarlo. Jacque era un’altra cosa, un altro essere, quello che era lei.
“Aci, ti ho chiesto se lo ami”.
Basta con le domande! Non tutte le domande hanno una risposta, lei di risposte non ne aveva mai trovate, non era fatta per calcolare i sentimenti, per quantificare l’amore, per decifrare il suo cuore.
Ricordava il soldato a cui aveva tolto la vita e che aveva lanciato in un mondo crudele. Cosa poteva offrirgli?
“Come potrei amarlo” rispose lei, amaramente, senza alzare lo sguardo. “Ogni volta che lo guardo vedo la morte, quella che gli ho inflitto io”. Le sembrava di rivedere Jacque, terrorizzato, atterrito da lei.
Dopo quella che sembrò un’eternità, alzò il viso e vide che quello di Dubris era vicinissimo a lui, quasi rincuorato.
“Mi manchi, Aci…”.
Le sue labbra fredde la toccarono, dopo tanto tempo. Ancora più fredde di quelle di Jacque. Lei sgranò un pelo gli occhi, sorpresa, ma non fece nulla per fermarlo. Poi gli occhi li chiuse, con Dubris era più facile, lui la conosceva bene, sapeva come lei fosse fatta, che stronza fosse… Ma non era giusto neanche così! Non voleva che lui soffrisse, e neanche Jacque… Soprattutto Jacque! L’aveva ucciso, l’aveva strappato alla sua famiglia, non poteva, non doveva…
I suoi occhi tristi, impauriti, pieni di guerra e di dolore e poi trasformati, gli occhi della morte, li aveva spenti lei quegli occhi…
Qualcosa la spinse ad indietreggiare, a lasciare le labbra di Dubris, che per secoli l’avevano confortata e amata, senza mai avere niente in cambio.
Forse si era allontanata da lui solo perché aveva sentito un rumore fuori dalla porta della stanza. Volò subito alla finestra, la mano appoggiata al vetro e il respiro pesante.
Eike era sdraiato per terra, tra i fili d’erba, le braccia incrociate dietro la testa e le gambe divaricate. Una pallida luce di luna gli illuminava il viso che era rivolto al cielo, ma che pareva indirizzato proprio a lei.
Era solo e aveva addosso quello che sembrava un sorriso beffardo.
 
 
 
Quella notte Jacque non l’avrebbe mai dimenticata. Quella era la prima notte in cui si era davvero risvegliato dall’incanto. Si era reso conto che la disperazione gli aveva fatto tessere un inganno, in cui si era imprigionato e non riusciva più a districarsi dai fili della speranza, non ci era mai veramente riuscito. Acilia non poteva amarlo perché era morto – proprio come lo era lei – o perché era stato lei ad ucciderlo? Sentirle dire quelle parole, pensarla vicino a Dubris, tra le sue braccia, nella sua bocca… Lo facevano impazzire. Essere un mostro non gli sembrava poi così male, se era accanto a lei. Essere morto non gli pesava così tanto, se era l’unico modo per poter stare con lei. Aveva dimenticato ogni cosa, messo a tacere ogni dolore e perdonato ogni rancore, per stare con lei. Come poteva lei fargli questo?
Aveva detto ad Emily che quello che provava per Acilia era un amore malato. Come può non essere malato l’amore di una vittima per il suo carnefice? Gli venivano i brividi se pensava ad Acilia in questi termini. Si diceva che non era malato, che aveva capito perché Acilia lo avesse trasformato, che lo aveva conquistato solo in seguito, tutto di lei, i suoi occhi, le sue parole, quelle dette e quelle mute. Ma allora perché, sapendola nell’indifferenza, continuava a pensare a lei? Erano passati così tanti anni, non era normale. Perché Acilia aveva potuto amare solo un uomo, un umano, e lui invece non riusciva ad amare altro che lei, un essere morto e freddo, mentre per Emily… per Emily provava un grandissimo affetto ma i pensieri che la riguardavano si macchiavano continuamente di nero, di verde e di rosso. Come si spiegava questo? Era il sangue che quasi cento anni fa Acilia gli aveva dato da bere? Era quello che gli aveva fatto perdere la testa? Era tutto lì? Ma non funzionava così! Sapeva che la creata di Dubris era totalmente innamorata di Lyuben, non di Dubris!
All’epoca gli era stato tolto tutto. Pensava di potersi costruire una vita normale, si trattava di questo. Pensava che se avesse avuto una donna – e in seguito un ragazzino da accudire – si sarebbe sentito ancora uomo, umano. Stare con Emily invece gli dimostrava continuamente, ogni giorno di più, che lui non lo era più umano, perché non ci riuscivano a stare insieme!
I pensieri lo angosciavano e lo tormentavano. Negli anni che passavano, e cercava una spiegazione. Non è vero che più tempo vivi più capisci te stesso, o addirittura il mondo. Più tempo passi sulla terra, più tempo respiri e cammini nella realtà, più ti fai domande e le cose ti appaiono sempre meno chiare, perché non c’è un limite, non c’è una fine, puoi solo andare avanti, sempre, accrescendo le ondate delle emozioni! Non era un vecchio saggio a cui si è spenta la passione e a cui basta vivere nei ricordi, non li aveva quei cent’anni. L’umano che lavorava alla Rappresentanza, Boyan, Jacque ricordava cosa gli aveva detto. Non puoi sentirti vecchio davvero finché un bel giorno non ti alzi e non vedi allo specchio la tua prima ruga.
Era vero e lui era ancora uno stupido ventenne che non riusciva a liberarsi di una maledetta ed ossessiva cotta… Era davvero così? Davvero solo una cotta? Era il sentimento più forte che avesse mai provato. Per il sangue? Per il triste destino che lui ed Acilia condividevano? Per tutti gli anni che avevano passato insieme? Perché lui era morto e poi rinato tra le braccia di lei…
E ora cosa doveva dire a Emily?! Lei era dolce, buffa, lo aveva fatto ridere, dopo tanto che non lo faceva più. Gli piaceva davvero e aveva creduto davvero che si sarebbe potuto innamorare di lei. Ma che senso aveva insistere se la stava facendo soffrire? Non stava succedendo niente, i suoi sentimenti non mutavano, la stava solo soffocando, come Acilia aveva fatto con lui. E prima o poi sarebbe dovuta comunque finire, non voleva certo che Emily si trasformasse! Non poteva volere che entrasse anche lei nella cerchia dei dannati senza età, che vivono fino allo sfinimento, fino all’estremo, perché non sanno fare altro, perché devono sempre vivere e in fondo hanno una paura enorme della morte.
Allora perché aveva iniziato, cosa credeva di fare?! Ora lei piangeva, povera creatura… per lui, che non poteva darle niente, fin dall’inizio!
Quello che Acilia aveva fatto a lui, incantandolo e ingannandolo, lui l’aveva fatto a Emily. Provava vergogna, ancora…
Sarebbe dovuto andare ancora avanti, in quella mezza vita, senza neanche una speranza di rivincita, nel tunnel di un’esistenza senza fine… Di un amore senza fine…
 
 
 
Jacque! Dove corri? Dove scappi? Non puoi andartene dalla mia casa, dalla mia vita!
Corro e non riesco a raggiungerti. Cos’hai sentito? Cos’hai visto? Credi davvero che sarei disposta a lasciarti andare così?
È un tunnel. Sono in questo tunnel da quasi millenovecento anni, rimani con me nel buio, non cercare di uscire, non seguire la luce!
È questo che ho fatto? Ti ho tenuto nell’oscurità con me tutto questo tempo? Ti sei svegliato, tesoro, prima di andartene sveglia anche me… Sveglia anche me!
Jacque, cosa ti aspettavi? Noi non siamo umani, non possiamo fare quello che fanno gli umani.
Sono qui dentro, non abbandonarmi, sono intrappolata!
Avresti voluto che ci sposassimo, non è vero?
Rispondi, amore, ma non guardarmi in faccia, non guardarmi!
Lo so bene che non possiamo essere una coppia normale, però pensavo… Pensavo…
Cosa pensavi? Hai gli occhi così tristi, ma perché ti ho fatto questo?!
Jacque, non ti sarai mica innamorato di me?
È veleno quello che ho nel petto, non ho più amore da dare, non ce l’ho più… Catene nere mi tengono ancorata sul fondo di questo pozzo. Ti prego, vienimi a cercare!
Fai un accenno di sorriso, ancora brancolo. Sono dietro a questi occhi freddi, mi vedi?
Che vuoi farci, mi dici amaramente, Tu sei tutto quello che ho. È una cosa così stupida… Perché sei tu che mi hai tolto tutto.
Sto urlando dalla fine. Sono scivolata così tanto in profondità che le mie grida non ti raggiungono. Sto piangendo sul fondo; sta implorando aiuto, quella parte di me, che è in un angolo del tuo cuore.
Ma tu non mi senti, come potresti sentirmi?
È così che finisce, è finita davvero.
 
*
 
 
“Gli attacchi dei vampiri sono aumentati con l’inizio dell’estate. Gli esperti credono che l’aumento della temperatura e delle ore solari provochi nei vampiri un senso ancor maggiore di fame e uno smarrimento che li porta a cercare continuamente del cibo per sentirsi al sicuro”.
La signora del notiziario aveva una pettinatura cotonata e uno sguardo fermo, ma le braccia, rigidissime nelle strette maniche del suo tailleur blu, lasciavano traplera un pelo d’ansia. Sembrava vagamente convinta di quello che diceva, vagamente perché d’altronde non poteva saperne niente. Considerare i vampiri alla stregua di animali, in cerca di cibo e non pensanti, era atteggiamento diffuso anche tra gli esperti, nonostante molti anni prima, attraverso l’analisi di un cervello di un vampiro ucciso dai cacciatori, fosse stato accertato che non era così.
“Non ti sembra una stronzata?” fece Lydia con una smorfia, mentre poggiava due tazze fumanti di tè sul tavolo.
Emily scrollò le spalle con indifferenza.
“Voglio dire” continuò l’amica, sedendosi di fronte a lei “L’estate scorsa gli attacchi non sono aumentati e poi, andiamo, non può essere colpa del tempo!”.
“Già” si limitò a rispondere lei.
Lanciò un’occhiata di sottecchi alla giornalista in televisione. Se solo la gente sapesse la verità, pensò. La gente cercava una spiegazione per qualunque cosa, forse avere delle spiegazioni aiutava ad avere meno paura.
“Tu credi che i vampiri attacchino senza pensare?” domandò Lydia, facendo scivolare lo sguardo dalla televisione ad Emily.
Emily avvicinò la tazza di tè a sé. “L’hanno dimostrato una quindicina d’anni fa, no?” disse, senza esprimere opinioni personali “Il cervello dei vampiri è identico a quello di un umano sano di mente”.
L’unica cosa che la gente non riusciva a capire era come fossero nati i vampiri. Da quanto tempo esistevano? Come era nato il primo vampiro? Come era stato possibile? Si trattava di magia? Le domande avrebbero potuto essere tante ma la maggior parte delle persone in vita era nata che i vampiri già erano nel loro mondo, e l’avevano semplicemente accettato.
Emily avvicinò la tazza alla bocca ma subito la ritrasse. Il tè era bollente.
Le raccomandazioni che diamo sono sempre le stesse. Uscire dopo il tramonto solo se strettamente necessario, e solo se armati di pistole caricate con proiettili di legno. Porre oggetti d’argento ad ogni porta e finestra della vostra casa. Evitare di parlare con gli estranei…”.
“Abbiamo pubblicato anche noi un articolo con le stesse raccomandazioni” disse Emily, ricordando di aver steso lei stessa l’elenco.
Lydia bevve un sorso, con aria preoccupata. “Immagino che di questi tempi parlino ancora peggio di quel tuo articolo a favore dei vampiri”.
Emily ridacchiò, suo malgrado. “È già molto che non mi abbiano licenziata”.
“Sei ancora convinta di quello che hai scritto?”.
La ragazza esitò. Certo che ne era convinta, solo che non si poteva generalizzare. Gli esseri umani non erano tutti uguali, e allo stesso modo non lo erano neanche i vampiri!
“No” mentì, stupidamente, per non destare sospetti.
Lydia annuì, stringendo la tazza tra le mani. “È terribile… E pensare che quella strage è avvenuta a pochi isolati da qua…”.
Di quella strage, avvenuta due settimane prima, se ne parlava ancora tanto. Dei vampiri erano entrati in un condominio dove si stava svolgendo una veglia funebre. Undici morti, cinque feriti, due – una donna e una bambina – dispersi.
“Quello non è istinto di sopravvivenza” proseguì Lydia, guardando un punto sul tavolo, con le mani ancora strette alla tazza “Quello non è nutrirsi… Perché lo fanno?”.
“È l’unico modo di vivere che conoscono” rispose Emily automaticamente. Siuramente dietro a quella strage c’era Kaeso. Non sapeva a che punto fossero le ricerche, con Jacque non aveva più parlato. Ma parlare di quanto fossero pericolosi i vampiri non la rattristava, anzi, le dava la certezza che le cose tra lei e Jacque non sarebbero potute andare diversamente.
Lydia la stava guardando sorpresa.
“Sono dei mostri” continuò Emily, alzando le spalle. Inavvertitamente un senso di malessere le prese lo stomaco e lei aveva voglia di piangere. Odiava generalizzare. Non poteva davvero dare del mostro a Jacque…
“Emi?” fece Lydia, con un sorriso “Dai, non ci pensare, saremo al sicuro”.
Parlare di vampiri eccome  se la rattristava, non doveva mentire a se stessa. Vedeva Jacque ovunque, in ogni giornale, in ogni notiziario, in ogni parola ingiusta detta contro i vampiri…
“Con Jack come va?” chiese ancora Lydia, ingenuamente convinta di aver cambiato argomento.
Emily scosse la testa, socchiudendo gli occhi. La tazza di tè aveva smesso di fumare ma lei non l’aveva più toccata.
“Non funziona, siamo troppo diversi” disse semplicemente.
Non voleva parlarne perché non sapeva cosa dire. Come spiegare il motivo della loro diversità? Come poteva dire a Lydia che non poteva uscire alla luce del sole con lui? Come poteva spiegarle che era spaventata da una sua passata – ma tremendamente presente, forse sempiterna - relazione che era durata quasi vent’anni? Una relazione che lui considerava malata, perché Acilia era la sua creatrice… Colei che l’aveva trasformato in un mostro…
La giornalista in televisione stava ora parlando di un attacco avvenuto in Scozia. Si parlava solo di sangue al telegiornale, solo di loro, dei mostri. Guardò Lydia. Lei non diceva niente, poverina, anche lei aveva i suoi problemi con Sam. Stare tutto quel tempo con una persona non doveva essere facile. Un rapporto può sfiancarti ma se diventa abitudine può logorarti senza che tu neanche te ne accorga.
Vent’anni…
Era come se si fosse svegliata da un incanto. In televisione, sui giornali, per strada, parlavano di mostri. Lei stava con uno di quelli, uno di quelli che chiamavano mostri. Le sembrava quasi che fosse stato tutto un sogno. Un incanto e un inganno, allo stesso tempo.
 
 
 
Charlene, Charlene
Dov’è la mamma, Charlene?
Oh, non abbassare gli occhi, su, guardami in faccia.
No, non guardare quella chiazza rossa sul pavimento.
È ketchup, lo vuoi?
Ti preparerò un panino con il ketchup
E poi avrai tutta la bocca rossa, come me
Ti fa ridere, non è vero?
Charlene, Charlene
Ti piace la tua nuova casa?
Potrai avere tanti giocattoli
E pupazzi
Se solo lo vorrai
Potrai avere le bambole più belle del mondo
Te le costruirò io
Sembrano vere, queste bambole, non è vero?
Sono solo un po’ sporche
Ma basterà pulirle
E tutto il ketchup andrà via
No, non agitarti, Charlene
Hai dei bei ricci
Sono luminosi, non vorrai sporcarli
Allora stai buona e fai la brava
Charlene, come si chiama il tuo papà?
Come? Non lo sai? Non lo conosci?
Lo farò io, tesoro, sarò io il tuo papà
E smettila di piangere
Mamma non può sentirti
Mamma è di là che prepara la cena
Charlene, Charlene
Come dici? Senti delle urla?
Oh no, tesoro, non ti preoccupare
È che la pappa a volte fa i capricci
Dammi le mani, Charlene, così
Hai gli occhi blu, Charlene
Come i miei
Saremo una bella famiglia
Quella che non hai mai avuto
E quella che io una volta avevo
Staremo bene insieme,
Charlene










Sono stata buona dai, questo capitolo non è eterno come gli ultimi due-tre! XD Anche se forse è un po' noioso.
Fin dagli albori del libro, questo capitolo era già destinato ad essere molto sentimentale. E dato che a volte mi sembra di essere un po' banale e ripetitiva ho deciso di fare un esperimento: ho provato a dare al capitolo un'atmosfera un po' particolare, vagamente surreale. L'esperimento sta nelle seguenti scene: il fatto che mentre Eike attacca una delle tre ragazze tedesche non passa nessuno; la scena in cui Eike si spoglia in mezzo al giardino per guardare la sua nudità; la scena in cui Acilia, mentre bacia Dubris, sente un rumore fuori dalla porta e va a vedere fuori dalla finestra, e il vedere Eike, da solo, con quel "sorriso beffardo" le dà la conferma che era Jacque fuori dalla porta; la scena in cui a parlare è una parte di Acilia relegata chissà dove; la scena finale di Kaeso che parla alla bambina rapita. Inoltre per spiegare come è finita la storia tra Acilia e Jacque nel 1938 ho fatto tre salti di punti di vista e un salto nel presente (la parte in cui Jacque pensa, scritta in corsivo) giusto per dare varietà se no questi "salti nel passato" sono tutti uguali XD
Beh, insomma, mi piace esprimere le mie motivazioni, spero di non avervi confuso ancora di più le idee XD 

Nene, mi fai recensioni sempre più lunghe, e questo è bene XD Grazie mille per i complimenti! Dunque, è giustissimo che ti abbia spiazzato il fatto che Kaeso abbia "messo in salvo" Charlene ma ogni cosa, come vedrai - o come vedi anche adesso - ha il suo perché :D Anche a me fa più paura Svetlana sinceramente, i suoi gusti sessuali comunque sono irrilevanti, però, sì, direi che è bisessuale (i vampiri che vivono da tanto tanto tempo provano di tutto..se no che nooia :S)  Dubris, sì, è stato stupido e sa di esserlo stato, ma ha agito d'istinto, come sempre del resto XD Per quanto riguarda Jacque e Acilia, i "quasi vent'anni" si riferiva al periodo che hanno trascorso come "fidanzati" esatto, cioè dal 1920 al '38 XD Eh sì Jacque è divertente da analizzare, è uno dei miei personaggi preferiti, infatti non vedevo l'ora di arrivare a raccontare la sua storia passata :3 Continua continua con le tue supposizioni sulla famosa frase di Acilia "Uccidere non è abbastanza per definire quello che ho fatto" e continua a recensire :DD grazie mille! 
Sara, ahahaha anche scriverlo lo splatter è meglio che guardarlo! Scriverlo è quasi divertente, perché, per quanto te lo immagini, sembra tutto troppo finto XD  Kaeso sì ormai è il maestro del grottesco XD Il fatto che senta dentro di sè quando muore uno dei suoi creati sono contenta che ti sia piaciuto, è la stessa cosa che prova Acilia nell'antica Roma quando sente che Marcus è morto (insomma, vale sia per creatori che per creati).. purtroppo non posso prendermi il merito di questa cosa molto "romantica" XD Dubris è passato di livello :DD è diventato patatone! Emily e Jacque mmmm...mmmmm.. la mia mente diabolica deve ancora decidere se salvarli o no..no scherzo, è già tutto deciso buahahha! Uhh che bello hai notato la frecciatina finale del capitolo scorso, mi diverto a piazzare robe enigmatiche e antipatiche :D grazie mille per i complimenti, aspetto il prossimo commento, maestra della recensione!
Norine, grazie per i complimenti! Dubris rivalutato, sapevo che ce l'avrei fatta :DDD Hai ragione, un po' di sano sangue ci vuole, anche perché se no tutta sta storia verrebbe troppo melensa (lo è già abbastanza)! Aspetto altri pareri, anche corti, chi se ne frega, non farti venire i complessi :D

Nel mese di gennaio temo di riuscire a pubblicare solo un capitolo, probabilmente nei primi dieci giorni. A forza di scrivere, sono rimasta indietro con lo studio, ohibò, con questi capitoli chilometrici che escono circa ogni dieci giorni chi l'avrebbe mai detto eh? XD
Vi auguro di festeggiare alla grande questo 2013 che sembrava non dovesse neanche arrivare! :D
Buon anno a tutte!
Baci 


ps: Il titolo del capitolo è lo stesso titolo che avevo dato alla mia tesina della maturità ahahahah! La prof di italiano mi aveva fatto i complimenti, bei tempi andati (no, affatto)






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Capitolo 20
*** Fulgida stella ***


Capitolo 19
CAPITOLO XIX
FULGIDA STELLA
 
 
 
Germania, 1983
 
C’era un’atmosfera cupa a Berlino.
La sera in giro non c’era nessuno, erano ormai troppi quelli che credevano all’esistenza dei vampiri. In Inghilterra se ne parlava nei giornali, alla televisione, ovunque. C’era ancora qualcuno che diceva che era tutta opera dei terroristi, altri sostenevano fosse opera dei russi. La guerra, quella c’era sempre, nell’aria, anche se era fredda,  proprio come i vampiri. La paura dei vampiri e la paura del pericolo atomico stavano trascinando il mondo sempre più giù. Anche i vampiri avrebbero dovuto avere paura della bomba atomica no? Ma a che scopo, pensava Eike, cos’abbiamo noi da perdere?
Dopo la guerra, la Germania non aveva mai avuto modo di riprendersi, era stata schiacciata senza pietà dalle altre potenze mondiali –  come lei aveva schiacciato un intero popolo e non solo – e non lo facevano per punirla, ma per fare i loro interessi, ovviamente.
C’era stato un periodo, negli anni Quaranta, in cui ognuno, ogni mostro che era stato a imporsi nei lager, era tornato tranquillamente alla propria attività, col sorriso e modi cortesi di un’altra persona. Poi era scoppiata quella che chiamavano la grande vergogna.
La Germania era stata sconfitta, l’opera di Primo Levi era arrivata non dall’Italia, no, ma da una recondita parte di tutti i tedeschi, come un velenoso ricordo o segreto che era stato sepolto, ma non troppo a fondo.
Pochi sapevano, e avevano taciuto. Qualcuno l’aveva sentito, ma non ci aveva creduto. Molti avevano il sentore di qualcosa, ma non si erano interessati. Tanti avevano una vaga sensazione, che avevano represso. Troppi avevano sorriso, ciechi e sordi, mentre il sangue e le urla erano ad un passo da loro.
Eike tornava a Berlino ogni tanto, per vedere come stava, quella patria che odiava, e per allontanarsi da Acilia e Jacque.
Pensava di odiarla, sì, la sua città, ma in realtà non rimproverava nessun tedesco. Perché anche lui – e Jacque, e Acilia – avevano capito ed erano stati fermi. Ma loro erano già mostri così com’erano, che differenza faceva?
Rimproverava i suoi genitori forse, sì, loro. Jacque era incredulo e arrabbiato, ma degli sconosciuti dopotutto che si può sapere? È inutile additarli e giudicarli. Ma più ci pensava più si rendeva conto che anche i suoi genitori erano degli perfetti sconosciuti, per lui. Ricordava che suo padre parlava così bene delle Camicie Brune. Ricordava che lui, Eike – suo figlio dodicenne! – era stato ucciso dalle Camicie Brune.
E ora non ci sono più nazisti, pensava Eike avanzando in quella strada buia e deserta, ma la paura che prima o poi qualcosa accada, che qualcosa esploda, che qualcosa ti prenda e ti morda, ti succhi il sangue, ti uccida. La paura non finisce, la vergogna non cede il posto a niente.
C’era molto sporco in giro. Pezzi di cartone bagnati dalla pioggia abbandonati in strada, lattine di coca cola in piedi sui marciapiedi. L’aria era densa, grigia, maleodorante. Non trovava più il parco in cui giocava coi suoi compagni di scuola. I tempi erano cambiati, nulla gli sembrava come quando era bambino. Tutto evolveva – o involveva –  solo lui rimaneva sempre uguale, ennesima macchia di un mondo che stava andando a rotoli. I suoi genitori dovevano essere già morti, gli importava poco.
Acilia e Jacque avevano passato anni senza rivolgersi quasi la parola. Erano irritanti, perché si ostinavano comunque a vivere insieme. Il loro rapporto era talmente consolidato che non c’era più bisogno di parlare, ma neanche se ne accorgevano. Erano tornati in rapporti civili ma Eike non aveva visto più un solo bacio. Che lo facessero di nascosto non sembrava, si vedeva dalla faccia di Jacque.
Ma non erano i suoi genitori e lui era grande ormai per rattristarsi per queste cose.
Grande
In lontananza vedeva ergersi un alto muro di cemento armato. Era lui, era ancora lì. Il muro di Berlino, quello che dall’altra parte chiamavano Barriera di protezione antifascista, si ergeva da più di vent’anni ormai.
Eike si accertò che in giro non ci fosse nessuno e si mise a correre per raggiungerlo. Pochi secondi e con la mano poté toccare il cemento macchiato di colore. C’era una grande confusione di scritte e disegni, varie calligrafie in vari colori e varie lingue. Al di là del muro c’era quello spazio che chiamavano striscia della morte. Poi un altro muro, con altre calligrafie ma gli stessi colori e le stesse lingue.
Eike fece vagare il suo sguardo a destra e a sinistra. Il muro sembrava essere infinito. Era una cosa incredibile, separare le persone. Era questo il divertimento dell’Unione Sovietica? I tedeschi non avevano bisogno di un muro per stare separati, avevano bisogno di confrontarsi, di parlarne, di perdonare…
Lesse qualche scritta. Ce n’erano di malinconiche, ce n’erano di arrabbiate. Una frase di addio. Eike non le aveva mai lette, non c’era mai stato in quella parte di muro. Una calligrafia tremolante attirò la sua attenzione, forse perché le lettere erano grandi, forse perché c’era scritto il suo nome.
Eike, torna da me.
Sotto quella frase, intricata ad altre parole, c’era una firma, dello stesso colore, e di certo Eike non l’avrebbe notata se non avesse ben distinto una I. Dopo la I c’erano delle ondine, delle m, Eike socchiuse gli occhi. Se lo stava immaginado, certo, ma anche se non fosse stata la sua immaginazione, quante donne c’erano a Berlino che si chiamavano Imma? Tantissime. E quante che chiedevano ad un uomo di nome Eike di tornare da loro? Molte, o poche, ma di sicuro qualcuna c’era. E poi lui era morto per Imma, sua sorella non avrebbe mai pensato di…
Sei tornato da lei. Una volta.
Eike vacillò davanti a quella scritta, era come se tra le parole vedesse sua sorella, la piccola Imma, spaventata davanti a lui, e che cresceva, sempre con quell’espressione confusa e spaesata, e piangeva…
Perché l’ho fatto?
Attaccò i polpastrelli al muro, ansimando, come in cerca di qualche indizio.
Lo trovò. Di fianco alla parola Imma c’erano altre parole, era un indirizzo! Qualcuno ci aveva scritto sopra con un altro colore, maledizione! Strinse gli occhi, si ripeté che i suoi sensi erano super sviluppati e cercò di districare ogni lettera. Lesse l’indirizzo – o quello che credette di aver letto – e lo ripeté più volte per memorizzarlo. Sfrecciò via ma dove sarebbe andato? Aveva dodici anni quando era morto e non li conosceva i nomi delle vie!
Si sforzò di ricordare… un appoggio, un qualunque aiuto…
Un bar, davanti al bar tre cassonetti della spazzatura. Quel posto gli era familiare… Sentiva le scarpe che calpestavano le pozzanghere, i pantaloni gli si stavano bagnando… L’odore non gli diceva niente, niente. Era tutto così nuovo, così diverso!
Eike, torna da me.
Non è che le aveva rovinato la vita?
Fece due conti. Imma ora doveva avere… sessantacinque anni! Quanto tempo era passato… Quando l’aveva scritta quella frase? Massimo ventidue anni prima. Pensava ancora a lui? E se non fosse stata più viva? Ma dove pensava di andare?!
Smise di correre, per ragionare. Voltò la testa a destra e a sinistra. C’era una coppia di anziani signori che camminava tenendosi per mano.
Avrebbe potuto chiedere indicazioni, che problema c’era? Per loro lui sarebbe stato un innocuo bambino di dodici anni, mica avrebbero pensato che fosse un vampiro. Oppure poteva incantarli! Immaginò la faccia di Acilia se fosse stata lì presente, in quel momento critico dovevano ridurre i rapporti con gli umani al minimo (per il nutrimento)… Ma tanto li avevano già scoperti! Non c’era più niente da fare… Niente… Dall’altra parte della strada, vicino al palo della luce c’era un’altra persona, un uomo, immobile, sul ciglio del marciapiede. Aveva l’espressione ferma, a parte per gli occhi, quelli saettavano di qua e di là velocemente. Vestito tutto di nero come se fosse a un funerale, mortalmente pallido.
“Ehi, ragazzino, non dovresti girare per strada a quest’ora”.
Eike sussultò e si voltò.
Dietro di lui c’era una donna, con un braccio attorno a un cesto, che lo guardava con un misto di preoccupazione e severità sul volto. Aveva le sopracciglia folte e un accenno di rughe.
Neanche lei, signora.
“Mi sono perso, mi può aiutare?” si buttò Eike, tentando di usare i vocaboli che avrebbe usato un bambino.
Il volto della donna si ammorbidì.
“Devo andare in Oranibruger Strasse” continuò lui in fretta.
Lei alzò un sopracciglio. “Intendi Oranienbruger?”.
“Sì, forse, può essere” farfugliò lui.
“È qui vicino” rispose lei, guardandolo poco convinta, alzando il braccio libero e indicando l’incrocio davanti a loro. “Vai a destra, poi dopo un centinaio di metri giri ancora a destra. Quella è la via”.
Eike sorrise, sinceramente contento.
“Grazie mille!” esclamò.
La donna annuì e senza aspettare che lei dicesse altro, Eike si buttò in mezzo alla strada per attraversarla. Passò vicino all’uomo eretto di fianco al palo della luce e si ricordò di lui, non era certo umano.
Si fermò un attimo a guardarlo ma l’uomo non era interessato a lui. Stava avanzando, nelle sue lucide scarpe nere, verso la donna col cesto. La donna, tranquilla, non l’aveva visto, si stava allontanando nella direzione apposta.
Se ci fosse stato Jacque, avrebbe fatto qualcosa. Ma Eike non era Jacque, lo capiva quando non c’era niente da fare. E si allontanò in fretta, inseguendo quello che avrebbe potuto fare un tempo, o quello che non avrebbe dovuto, inseguendo i ricordi che riuscivano ad avere solo una fanciullesca trasparenza.
 
*
 
 
Era da un po’ che temporeggiava, il momento di divertirsi era finito. Se l’era vista brutta quella notte, ormai aveva capito che Dubris e la sua combriccola gli erano sempre alle calcagna.
Bisognava fare le cose per bene, insomma. Non voleva certo fare il vampiro scapestrato fuorilegge per sempre. No, non sarebbe stata una vita piacevole.
Alzò lo sguardo. Ad Arcangelo non riusciva mai a vedere un bel cielo stellato, anche quello gli sarebbe piaciuto. Il buio, la notte e le sue luci, una tela dipinta coi colori dell’oscurità, la sua oscurità…
Kaeso rilassò il corpo e inspirò l’aria.
Quando poi i colori del buio si macchiavano di rosso, era magnifico. Adorava il rosso. Carminio, amaranto, cremisi, scarlatto… Ogni sua sfumatura.
“Cosa stiamo aspettando?” fece Svetlana, nervosamente, appoggiata alla Dacia nera parcheggiata e impegnata a guardarsi lo smalto sulle unghie.
Kaeso si voltò a guardarla, un po’ infastidito.
“Rilassati, goditi questa serata”.
Il vento fischiava leggermente e le insegne luminose dei negozi stavano cominciando a spegnersi, in un gioco di suoni e bagliori.
Svetlana si mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio, sbuffando piano. Anche i suoi capelli, così chiari e lucenti, creavano un bellissimo contrasto, così, intagliati nella notte.
Un gruppo di ragazzi che portavano i pantaloni a vita bassissima le passarono a qualche metro di distanza e fischiarono nella sua direzione.
Svetlana fece un sorrisetto e sembrava intenzionata a muovere dei passi verso di loro.
“Ferma” le ordinò Kaeso, guardando le mutande bianche e grigie dei ragazzi che sparivano dietro l’angolo. Quanta poca eleganza.
“Potevi metterti qualcosa di meno appariscente” disse poi, guardando la sua minigonna rosa shocking.
“Certo, papà” digrignò lei, tra i denti.
“Non sono tuo padre e tu non sei mia figlia” disse Kaeso, mettendosi le mani nelle tasche dei jeans e guardando da un’altra parte. I vampiri facevano una gran confusione tra i termini creatori e genitori, creati e figli. Lui no.
Sentiva addosso lo sguardo pungente della ragazza. L’aveva creata il secolo scorso, aveva solo ventitré anni. L’aveva trovata in mezzo ad una strada.
“Kaeso” fece una voce perplessa.
Finalmente.
Kaeso alzò lo sguardo e il suo sangue ribollì per l’emozione.
Lyuben era in piedi, davanti a lui, la giacca nera chiusa, delle chiavi in mano. Aveva l’aria vagamente confusa, ma non allarmata.
Kaeso balzò in avanti, superando la Dacia. Gli conveniva cambiare macchina ogni tanto, a Lyuben, per evitare di essere seguito.
Il biondo recuperò un’espressione pacata. “Una bella serata, non è vero?”.
Ti converebbe arrestarmi subito, e lo sai.
“Non c’è neanche una stella” obiettò Kaeso, fermandosi a pochi metri da lui. Lyuben non l’avrebbe mai attaccato. Erano le nove di sera e ancora la gente era in giro.
“Bella macchina” disse ancora lui, accennando alla Dacia. Di nuovo guardò fisso il Presidente. “Non trovi più pratico volare?”.
“Io mi voglio integrare, Kaeso” rispose l’altro, tranquillo “E gli umani non volano”.
Kaeso non riuscì a trattenere una grossa risata. “E dove volevi andare, caro Lyuben, con questa bella macchina e senza scorta? A integrarti?”.
“A pregare. E volevo essere solo”.
Kaeso alzò un sopracciglio e fissò lungamente il suo nemico. La vaga aria di un quarantenne, sicuro nella bocca, preoccupato nella fronte.
“Pregare?” ripeté lui “Lyuben, sei nato tremila anni fa, dovresti saperlo che non c’è nessuno da pregare”.
“La religione è ciò che serve agli umani per trasforamare il caos, l’indistinto, in qualcosa di definito” rispose l’altro, tranquillamente “E noi non siamo così diversi da loro, solo che ognuno ha la propria, di religione”.
Kaeso si sentì toccato dall’argomento. Sapeva bene che non doveva perdere tutto quel tempo, ma era interessato. Il cielo continuava ad essere blu scuro, i passanti non li degnavano di uno sguardo, Svetlana dava leggeri segni di impazienza e di nervosismo. Era tutto racchiuso in un momento che non sarebbe mai più tornato, che senso aveva sprecarlo?
“Parli di Caino? Non crederai a quelle fandonie” disse, con una smorfia.
I fanatici credevano che il primo vampiro fosse stato Caino, che da Caino derivasse la stirpe dei vampiri, e da Abele quella degli umani.
“No” rispose Lyuben “Parlo di una storia che probabilmente tu non potresti capire”.
Kaeso aggrottò la fronte. Non conosceva alcun vampiro più vecchio di Lyuben, nessuno… Che fosse stato lui il primo? Il vero Creatore? Non credeva in Caino perché non credeva in Dio, ma qualcuno, qualcuno doveva pur aver cominciato a generare qualcun altro!
“Sei così convinto che non esista Dio, Kaeso” proseguì Lyuben “Non credi nelle cose inspiegabili? Non credi nelle cose paranormali? Dovresti aver cominciato a crederci quando sei stato trasformato”.
Si stava avvicinando e Kaeso avvertì per la prima volta un accenno di nervosismo. La sentiva quasi nell’odore, la potenza del vampiro che aveva di fronte. La verità era che aveva smesso di credere a qualsiasi cosa, quando era stato trasformato. Tutti gli dei gli si erano ritorti contro, e lui aveva voltato le spalle a loro.
“Dove saresti andato a pregare?” domandò, quasi in un bisbiglio “Sulla tomba di chi?”.
Il volto di Lyuben era impassibile e il sibilo di Kaeso si fece più arrabbiato: “Dimmelo!”.
Il biondo lo guardava dritto negli occhi, senza la traccia di alcuna sfida. “Lo vedi, Kaeso, che anche tu hai bisogno di trasformare l’indistinto in qualcosa di definito?”.
Kaeso tentò di mantenere la calma ma Lyuben lo afferrò per la mascella, lo stringeva fortissimo, gli faceva un gran male. Gli sembrava che la sua faccia si stesse sciogliendo. Svetlana fece un passo avanti con un mormorio ma Kaeso alzò una mano per fermarla.
“Vorrei arrestarti” disse il presidente, una traccia maligna negli occhi, senza mollare la presa “Ma immagino che mi renderai la cosa impossibile, non è vero? Non sei uno sciocco, sarai venuto ad affrontarmi con i dovuti rinforzi”.
L’osso, l’osso gli si stava rompendo… Ne sentiva il rumore, sentiva il sangue, che affluiva nella sua faccia, che sgorgava dal naso…
Kaeso provò ad afferrare il polso del suo nemico, e a spingerlo. Sembrava fatto di acciaio.
“Non ti dirò niente a proposito del mio creatore” continuò Lyuben, conservando ancora quell’aurea malvagia che non apparteneva al suo viso “Non ti darò la possibilità di dare un senso alla tua vita, non ti darò nessuna speranza di redenzione”.
Così come era cominciato, il dolore cessò. Lyuben l’aveva lasciato andare con un gesto sprezzante e si era allontanato di un passo.
Kaeso fece un debole sorriso, mentre sentiva la sua faccia lavorare per tornare come prima, e il dolore riprese a martellargli nel mento, ma lui lo ignorò.
Habere et non haberi, come disse D’Annunzio” disse, con un lieve fiatone. Allargò le braccia e alzò la voce. “La vita è una gigantesca opera d’arte, da plasmare come vuoi! È questo l’unico senso della mia vita, del resto non me ne frega nulla”.
La malvagità che Lyuben aveva mostrato poco prima parve scivolare via come un drappo che cade dalla testa, fino ai piedi. Manifestava solo malinconia.
“Se devi sempre dire ciò che hanno già detto altri” disse, mestamente “significa che in realtà tu da dire non hai niente”.
Fece per avvicinarsi di nuovo a lui, con più cattiveria, con l’intenzione di ucciderlo forse ma poi si fermò, un urlo che gli deformava il volto e le mani, brucianti, che cercavano di togliersi di dosso ciò che gli aveva appena cinto il collo, una catena d’argento.
Qualcun altro urlò e Kaeso si voltò.
Un gruppetto di quattro umani stava guardando la scena a bocca aperta.
“Sve” disse lui, prontamente “Pensaci tu”.
Svetlana si mosse velocemente, compiaciuta e lui tornò a fissare Lyuben, intrappolato ormai nella stretta di più catene d’argento, macchiate di sangue, accerchiato dai suoi compagni.
Lo guardava, non spaventato, neanche arrabbiato, quasi rassegnato.
Kaeso alzò lo sguardo al cielo, mentre sentiva i passi dei fuggitivi e le grida della gente.
Era apparsa una stella, splendente perché unica. Una macchia fulgida e brillante nella tela nera dell’universo.
Sorrise, poi il sorriso si spense, come se qualcuno avesse premuto l’interrutore, spento la luce, e quasi si aspettava che anche la stella svanisse.
Bright star” recitò, a bassa voce, immaginando la natura e la poesia di Keats. L’amore? “Would I were stedfast as thou art…”
Abbassò lo sguardo, incrociando quello di Lyuben, i capelli biondi, luminosi nella notte come la stella, rosso di sangue, in ginocchio, legato, i denti che digrignavano e gli occhi che non esprimevano però, inspiegabilmente, alcuna sofferenza.
Poi il prigioniero, con un urlo, le mani e il volto ustionati, grondante di sangue, allargò le braccia, si liberò dalle catene e si rialzò in piedi.
 
 
 
 
Inghilterra, 1983
 
Qualcuno stava bussando alla porta. Jacque poggiò ben volentieri il giornale sul tavolo e si alzò dalla sedia. Non gli piaceva proprio per niente la lingua inglese, non l’avrebbe mai imparata correttamente. Nervosamente, sbirciò oltre le tende delle finestre e subito rimpianse la lettura di inglese che si stava infliggendo. Dubris era fuori dalla porta.
Jacque contemplò per un momento l’idea di lasciarlo lì poi decise di infischiarsene e di andare a sentire cosa volesse.
Aprì la porta, consapevole di avere un’espressione ostile in volto.
Dubris parve sorpreso di vederlo, per un attimo quasi in imbarazzo.
Mi prendi in giro?
Jacque si sentiva vagamente intimidito da lui. Fisicamente era più vecchio di lui ed era morto da molto più tempo, era molto più alto ed era stato vicino ad Acilia per cinque secoli.
“Cercavi Acilia?” domandò il giovane, con una piccola smorfia.
Dubris esitò. Poi disse: “Sì”.
“È andata a mangiare”.
“Non cacciate insieme?”.
Jacque alzò le sopracciglia. Non erano affari suoi. “Non più”.
Nessuno disse niente per un po’, poi il rosso chiese: “Eike come sta?”.
Jacque non poté non stupirsi per la domanda. “Sta bene. Al momento è a Berlino”.
“Da solo?”.
“Sì”. Jacque incrociò le braccia e inarcò le sopracciglia. “Se la sa cavare”.
Dubris non sembrava convinto. “Certo”.
Jacque attese che il visitatore disse qualcos’altro, ma non diceva niente e si accinse a rientrare.
“Volevo dire” esclamò subito Dubris. Fece una pausa. “Volevo ricordare ad Acilia che tra poco ci sono le elezioni, per il nuovo presidente”.
Lo scrutò. “Tu… Non puoi ancora votare, vero?” aggiunse.
“No” rispose Jacque, secco.
“Finalmente si cambia” disse il rosso, con un’alzata di spalle. Si sforzava di essere cordiale, ma gli veniva malissimo. “Anche se ormai temo che il danno sia già stato fatto”.
A Jacque poco importava che gli umani li avessero scovati. Gli dispiaceva che il panico dilagasse, certo, ma lui… Che ci poteva fare? In ogni caso doveva vivere nell’ombra, nascosto, come se fosse qualcuno di orribile, qualcosa di sbagliato, e, dopotutto, lo era, lo sapeva di esserlo.
Fece un cenno di assenso e di nuovo fece per rientrare.
“Tu mi odi, Jacque” disse Dubris d’un tratto, abbandonando quella finta espressione cortese che aveva dipinta in faccia “Perché credi che io ti abbia portato via Acilia”.
Jacque sgranò gli occhi. Gli avrebbe volentieri sbattuto la porta in faccia.
Se ne stava lì, nella sua felpa color mattone, ad accusarlo di cosa? Anche se erano più scuri, i suoi occhi erano gli stessi di Acilia… Freddi, opportunisti! Erano tutti uguali.
“Se proprio devi credere che sia una sfida tra noi due” continuò Dubris “ricordati che tu sei venuto dopo”.
Jacque sentì un moto di stizza. Dovette trattenere l’impulso delle sue zanne di saltar fuori.
“E quindi sarei io che te l’ho portata via?” sbottò.
Dubris teneva lo sguardo abbassato su di lui, fermo e deciso. “È lei che ci ha portato via entrambi”. Fece un sorrisetto frustrato. “Non ama nè te nè me, renditene conto. Ama solo se stessa”.
Jacque sentì la rabbia invaderlo. Gli veniva da prenderlo a pugni, un gesto insensatamente umano.
Ama solo se stessa.
Ci aveva pensato anche lui, tante volte, ma poi la rivedeva con le lacrime che non poteva avere, mentre lo proteggeva, lo teneva con sé, il loro stupido modo di vivere.
“Se pensi questo di lei” disse, con calma ma serrando i pugni “puoi anche smettere di ronzarle intorno”.
Dubris gli si avvicinò con sguardo truce. Aveva gli occhi, piccoli, stretti, nessuna luce al loro interno. La mascella protesa, le parole vennero fuori quasi forzatamente, e ringhiose: “Credi di aver capito già tutto. Sei solo l’ultimo arrivato”.
Jacque non riuscì a trattenersi. La sua rabbia era la stupida rabbia di un ragazzo che voleva difendere la sua donna e se stesso, o l’idea di loro insieme, o semplicemente la sua dignità. Le zanne spinsero e, prima di rendersene conto, la sua mano era stretta intorno al collo di Dubris.
Quello emise una risatina. Poi scacciò via il suo braccio, come se scacciasse una mosca.
Per un momento Jacque temette che lo colpisse ma poi il rosso scosse la testa e biascicò qualcosa come vampiro infante.
“Ti saluto, Jacke” disse poi, pronunciando il suo nome con un forte, fastidioso, accento inglese.
Jacque non rispose e quello gli voltò le spalle, e si allontanò.
Tornò in casa e sbatté forte il portone per la rabbia. Non voleva pensare ad Acilia, non voleva! A volte pensava che lui ed Eike se ne sarebbero dovuti andare a vivere da un’altra parte. Ma cos’avrebbero fatto? Lei era la sua creatrice…
Appunto, è la tua creatrice e basta.
Ricordava quando Acilia gli spiegava che era complicato, che creatrice e creato non potevano stare insieme! Ma che significava, non era mica sua madre… E allora perché diavolo non si metteva insieme a Dubris? Lui era più vecchio, più esperto e non era suo.
Jacque, cosa ti aspettavi? Noi non siamo umani, non possiamo fare quello che fanno gli umani.
La stessa cosa valeva anche per Dubris dopotutto. Loro non era umani, e basta.
Ama solo se stessa.
Vaffanculo, pensò Jacque, buttandosi sul divano, senza sapere se si riferiva a Dubris o ad Acilia. Forse a se stesso, o a tutto il mondo, che gli faceva sempre più schifo.
E non gliene fregava proprio un cazzo delle elezioni.
 
*
 
 
Lyuben era ancora più forte di quello che pensava. Le catene ai suoi piedi, le lunghe e affilate zanne ben in vista, noncuranti della folla, lottava per salvarsi. Manuel era già a terra, e dopo poco il suo corpo sparì, lasciando spazio alla sua vera consistenza, sangue e basta.
Kaeso lanciò un sommesso grido di rabbia, mentre Lyuben teneva testa a tre dei suoi, contemporaneamente. Uno lo teneva fermo per un braccio, l’altro per la testa, il terzo con la bocca, lo stava mordendo, e sangue sporco, nero, usciva a fiotti da ogni foro della sua pelle.
Gli umani correvano di qua e di là, una sirena gli preannunciò l’arrivo dei cacciatori. Era ovvio che sarebbero arrivati, ma Kaeso pensava che per quel momento loro avrebbero già finito il lavoro.
Fece vagare il suo sguardo inquieto sui suoi compagni. Alcuni tentavano di aiutare i loro amici in difficoltà, altri guardavano Kaeso spaesati, in attesa di istruzioni.
“Svetlana, Christoph, Philippe, Andrea e Katrin” sbottò, nominando alcuni, facendo attenzione a mescolare giovani e vecchi “Voi occupatevi dei cacciatori e degli umani”.
Quelli fecero un passo in avanti e corsero verso la folla di umani che si stava disperdendo, e stava lasciando posto a uomini corazzati e armati.
Gli umani erano stupidi, se se ne fossero stati buonini nessuno di loro si sarebbe fatto male. No, quella sera tutte le energie sarebbero dovute essere dedicate a Lyuben, non c’era tempo di festini. E invece gli umani dovevano intromettersi, benvenuti allora! E, terrorizzati, forse si chiedevano perché mai dei vampiri lottassero tra di loro. La stessa domanda che poteva porsi un gatto, un cane o un uccello, vedendo continuamente gli umani in lotta tra loro. Era tutto così chiaro, era un altro segno del fatto che loro vampiri fossero ad uno scalino più avanzato dell’evoluzione umana!
Kaeso estrasse dalla tasca della giacca dei guanti neri e li indossò velocemente. Afferrò una catena d’argento e si buttò nelle esplosioni di sangue che stavano avvenendo attorno a Lyuben, e ogni esplosione era un nome, un urlo e la violenza e la rabbia che crescevano, sempre di più.
Spiccò il volo e lanciò un estremo della catena addosso a Lyuben, non curandosi degli altri che venivano colpiti. L’argento non li avrebbe uccisi.
Lyuben, il volto ricoperto di sangue e piaghe, cadde.
“Avanti! Legatelo!” gridò Kaeso, lasciando cadere la catena.
Con varie smorfie e ringhii, Patrick e Florian, i due che erano addosso a Lyuben, feriti in volto, afferrarono la catena nei guanti e legarono il presidente, tenendogli braccia e gambe ferme. Lui pareva esausto, disperato, l’argento gli bruciava il viso e le mani, e lo immobilizzava. Non sembrava più avere alcuna forza, sdraiato a terra, col respiro pesante, le pelle rossa che fumava.
Ci furono degli spari e Kaeso alzò lo sguardo verso i cacciatori, allarmato. Svetlana era ancora in piedi, lei e gli altri li tenevano impegnati, ma qualcuno era stato colpito? Non sentiva niente dentro di sé, se qualcuno era stato colpito non era un suo creato, ma il pensiero lo spaventava. “Andate ad aiutare gli altri!” ordinò a Patrick e a Florian. Quelli, esausti, si stavano riprendendo e non si mossero. Kaeso urlò l’ordine più forte, più cattivo e i due, senza dire niente, presero il volo. Non gli importava quanto fossero stanchi, dovevano aiutare gli altri, non doveva morire nessun altro! Tutto per colpa di…
Diede un poderoso calcio al corpo di Lyuben, che incassò come un sacco di patate. Tossiva, dalla bocca e dal naso colava sangue.
Kaeso si chinò su di lui e lo afferrò per i capelli che ricordava biondi, ma ora erano neri e rossi, sporchi, appiccicosi, morenti. Anche loro non erano altro che sangue.
Tirò i capelli e gli inclinò la testa violentemente, costringendolo a guardarlo.
Lyuben ricambiava lo sguardo, senza espressione. Ma il suo corpo, rinchiuso nell’abbraccio d’argento, tremando, lo tradiva.
“Dimmi, Lyuben” disse Kaeso, dolcemente, tirando senza pietà “Che cosa rimpiangerai di più? Non aver realizzato il tuo patetico sogno di integrazione? O non essere riuscito a fermarmi?”.
Il suo nemico lo guardava con odio, dagli occhi chiari uscivano rivoli di sangue. L’azzurro, il rosso e il bianco si mescolavano ma lui chiuse le palpebre e digrignò i denti, mentre le braccia si muovevano freneticamente.
“O ti dispiace lasciare da soli i tuoi amichetti? Lasciare sola Ramona?” continuò Kaeso, melenso.
Lyuben soffocò un grido.
Kaeso tirò più forte i capelli. “Non rispondi, Lyuben? Dov’è finita la tua galanteria?”.
Gli prese il volto, arrabbiato e gli strinse con una mano le guance. “Guardami!”.
Lyuben aprì a fatica gli occhi, ma quelli non esprimevano più niente.
“Non ti chiedi cosa c’è dopo la morte?” sbottò Kaeso, arrabbiato “Non hai paura di morire davvero?”.
Il biondo aprì la bocca e tossì. Poi disse, con parole lente, ansanti e sofferenti: “No, perché io… Lo so… Cosa c’è. Dopo. Tu non lo sai. Tu avrai sempre… paura”.
Furioso, Kaeso gli afferrò la testa e tirò con tutta la potenza che aveva. L’ultima parola che lesse sulle labbre di Lyuben era molto simile al nome di Ramona e lui tirò così forte che sentì la pelle che gli veniva via dalle mani.
Il collo di Lyuben Vladimir si strappò in più punti, e il sangue, come desideroso di vedere finalmente il mondo, uscì subito, ciascun rivolo rincorreva l’altro. Il corpo ricadde su se stesso e, con la sua testa tra le mani, Kaeso si alzò da terra e lanciò un grido di trionfo.
La battaglia tra vampiri e cacciatori era ancora in atto, gli spari e le grida erano la colonna sonora di quel magico momento.
Poi la testa di Lyuben si deformò come un pallone che si sgonfiava ed esplose, imbrattando di sangue il braccio di Kaeso, e lasciando posto a un pezzo di cielo, all’universo, all’ignoto, che lui non poteva più sperare di capire. La stessa stella che aveva visto poco prima brillava ancora più intensamente e il piacere lo invase, come luce che arriva dalle tenebre.
To feel for ever its soft fall and swell,
Awake for ever in a sweet unrest,
Still, still to hear her tender-taken breath,
And so live ever, or else swoon to death…
 
*
 
 
Eike vagava avanti e indietro, lungo quella via. C’erano varie palazzine, in quale avrebbe trovato l’illusione che cercava?
Una ragazza dai ricci capelli biondi e con un lungo vestito celeste stava camminando con delle buste, davanti a lui. Eike la seguì e quando lei si mise di profilo, di fronte a una porta, Eike dovette trattenere l’impulso di urlare “Imma!”.
Ci assomigliava così tanto, quella ragazza. Aveva il suo stesso profilo, i suoi stessi capelli.
La porta si aprì e lei scomparve alzando le scarpine nere.
Eike avanzò piano e titubante verso quella casa. Era uguale a tutte le altre, in cemento. Eike non ricordava di aver vissuto mai in una casa così. Erano abitazioni strane, che non sentiva come sue, non le sentiva autentiche.
Alzò lo sguardo. La casa era a due piani e c’erano due balconi, uno per piano. Avrebbe potuto spiare da lì, ma come ci sarebbe arrivato? Non c’erano appigli, nulla. E se qualcuno fosse passato di lì cos’avrebbe detto nel vedere un ragazzino che si arrampicava sul balcone di una casa?
Raccolse una cartaccia da terra che piegò accuratamente in quattro parti e, dopo grandi attimi di esitazione, e si ritrovò a bussare alla porta.
La stessa ragazza di cui aveva visto la nuca e il profilo aprì con aria interrogativa.
Eike notò che aveva gli occhi più grandi di Imma, erano quasi sproporzionati rispetto alla faccia.
“Sì?” fece.
Eike sventolò in fretta il foglio piegato che aveva in mano. “Devo consegnare un messaggio alla signora…”. Esitò. Signora cosa? Qual era il cognome di Imma ora? Si era sposata? Decise di tentare. “Imma Lehmann”.
Per un momento pensò che la ragazza gli dicesse che non esisteva nessuna Imma Lehmann e che aveva sbagliato casa. Ma poi sbatté le palpebre dei suoi grandi occhi e tese la mano.
“Dammi pure, glielo consegnerò io”.
“No” disse subito Eike “Devo darglielo personalmente”.
La ragazza fece una risatina. “Ma chi sei?”.
“È una cosa importante”.
Quella ancora rideva.
“Mia nonna non vive qui” disse dopo un po’ “Hai sbagliato, abita nella casa qui affianco”. Indicò verso destra.
Nonna.
“Ma ti ripeto che puoi darlo a me, lo darò a mia madre. Tanto va a trovarla spesso, le può…”.
“No, non importa, grazie mille” disse Eike in fretta, facendo un abbozzo di inchino.
La ragazza incrociò le braccia al petto e di nuovo ridacchiò, con una vaga traccia di imbarazzo. “Sei un ragazzino strano”.
Eike la ignorò, pensando che gli sarebbe piaciuto entrare per conoscere sua madre. La figlia di Imma…
“Allora ciao” disse la ragazza, la porta in mano.
“Ciao” fece Eike, debolmente, guardandola bene, cercando di imprimersi la sua faccia nella sua memoria. Ma poi la porta si chiuse e lui ebbe l’impressione di aver già dimenticato tutto, anzi, che l’avesse solo sognato.
Si fece coraggio e corse di fronte alla casa subito a destra.
Suonò il campanello e attese. Dopo quella che parve un’eternità una voce rugosa chiese: “Chi è?”.
Eike trattenne il respiro. Cosa doveva dire? Se diceva la verità gli avrebbe aperto la porta? Ma era lei che voleva rivederlo, no?
“Eike” rispose, con un filo di voce.
La voce non disse nulla. E poco dopo la porta si aprì.
Eike alzò lo sguardo e vide una donna alta, col viso segnato dalle rughe, i capelli grigi legati in una crocca. Ma gli occhi erano gli stessi che lui ricordava, quegli occhi vispi e attenti, indagatori del mondo.
Lasciò andare un debole urlo, con aria spaventata. Si guardò intorno, nervosamente, poi si spostò, invitando Eike ad entrare.
Lui obbedì, sentendo che le sue gambe leggere e veloci si erano improvvisamente fatte di piombo.
Imma chiuse la porta e non si voltò. Si teneva una mano sul petto e sussurrava con voce tremante: “Oh Signore… Oh Signore…”.
Si voltò piano e aveva ancora gli occhi sgranati. Dopo un po’ disse, con la stessa voce fioca: “Pensavo che questo giorno non sarebbe mai arrivato”. Aveva un debole sorriso, racchiuso tra due piccole strisce di pelle bagnata dalle lacrime. Si avvicinò a lui con una mano protesa, ma poi la ritrasse, come se avesse paura di toccarlo.
“Vieni, siediti” disse poi, scostando lo sguardo e avanzando verso una stanza. Camminava piano, come se fosse stanca.
Eike la seguì in quella che doveva essere la cucina. Lei si sedette al tavolo e lui fece altrettanto.
“Come… Come mi hai trovata?” domandò lei.
“Ho letto l’indirizzo sul muro”.
Imma aprì la bocca in una mezza risata incredula. “Quel dannato muro… Allora serve a qualcosa. Chi l’avrebbe mai detto, ho scritto quella frase… quanti saranno? Quindici anni fa?”. Eike vedeva i suoi occhi saettare su di lui, in ogni angolo, non stavano mai fermi. “Sei proprio uguale” disse poi lei “Sei… come in una foto”.
“Ho visto tua nipote” ribatté Eike.
Imma sbatté le palpebre. I suoi occhi per un momento si fermarono. “Quale?”.
“Era una ragazza… Quindici, sedici anni, forse”.
“Quindici” confermò Imma, annuendo “È sempre fuori casa quella ragazza… Non lo capisce che…”. Sospirò, senza finire la frase.
Eike le si avvicinò. Non riusciva a smettere di guardarla, come lei non riusciva a smettere di guardare lui. Lui cercava i cambiamenti in lei, lei cercava i suoi ricordi.
“Non ha paura dei vampiri?” domandò.
“Non ha paura di niente, di nessun demone” rispose Imma, abbassando lo sguardo  “Neppure di quelli del passato”.
Demoni del passato, ripeté Eike riflettendo.
Imma tornò a puntare gli occhi su di lui, di colpo, come se si fosse improvvisamente ricordata di qualcosa.
“Chi è stato, Eike?”.
Chi è stato.
“Mi hanno ucciso le Camicie Brune, in un vicolo, per sbaglio” rispose lui “Colui che mi ha riportato alla vita, se si tratta di vita, non ha alcuna colpa”.
Imma aveva l’aria nauseata. Poi si riprese. “Come sei cambiato”.
“Non è vero”.
“Sì, parli in modo diverso”.
Eike fece spallucce. “Gli anni passano anche per noi, solo che vanno molto più lenti”.
Imma non diceva più niente. Gli occhi erano ancora sbarrati. Ma ci credeva davvero a quello che stava vedendo? Eike si aspettava di sconvolgerla di più. Ma Imma… Imma riusciva sempre a sorprenderlo.
“Nostro padre si era arruolato nelle SS, Eike” disse finalmente la donna, con un sospiro “Ed è una cosa per cui non smetterò mai di provare vergogna. Ma sapere che è colpa loro se…”. Non finì la frase, gli occhi brillarono di nuovo di lacrime.
Eike non si sorprese. Suo padre era lontano anni luce.
“È morto?”.
“Sì, anni fa. Anche la mamma”.
Eike non disse niente e Imma continuò: “Se fossero vissuti qualche anno in più, avrebbero scoperto dell’esistenza dei vampiri anche loro e, forse, mi avrebbero chiesto scusa”.
Eike si ritrovò di nuovo a trattenere il fiato mentre la solita pioggia di domende lo assaliva. Cos’era successo ad Imma dopo la sua riapparizione? Cos’aveva pensato? Cos’aveva detto? Stava annegando, tra le domande.
Imma dovette leggergli nella mente, ma disse semplicemente, e senza l’ombra di un rimprovero: “Non mi credevano. E dopo un po’ smisi di credermi anch’io. Ma quando la gente ha cominciato a parlare di vampiri, io lo sapevo fin da subito che non erano fandonie”.
Eike non ebbe il tempo di dire niente perché Imma non smetteva di parlare. “Avrei voluto lottare di più, avrei voluto continuare a credere a quello che avevo visto… Avrei voluto anche trovare un modo per dire a nostro padre di smetterla. Di ascoltarmi, di non seguire Hitler, di non cercare la guerra, di pensare di più a noi!”. Fece una pausa, come se una sola parola in più l’avrebbe fatta esplodere. Le lacrime scorrevano lungo la pelle bianca e ruvida. “Ma ero solo una bambina”.
Anche Eike avrebbe voluto lottare di più. Neanche sapeva per cosa, forse contro il mostro che stava nascendo dentro di lui, contro i suoi impulsi.
“Raccontami della guerra” disse. Pensava a Jacque, a come avrebbe voluto lottare, una lotta tutta umana, e quasi più mostruosa di loro.
“Si può solo ricordare, solo ricordare fino allo sfinimento” fece Imma, stringendo le labbra.
I demoni del passato.
“Quando Thomas Mann fece quell’annuncio alla radio, quando parlò di Auschwitz e delle camere a gas, la mamma mi disse che non era vero niente. Ho pensato che mi stesse mentendo ma solo dopo ho capito che noi non crediamo alle cose che non hanno senso di esistere, non le accettiamo. Non aveva voluto mentirmi davvero”.
Eike cercò di rispecchiarsi negli occhi luccicanti di Imma. Se avesse potuto piangere, forse avrebbe voluto ricordare anche lui. “Io preferisco dimenticare… tutto quello che ho fatto”.
Imma sospirò, posandosi una mano sul petto, ricoperto da un maglioncino grigio. “Sulle cose che non possiamo comprendere, il giudizio deve restare sospeso, in eterno”. Lo guardava dritto negli occhi.
C’erano tante cose che Eike non comprendeva, ma non poteva essere una giustificazione! Avrebbe voluto essere come Jacque, fin da subito. Lui ci era riuscito, non era impossibile.
“Da quanto tempo esistono i vampiri, Eike?” domandò Imma, mantenendo fermo lo sguardo.
“Non lo so” rispose lui, sinceramente “La creatrice del mio creatore ha millenovecento anni, ma non è la più vecchia”.
Imma sgranò gli occhi. “E ce ne siamo accorti solo ora…”.
Eike abbozzò un sorriso. “Nessuno ci credeva, perché non aveva senso” disse, ripetendo le parole di Imma.
Lei non ricambiò il sorriso. Era avvolta in una glaciale maschera di paura, che solo dopo qualche secondo si sciolse un poco. Lanciò uno sguardo fuori dalla finestra. I vetri erano appannati e goccioline di umidità scivolavano sul vetro.
“Non ho mai conosciuto la pace, Eike…”.
“I vampiri hanno un sistema politico” disse Eike, senza neanche pensare “È appena finito il governo di un pazzo incosciente, vedrai che le cose andranno meglio”.
Imma era stralunata. “Sistema politico?”.
“Abbiamo delle leggi. Non siamo dei mostri sanguinari, non tutti. Quelli come me si nutrono senza uccidere”.
La donna aveva ancora quello sguardo allibito, poi ad un tratto si alzò e circondò Eike con un abbraccio. Quello si sentì come paralizzato, mentre la sorella scoppiava a piangere. “Lo sapevo… Lo sapevo che non eri… Non eri…”. Non riusciva a finire la frase ed Eike capì che lei aveva avuto paura di lui. Aveva paura di quei demoni di cui aveva parlato subito, i demoni del presente, e del passato, che si mescolavano in una danza dell’orrore e la tenevano appesa ad un filo. Aveva paura per se stessa, per i suoi figli, i nipoti… Quella ragazzina che aveva riso davanti ad Eike, sulla soglia di casa sua, non aveva conosciuto l’assurdità terribile del passato e non si rendeva conto del pericolo del presente.
“Imma” fece Eike, con l’immagine di quegli occhi grandi e ignari ancora in mente “Dov’è tuo marito?”.
Lei si staccò dall’abbraccio e si portò una ciocca di capelli bianchi uscita dall’acconciatura dietro l’orecchio. “Siamo separati da vari anni ormai”.
“Oh. Come mai?”.
Imma scrollò le spalle. Lentamente, si sedette di nuovo. “Quando mi sono sposata ero così giovane… E solo perché volevo fuggire da quella casa”.
Eike annuì. Poteva comprendere, forse… No, non poteva. Lui non avrebbe mai amato, mai, nessuno…
“Mi piacerebbe conoscerli i tuoi figli e i tuoi nipoti” disse.
Imma sorrise, scuotendo la testa. “E come ti dovrei presentare? Farebbe male a me, e soprattutto a te”.
Eike si mordicchiò il labbro, incupendosi.
“Non puoi, Eike, non sarebbe giusto”.
Lui si limitò ad annuire, poi comprese quello che lei intendeva. Gli avrebbe fatto male conoscere la vita che era andata avanti dopo di lui, conoscere quello che lui avrebbe potuto fare, quello che avrebbe potuto essere, pensare di poter avere ancora una vita umana… Doveva andarsene da lì.
Si alzò.
“Meglio che torni a casa” disse. Qui non c’è posto per me.
“Qual è la tua casa?” chiese Imma, con una leggera ansia “Dove vivi? Con chi?”.
“Sto in Inghilterra” rispose lui “Con la mia attuale famiglia”. L’unica che poteva avere, e dalla quale doveva tornare.
Fece per dirigersi verso la porta e lei lo seguì, più velocemente che poteva. Faceva fatica a stargli dietro, neanche si rendeva conto, lui, quanto camminava in fretta.
“Eike” lo chiamò “Ti ho sempre voluto dire una cosa…”.
Lui si voltò e la guardò, confuso.
“Mi dispiace” dichiarò lei, asciugandosi gli occhi. “Mi dispiace…”.
Eike non capiva. “Per cosa?”.
“Per tutta la paura… Quelle storie… Ti spaventavo e basta”.
Se Eike non avesse saputo tutte quelle storie coi vampiri, forse all’inizio non si sarebbe sentito così potente, non sarebbe stato così contento.
Fece un sorrisetto. “Eri troppo sveglia per avere un fratellino fifone come me”.
Era arrivato il momento dell’addio, quell’addio che si era negato cinquant’anni prima, che aveva sprecato a causa del suo stupido infantilismo, ora era veramente arrivato. E lo sapeva anche Imma, che piangeva, e sorrideva, allo stesso tempo.
“Hai realizzato il sogno di ogni bambino… E-essere un eterno P-Peter Pan, insegui la tua stella, e non… Non ti fermare…”.
Lo abbracciò di nuovo, più a lungo. Tremò. “Come sei freddo…”.
Eike ricambiò l’abbraccio, la strinse forte, in quel corpo debole, che presto sarebbe morto… E lui no, mai, mai…
Senza più dire niente, si staccò da lei, guardò per l’ultima volta quegli occhi azzurri, i più intelligenti che avesse mai conosciuto, e uscì. 
 
*
Il posto del presidente era vuoto.
Era strano che Lyuben fosse in ritardo, non era da lui. Tutti se n’erano accorti, e nella sala c’era un po’ di trambusto.
Acilia notò che i mormorii provenivano soprattutto dall’ala destra. Il PO era cresciuto esponenzialmente. Erano la maggioranza, e questo le faceva intuire qualcosa, forse… Cosa succede quando la maggioranza cambia? No, si diceva, bisogna aspettare le prossime elezioni.
“Ma dov’è Lyuben?” fece Victorie, con aria preoccupata. Si voltò verso Ramona, in attesa di spiegazioni. Ma lei si limitò a dire che non lo vedeva dalla notte prima. L’espressione concentrata di Victoria, come se avesse un sospetto, come se temesse qualcosa, si trasferì in un baleno sul volto di Ramona che subito cercò il suo creatore, tra le file dei prefetti. Acilia seguì la traiettoria del suo sguardo e vide lo stesso terribile sospetto negli occhi di Dubris. E i mormorii dei membri del PO erano sempre più eccitati…
Acilia serrò in pugni. L’euforia… Era sempre un cattivo segno, l’euforia.
La porta al di sotto delle loro panche si aprì, una folata di vento, dei passi veloci, un volto ghignante, euforico.
Acilia si sentì agghiacciare il sangue, terribilmente, mentre Kaeso dichiarava di aver ucciso Lyuben e di essere il nuovo presidente. Dubris e molti altri si alzarono in piedi ma gli scagnozzi di Kaeso sembravano già pronti ad attaccare, a tutto pur di difendere il loro orribile impero, ed erano più di loro.
“La scorsa notte è stata fatta la storia, amici miei” disse Kaeso, con lo sguardo dritto in quello di Acilia “Ora si fa sul serio”.
 
L’urlo disperato di Ramona… Ancora le risuonava nelle orecchie, sarebbe risuonato in eterno.









Non pensavo che ce l'avrei fatta, invece, scrivendo piano piano una paginetta al giorno, sono riuscita a pubblicare prima del fatidico esame XD 
Dunque, il capitolo, come si evince dal titolo, sarebbe una specie di omaggio al poeta inglese Keats. Il fatto che Kaeso reciti un pezzo della sua poesia Bright star dovrebbe risultare grottesco: i puri versi che Keats indirizza alla sua amata Fanny sono per Kaeso indirizzati alla sua distorta e folle concezione di arte. Spero sia passata quest'idea, e che la cosa non sembri solo una vaga forzatura che non c'entra niente con tutto il resto.. XD 

Nene, grazie mille per i complimenti! E' importante per me sentirmi dire che non sono sempre uguale a me stessa, perché a volte ho proprio l'impressione contraria.. I personaggi pure mi sembrano tutti uguali, sarà perché uso per tutti loro la stessa "lingua", ma, ahimè, l'italiano medio di oggi è l'unica lingua che conosco.. Quindi mi fa un sacco piacere quello che hai detto ^^  Sì, Eike si comporta da un bambino perché è questo che è, è patatoso esatto XD un patato un po' macabro.. ma fase superata XD Per quel che riguarda Emily, ti correggo. Sono andata a rileggere per paura di essermi espressa male però non mi pare: ad Emily non è tornata la malsana idea di farsi trasformare tranquilla XD Semplicemente l'ha pensato per dirsi che sarebbe una gran cavolata, che - ed è questa la cosa importante - non se la sentirebbe proprio per niente di rinunciare alla sua vita solo per Jacque. E Kaeso sì, avrebbe proprio bisogno di uno strizzacervelli, di uno bravo ahahah! Grazie ancora :D 
Sara, anche a te è piaciuto quella specie di esperimento, che bello XD  Eeesattamente, hai c'entrato il punto, cerco sempre di scegliere i titoli dei capitoli nel modo più sensato possibile, a volte ci riesco, a volte di meno ma il titolo del capitolo scorso era proprio azzeccato. Le illusioni cadono giù per tutti i personaggi, come hai detto tu. E anche il pezzo di Kaeso in quel contesto aveva un suo senso, perché, mentre le illusioni degli altri cadono, lui se la crea, un'illusione/inganno, creando nel contrasto una "doccia fredda", termine molto adatto che hai usato tu XD  Molto bello anche il termine "psicoscopio" ahahaha! Nella mia ignoranza non sapevo che quella sindrome che lega oppressi e oppressori si chiamasse "sindrome di Stoccolma" però sì teoricamente sviscerare il rapporto tra le due parti era voluto XD Grazie mille per tutte le belle parole che hai usato *_* 

Sapete una cosa, mi sorprende che nessuno abbia mai detto che Acilia è un po' vacca XD Mi fa piacere perché vuol dire che sono riuscita a rendervi chiaro il flusso delle sue emozioni :DD
Duuunque, adesso faccio sto esame, poi tornerò entro fine gennaio con il capitolo-chiave! ;)

ps: Che Lyuben morisse era scontato fin dall'inizio (i troppo buoni e troppo potenti fanno sempre una brutta fine..) quindi mimimi non arrabbiatevi :333

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Capitolo 21
*** Dimenticare ***


Ventesimo capitolo
CAPITOLO XX
DIMENTICARE







Acilia non poteva crederci che Kaeso l’avesse davvero fatto. Non poteva crederci che Lyuben davvero non ci fosse più!

Ma perché non ci credi, si diceva, non lo conosci Kaeso? Non sai di cosa è capace?
Possibile che avesse davvero rimosso ogni cosa? Lyuben era morto ed era colpa sua… Che non aveva agito subito, che si era messa a far di tutto, pur di perdere tempo! Pure uscire con un umano!
Ancora lo sguardo di Dubris non lo dimenticava.
Perché sembra che non te ne freghi più un cazzo?
Non è quello, Dubris, non è che non me ne frega più…
E’ che me ne frega troppo, è forse quello il problema?
Uscì di casa quasi correndo. Aveva avvertito Jacque ed Eike di quello che era successo. Si erano sorpresi, rattristati forse, ma non era con loro che lei voleva parlare. Doveva andare da Dubris, spiegargli ogni cosa… Lui era così addolorato, si sentiva in colpa per non aver ucciso Kaeso quando poteva, neanche riusciva a guardare più in faccia Ramona! Ramona… Cosa provava lei? Acilia neanche riusciva ad immaginare come dovesse essere amare lo stesso uomo per sei secoli…Come era possibile? Come ci si riusciva? Lyuben era un uomo fantastico e, ora, dopo sei secoli il nulla, così, all’improvviso… Come si sentiva Ramona?!
Era da così tanto che Acilia non pensava alle lacrime. Dopo così tanto tempo che non puoi piangere, te lo dimentichi com’è. Però… piangere le sarebbe servito, era proprio quello che si sentiva dentro, che non poteva uscire, che la consumava e le aveva fatto fare cose stupide! Le lacrime non le aveva, ma le parole sì! Perché le aveva tenute sempre per sé? Perché non aveva fatto che allontanare tutti e tutto, senza dire niente a nessuno?
Ormai era troppo tardi…
Uscì dal proprio vialetto, camminava veloce, senza correre o prendere il volo, perché aveva paura di incontrare qualcuno.
“Emily!” fece una voce.
Acilia continuò ad avanzare, trattenendo la voglia che aveva di andare alla sua velocità. Doveva andare subito, subito…
“Ehi, Emily!”.
Ma era lei Emily.
Si voltò di scatto, come se avesse preso la scossa.
Era Curtis quello che le veniva incontro. Era vestito con una camicia leggera e al collo aveva la sua macchina fotografica.
“Ciao!” disse.
Acilia tentò di apparire naturale. “Ciao”.
“Non hai più risposto alle mie chiamate” fece lui, perplesso.
“Io… ho avuto da fare”.
“E prima non ti fermavi… Stai cercando di evitarmi?”.
Sì.
“No”.
Non era proprio il momento! Non era mai stato il momento… Che stupidaggine, uscire con un umano! Mentre cose più importanti erano da fare! Eppure anche adesso, mentre guardava il volto umano e così normale di Curtis, provava l’impulso di gettarsi tutto alle spalle, di fregarsene, di vivere come voleva lei…
“Vai di fretta? Che ne dici se facciamo un giro?”.
Quell’impulso…
Hai delle responsabilità, Acilia.
Responsabilità era una parola dalla quale troppo spesso fuggiva.
“Sì, sono di fretta” rispose.
“Da che parte stai andando?”.
Acilia indicò dritto davanti a sé. “Di qua”. Poi avrebbe raggiunto il bosco e, lì, dietro un albero, avrebbe potuto librarsi in aria e lasciarsi indietro Curtis. Era lui, solo lui, che si doveva lasciar indietro, non…
“Ti accompagno per un po’ allora”.
Questo come poteva rifiutarlo?
Sospirò. Si trattava solo di rallentare un pelo il passo, non era così terribile.
“D’accordo”.
Del resto…Affrontare Dubris non la riempiva di gioia, allontanare quel momento, anche se di poco, di pochissimo… Non le dispiaceva. Aveva paura di quello che avrebbe potuto dire, o pensare, lui, che aveva tanta fiducia in lei…
Presero a camminare insieme.
Ogni tanto Curtis si fermava, per fare delle foto.
Acilia si guardava intorno. Era una delle solite noiose strade di Horfield. Cemento circondato da qualche chiazza di verde. Cosa c’era da fotograre?
“Se non ti va più di vedermi, basta dirlo” disse Curtis, dopo un po’, trafficando con la macchina.
Sì, digli di sì!
“Non è questo” fece la voce traditrice di Acilia. Non capiva proprio cosa lui volesse da lei, era quello il punto.
Lui sembrava stesse meditando, sempre lo sguardo rivolto alla macchina. Con il dito premeva un tasto e sfogliava le immagini sul display di luoghi già immortalati. Fermò i propri passi, e alzò lo sguardo su Acilia.
“Prova a metterti lì in piedi tra l’erba. Ci sono dei fiori, prendine in mano uno”.
Acilia non si mosse. “Perché?”. Non era abituata a fare quello che le veniva detto.
“Per favore, mettiti un attimo lì” insistette Curtis.
Il suo sguardo così sereno, così distaccato, la vergogna dei ricordi lontana. Da quanto tempo Acilia non prendeva in mano un fiore?
Forse un po’ Curtis le piaceva, per quello sorpassò il marciapiede e le sue scarpe pestarono i fili d’erba. Di solito portava scarpe nere, col tacco, ma quella sera aveva fretta, e altro per la testa. Le sue scarpe da ginnastiche bianche poco consumate si macchiarono subito, ma non le dispiacque. Intorno ai propri piedi i fiori che erano sbocciati davano un tocco di colore. Non si era mai soffermata a pensare a quanto fossero belle le stagioni calde. Non si era mai soffermata su niente, in realtà, quasi duemila anni di vita e ciò che era contato qualcosa per lei erano solo i suoi stupidi sentimenti…
“Come pensavo, stai proprio bene tra il verde. Ti risalta gli occhi”.
Acilia si chinò e circondò le dita intorno ad una margherita. Le dispiaceva quasi strapparla. Lei, che aveva strappato così tante vite, provava dispiacere a cogliere una margherita? Le veniva quasi da ridere, a lei, così crudele, lei, così ipocrita.
“Prendi un fiore, dai”.
Capiva perché Curtis amasse la fotografia. Imprimere pezzi di natura, renderli eterni, come fosse una poesia…
La sua mano arretrò dalla margherita. Le sue dita si strinsero intorno al nulla. C’era qualcun altro che glielo diceva sempre, qualcun altro vedeva magia e arte in qualunque cosa, tranne che in se stesso…
Acilia si alzò di scatto, capendo all’improvviso. Curtis stava per inserire il proprio sguardo dentro l’obiettivo e lei si spostò all’improvviso dal suo campo visuale. Lui era perplesso.
Niente foto, pensò lei, spaventata e dandosi della cretina.
“Volevo solo scattarti una foto” tentò l’uomo, confuso.
“Devo andare, sul serio” disse Acilia, a costo di apparire scortese“E poi non mi sembra neanche il caso”.
Si allontanò subito, camminando piano e sicura nella direzione opposta al bosco. Sperava che Curtis smettesse di guardarla, così lei avrebbe potuto nascondersi tra gli alberi. Ma sentiva gli occhi di lui, li sentiva dietro la schiena, come due fanali, quasi la trapassavano, come un paletto di legno, lì, dentro al cuore.


Jacque ero corso nello scantinato e stava rovistando in ogni scatolone. Vecchi vestiti, vecchi oggetti, giornali, libri, piume d’oca, candelabri, pastelli colorati, rotoli di pergamena e uno di quegli aggeggi tecnologici che servivano per ascoltare la musica. Rovesciava tutto per terra, l’intero tempo del mondo era rovesciato sul pavimento, tutta la storia, riassunta in pochi oggetti impolverati.
Sentiva Eike dietro di sé, che sbuffava piano.
“Mi vuoi dire che diavolo stai facendo?”.
Jacque si voltò, trafelato. “Aiutami a cercare” disse solo, passandogli un altro scatolone.
“Cercare cosa?” ribatté Eike, senza afferrare il contenitore.
Jacque trasse un respiro profondo. “Guanti”.
“Non abbiamo dei guanti” fece l’altro, stupito “A che ci servono dei guanti? Siamo freddi come la neve! E poi è estate, lo sai?”.
“Acilia li avrà sicuramente!” sbottò Jacque.
Ma perché?”.
Jacque andò verso una cassettiera. Aprì l’ultimo cassetto e mostrò il contenuto al ragazzino. All’interno scintillavano grosse catene d’argento.
Eike spalancò la bocca. “Perché cavolo abbiamo dell’argento?!”.
“Acilia se l’è procurato qualche tempo fa. Aveva paura che un giorno uscissi di giorno col sole”.
“E ti minacciava con queste?”.
Jacque fece un gesto noncurante con la mano.
“Avrà anche dei guanti da qualche parte”.
Eike scrollò le spalle, mantenendo fisso il suo sguardo. Poi sgranò gli occhi, facendo un passo indietro. “Jacque, accidenti, quale vampiro vuoi legare come un salame?!”.
“Nessuno”rispose l’altro, allibito. Esitò, poi disse: “Voglio solo proteggere la casa di Emily”.
Non sapeva dove cercare dei guanti e stava solo perdendo del tempo. Se Kaeso era davvero al potere, nessuno sarebbe stato più al sicuro. Kaeso lo odiava il patto del sangue! Jacque lo ricordava il giorno che lui ed Emily erano stati ad Arcangelo davanti alla Rappresentanza. Kaeso aveva votato per la trasformazione della ragazza, l’aveva vista in faccia… Quanto tempo ci avrebbe messo per…
Fissò la luce che le catene emanavano stringendo i pugni.
E lui, Jacque, come si sarebbe presentato ad Emily dopo settimane che non si vedevano? Cosa le avrebbe detto? Che gli dispiaceva, che non l’amava ma che doveva ascoltarlo perché un pazzo vampiro sanguinario sicuramente prima o poi l’avrebbe uccisa?
Non importa, pensava, non importa… Non voglio che le succeda nulla, sarebbe tutta colpa mia, devo fare qualcosa!
Alzò una mano, titubante. Si fece coraggio e con uno scatto afferrò una catena. Subito sentì un dolore lancinante al braccio e le dita bruciarono come se stringessero delle fiamme. Non riuscì a trattenere un’imprecazione e aprì la mano, e la catena cadde pesantamente a terra. Distese le dita, sulle quali si erano formate piaghe e vesciche. Lentamente, dolorosamente, quelle sparirono.
Jacque si girò ansimando verso Eike, che lo guardava attonito.
“Sei matto” disse quello.
“Non so che altro fare” si difese Jacque.
“Sei matto!” ripeté Eike “Guarda che tutti gli umani sono in pericolo, mica solo Emily!”.
“Beh”sbottò Jacque“Non possiamo salvarli tutti gli umani, da qualcuno bisognerà pur cominciare, no?”.
Eike aprì la bocca, poi la richiuse. “Stai esagerando” disse dopo un po’.
Jacque lo guardò torvo. “Sono stanco di stare a guardare senza fare niente!” esclamò “E’ quello che fanno alla Rappresentanza! Stanno lì e fingonodi fare qualcosa solo quando ci sono le elezioni! Ma chi se ne frega dei diritti, a quelli come Kaeso non può essere concesso di formare un partito, quelli come lui vanno fermati subito!”.
Eike non disse nulla e lui continuò, infervorandosi. Afferrò la catena caduta sul pavimento e digrignò i denti per non urlare, mentre parlava: “Hanno in testa solo i loro stupidi sogni… senza senso, mentre potrebbero fare…qualcosa… di più concreto”.Fece un enorme respiro mentre la pelle bruciava come l’inferno e le piaghe si riaprivano. La sua mano tremava, e così il braccio, ma li ignorò. Si buttò la catena sulla spalla, con l’altra mano la fece passare più volte intorno al braccio, finché non fu stabile. Le mani, brucianti e libere, provarono sollievo, mentre la spalla si stava infiammando piano piano, protetta dalla maglia a maniche lunghe.
Eike lo guardava senza dire una parola. Non sembrava colpito da quello che aveva detto. Sembrava stesse pensando ad altro.
“Secondo te i primi ad essere in pericolo sono quelli che hanno fatto il patto?” chiese.
“E’possibile”rispose Jacque, afferrando un’altra catena, senza aspettare che le sue mani si riprendessero. Non c’era tempo! La legò intorno all’altro braccio, stringendo occhi e labbra, ansimando fiaccamente. Era come una vampata che incendiava il sangue, che si metteva a ribollire, come se la temperatura, sempre così bassa, si fosse improvvisamente alzata a livelli improponibili.
“Allora dobbiamo pensare anche a Claire” disse Eike, serio.
Jacque lo fissò, stupito, pronto a prendere una terza catena.
“Claire?”.
“Sì, Claire! Hai presente? E’ anche lei un’umana in pericolo”.
Sì, certo ma… Che c’entrava Claire con Emily? Si trattava di una situazione completamente diversa!
“Claire ama farsi succhiare il sangue, l’ha scelto lei di fare…”.Jacque si bloccò, notando lo sguardo omicida di Eike.
“Credi che le piacerebbe morire o farsi trasformare?!” ringhiò il biondo.
“No, però…”. Jacque sospirò. Il tempo scorreva.“Eike, non abbiamo idea di dove abiti Claire, la conosciamo appena… Potrebbe essere ovunque!”.
“Sarà qui a Horfield, no?” sbottò l’altro “Siamo vampiri, siamo velocissimi! Che ci costa cercarla?”.
Jacque lo guardava poco convinto e lui continuò, abbassando la voce ma sollevando il disprezzo:“Non sei davvero un eroe se ti interessa salvare solo le persone a cui tieni”.
Jacque si sentì salire la rabbia. Non aveva mai detto di essere o voler essere un eroe, non gli piaceva stare a guardare se a qualcuno veniva fatto del male ma da lì ad essere un eroe c’era un abisso! Lui non era un eroe, non lo era mai stato, si trattava sempre e unicamente del suo senso di colpa che galoppava, che lo costringeva a cercare di rimediare, di essere migliore. Perché voleva salvare Emily? Gli importava di lei, certo… Ma era perché era stato lui a ficcarla in quella situazione, il suo senso di colpa non avrebbe retto se lei fosse morta! Si trattava solo di quello… A Claire invece non doveva niente!
“Eike”disse, cercando di mantenere la calma “Ti prometto che Claire starà bene. La cercheremo, ma ora andiamo da Emily! Aiutami!”. Indicò le catene nel cassetto.
Eike esitò per qualche attimo poi, con sguardo serio, prese una catena e, tra le grida, se la mise intorno al braccio. Era caduto sulle ginocchia, tremante, e Jacque si sentì mortificato.
“Basta quella”disse. Si fece coraggio e prese una terza catena tra le mani. L’avrebbe portata così, ce l’avrebbe fatta.“Ora andiamo, presto” digrignò tra i denti, mentre le mani velocemente si arrossavano. I due risalirono in fretta per la scala e le mani di Jacque presero a fumare. Sul pavimento cadevano gocce di sangue caldo.
Uscirono di casa e corsero velocissimamente, senza il timore che qualcuno li potesse vedere. Eike andava più veloce però, Jacque era tremendamente affaticato, e ad ogni passo gli veniva da urlare, da mollare la catena per terra. Ma tenne ben ancorate le dita intorno a quella trappola, e se il dolore cresceva, la stringeva più forte. Se avesse allentato la presa, sarebbe stato sempre più tentato di lasciarla cadere, e l’avrebbe fatto.
Ad un certo punto si mise a correre a velocità umana. Eike se ne accorse, e lo aspettò. Jacque si diceva di resistere, che mancava poco, pochissimo! Casa di Emily non era lontana, ma ora, in quel momento, sembrava così distante… La vista gli si stava offuscando, le gambe erano pesanti. Se la morte non l’avesse già esperita, avrebbe pensato che era proprio quello che gli stava accadendo.
“Jacque… Ci siamo, dai, ci siamo!”.
La voce di Eike gli arrivava come un eco confuso, ma lui la seguì.
Quando furono davanti alla casa di Emily, inciampò sui propri passi. Si sentiva talmente stanco, si sarebbe sdraiato a terra volentieri…Quasi cadde ed Eike lo aiutò a tenersi in piedi. Insieme avanzarono verso la porta e Jacque suonò il campanello. Eike gli disse qualcosa come: “Cosa credi di fare quando ci apriranno?”.
La porta di casa si aprì e Jacque scivolò dentro senza neanche guardare chi l’avesse aperta. Fece cadere tutte le catene che, con un tonfo e un tintinnio, si poggiarono sul pavimento. Si guardò le mani, che non avevano più pelle, poi alzò lo sguardo e con la vista che lentamente gli tornava si guardò intorno. Una figura bassa e grossa gli stava urlando contro.
“Ma chi sei?! Cosa ci fai qui?! Che hai fatto? Ti senti bene? Ehi… Riesci a sentirmi?”.
Jacque finalmente mise a fuoco. Era una donna abbastanza avanti con l’età, forse era la madre di Emily…
Sentì dei passi frettolosi e dalla rampa di scale lì vicino apparvero varie persone.
“Che succede, Rosie?” fece un uomo corpulento.
Accanto a lui spiccava una ragazza alta e dai folti capelli biondo scuro. Quando lo vide spalancò la bocca. I suoi occhi corsero dalle mani ustionate di lui alle catene d’argento schizzate di sangue sul pavimento.
“E’un vampiro!”gridò. Ci furono delle urla, la signora che gli aveva aperto la porta fece un salto indietro e la ragazza alzò il braccio, con sguardo rabbioso, stringendo nella mano una pistola caricata con proiettili di legno, e gliela puntava addosso, dritto al cuore, pronta a sparare.


Eliza si sforzava di mangiare ogni giorno. Non poteva lasciarsi morire di fame, non poteva farlo finché sua figlia era in vita. Non poteva assolutamente abbandonarla con quei mostri.
Spinse il piatto verso Charlene.
“Avanti, tesoro, mangia” disse, tentando un sorriso convincente.
La bambina lanciò un’occhiata alla fetta di carne spezzettata sul piatto senza dire niente. I ricci oscillarono mentre girava la testa per guardare la soglia della cucina. Un vampiro dal volto impassibile le stava tenendo d’occhio, le guardava mangiare, con quello sguardo maniacale, come se volesse anche lui nutrirsi, nutrirsi di loro.
“Charlene”chiamò Eliza, allungandosi e portando la mano alla testa della bambina“Girati, dai, mangia”.
Charlene si voltò e impugnò la forchetta. Le punte della posata inforcarono un pezzo di carne, che viaggiò lentamente verso la boccuccia della bambina. Gli occhi erano bassi, mentre mangiava. Aveva perso la sua vivacità, Charlene.
Eliza si portò una mano alla bocca, per nascondere il suo sorriso che spariva. Socchiuse gli occhi e all’internò della sua stessa mano sospirò forte.
Si sforzava di non piangere quando la paura la prendeva come una stretta soffocante, mortale.
“Mamma, quando ce ne andiamo?” chiese Charlene, la forchetta in mano con un pezzo di bistecca a mezz’aria.
“Presto” disse Eliza “Ce ne andremo presto”.
“Voglio andare a casa” insistette la bambina.
“Non ora… Ora non si può. Non si può ancora”.
Charlene ripeteva sempre le stesse cose. Ma aveva smesso di chiedere il perché.
Ci troveranno prima o poi, si diceva Eliza, verranno a salvarci. Ma quanto tempo sarebbe passato ancora? Quanto avrebbe dovuto aspettare? Cosa sarebbe successo nel frattempo?! Cosa sarebbe diventata sua figlia, una bambina dal volto inespressivo, non quello di chi ha guardato troppa televisione ma quello di chi vive il terrore e dopo un po’ non lo sente più… Cosa pensava Charlene? Cosa le aveva detto quel mostro?
La forchetta cadde e la bambina rimase a guardarla senza muovere un muscolo.
Cosa voleva lui da loro?!
“E’ finito il tempo per mangiare” disse il vampiro sulla soglia, rimanendo impassibile.
Eliza, senza una parola, si alzò, ignorando le gambe che tremavano. Prese Charlene per mano e la fece stare dietro di lei mentre andava verso la soglia. Si costrinse a mantenere il contatto visivo con il vampiro. Era basso, col capello corto, aveva l’aspetto di un ragazzo, solo un ragazzo… E’ solo un ragazzo, si diceva, non ci pensare, non ci pensare!
Quando incontrava gli occhi di quelle creature il suo labbro cominciava a tremare, e la mano stringeva più forte quella di Charlene. Cosa c’era dentro la testa di quei mostri? E loro… loro sarebbero dovute diventare come loro?! Sua figlia… la sua bambina…
Il vampiro si spostò per farle passare e le due, attraversato il corridoio, si trovarono nell’angustiante salone. Non riusciva a trattenere un qualcosa che stava tra il lamento e il grido, ogni volta che entrava.
Sul divano di pelle rossa stava il cadavere di una ragazzina mezza nuda, con la pelle pulita e livida di freddo, la bambola con cui avrebbe dovuto giocare Charlene. Svetlana, un vampiro donna, le era seduta accanto, con la sua testa nel grembo, e le pettinava i capelli con una vecchia spazzola. Rivolse loro uno sguardo altezzoso, quando entrarono. Charlene si nascondeva dietro di Eliza, si aggrappava alla sua gamba mentre Eliza le premeva la testa contro il suo fianco.
Prima che si potesse rendere conto che qualcuno aveva aperto il portone, il mostro dai capelli neri e dagli occhi blu era già in casa.
Kaeso, lo chiamavano.
“Sono tornato”salutò, con un sorriso. Qualcuno ricambiò ma Eliza lo guardava, e tremava. Non riusciva a spiegarsi come un corpo così perfettamente umano potesse racchiudere l’animo più nero… Come potevano i suoi occhi nascondere un’anima?! Perché senza anima non c’è vita… Che mostri erano i vampiri?! Quale misterioso, orribile scherzo della natura…
“Eliza” disse Kaeso, avanzando verso di lei e accarezzandole una guancia “Oggi ho una sorpresa per te”.
Istintivamente Eliza strinse più forte a sé Charlene.
“No, Eliza” disse ancora lui, continuando a guardarla negli occhi“Dovrai separarti da lei, dovrete stare separate, per un po’”.
Eliza distolse lo sguardo, ricordando che i vampiri potevano incantare. Si ritrovò faccia a faccia con gli occhi di Charlene, che la spiavano da dietro la schiena. Voleva sorridere per lei, ma non ci riusciva… Non ci riusciva… L’essere che aveva ucciso parte della sua famiglia, che aveva ucciso Ralph, la stava toccando, e lei non poteva sopportarlo… Non poteva…
La mano di lui scivolò lungo il viso e arrivò a prenderle il braccio. La sua stretta era molto forte. Le tirò il braccio e lei si mosse con lui, trascinandosi dietro Charlene.
Kaeso ridacchiò.“Attaccate con la colla”.
Si voltò verso il portone e disse a qualcuno di entrare.
La porta si aprì e un quarto vampiro – quanti ce n’erano?! – entrò, trascinandosi dietro un uomo bendato con pochi capelli, che si dimenava con aria arrabbiata.“Lasciami! Dove mi stai portando?! Che diamine!”.
Quando furono fermi, la sua voce e i suoi arti si placarono. Prese a respirare, irregolarmente, mentre, cieco, si guardava intorno.
“Voglio che la razza umana continui, Eliza” disse Kaeso, senza lasciarle andare il braccio “E tu mi sarai molto preziosa in questo senso”.
“Co…Cosa?”boccheggiò Eliza, guardando impietrita l’umano, che, udita la voce di Kaeso, si era fatto attentissimo.
Kaeso la lasciò andare e allungò una mano verso Charlene.
“Vieni, piccola, vieni con me, ora la mamma ha da fare”.
Eliza si parò davanti alla sua mano. “Non la toccherai”disse, sentendo il suo volto che si deformava in una maschera cattiva. La paura c’era, ma la rabbia, quella era tantissima…
Kaeso la guardò, seriamente.
“Comprendo la tua paura per la tua bambina, Eliza” disse “Ma ti assicuro che non le farò niente”.
“Come non hai fatto niente a Ralph?!”. La voce della donna proruppe in un pianto.
Kaeso fece un mezzo sorriso. Poi la prese per le spalle e la spostò con la forza. Lei non poté fare niente per fermarlo e lui aveva già Charlene in braccio.
“Ti sfugge una cosa, dolcezza” disse, trotterellando “Io non ho mai assicurato niente a nessuno sul destino di questo Ralph”.
Charlene non sembrava spaventata e questo rassicurò Eliza ma nulla poteva impedire quella sensazione indicibile di panico che le prendeva il cuore quando vedeva la sua bambina in quella casa, lontana da lei, in braccio a un vampiro!
“Potete andare a divertirvi, ragazzi, scegliete la stanza che volete”disse Kaeso “Potete stare anche qui, per me non ci sarebbero problemi ma… Immagino che tu, Eliza, sia una pudica, sì, lo sospettavo…”.
“Cosa…cosa…Cosa sta succedendo?!” sbottò la voce dell’umano bendato, con le braccia aperte in allerta, le gambe pronte a fuggire.
Kaeso sembrò accorgersi solo in quel momento che l’uomo aveva una benda sugli occhi. “Oh, per Polluce, toglietegli quella benda!”.
Il vampiro che aveva scortato l’umano obbedì all’istante e quello strabuzzò gli occhi, per poi guardarsi con aria spaesata intorno. Il suo sguardo intercettò il cadavere sul divano e la bocca mandò un lieve urlo.
“Chi siete?! Cosa volete?!”.
Era un uomo vestito bene, sembrava un borghese, di quelli abituati alla vita più facile e che quando si trovano davanti a una situazione non prevista si lasciano invadere dal panico.
“Dove sono?!”.
Charlene emise un singhiozzo e Kaeso le diede un buffetto sul naso, con un sorriso che Eliza avrebbe voluto a fare pezzi. Avrebbe voluto buttarglisi addosso, strappargli i capelli… avrebbe voluto fare qualcosa! Ma lui l’avrebbe uccisa. La sua vita era appesa ad un filo e lei non poteva permettere di lasciarla cadere. Che Charlene stesse bene, era questa la cosa più importante, e senza la sua mamma, in braccio a quel mostro… non sarebbe potuta stare bene.
“Lei è il signor…?”. Kaeso si era rivolto all’uomo spaventato.
“Russell” rispose quello, affrettandosi a riprendere il controllo.
“Signor Russell”disse Kaeso, affabile “Lei è stato scelto per dare un seguito alla razza umana”.
“Un seguito… un seguito a cosa?!” fece quello, allibito “La razza umana non è certo in via d’estinzione!”.
“Quello che dico anch’io” giunse una voce femminile infastidita. Svetlana aveva poggiato la spazzola sul bracciolo del divano e seguiva la scena con varie smorfie.
“Preferiamo non correre rischi” ribatté Kaeso “Deve essere tutto perfetto”.
L’uomo prese coraggio e gli si avvicinò, esibendo un dito corto e grassoccio. “Io sono sposato, ma che crede?! Ho moglie e figli! Ma chi accidenti è lei?!”.
Kaeso sembrò quasi mandare lampi di luce dagli occhi. Distese la bocca in un sorriso e dal labbro superiore spuntarono le sue zanne. Charlene emise un urletto ed Eliza fece un respiro profondo.
“Sono uno che faresti meglio a non fare arrabbiare”.
Russell subito indietreggiò con un mezzo urlo. Tremava vistosamente. “Siete tutti… tutti…”.
“Philippe”lo interruppe Kaeso, voltandosi verso il vampiro dal volto giovane“Accompagnali in una stanza, e dà loro istruzioni”.
Istruzioni?!
“No” fece Eliza con un filo di voce “No…”.
Philippe afferrò sia lei che Russell e li trascinò su per le scale. “No!” continuava a dire inutilmente. Il suo sguardo cercava disperato quello della figlia. Voleva guardarla, dirsi che sarebbe andato tutto bene, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei ma lei aveva il visetto corrucciato e abbassato e per Eliza fu come una pugnalata. Continuava a dire nomentre Philippe tirava lei e l’altro umano senza alcuna difficoltà, continuava a trattenere le lacrime, ma che utilità c’era, se Charlene neanche la guardava? Una volta che furono al piano di sopra scoppiò a piangere ma dimenarsi come faceva Russell era inutile, tutto inutile…
La razza umana non è certo in via d’estinzione!
Perché Kaeso aveva detto di non voler correre rischi?! Cosa stava succedendo?! L’intero mondo sarebbe forse stato governato dai vampiri?!
“Oh mio Dio…” si lasciò sfuggire tra in singhiozzi, mentre Philippe apriva la porta di una camera.
“Starete qui”disse, spingendoli all’interno. Si rivolse a Russell.“Hai tempo tre giorni per metterla incinta”.
Russell spalancò subito la bocca, indignato, ma Philippe andò avanti. “Se non ce la farai, saremo costretti ad ucciderti”.
“Cosa c’è dentro la tua testa?!” esplose Eliza, guardando il vampiro “Perché lo fai?! Perché siete così malvagi?!”.
Philippe la guardò perplesso. Aveva davvero l’aria di non aver compreso.
“Malvagi?”fece“Curioso. E’ così che vi definite voi quando fate lo stesso con gli animali?”.
Chiuse la porta prima che i due avessero il tempo di rispondere.
Passò qualche attimo di silenzio, poi Eliza si voltò a guardare Russell, impaurita.
Lui era sudato in volto e respirava forte, ansante.
“Non voglio morire…” fece con un flebile filo di voce. La guardava con le sopracciglia alzate, gli occhi sgranati e la bocca posta in una strana, storta smorfia, specchio del non sapere cosa dire, per la paura.
“Non voglio morire”ripeté con la voce un po’ più alta, impastata e frammentata dal terrore “Non voglio morire! Non voglio morire!”.
Russell si mise ad urlare quella stessa maniacale frase più volte, in un orribile impulso di giustificazione, ed Eliza si premette le mani sulle orecchie, per non ascoltare, scivolando giù, con le ginocchia sul pavimento, scoppiando a piangere, in attesa del suo destino.


“Lydia, no! Non sparare!”.
Emily si era buttata al fianco dell’amica, con sguardo implorante. Aveva riconosciuto Jacque, non sapeva perché fosse lì e il cuore le batteva all’impazzata. Pensare che solo premendo il grilletto, la sua vita sarebbe finita… No, era insopportabile!
Lydia si voltò allibita verso di lei, senza abbassare l’arma. “Ho detto che è un vampiro!”.
“Spara!” la incitò il signor Dixon.
La moglie si era fatta piccola piccola contro la parete, con gli occhi sgranati e un’espressione terrea.“L-lydia”balbettò, con voce mozzata dalla paura“S-spa…”.
“NO!” strillò Emily, correndo verso Jacque. Allargò le braccia e gli si parò davanti.
“Emi” fece Michael, stralunato “Ma che stai facendo?”.
La madre si era messa ad urlare e il padre le intimava di venire subito via, di allontanarsi da quell’essere mostruoso…
Emily li ignorò. I suoi occhi erano unicamente per Lydia.“Lydia, per favore… Metti giù la pistola, non ci farà del male” disse, con calma. Ma il cuore che batteva forte la tradiva.
Sentì qualcosa dietro di lei che cadde pesantemente. Si voltò e subito si chinò sul corpo di Jacque, a terra, che respirava irregolarmente, e tremava.
“Jacque”fece“Jacque…Che ti è successo? Perché avevi dell’argento addosso?”. Le sue mani… Le sue mani non avevano più pelle, erano solo pugni di sangue.
“Emily!” gridò Michael, in allarme.
Jacque?!” stava dicendo il padre, isterico “Hanno pure un nome quei cosi?”.
Emily si sentì le lacrime agli occhi, mentre vedeva Jacque così sofferente, lui così forte, come poteva stare così male… Si voltò arrabbiata verso suo padre. “Erano umani prima di diventare dei vampiri, papà! Certo che hanno un nome!”.
Suo padre era allibito e lei aiutò Jacque a mettersi a sedere. Lui la guardava quasi spaesato, gli occhi erano sofferenti, in quelle condizioni lui sembrava così…umano. Emily trattenne l’impulso di abbracciarlo e si voltò verso Lydia, per vedere se aveva abbassato la pistola. L’aveva fatto e la guardava stringendo gli occhi, con un volto strano. “Jacque? Emily…E’ lui? Sarebbe lui Jack?”.
Emily non trattenne più le sue lacrime, quelle scorrevano senza pietà sul suo viso, che sentiva come quello di una svergognata, che veniva beccata mentre faceva l’amore con un mostro.
“Che… Che cosa significa? Emily?!” stava dicendo suo padre.
Emily lo ignorò. Perché Jacque aveva fatto questo? Perché era entrato in casa sua?! Lo voleva toccare, sfiorargli una guancia, ma non ne aveva il coraggio… Lui ancora respirava fiaccamente. Ti vuoi decidermi a parlarmi, pensava Emily, cosa sei venuto a fare? Perché sei qui?!
La porta cigolò piano e un ragazzino con un’espressione poco felice entrò nella casa. Anche lui poggiò al pavimento una grossa catena d’argento.
“Eike”fece Emily, sentendo che l’ansia che prendeva il sopravvento su di lei“Che sta succedendo?!”.
“E’un altro vampiro?” fece Michael, facendo un passo avanti, con un’espressione di vivace curiosità, passata la paura.
“Michael, stai indietro!” gli ordinò il signor Dixon e il ragazzo si fermò.
Eike si chinò insieme ad Emily su Jacque.
“Ha bisogno di sangue” spiegò “Portare tutto quell’argento fino a qui l’ha stancato troppo”.
“Perché?!”sbottò Emily “Perché avete portato dell’argento? Perché siete venuti qua?”.
Jacque tossì e sputò sangue. Poi fece un enorme sospiro e guardò Emily in faccia. Le sfiorò una mano, debolmente. Lei quasi sussultò. “Mettete… Queste catene a ogni ingresso… E a ogni finestra” disse lui con voce fioca.
Ad Emily cadde lo sguardo sulle loro mani vicine. Ora anche la sua era sporca di sangue. “Scusa…Ti ho sporcato”biascicò Jacque.
“Jacque” fece lei, seria “Cosa sta succedendo?”.
“Kaeso è al potere”spiegò Eike, tranquillo. Avanzò verso gli altri, che lo guardavano atterriti. Alzò un sopracciglio.
“Sentite”disse, ignorando la signora Dixon che aveva cominciato a lanciare degli squittii“Abbiamo fatto una gran fatica a portare qui quest’argento per proteggere voi dai vampiri del PO. Il minimo che possiate fare è muovere il culo e metterlo alle finestre e alla porta, non vi pare?”.
Il signor Dixon indicò Eike con un lungo e tremante dito e guardò Emily. “Emily… N-non credi che dovresti darci qualche spiegazione?”.
Emily, seduta per terra, cercava di rielaborare quello che aveva appena saputo. Kaeso… Al potere? Questo significava…
Di scatto si alzò e andò verso la sua famiglia.
Tutti la guardavano spaventati, tranne Michael, che aveva un’espressione assolutamente incredula, quasi ilare. “Mi sembra chiaro, papà! Emily è amica dei vampiri, che forza!”.
Emily lo ignorò. Si sentiva male, malissimo. Col suo stupido articolo– tutto era partito da lì – e il conseguente patto del sangue stava mettendo in pericolo tutta la sua famiglia! E anche Lydia, che si trovava a casa sua da un paio di giorni, perché aveva litigato con Sam…
“Vi spiegherò ogni cosa” disse, con voce tremante “Ma ora mettete l’argento sui balconi. Serve per proteggerci dai vampiri”.
“A cosa serve” fece la voce di Lydia, seria e profonda, come se fosse arrabbiata “se abbiamo già dei vampiri in casa?”.
“Loro non ci faranno niente!” esclamò Emily, spazientita. Ma perché non si fidavano di lei? Comprendeva la loro paura ma… No, forse non la comprendeva. Per lei era così facile fidarsi di Jacque, e anche di Eike, si era già dimenticata il terrore che l’aveva invasa la prima volta che li aveva visti?
Michael con un balzo afferrò una catena d’argento e andò verso la finestra del salotto. Passò qualche attimo prima che i genitori imitassero il suo esempio. Lydia però rimaneva immobile, fissava Emily intensamente, come se cercasse di capirla, di capire perché… Era lo stesso sguardo con cui Emily fissava se stessa, a volte, o con cui avrei avrebbe voluto fissarsi. Uno sguardo accusatorio che le diceva che era totalmente impazzita.
“Con un vampiro, Emily?” fece Lydia, quasi disgustata “Un vampiro? Tu sei malata”.
Emily fece per aprire la bocca, indignata, ma poi qualunque possibilità di replica le morì in gola, perché non lo sapeva con esattezza cosa dire in sua difesa. Cosa poteva dire? Jacque era un morto pieno di sangue e nient’altro, e lei era malata.
Notò che Eike era arrivato al suo fianco e che guardava Lydia con le sopracciglia alzate. La ragazza sembrò innervosirsi e il vampiro estrasse le sue piccole zanne con un ghigno. Lydia quasi fece un salto all’indietro, abbandonando la sua espressione di disgusto.
“E tu sei ridicola”disse Eike. Lydia fece per allontanarsi ma lui continuò a parlare: “Prima di essere un vampiro, Jacque è un grandissimo uomo”. Si voltò verso Emily, mutando espressione da divertita a preoccupata. “Ha davvero bisogno di sangue”.
Emily si voltò all’indietro. Jacque era ancora seduto per terra, e continuava a sputare sangue.
Si girò di nuovo verso Eike, col cuore che batteva forte. “Se non beve del sangue cosa succede? Potrebbe… morire?”.
“No”disse Eike“L’argento non ci uccide, ma ci indebolisce parecchio. Il nostro corpo ha bisogno della giusta quantità di sangue per poter rimarginare le ferite”.
Emily non capiva.“E se non ne ha abbastanza di sangue?”.
“Starà sempre peggio, senza poter morire”.
Ancora lei non capiva bene, ma non poteva lasciarlo così! Non poteva assolutamente, lui era venuto da lei per metterla in guardia, le aveva portato tutto quell’argento...
Si guardò le braccia, inspirando a fondo.
“Emily, no” disse subito Lydia “Non penserai di…”.
“Devo farlo”ribatté la ragazza.
“Ma sei impazzita?!”sbottò l’amica “Si può sapere come ti salta in mente una cosa del genere?!”.
Emily si voltò verso Eike. “Quanto sangue gli serve?”.
“Ne basta un po’”disse lui, annuendo. Guardò Lydia, tentando un’espressione rassicurante, ed era strana, sul viso di Eike. “Non la ucciderà”.
Lydia aveva la bocca spalancata, sconvolta, e Emily le diede le spalle, camminando verso Jacque. Le giunse da dietro la voce dell’amica.“Emily, perché vuoi farlo?! Per cosa?! E’ un vampiro!”.
Emily si voltò di scatto, sentendo un malessere che la prendeva e la stritolava. Non era rabbia quella che le uscì dalla bocca, solo una grande frustrazione. “Lo so bene che è un vampiro!” esclamò, con le lacrime agli occhi“E’ per questo che non posso stare con lui…”.Singhiozzò, senza volere, mentre le lacrime diventavano sempre copiose. Credeva di poterlo dimenticare Jacque, ma così… Come poteva farlo? Si inginocchiò di fianco al ragazzo –perché era questo che era, un ragazzo – e gli prese il volto tra le mani, per farsi guardare.
Sentì dietro di sé Lydia emettere uno sbuffo angosciato mentre Jacque aveva solo il volto confuso.
Emily gli mise davanti il braccio. “Jacque, bevi” disse, con voce tremante. Non avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe arrivata a questo… Ma non sarebbe successo niente, si diceva, quasi tutte le persone esistenti sulla Terra erano state morse, Jacque mordeva gente ogni sera per nutrirsi, e non li uccideva, non li uccideva mai! Dopo tutti tornavano tranquilli alle loro vite, avevano solo una ferita… Una semplice ferita… E poi, non sarebbe stato certo peggio del patto del sangue! Le avevano iniettato del sangue di vampiro, del veleno, nel corpo… Farsi risucchiare del sangue non poteva fare più male…
Ma Jacque non aveva neanche estratto le zanne. Scuoteva la testa. “No… Non posso farti questo”.
“Jacque, stai male! Ti prego…”.
Lui continuava a scuotere la testa e lei prese a piangere più forte, impotente. “Per favore”singhiozzò “Fammi fare qualcosa per te, lasciati aiutare da me… Per una volta…”.
Jacque socchiuse gli occhi, come se riflettesse esasperato. Ma le sue narici si dilatarono ed Emily capì che lui ne aveva una gran voglia, del suo sangue. “Potrei non riuscire… a fermarmi”.
Il cuore di Emily saltò un battito. Jacque stava talmente male, aveva bisogno di talmente tanto sangue che… avrebbe davvero potuto ucciderla? No, Emily non ci credeva.
“Ti fermerai” disse la voce di Eike, da qualche parte “So che lo farai, Jacque”.
E’vero, si diceva Emily, è vero, si fermerà…Avvicinò il braccio al naso di Jacque, decisa. Sentiva il cuore che batteva, per paura e per amore, mescolati insieme, le sue labbra tremavano, gli occhi talmente impregnati di ansia la smisero di secernere lacrime.
Jacque fece un enorme sospiro, allargando ancora di più le narici e i suoi canini si allungarono. Lydia emise un piccolo urlo ed Emily si voltò a guardarla. L’amica aveva gli occhi pieni di lacrime, sbarrati, la pistola che aveva in mano tremava, insieme al suo braccio.
Poi Emily, mentre ancora guardava Lydia, sentì qualcosa che con uno scatto crudele le bucava la pelle, gliela stracciava e lei urlò fortissimo. Strinse gli occhi e i denti, digrignando qualcosa, stringendo a sé l’altro braccio come fosse una protezione. I denti di Jacque si erano insinuati nella sua carne, ed era terribile ma poi sentì il flusso del suo stesso sangue che usciva, che spingeva verso l’esterno, tirato e risucchiato e lei provò un fortissimo capogiro, buttò indietro la testa e quasi non si rese conto che aveva ripreso ad urlare.
Insieme alla sua sentiva altre voci urlanti nelle sue orecchie. C’era una gran confusione, riusciva solo a distinguere una voce grossa. Doveva appartenere a suo padre.
Tranquilli, andrà tutto bene…
Ma la vista le si stava offuscando, tutto era sempre più caotico e strano, dentro la sua testa, e fuori, il suo braccio quasi non lo sentiva più.
“Jacque, ora ti devi fermare! Basta!” gridava qualcuno.
Il sangue continuava ad uscire e lei chiuse gli occhi, abbandonandosi al freddo torpore che la stava invadendo.
Poi sentì un rumore forte, strano. Sembrava uno sparo, un colpo di pistola. Il rumore la risvegliò per un momento, aprì gli occhi e vide il bianco soffitto.
Riuscì a rendersi conto che il sangue aveva smesso di uscire, e il dolore stava passando.
Ma poi il bianco che vedeva divenne grigio, sempre più scuro, e poi nero.


“Potevamo averlo ucciso! Potevamo averlo già ucciso!”.
“Vicky, per favore…”.
Victoire guardò Ramona con sguardo allibito.
“Vuoi difenderlo? Continui a difenderlo? Se Dubris avesse fatto quello che doveva ora Lyuben non sarebbe…”.
“Lo so!” gridò Ramona, con una voce talmente alta e arrabbiata che non sembrava neppure potesse essere sua.
Victoire tacque e tutti puntarono gli occhi su Ramona.
Quella si alzò dalla sedia, le gambe tremanti ma il volto oscurato da un’immagine di dolore. Anche i suoi ricci, sempre così perfetti, parvero essersi afflosciati.
Guardò i presenti, e così fece Acilia, seduta al suo fianco. Dubris aveva il volto inespressivo, Luca aveva l’aria di chi doveva vomitare, altri erano spaventati, altri ancora solo spaesati. Acilia e gli altri avevano deciso di aprire la porta delle loro riunioni–che non si potevano più tenere alla Sede di Arcangelo, usurpata con l’omicidio – a tutti coloro della Rappresentanza che fossero contro Kaeso, di qualunque partito fossero. Ed era così triste vedere che in quella stanza che apparteneva alla casa di Dubris erano solo in quattordici.
“So di essere la più giovane qui in mezzo, di non avere nessun’autorità e nessun potere decisionale” disse Ramona, con le labbra così incurvate verso il basso da far sembrare il suo volto coperto da una maschera teatrale “Ma so che Lyuben non avrebbe mai incolpato Dubris. Quindi, per favore, non dite nulla contro di lui…”.
Dubris socchiuse gli occhi e strinse le labbra. Acilia sapeva che lui continuava a sentirsi tremendamente in colpa. E sapeva anche che lui credeva che in realtà Ramona pensasse l’esatto contrario di quello che aveva appena detto. Altrimenti gli avrebbe parlato, si sarebbe sfogata con lui… Era come se qualcosa dentro di Ramona lottasse tra ciò che era giusto e ciò che era naturale, i suoi pensieri, i suoi sentimenti, la sua rabbia…
“E poi Lyuben aveva ragione” intervenne Luca “Pensare al passato è inutile”.
Nessuno ebbe da ribettere, neanche Victoire che incrociò le braccia sopra il ventre, con lo sguardo triste rivolto al pavimento.
Acilia guardò inavvertitamente Dubris, l’unico lì in mezzo che ora sapeva.
Anche lui la stava guardando. Entrambi sapevano che pensare al passato non era inutile, il passato bisognava conoscerlo, bisognava mostrarlo, imparare da esso, per poter fronteggiare il presente.
Dubris continuava a fissarla e lei capì che era giunto il momento di parlare. La notte prima, quando lei era stata da lui, l’amico l’aveva osservata senza crederle, poi l’incredulità era diventata durezza, biasimo.
Acilia si fece coraggio e aprì la bocca. L’aria le entrò subito dentro e per un momento le parve di soffocare. Ma non poteva più tacere…
“Devo dirvi una cosa” disse. La voce le usciva più bassa del solito. Timorosa, vergognosa…
Tutti si voltarono verso di lei, avidi di sapere qualunque cosa, qualunque informazione che potesse essere utile. Ma Acilia avrebbe preferito che Ramona non la guardasse così, con gli occhi tristi e spalancati. Avrebbe preferito proprio che non ci fosse, che uscisse dalla casa, che non sentisse mai quello che lei aveva da dire.
Sospirò, poi le parole le uscirono di bocca veloci, come se in realtà non avessero aspettato altro che venir fuori ed essere scoperte, per alleggerire la coscienza.
“So come poter fermare Kaeso”.



Mediolanum, 263


Non riusciva a trovarla, si era nascosta davvero bene.
Viridio accettò mentalmente la sfida, allegro. Amava giocare con Iulia, amava farla divertire. Stava nei campi intere giornate di sole, ma quando calava la sera, nonostante fosse stanco, voleva passare del tempo con sua figlia. Le cose stavano andando bene, e quella sera per cena Prisca sarebbe riuscita a preparare qualcosa di più che una semplice zuppa d’orzo. Lui e Iulia erano usciti di casa vedendola al lavoro con bietole, cipolla, lenticche e formaggio e la bambina, così magra, si stava già leccando i baffi.
Viridio passò oltre il sentiero di ghiaia, sentendo i sassolini che sbattevano contro i suoi sandali. Il suono era gradevole e l’odore che si alzava con la povere non gli dispiaceva. Fuori dal sentiero, calpestò l’erba. I lunghi fili gli solleticavano i piedi e le gambe nude e lui amava quella sensazione. Nonostante tutti gli sforzi e la fatica, sentiva di amare la natura e la vita, quella che aveva trovato in sua moglie, quella che aveva dato a sua figlia, e la sua, così misera ma così perfetta.
Cercò tra i cespugli, dietro gli alberi, rovistò tra cumuli di foglie secche.
“Iulia” chiamò, consapevole che non avrebbe avuto risposta “Dove accidenti ti sei cacciata?”.
Misurò a grandi passi il prato ma di Iulia non c’era traccia. Gli venne una brutta sensazione, di quelle che gli venivano ogni volta che non vedeva la bambina nelle sue immediate vicinanze. E se le fosse successo qualcosa? Se si fosse fatta male? Se fosse stata rapita?
Cominciò a correre e continuava a chiamarla, sempre più angosciato. Cos’avrebbe detto a Prisca se fosse tornato a casa senza loro figlia? In tutti i suoi ventotto anni di vita non aveva mai avuto paura maggiore di quella di perdere le persone più care, e da sette anni le persone più importanti in assoluto per lui erano Prisca e Iulia.
“Iulia, vieni fuori, dai!” gridava.
I sandali ora calpestavano con violenza erba e sassi, tutto, Viridio non si curava più di niente, la natura, così splendita, si era trasformata in un mostro che aveva risucchiato sua figlia…
“Ma padre… Sono qui!”.
Viridio si voltò, trafelato.
Iulia sembrava appena sbucata dal nulla e correva verso di lui ridacchiando.
I capelli scuri un po’ ruffi erano mossi dal vento e a Viridio venne voglia di prendere in braccio la bambina e stringerla.
Quella si fece sollevare mostrando un leggero ritegno. “Sei proprio una frana in questo gioco”disse, con una smorfia, puntandogli addosso due grandi occhi blu soddisfatti.
“Sono una frana?”ribatté Viridio, con un sorriso “Adesso mi nascondo io e tu mi cerchi! E vedremo chi sarà la frana, che ne dici?”.
Iulia rise e fece di sì con il capo.
Il padre la poggiò a terra e le sistemò la tunica sporca e troppo corta. Si chinò sulle ginocchia per guardarla in faccia.“Adesso chiudi gli occhi e ripeti Sono una bambina bella, brava, buona ma non riuscirò mai a trovare mio padre”.
Iulia alzò una gambetta e col piede pestò il suolo, con una mezza risata.
“No, mi rifiuto”.
“Sì, invece. Ripeterai questa frase così io avrò il tempo di nascondermi, capito?”.
“Uffa”.
Viridio le scrollò le braccia prendendola per le mani. “Forza, cosa devi ripetere?”.
Iulia sbuffò ma poi obbedì: “Sono una bambina bella, brava, buona ma non riuscirò mai a trovare mio padre”.
Viridio le diede un bacio in fronte. “Bravissima. Ora ripetilo ancora, però con gli occhi chiusi e più lentamente!”.
La bambina incrociò le braccia al petto e chiuse gli occhi. Subito lui corse via a cercare un posto dove nascondersi mentre la voce di Iulia che ripeteva la cantilena gli raggiungeva le orecchie.
Scorse delle pareti bianche dietro a degli alberi, probabilmente appartenevano a una vecchia casa abbandonata, perché lì intorno non ci abitava nessuno. Corse verso la casa e si nascose dietro di essa. Con la testa sbucò oltre la parete e controllò la figlia che, in lontananza, aveva appena cominciato a guardarsi intorno.
Ridacchiò piano, mentre la guardava correre in qua e in là.
Un respiro sommesso che sentì alle sue spalle lo fece smettere di ridere e lui si voltò di scatto.
Dietro di lui c’era qualcuno e per lo spavento emise un’esclamazione ma poi si calmò, vedendo che quel qualcuno era solo una ragazza molto giovane.
“Mi avete spaventato” disse Viridio, con un mezzo sorriso “Vi serve qualcosa?”. Notò che la ragazza aveva uno sguardo strano e neanche l’ombra di un sorriso. Anzi, sembrava totalmente inespressiva, come una bambola. Lo sguardo di Viridio scivolò giù e vide che la tunica di lei era sporca quanto la sua, ma non solo di fango e terra. C’erano delle chiazze rosse che sembravano macchie di sangue.
Alzò lo sguardo preoccupato. “Vi è successo qualcosa? Vi serve aiuto?”
Lei non rispondeva e lui notò che era anche parecchio pallida. Stava sicuramente male!
Viridio avanzò di un passo, cercando di essere cortese e di non spaventarla. “Mi chiamo Viridio. Vi potete fidare di me”.
Il suo nome per esteso era Kaeso Iulius Viridio, ma lui preferiva sempre presentarsi col solo cognomen.

Anche la ragazza avanzò verso di lui, guardandolo con quei suoi strani, inquietanti, occhi verdi.



C’erano cose che non si potevano dimenticare.

Acilia aveva seppellito in una parte di sé ciò che aveva fatto a Kaeso, e forse non era l’unica cosa.
Ma non l’aveva mai davvero dimenticato e rivedeva tutto come se vedesse un film. Non voler trasformare Miguel, non volersi innamorare di Jacque, non voler parlare di Kaeso alle riunioni, non volerlo cercare, non volerlo uccidere, cercare sempre stupidamente una scappatoia, pure nelle parole di un umano come Curtis, nei suoi occhi grigi che, la prima volta che li aveva visti, le erano sembrati blu.
Tutti la stavano fissando, col fiato sospeso. Ramona stava già mutando espressione ma lei non si poteva più tirare indietro.
Aprì la bocca, ricordando tutta la sua agitazione, ciò che provava quando vedeva Kaeso, odiandosi, infinitamente.
“Chi crea può anche distruggere. E’ che… Kaeso, l’ho creato io”.


















I pezzi stanno cominciando ad andare a posto? :) Nel corso della storia c'erano moolti indizi del fatto che Acilia avesse trasformato Kaeso, alcuni li avete notati, altri invece erano (apposta) impercettibili, quei dettagli che si notano solo ad una seconda lettura. Boh, se era troppo scontato ditemelo che tolgo degli indizi, così magari il "colpo di scena" riesce meglio.. XD
Un'altra cosa, per informazione: all'inizio del libro ho sempre detto che il nome di Kaeso era Kaeso Virnius. Come vedete, ho cambiato il nome e sto già provvedendo ad eliminare tutti i Virnius presenti nel documento.. XD

Nene, quante lacrime ç__ç Sono davvero contenta che ti abbia commosso l'incontro tra Eike ed Imma. L'intento era quello, di far commuovere, ma pensavo di non esserci riuscita troppo quindi.. ottimo :DD Per il colpo di stato già, hai ragione, Kaeso è un vero bastardo. Dici che anche i cattivi hanno una morale e ci tengono a vincere lealmente, è vero, molti cattivoni sono così. Kaeso no XD L'ho voluto rendere senza alcuna morale, un vero pezzo di cacca, un cattivo nel vero senso della parola. Eh.. quello che voleva sapere Kaeso da Lyuben riguardo alla genesi dei vampiri.. Sì, dai, gli sta bene non averlo scoperto. Ma voi lettori lo scoprirete mai? :PP Per quel che riguarda la scena di Jacque e Dubris.. Ahahhaha! Me li vedo che fanno un corso di uncinetto! Cucina meglio di no.. "Per rendere più saporito il vostro sangue!" o_O Comunque invece a me sono sempre piaciute le scene in cui due uomini discutono per una ragazza (da piccola mi emozionavo proprio) però almeno non sono arrivati alle botte, dai, quello è proprio infantilismo! Diciamo che ad ogni modo la scena serviva per spiegare ancora più esplicitamente da cosa sono nati quell'odio e quella tensione che c'è tra i due vampiri fin dai primi capitoli del libro. Grazie mille della solita bella e lunga recensione :)
Sara, devo dire che hai superato te stessa XD Eri proprio ispirata quando hai fatto l'ultima recensione, sembra di un critico d'arte u.u L'idea che Eike trovasse la scritta di Imma sul muro di Berlino è nata prima di Lyuben, sai?? XD Forse anche di Dubris.. Però non ci avevo pensato al fatto che scriverlo sul muro fosse simbolo della loro inevitabile separazione, mi suona bene :DD Non te lo ricordavi ma nei capitoli passati (uno dei primi) si capiva in maniera esplicita che ci sarebbe stato un incontro tra i due, beh, meglio, così è stata una mega surprise XD Il grande Lyuben l'ho fatto uscire con stile eh sì u.u Di Acilia hai detto esattamente quello che penso anch'io, piace tanto anche a me come personaggio ^^ E come vedi, in questo capitolo, vedi l'allegra famigliola di Kaeso, che ti interessava dopo aver letto la sua macabra filastrocca.. XD come al solito grazie per la fantastica recensione :D :poooop:

Ebbene sì, carissime, siamo a 414 pagine. Mancano ancora cinque capitoli (quindi altre cento pagine come minimo .-.) e poi sarete liibeere, forza e coraggio :DD
Alla prossima!

ps: Il titolo del capitolo fa cagare, lo so.. Ma non mi veniva niente di meglio XD

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Capitolo 22
*** Parole magnetiche ***


Ventunesimo capitolo
CAPITOLO XXI
PAROLE MAGNETICHE






Ogni volta che riapriva gli occhi e tornava a respirare, era come riemergere dall’acqua più gelida e sporca in cui avesse mai nuotato – o meglio, in cui fosse mai annegato.
Viridio scavò velocemente la terra sopra di lui e in un attimo fu in superficie. Si scrollò di dosso il terriccio e la polvere che gli imbrattavano la tunica. Ricordava ancora bene la notte in cui per la prima volta si era svegliato sotto terra. Ancora la ricordava e ancora gli venivano i brividi. Era passato solo qualche giorno e ancora aveva voglia di urlare e di scappare, ma una cosa l’aveva capita. Il sole non gli era amico, mentre le terra sì.
Si guardò intorno e vide che Acilia era già alzata. Seduta, col busto chino sulle proprie gambe piegate, si stava pulendo i piedi.
Viridio trattenne un’imprecazione. Ogni notte sperava che lei non ci fosse più.
La donna alzò lo sguardo e si accorse di lui. Distese le gambe e le divaricò, con un sorriso che non aveva nulla di bello.
“Salve” lo salutò“Me lo vuoi dire oggi il tuo nome?”.
Viridio scosse la testa e ad Acilia si spense il sorriso.
Lo guardò, con le sopracciglia inarcate. “Dovrò pur chiamarti in qualche modo”.
Lui esitò.“Chiamami Kaeso” disse infine, arrendendosi. Se c’era una cosa di cui era certo, era che quel mostro non l’avrebbe maichiamato con lo stesso nome che pronunciava sua moglie. No, non riusciva neanche a pensarlo, il nome di Prisca, senza che qualcosa di terribile gli comprimesse il petto.
Si voltò dall’altra parte, per evitare di guardare Acilia.
Ma quella si alzò e gli fu dietro in un attimo. Viridio sentiva l’alito di lei sulle sue spalle.“L’ho vista la tua smorfia” disse, divertita “E’ inutile che ti giri, è inutile che ti trattieni… Non ci riesci a piangere!”. Ridacchiò e quella risata orribile raggiunse l’orecchio di Virido amplificandosi di più ogni secondo che passava. Era una tortura per il suo orecchio e lui si voltò, guardandola in faccia.
Ella aveva il volto perfetto, avvolto nel suo pallore, nella sua malvagità.
“Perché mi hai fatto questo…” fece Viridio, sentendo la propria voce affievolirsi per la disperazione. Ogni notte era costretto a uccidere qualcuno per sopravvivere. Non l’avrebbe potuto evitare neanche quella notte, no, l’avrebbe fatto… Ma l’orrore stava prendendo il sopravvento dentro di lui, e sentiva ogni parte di lui urlare per la paura e l’indignazione.
Acilia lo guardò con un volto fintamente compassionevole.“Andiamo, Kaeso, è inutile piangersi addosso. Anch’io ero tanto triste all’inizio, come te, ma ci si fa l’abitudine…”. Il suo viso si illuminò e lei si mise di nuovo a ridere. “Ho detto piangersi addosso… Che espressione infelice eh!”.
“Ti ho chiesto perché mi hai fatto questo!” urlò Viridio, frustrato “E smettila di ridere!”.
Acilia si fece seria tutto a un tratto, e sgranò gli occhi. Erano folli quegli occhi.
“Avevo bisogno di compagnia” disse, con l’espressione di una pazza.
Bisogno di compagnia.
Viridio si allontanò trattenendo l’impulso di gridare.
Bisogno di compagnia.
Era stato trasformato in un mostro per un bisogno di compagnia!
Diede un pugno all’aria e crollò sulle ginocchia. Quando era stato… Come… Stava giocando con Iulia…Iulia…
Perché non venivano fuori le lacrime?! Le avrebbe dedicate tutte a lei, alla sua piccola Iulia, che si trovava senza padre…
“Voglio andare da lei” mugugnò, rivoltò alla terra “Voglio andare da loro…”.
Sentì un peso sulla propria testa, che premeva e gliela spingeva giù. Con un gemito, si trovò con la faccia immersa nel terriccio, e non riusciva ad alzarsi.
Acilia agitò le dita del piede nudo tra i suoi capelli.
“Se vai da loro le ucciderai”.
“No…” fece Viridio, mentre la terra gli entrava in bocca “Non…”.
Acilia spinse con più vivacità. “Sì. E’ la nostra natura, Kaeso. Gli umani sono solo nutrimento. Non possiamo convivere con loro, possiamo solo mangiarli”.
Viridio fece dei versi tristi, soffocati, senza neanche provare a lottare. Lo sapeva che quel mostro era più forte di lui.
Ogni giorno, quando sorgeva il sole e lui chiudeva gli occhi, come se morisse, sperava di morire davvero e di non svegliarsi più. Ma poi gli occhi si riaprivano sempre e ogni notte si chiedeva perché mai era successo a lui. Quale orribile incubo era quello! Quale dio gli aveva fatto questo? No, non esistevano dei, non esistevano più per lui… E la natura, un tempo tanto bella, era così mostruosa…
E’ la nostra natura, Kaeso.
Che parola orribile era diventata natura!
Passò qualche attimo e poi si sentì libero dalla pressione del piede di Acilia. Non si voleva alzare, sarebbe rimasto lì per sempre. Ma la sentiva dentro di sé, la fame che cresceva. Lui l’aveva provata la fame, il non avere il cibo sulla tavola, sentire lo stomaco che soffriva e la testa che doleva. Ma quella era diversa…Era tutta un’altra cosa… Era qualcosa che ti prendeva non solo lo stomaco e la testa, ma tutto il corpo, ogni arto era in fibrillazione, il cervello si spegneva, il dolore agli occhi, alla bocca, quegli orribili denti…
“Ti vuoi alzare?”.
Viridio si diede una spinta con le braccia, e si alzò da terra.
Acilia lo stava fissando con le braccia incrociate al petto. “E’ ora di mangiare, andiamo”.
“No” disse lui, deciso, serrando i pugni “Non vengo”.
Acilia lo guardò confusa.
“Non vengo” ripeté lui “Non voglio più uccidere nessuno. Non voglio vivere così!”.
Quell’orribile donna con l’aspetto di ragazzina gli si avvicinò, le bocca talmente dritta, gli occhi talmente spenti…
“Vuoi metterti qui e aspettare la morte?”.
Viridio annuì, chinando lo sguardo. Non riusciva a reggere quegli occhi, gli mettevano soggezione, gli incutevano timore, quegli occhi non erano umani, non potevano esserlo mai stati!
“Guarda che la morte è dolorosa”.
Non importava. Se non avrebbe mai più rivisto Prisca e Iulia, tanto valeva farla finita. Per cosa poteva vivere? Quale sarebbe stato ora il suo scopo?!
“Se vuoi esporti al sole, bruceresti per giorni prima di morire. Forse per settimane” continuò Acilia, avvicinandosi a lui sempre di più, con quella voce crudele che gli si insinuava nella pelle, in profondità “Se non vuoi più bere sangue, non moriresti. Saresti sempre più debole, e secco, e rimarresti per l’eternità immobile, a riflettere, a meditare, a ricordare: una vera gioia”.
Viridio deglutì. Ricordare sua moglie e sua figlia senza più avere la speranza di rivederle? Ricordare i volti di chi aveva ucciso, tormentarsi senza poter morire? Avrebbe rinunciato, sì, ma a quale prezzo… Quale prezzo…
Acilia si era fatta vicinissima. Viridio si poteva perdere nei suoi malvagi e disumani occhi. Ma per la prima volta notò qualcos’altro in essi.
Qualcosa di magnetico.
“Inoltre sono la tua creatrice, Kaeso” continuò Acilia, persuasiva “E mi devi obbedire”.
Lo prese per un braccio e lo tirò.
Viridio si lasciò condurre, come fosse un giocattolo, un burattino. Un burattino nelle mani sbagliate, un giocattolo di una bambina capricciosa, cattiva, perversa.



Passò qualche secondo prima che Emily si riprendesse.
Jacque aveva il volto mortificato che si tramutò nel più vivo sollievo quando lei si mise a tossire.
Eike lanciò un’occhiata di sbieco all’espressione orripilata del signor Dixon, stringendo la pistola di lui tra le dita. Il signor Dixon, tornato in salone dal piano superiore con una pistola, spaventato a morte da quello che stava capitando, aveva sparato un colpo dritto a Jacque. Eike però l’aveva previsto e l’aveva spinto, sviando il proiettile che ora si trovava sul pavimento, ai piedi della poltrona. Gli aveva preso la pistola, come fosse stata una caramella.
Spostò il suo sguardo su Emily che, annaspando, si stava riprendendo. La signora Dixon era china su di lei e tremava come una foglia. Fortunatamente Jacque si era fermato, appena in tempo. La ragazza era pallida come uno straccio, mentre lui si stava rinvigorendo. Le mani erano meno rosse e il sangue si stava ritirando.
Poi Eike puntò gli occhi sugli altri ragazzi. Quella bionda, che si chiamava Lydia, aveva gli occhi lucidi e Michael – presumibilmente il fratello minore di Emily – aveva la bocca aperta, sgomento.
Emily e Jacque si guardavano ed Eike si chiedeva cosa ci fosse in quello sguardo. Lui si avvicinò a lei e lei trattenne il respiro. Eike chinò la testa leggermente di lato. Sembrava uno di quei film melensi che davano in televisione il martedì sera.
“Bisogna medicare la ferita” stava dicendo Jacque. Visto che Emily, ancora molto pallida, sembrava non fosse in grado di muoversi, il ragazzo si rivolse alla signora Dixon, che ancora lo guardava con occhi sbarrati.
“Prenda del cotone e del disinfettante” disse Jacque “Per favore” aggiunse poi.
Neanche la signora Dixon pareva in grado di muoversi, anche se per altro motivo, allora sopraggiunse la voce di Lydia. “Ci penso io”.
Eike guardò la ragazza allontanarsi in tutta fretta verso una porta, poi ripuntò lo sguardo sull’interessante quadretto. Beh, Jacque non poteva proprio fare conoscenza dei suoceri in circostanze migliori! Quale padre e quale madre non desidererebbero per la loro unica figlia femmina un ragazzo che ha rischiato di dissanguarla con un solo morso sul braccio?
“Che ti è saltato in mente… Tu, brutto vampiro…”fece la voce del signor Dixon, vibrante di rabbia, facendo oscillare il suo sguardo da Jacque ed Eike, tant’è che Eike neanche sapeva a quale dei due si riferisse.
Emily fece un respiro profondo, poi parlò. “L’ho deciso io, papà. A Jacque serviva del sangue”.
Gli occhi del signor Dixon parvero uscire dalle orbita. “Ti stava uccidendo!”.
“Come vedi, non l’ha fatto” ribatté Emily.
“Ha ragione tuo padre” intervenne Jacque “Non dovevi farlo”. Oh, ecco, pensò Eike, l’aitante giovanotto, pretendente la mano della fanciulla, cerca di rimediare al suo disastroso ingresso in famiglia, con un po’ di sana adulazione al pater familias.
Il signor Dixon effettivamente parve spiazzato. Aveva aperto la bocca pronto a ribattere a qualunque cosa, ma poi la richiuse.
“Non riuscivo a fermarmi” insistette Jacque.
“L’hai fatto invece, ti sei fermato” ribatté la ragazza.
“Non potevi sapere che…”.
Emily ridusse i suoi occhi a due fessure. “Bastava un semplice grazie” lo interruppe freddamente.
Accidenti, pensò Eike, c’è aria di tempesta, malintesi ancora non risolti. Ovviamente sentiva puzza di Acilia.
Lydia intanto era tornata con disinfettante, cotone e garze. Senza degnare di uno sguardo Jacque, si sedette sul pavimento, accanto ad Emily, chiedendole di tendere il braccio. La ragazza obbedì.
Lydia operò in silenzio e non appena ebbe fasciato il braccio in prossimità della ferita, alzò lo sguardo sull’amica. Lei la ringraziò debolmente.
Michael a un certo punto fece qualche passo avanti. “Emi, si può sapere come li hai conosciuti questi vampiri?”.
“Giusto… Giusto” si rianimò il signor Dixon “Spiegaci come cavolo…”.
“Okay”lo interruppe Emily, un po’ scocciata, mentre si alzava in piedi aiutata da Lydia. Si sedette sul divano e invitò i suoi familiari a fare altrettanto. Il signor Dixon si appollaiò sulla poltrona, col sedere sulla punta, come se fosse pronto a scattare in piedi. La signora Dixon e Lydia si sedettero ai lati di Emily. Michael, che era momentaneamente sparito, tornò dalla cucina con in mano due sedie. “Per… Ehm, gli ospiti” disse educatamente.
Jacque si rialzò da terra e ringraziò il ragazzo. Eike si sedette senza ringraziare e Michael sparì di nuovo in cucina, per prendere evidentemente una terza sedia.
Quando tutti furono seduti, Emily trasse un respiro profondo. Eike fece vagare serenamente lo sguardo nella stanza. Erano disposti in una specie di cerchio deforme e le facce che vedeva erano scavate e segnate da forti sentimenti, sembravano chiedersi cosa ci facessero lì. Emily in particolare aveva proprio la faccia di chi stava per alzarsi e dire Ciao, sono Emily. Non bevo da tre mesi.
Ma la ragazza non si alzò e disse: “Ho conosciuto Jacque per caso e ho capito che non mi avrebbe fatto del male”.Guardò in giro nervosamente che reazioni avesse suscitato ma Eike non notò alcun cambiamento. Il signor Dixon pareva una pentola a pressione che stava per esplodere, e sarebbe esplosa se Emily avesse continuato a dire sempre le stesse cose.
L’umana si decise ad andare avanti: “Ho scoperto che i vampiri hanno un sistema politico. Il motivo per cui noi riuscivamo a vivere le nostre vite serenamente…”.
La signora Dixon emise un verso scettico.
Abbastanza serenamente”acconsentì Emily“è che fino a poco tempo fa il Presidente della loro Rappresentanza era membro di un partito di vampiri che cerca la pacifica convivenza con gli umani”.
La faccia del signor Dixon parve sgonfiarsi. “Convivenza?”emise, in un sibilo.
“Rappresentanza? Partito?” stava dicendo Lydia, incredula.
Eike notò che Jacque si stava guardando i piedi. Lo imitò, pensando che fosse decisamente più interessante. Ora ci sarebbero stati vari urletti increduli e scettici, poi domande, e spiegazioni, e ancora domande, e spiegazioni…
“Come-diavolo-sarebbe-possibile-la-convivenza-tra-vampiri-e-umani?!”digrignò il signor Dixon, lanciando loro una lunga occhiata sprezzante.
“Non lo so” ammise Emily, paziente “Sta di fatto che per loro uccidere è contro la legge”.
Un silenzio attonito accolse le ultime parole della ragazza.
“Contro la legge?”starnazzò la signora Dixon “La loro legge? E quella strage di capodanno, eh? Ve la ricordate? E quella strage che è avvenuta…”.
“Mamma, andiamo!”esclamò Michael “Se una cosa è contro la legge non vuol dire che non può avvenire! Quegli assassini li avranno messi in prigione, o li stanno cercando… Giusto?”. Guardò speranzoso i due vampiri ed Eike alzò un sopracciglio. Stava parlando proprio con loro?
“Oh, già” farfugliò la signora.
“E’molto difficile arrestare un vampiro” intervenne Jacque “Ma non si tratta di un nostro compito. Io ed Eike siamo troppo giovani perfino per votare”.
“Ma certo” continuò la signora Dixon, azzardando un’occhiata ad Eike “Quello è un bambino!”.
Eike le sorrise, amabile. “Ho novantadue anni, signora”.
Quella strabuzzò gli occhi, poi si mise una mano sul cuore. “Ha più anni di mia madre!”.
“Mamma” fece di nuovo Michael, alzando gli occhi al cielo “E’ un vampiro”.
“Certo, certo… Lo so…”.
Il signor Dixon aveva stretto gli occhi e con quelle due fessure squadrava chiunque parlasse. Eike lo trovava piuttosto inquietante.
“Emily” disse poi l’uomo “Hai detto fino a poco tempo fa…Fino a poco tempo fa c’era questo strano presidente… Questo vampiro buono…”.
“Sì, ci stavo arrivando” rispose la ragazza. Guardò Jacque ed Eike. “Non è più lui al potere…Cosa…Cosa gli è successo?”.
“Kaeso l’ha ucciso”rispose Eike.
“Ma come è possibile?” esclamò Emily “Lyuben era il vampiro più vecchio in assoluto, no? Chi potrà fermare ora Kaeso?”.
“Il vampiro più vecchio?” fece Michael, eccitato “Quanti anni aveva?”.
“E Kaeso? Quanti anni ha?” insisteva Emily.
“Ma chi se ne frega!” esplose il signor Dixon “Chi se ne frega di quanti anni ha… Chi è questo Keso?”.
“Più un vampiro è vecchio, più è forte” spiegò Emily, sbuffando piano.
Il padre sembrava piuttosto perplesso.
“Non lo so quanti anni ha” disse Jacque, scrollando le spalle“Parecchi, immagino. Il nome è latino, no?”.
Latino?!” fece di nuovo il signor Dixon, come folgorato.
“E questo Kaeso, dunque, è al potere?” chiese Lydia, concentrata.
Jacque ed Eike annuirono.
“E questo significa che…” iniziò la bionda, lasciando in sospeso la frase e guardando i due con aria interrogativa.
“Che siete nella merda” disse Eike, tranquillamente.
“Diciamo che le ultime stragi avvenute… Sono stati lui e i suoi amici, a compierle” si affrettò ad aggiungere Jacque.
Tutti gli umani presenti continuavano a guardarli come dei mongoli e ad Eike sfuggì un risolino.
“Le leggi sono cadute. Non c’è più controllo. Anarchia”provò a spiegare Jacque.
Ancora qualche attimo di silenzio, poi tutti scoppiarono a parlare insieme.
Eike faceva fatica a districare quel vespaio di parole agitate e confuse, e rinunciò subito. Jacque aveva alzato le mani, in un tentativo di placare la situazione.
Poi Lydia si alzò in piedi e si allontanò, col cellulare in mano ed Eike la sentì dire “Devo chiamare Sam”.Sparì oltre la porta da cui era venuta quando aveva preso il necessario per disinfettare la ferita di Emily.
Eike si voltò a guardare Jacque, ricordandosi di una cosa. Gli aveva detto che avrebbero cercato anche Claire.
“Jacque… Jacque!”lo chiamò.
Quello, ancora con le mani alzate, si girò verso di lui.
“Li abbiamo avvertiti, ora stiamo perdendo tempo. Andiamo da Claire”.
Il suo creatore parve sconcertato. Eike l’aveva capito che lui non aveva nessuna intenzione di separarsi da Emily.
Stupido Jacque, pensò, quando lo capirai che ti piace mille volte di più Acilia?
“Un momento” fece d’un tratto il signor Dixon “Per quale motivo questi due vampiri vorrebbero proteggerci? Perché hanno portato dell’argento proprio a te, Emily?”.
Prima che Emily potesse rispondere, Jacque disse: “Beh, non abbiamo molti amici umani, oltre ad Emily”.
Claire. Ci sarebbe anche Claire.
Eike guardò il suo creatore, un po’ arrabbiato. Claire aveva concesso loro il suo sangue e loro la ripagavano facendola morire? Invece Emily cos’aveva fatto? Si era solo intromessa tra Acilia e Jacque. Anzi, aveva mandato in pappa il cervello di lui.
“Amici” ripeté il signor Dixon, come se fosse una parola disgustosa “Amici…”.
Eike notò che Emily aveva accuratamente evitato di parlare del patto del sangue, del fatto che molti vampiri l’avessero vista, e la conoscessero. Erano lì per quello del resto, perché era in pericolo. O perché Jacque l’amava?
Eike li guardò di sbieco entrambi. Sembravano evitare di guardarsi in faccia.
E’ così, Jacque? Addirittura l’ami?
Ne era infastidito.
“E adesso che si fa?” domandò Michael.
La signora Dixon infilò bene i piedi nelle pantafole arancioni e si alzò in piedi, guardando torva il ragazzo. “Si va a letto, Michy. E’ già l’una e mezza, e domani hai scuola”.
Il ragazzo la guardò come se fosse impazzita. “Letto? Scuola? Mamma, hai capito quello che sta succedendo?”.
La madre fece un sospiro enorme e lui continuò, con tono saccente: “Come farei a dormire?”.
“Andate a dormire”disse Jacque “Resteremo a fare da guardia, per questa notte”.
Eike guardò il proprio creatore, stralunato.
Emily intervenne subito: “La guardia? Ma loro sono molto più forti di voi, non potete!”.
“Sì, Jacque, non possiamo” le diede man forte Eike, continuando a fissarlo con occhi sgranati.
“Solo per questa notte” insistette Jacque “Non credo capiterà nulla questa notte… Poi vediamo come evolverà la situazione”.
La signora Dixon lo stava guardando con una strana espressione. Sembrava qualcuno in procinto di vomitare. Eike immaginò fosse combattuta. Una parte di lei voleva ringraziarli, un’altra voleva solo andare a letto e dimenticare la loro presenza nella sua casa. Sì, doveva essere così, stava cercando di vomitare la parola grazie. Alla fine non ci riuscì e con uno sguardo quasi allucinato si allontanò verso le scale e con morbidi passi arancioni sparì.
Michael, con uno sbadiglio, si avvicinò ad Eike. Lo scrutò e dopo un po’ gli disse: “Mi fai vedere le zanne?”.
Eike lo accontentò subito, formando un ghigno con le labbra.
L’umano spalancò lo bocca. “Che for…”.
“Michael!” abbaiò il signor Dixon, evitando di guardare le zanne di Eike “A letto!”.
Il ragazzo sbuffò scuotendo la testa bruna, poi si allontanò con passo strascicato su per le scale, seguito dal signor Dixon che continuava a guardarsi indietro con sguardo circospetto. A un certo punto inciampò su uno scalino e si decidette a guardare in avanti. Poi sparì anche lui.
Emily si era alzata e si stava avvicinando a Jacque ed Eike, con uno sguardo carico di sensazioni. Aveva la bocca mezza aperta, come se dovesse dire qualcosa, ma non diceva niente. Assomigliava vagamente all’espressione che aveva sua madre quando pareva dover vomitare.
“Acilia e gli altri proveranno a fermarlo?” disse infine.
Jacque scrollò le spalle. Eike ne era convinto, ma preferì tacere.
Una porta sbatté e nel salotto comparve di nuovo Lydia, le lacrime che sgorgavano da due occhi marroni sgranati. Aveva una mano tra i capelli, che continuava a tirarli indietro, come se non sopportasse più la loro presenza sul suo viso. “Sam non mi risponde” annunciò “L’avrò chiamato una decina di volte! Non…”.
Emily le fu davanti e le mise le mani sulle spalle, cercando di calmarla.
“Lydia, tranquilla, Sam starà dormendo”.
“No!”protestò l’altra“oggi è giovedì. Il giovedì ha allenamento… E dopo l’allenamento mangiano sempre una pizza… E stanno fuori fino a tardi…”.
“Lydia”insistette Emily “L’allenamento può essere saltato. O magari era stanco ed è andato a casa. O magari…”.
Lydia scosse la testa, singhiozzando. “Ho bisogno di certezze, non di sentire tutte le eventualità”.
“Magari non ti risponde perché ti odia” se ne uscì Eike, squadrando la bionda che continuava a piangere senza alcun motivo fondato.
Emily, Lydia e anche Jacque lo guardarono con gli occhi spalancati.
Lui si strinse nelle spalle. “Ah, scusate. Era un’altra eventualità”.
La bionda si asciugò gli occhi. “Può essere che sia ancora arrabbiato… E che non mi voglia rispondere”rifletté.
Emily annuì vistosamente. “Certo”.
“Ma perché diavolo…Perché diavolo è ancora arrabbiato?!”.
Eike alzò gli occhi al cielo e si voltò, guardando da un’altra parte. Tra Emily e Jacque che giocavano a fare gli innamorati inconsapevoli e quella lì che piangeva perché uno stupido ragazzo non le rispondeva, si era ritrovato in una tempesta d’amore. Tutta per colpa di Kaeso che aveva deciso di buttare il mondo nel panico. Si sa che nel panico le storie d’amore fioccano o si aggiustano come per magia.
Si diresse fiaccamente verso il divano e ci si stravaccò sopra.
Dopo poco lo raggiunse anche Jacque, che si sedette accanto a lui sospirando.
“Sarà una lunga notte” disse, guardando le due ragazze che si abbracciavano.
Eike incrociò le braccia, un po’ alterato. “E’ stata una tua idea, capo”.


La tensione che era calata nella stanza era quasi palpabile.
Acilia strinse i pugni, appoggiati sulle sue cosce ricoperte dai jeans, e serrò le labbra, in attesa di una qualche reazione.
Il primo a dire qualcosa fu un vampiretto che aveva la faccia molto giovane. Dimostrava qualche anno in più di Eike.
Era a bocca aperta, poi esclamò: “Se l’hai creato tu, perché è così?”.
Certo, pensò Acilia amaramente, tutti hanno in mente Jacque, il perfetto vampiro buono che ho creato, il mio magnifico lavoro. Ricordò la paura che aveva quando aveva trasformato Jacque, la paura che tutt’ora aveva di lasciarlo andare.
Guardò il vampiro che aveva parlato, ed esitò prima di rispondere. Abbiamo tutti un passato, voleva rispondere. Ma non lo fece.
“Ci siamo persi di vista più di mille anni fa” disse semplicemente “Ciò che ha fatto dopo di allora, io non lo so”.
Ci fu ancora qualche minuto di silenzio attonito. Acilia evitava accuratamente di incrociare lo sguardo di Ramona, che era seduta proprio di fianco a lei. Teneva il volto fisso su Dubris, che fissava il pavimento. Avrebbe voluto che dicesse qualcosa anche lui.
Ma parlò Victoire. Aveva le sopracciglia alzate e la chiara espressione di qualcuno che è stato preso in giro. “Da quanto tempo eri diventata vampiro?”.
Acilia si sforzò di riflettere. “Non ricordo…”.Pensa, si diceva, pensa. Marcus era morto da parecchi anni, dopo la morte di lui, lei… Era sempre stata sola. Forse era questo che l’aveva fatta impazzire. “Meno di due secoli. Poco meno, credo”.
Victoire aveva ancora quell’espressione. E poi arrivò quella domanda. “Perché non ce l’hai mai detto?”.
Se l’era chiesto anche Acilia, tante volte. Non aveva trovato spiegazioni. Si vergognava di quello che aveva creato?
“Aci?”.
Aveva tentato lei stessa di dimenticarlo, e ce l’aveva quasi fatta. Dirlo ad alta voce sarebbe stato come ricominciare da capo.
“Aci! E’ il capo del PO da sette mesi! Perché non ce l’hai mai detto?”.
Acilia aprì la bocca. Neanche sapeva quello che avrebbe detto, ma forse sarebbe uscita la verità.
“Che differenza avrebbe fatto… Non sapevo dove trovarlo, e non mi avrebbe ascoltato: è totalmente fuori controllo, anche dal mio” disse.
Continuava a leggere una forma d’accusa nel volto di Victoire.
“E non l’avrei ucciso” continuò Acilia, sentendo qualcosa che si diramava, sotto la sua pelle“Non volevo ucciderlo…”.
In realtà aveva provato a parlargli, a Kaeso. Ma anche con lui, si sentiva sotto accusa.
Smettila. Credi di riuscire sempre a far fare agli altri quello che vuoi?
A volte ci pensava…Come dargli torto?
Al suo fianco qualcuno emise un verso che stava a metà tra uno sbuffo spazientito e un lamento esasperato.
Acilia si voltò finalmente per guardare Ramona.
Lei la guardava con un’espressione dura, che non aveva mai avuto. “Non lo vuoi uccidere? Tu non lo vuoi uccidere?”.
Acilia cercò di rimediare. “Ora la situazione è diversa…”.
“Non poteva non degenerare la situazione” la interruppe Ramona, severa. Trasse un respiro profondo, ma ciò non la calmò. I suoi occhi si fecero sempre più cattivi.“Neanche Lyuben lo sapeva?”.
Perché Lucius ha detto che la tua anima è sporca?
Acilia tentennò. Avrebbe potuto dirglielo, in quel momento… Cosa le costava? Forse l’avrebbe fatto, ma Lyuben non aveva insistito.
Ognuno ha i suoi segreti, Aci.
Non aveva insistito, perché ne aveva anche lui.
Ramona interpretò il suo silenzio correttamente e sbottò: “Lui si fidava di te!”.
Si alzò in piedi, tremante. Tutti i suoi ricci scuri, così ruffi e mosci da quando era morto Lyuben, parvero riprendere vita, per la rabbia.
Acilia voleva dire qualcosa, ma Dubris l’anticipò. Anche lui si era alzato dal divano e aveva raggiunto la sua creata con fare rassicurante.
“Ramona, calmati, ascolta…”.
“Sono calmissima”fece lei, evitando di guardarlo.
“Anche se Lyuben l’avesse saputo, non avrebbe potuto certo impedire quello che è successo”.
“No” rispose Ramona, sempre fissando un punto di una parete “Lei avrebbe potuto impedirlo”.
Dubris fece un sospiro. Poi disse: “Io avrei potuto impedirlo. Avevo Kaeso nel mirino della mia pistola, e non ho sparato. Se Lyuben non se la prenderebbe con me, non biasimerebbe neanche lei”.
Ramona socchiuse gli occhi. Sarebbe parso così naturale vedere delle lacrime scorrerle sulle guance. Poi finalmente si voltò a guardare il suo creatore, sgranando i suoi occhi scuri più che mai, deformandoli quasi. “Sono stanca di dire quello che Lyuben farebbe o non farebbe” disse, con la voce che vibrava “Lui non c’è più…E ci sono io! Io!”alzò la voce “E non voglio parlare con nessuno di voi due!”.
Anche Acilia si alzò ma Ramona, senza degnarla di uno sguardo, si diresse verso la porta di casa, guardando dritto davanti a sé. La ragazza fece per seguirla ma Dubris la fermò, tenendola per un braccio, ed entrambi la guardarono uscire, sbattendo forte la porta dietro di sé.
Ad Acilia dispiacque tantissimo. Il sentimento di colpa che provava era così umano, ancora lei era in grado di sentirlo. Mentre le parole che lei stessa aveva rivolto a Kaeso solo qualche mese prima le tamburellavano nelle orecchie così forte, anche se erano solo nella sua mente, come se qualcuno le stesse urlando.
Me la vuoi far pagare, non è vero?



Curtis, seduto al tavolo della cucina, giocherellava con la fede nuziale, che si metteva e toglieva in continuazione, ultimamente.
Karen era fuori a lavoro ma presto sarebbe tornata. Sapeva che lei in casa non voleva sentir parlare del lavoro di lui, quindi si voleva affrettare a sbrigare le sue faccende. Sospirò, mentre scorreva sul display della macchina fotografica vecchie foto, alcune di esse non erano mai state stampate. Mostravano solo vuoti paesaggi, o vuote stanze.
Non la capiva, Karen. Si sforzava di parlarne, lui voleva davverosalvare il loro matrimonio ma lei insisteva col dire sempre le stesse cose o peggio, si ostinava a restare muta. Non era sempre stato così. C’era stato un tempo in cui lei lo ammirava, tutto ciò che lui faceva accendeva la loro passione. Ma poi era venuto il matrimonio, la nascita dei gemelli, il suo rincasare così tardi. Karen, da contabile qual era, non lo comprendeva proprio. E se continuava così, era ovvio che prima o poi Curtis si sarebbe stufato. Era ovvio che guardasse altre donne, era istintivo, naturale che si sentisse attratto da quella ragazza, Emily.
Qualcosa di magnetico.
Curtis non si doveva far sopraffare. Sapeva qual era il suo posto, e sapeva anche che amava Karen, e che non si sarebbe cacciato ulteriormente nei guai, per Selwyin e Sally.
E’ quello che dice sempre lei…
Si infilò la fede nell’anulare, poi prese il cellulare e compose un numero. Aspettò pazientemente che qualcuno rispondesse poi disse: “Ho qualcosa in mano”.
Il suo interlocutore reagì stizzito ma Curtis lo ignorò. Sapeva di averci messo molto tempo. Aveva forse temporeggiato apposta?
Scambiò qualche altra informazione con l’uomo all’altro capo del telefono, poi chiuse la chiamata, proprio nel momento in cui sentì la porta di casa aprirsi.
Karen apparve nel salotto, in gonna e giacca e lo salutò in maniera distaccata.
“Preparo io la cena” disse Curtis “Poi esco”.
Karen fece un vago cenno d’assenso, irrigidendosi ulteriormente. Ormai neanche gli chiedeva più dove andasse. Sembrò esitare, poi prese il telecomando sul tavolo, vicino alla macchina fotografica di Curtis, e accese la televisione. Trovò un telegiornale e i suoi occhi scrutarono la telegiornalista che annunciava una serie di morti. Gli attacchi dei vampiri stavano aumentando a dismisura ed ella consigliava, come tutti, di rincasare sempre prima del tramonto e di non uscire mai prima dell’alba. Gli occhi scrutatori di Karen persero la loro freddezza, coma la neve che si scioglie.
Era la paura, che la muoveva, la faceva muovere a scatti, arrabbiata ma triste.
Curtis le si avvicinò, in un tentativo di abbraccio ma lei lo allontanò con un gesto della mano. Non lo guardava in faccia e il suo viso era contratto in una smorfia. Stava trattenendo le lacrime.“Non uscire questa sera, Curtis, per favore”.
Lui spalancò gli occhi. No, questo era impossibile. “Devo”.
“Per una sera… Per favore” insistette Karen, continuando a non guardarlo.
Curtis cercò di essere dolce. “Tu e i bambini sarete al sicuro, non vi accadrà niente”.
Karen si voltò finalmente a guardarlo, con occhi increduli. Scosse la testa, aprendo a metà la bocca, per dire qualcosa, ma qualunque cosa fosse le sfuggì via e lei girò i tacchi e uscì dal salotto.
Curtis strinse i pugni, sentendo la rabbia che saliva. Qualunque suo sforzo, la moglie lo mandava sempre in frantumi.
“Devo lavorare, lo capisci?!” sbottò.
Non ottenne risposta ed uscì dal salotto, desideroso di vedere i bambini. I loro visetti lo rasserenavano più di qualunque altra cosa, anche se a volte, paradossalmente, accadeva che gli mettessero ancora più angoscia.
Fece capolino con la testa sulla soglia della loro cameretta.
La testa castana di Sally era china sul suo tavolino, a disegnare con delle matite colorate. Selwyn era seduto sul pavimento, circondato da macchinine.
Quella era una di quelle volte che gli cresceva l’ansia. Curtis cercò di calmarsi. A volte si domandava se Karen sarebbe mai stata capace di lasciarlo e di portarsi via i figli. Non vederli più, era questa la più grande paura di Curtis. Non vederli più perché Karen gliel’avrebbe potuto impedire oppure per un altro motivo. La stessa cosa che temeva Karen, e la rendeva così scontrosa, e rabbiosa…
Non uscire questa sera.
Avevano tutti paura della stessa cosa, e allora perché non riuscivano a parlarsi?
Sally alzò la testa, accorgendosi del padre, e fece un risolino. Si alzò dalla piccola seggiola e corse verso di lui con un foglio in mano. Gli mostrò orgogliosa il suo disegno.
Curtis le sorrise e afferrò il foglio. C’erano due persone stilizzate. Quello che sembrava un ragazzino con un cespuglio marrone scuro sopra la testa teneva per mano una figura dai capelli lunghi e dritti, che aveva una riga per la bocca, e sotto di essa c’erano dei triangolini storti.
Curtis strabuzzò gli occhi. “Sally… Cosa… Cosa significa? Chi sono?”.
Sally fece un sorrisetto soddisfatto e il suo corpicino ondeggiò di contentezza. “Lui” disse, indicando il cespuglio marrone“è un ragazzo… E lei… è un vampiro!”.
Curtis si chinò e poggiò le ginocchia sul pavimento, per stare comodo.
“E perché si tengono per mano?”.
Sally fece spallucce, continuando a ondeggiare su stessa, con il pancino in fuori. “Se lo fanno… Sarebbe bello”.
Curtis sbatté più volte le palpebre. Non era sicuro di aver capito bene. Per un momento pensò che Sally avesse voluto suggerirgli qualcosa, ma poi lei tornò allegramente alla sua postazione da disegnatrice e lui si ricordò che la bambina aveva solo cinque anni. Cosa poteva capirne di quelle questioni?
Si accorse che Selwyin lo stava fissando e, inconsapevolmente, trasalì.
Il bambino non distolse lo sguardo. “Esci anche oggi, papà?”.
Curtis annuì.
Selwyin chinò lo sguardo e mosse una macchinina rossa.
“Ma torni?” fece la voce di Sally.
Sempre quella domanda…
Era Karen che li spaventava, con il suo sguardo fisso e triste che aveva ogni volta che lui usciva?
“Certo, Sally”disse Curtis, guardando con tenerezza i due bambini “Certo che torno”.
Uscì dalla camera, e qualcosa dentro di lui si fece di piombo, quasi fino a mozzargli il respiro.



Tante belle parole, tante belle parole aveva detto Marcus! Che ridere che facevano, le sue belle parole! C’è un modo per vivere anche per noi, oh sì, non siamo dei mostri. Tutte parole, un maestro di retorica era il vecchio Marcus. Mi ha impedito di buttarmi sotto il sole, me lo proibiva tutti i giorni. E io, perché mai gli ho obbedito? Perché mai ho obbedito a quel traditore della sua specie, traditore del suo sangue?

Kaeso aveva la bocca sporca di sangue e Acilia lo guardava con soddisfazione.
L’umana di cui si stavano nutrendo respirava ancora flebilmente e rivoli di sangue correvano giù per il suo petto nudo, tingendo la pelle bianca, arrivando all’ombelico, riempiendolo.
Acilia fece una smorfiosetta compiaciuta. “Comincia a piacerti, non è vero?”.
La vedeva nel volto di Kaeso, quell’eccitazione, quella frenesia, forse pazzia.
Ma lui a un certo punto discostò lo sguardo, tenendo ancora l’umana tra le sue braccia, appoggiata sulle sue ginocchia piegate.
“Acilia” mormorò“Non hai mai pensato che… Potremmo nutrirci di… sangue animale?”.
Aveva un’aria così triste, nei suoi occhi blu.
Le piacevano quegli occhi, le ricordavano il mare.

Marcus diceva che è impossibile nutrirsi di sangue animale. Non ci soddisfa, non è quello che cerchiamo. Se beviamo sangue animale, la nostra fame si accende ancora più fastidiosamente, e il desiderio diventa un’assatanata voglia di sangue. E’ andare contro la propria natura, diceva Marcus. La natura… Ma la nostra natura è quella di uccidere, Marcus, lo sai? Non ti stai contraddicendo? Non ti sei contraddetto sempre? La tua morte non è stata la più grande contraddizione del mondo?!

Acilia gli si avvicinò e leccò il sangue dalle sue labbra. Lo sentì irrigidirsi. Poggiò la mano sulla sua tunica, tra le gambe. Oh, sì, si era irrigidito.
Lo guardò, maliziosa.
“Lo sai che hai gli occhi del color del mare?”.
Kaeso evitava di guardarla.
“Fammeli vedere questi occhi” insistette lei, accarezzandogli il viso.
Lui cedette e la guardò. Era molto bello, sembrava una statua di un bianco perfetto.
“ll mare, Kaeso…”sussurrò lei, avvicinandosi sempre di più col corpo. Sfiorò il corpo dell’umana morente. La sentiva muoversi debolmente, grugnire qualcosa, soffrire così atrocemente…
Com’è divertente…
La ignorò mentre quella si aggrappava lievemente al suo braccio, invocando forse pietà. Fece passare una gamba dietro la schiena di Kaeso, sedendosi sopra di lei, che era sdraiata sopra di lui, che era seduto su un bianco materasso.
“La natura”continuò Acilia, parlando all’orecchio di lui“Non ti piacciono le bellezze della natura?”.
Kaeso non rispondeva e lei si avvinghiò al suo petto, buttandogli le braccia al collo, parlando più forte, eccitata e concitata:“La lotta, l’istinto di sopravvivenza, nutrirsi a spese di altri pervivere, e la morteNon è natura questa?”.
Gli passò le mani tra i capelli, glieli strinse e lei spinse il suo corpo in avanti, sentendolo accendersi. “L’arte è la riproduzione della natura… Noi siamo questo, siamo arte, Kaeso! Arte!”.
Con le labbra cercava quelle di lui.
“Non abbiamo altra via d’uscita, Kaeso, accettalo”.
Si incollò alla sua bocca, creando qualcosa che credeva perfetto. Lui esitò un momento, poi ricambiò il bacio e quello dopo un po’ si fece sempre più passionale, sempre più violento. Con le zanne le ­­morse il labbro e il sangue di lei andò a mescolarsi con quello dell’umana che lui aveva ancora sulla lingua. Il sapore del sangue, dell’amore, della perfezione…

Marcus, perché mi hai fatto credere ci fosse una via d’uscita? C’è solo sangue intorno a noi, ed è buono, ed è bello. E tu non l’avevi capito. Ti sei ucciso e mi hai dimostrato che eri solo una barzelletta. Ti ringrazio per avermi aperto gli occhi. Ti ho amato, lo sai? E ti ritroverò sempre, quando vorrò, nel sangue, il sangue che mi hai donato per farmi rinascere, lo sento ancora dentro di me, e ci sarà sempre. Bugiardo e falso. Amore mio, grazie per questa vita che mi hai donato!

Quando riemersero dal bacio, l’umana aveva cominciato a muoversi più forte. Aveva cominciato a dire qualcosa. Chiedeva aiuto.
Acilia si alzò e l’afferrò per le braccia. Senza dire nulla, la lanciò per terra e lei emise un debole grido. Ci fu un brutto rumore, forse la donna si era rotta qualcosa. C’era ancora più sangue.
Acilia si voltò e rise quando vide la stanza piena di sangue. Era una stanza bianca, tinta di rosso. L’umana si contorceva per terra, accanto ad altri dieci cadaveri. Erano tutti bianchi, tinti di rosso.
Si fermò davanti al materasso, dov’era seduto Kaeso, che aveva di nuovo il volto oscurato.
Lei si chinò su di lui, con un sorriso.
“Facciamolo, ti prego” bisbigliò, vogliosa “Facciamolo sopra al sangue”.
Lui si lasciò trascinare, in quella stanza bianca, tra le bianche vesti che furono tolte, e la loro bianca pelle, che divenne rossa.

Perché l’hai fatto, Marcus? Perché mi hai abbandonata?



Jacqueera uscito di casa in gran fretta, quella sera. Acilia gli aveva chiesto dove andava ma non aveva avuto risposta. Eike le aveva spiegato che sarebbero andati da Emily per la seconda notte consecutiva. Certo, aveva pensato Acilia con tristezza, Emily ha fatto il patto del sangue, Emily è in pericolo. Erano tutti in pericolo, ed era colpa sua.
Non lo vuoi uccidere? Tu non lo vuoi uccidere?
Non lo voleva ancora uccidere, Kaeso, dopo quello che aveva fatto a Lyuben?!
Eike aveva seguito Jacque con un’espressione scontenta. Lei doveva far qualcosa. Anche Jacque ed Eike ora erano in pericolo… Avrebbe sacrificato il mondo intero pur di non uccidere Kaeso?!
Pensò a quanto fosse innocente Jacque, a quanto fosse diverso da Kaeso, suo fratello…
No, non avrebbe permesso che il mondo pagasse per i suoi errori, che erano di lui, ma soprattutto di lei.
Si affrettò ad uscire di casa. Bisognava pensare a un piano, fare qualcosa, parlarne, guardarsi in faccia… Sarebbe andata da Dubris, e ci sarebbe rimasta finché non avessero pensato a qualche cosa.
Chiuse la porta e si avviò, camminando veloce, ma a passo d’uomo. Come al solito, sarebbe andata nel bosco.
Le sue scarpe pestavano con frenesia il cemento del marciapiede. Poi si fermarono. Acilia trattenne il fiato quando riconobbe una figura che sembrava aspettarla in fondo alla strada.
Si guardò intorno. C’era qualcosa che non andava, qualcosa di strano.
Curtis si avvicinò, con l’aria più seria che lei gli avesse mai visto.
“Emily” la salutò“Dove vai?”.
Curtis che aveva capito dove abitava, che l’aspettava nei luoghi in cui si faceva vedere più spesso, che le stava col fiato sul collo, che la chiamava, che la voleva vedere. Non era un maniaco.
Lei arretrò lentamente.
Da due macchine parcheggiate lì accanto uscirono degli uomini con delle armi.
Acilia forse l’aveva capito, quando Curtis aveva insistito così tanto per una maledetta foto.
Non era affatto un fotografo.
Gli uomini l’accerchiarono e anche Curtis le stava puntando una pistola addosso.
“Qual è il tuo vero nome, Emily?”.
Erano state solo tante, belle, parole, che per lei avevano avuto uno stupido effetto magnetico. Umani e vampiri, erano tutti deboli, pronti a farsi ammaliare, solo da delle parole.
Curtis aveva saputo interpretare bene la sua parte, molto più di lei.
E ora lei era in trappola.














Ben ritrovate! Boh, non saprei, in certi punti questo capitolo l'ho scritto di malavoglia.. spero vi sia piaciuto lo stesso! E non odiatemi Curtis :3
Che dire, ringrazio tutte voi ragazze che mi seguite e mi lasciate sempre bellissime recensioni ^^ Come vedete mi sono messa a rispondere in privato, è una cosa molto più pratica (una volta non c'era questa possibilità, quindi mi ero abituata a rispondere all'interno degli stessi capitoli). In particolare, grazie mille e complimenti a Red per aver recuperato alla velocità della luce ed essersi messa in pari! :DD

Non saprei bene dirvi quando pubblicherò di nuovo. Ora rallenterò un po' il ritmo perché ho sia lezioni da seguire sia esami da dare, poi mettiamoci anche la ginnastica per non diventare balene e un minimo di vita sociale.. E' un peccato, perché siamo agli ultimi capitoli, ma ce la faremo, ogni "scrittrice" come si deve lo trova il tempo per scrivere e vedrete che non ci metterò troppo u.u
Alla prossima ;)

ps: se vedete delle parole in corsivo attaccate a parole non in corsivo non fateci caso.. Ho provato a staccarle tutte ma magari me n'è sfuggita qualcuna.. Il simpatico Nvu me le attacca, per qualche misterioso motivo o_O

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Capitolo 23
*** Didone ***


Capitolo 22
CAPITOLO XXII
DIDONE
 
 
 
Eliza si raggomitolò su un fianco, cercando il sonno che non ne voleva sapere di venire da lei. Era parecchio stanca, ma l’agitazione la tormentava, come la paura, la paura di quello che sarebbe potuto accadere, o la paura di incontrare Ralph nei suoi sogni crudeli.
Nonostante fosse estate – doveva essere luglio, sì, credeva di sì, o forse era già agosto – quella casa era fredda, come pure quel letto su cui era stesa. Vestita con gli stessi abiti che portava da intere giornate, sentiva il suo stesso odore, e non lo sopportava più. Si sentiva sudata, appiccicosa, ma continuava a stare sotto quella ruvida coperta, fredda anch’essa, per sentirsi più protetta. Il cuscino era sempre bagnato, perché non la smetteva mai di piangere.
Le era stato concesso di dormire intere notti, ora che era incinta. Le era stata data una stanza con bagno. C’era anche un armadio, forse era pieno di vestiti, ma Eliza non l’aveva ancora aperto. Avrebbe voluto cambiarsi, farsi un bagno ma il solo pensiero di spogliarsi la ripugnava. Vedere i graffi che aveva sul corpo l’avrebbe fatta vomitare. Ricordarsi quello che aveva fatto l’avrebbe sciolta in lacrime feroci.
Cosa direbbe Ralph?
Eppure neanche ce l’aveva con Russell. Non voleva morire, come non lo voleva lei. Del resto anche lui aveva dei figli… Avrebbe voluto parlare con lui, magari piangere insieme, mostrare racconti di vita. Ma no, lui le si era avvinghiato addosso, come se aggrapparsi a lei avesse significato aggrapparsi alla vita. L’aveva stretta con tutte le sue forze ed Eliza neanche lo voleva quel figlio che lui le aveva forzatamente messo in grembo. Non odiava Russell, come non avrebbe mai potuto odiare la creatura che stava crescendo dentro di lei. Ma quel bambino che sarebbe nato, di lui, che ne sarebbe stato?
Eliza emise un lungo singhiozzo, cercando di calmarsi. A Charlene non aveva detto niente. Cosa le avrebbe potuto dire? Che avrebbe avuto un fratellino? E gliel’avrebbe detto piangendo? Quale destino avrebbero avuto Charlene e suo fratello?
Eliza pianse più forte, desiderando di avere sua figlia vicino a sé. Ma Charlene dormiva in un’altra stanza. Anche a lei era concesso di dormire qualche ora di notte.
Eliza inspirò a fondo. Doveva resistere. Appena sarebbe stata l’alba, sarebbe andata nella stanza della figlia, e sarebbero state insieme tutto il giorno. Non era pensabile cercare di fuggire durante il giorno. Porte e finestre erano serrate. Non venivano mai aperte e l’odore che respiravano era sempre peggiore.
Inoltre non conveniva loro scappare. Quanto mai sarebbero potuto andare lontano? Al calar del sole, i vampiri le avrebbero trovate in un lampo. E forse sarebbero stati con loro meno clementi, soprattutto con Charlene, alla quale non avevano ancora torto nemmeno un capello… Eliza non poteva rischiare, non poteva. Per quanto lei soffrisse, se Charlene stava bene… Le lacrime si fecero più insistenti ed Eliza sentì il cuore che le rimbalzava violentemente nel petto. Si premette una mano sopra, in prossimità del cuore, respirando piano. Si stava prendendo in giro, ecco cosa stava facendo. Charlene non stava bene ed Eliza l’avrebbe fatta rimanere lì, in balia di quei pazzi, a vedere quell’orrore, per quanto?! Solo perché lei, Eliza, era troppo codarda e non riusciva a pensare a come poter fuggire… Pianse ancora più forte e il suo pianto si fece disperato. Ogni parte del suo corpo tremava e lei capì che non avrebbe mai trovato il sonno, perché non avrebbe mai trovato pace.
Si premette una mano sulla bocca quando arrivò la nausea. Levò la coperta e si alzò di scatto. A piedi nudi corse sul pavimento e raggiunse la porta del bagno. L’aprì, accese la smunta luce di una lampada appoggiata su un mobile e si precipitò sul gabinetto. La nausea la vinse e lei continuò a piangere mentre il fluido rigetto la svuotava, e la faceva sentire debole. Continuava a rimettere, e lo faceva volentieri, come se volesse espellere qualcosa di terribile, come se volesse vomitare il bambino stesso, come se, per lui, finire dentro a un gabinetto sporco fosse un miglior destino di quello che avrebbe atteso se avesse potuto crescere. Eliza ne era ancora  convinta quando la nausea si placò, e lei tornò a respirare regolarmente. Afferrò il rotolo di carta igienica dal pavimento e si pulì la bocca. Sputò, più volte, ancora, sputò sempre più rabbiosamente. Si pulì di nuovo, lanciò il rotolo di carta per terra e debolmente si alzò. La testa le girava, le mattonelle bianche del pavimento erano sporche, la carta igienica correva su di esse, finché non sbatté contro la parete e lei stessa sbatté col fianco contro il lavandino. Con le mani si appoggiò su di esso e alzò lo sguardo verso lo specchio vecchio e graffiato. Emise un verso quando si vide, neanche sapeva se per spavento o per disgusto. Aveva le guance quasi incavate, gli occhi piccoli e attraversati da mille venature rosse avevano perso il loro pallido color palude, quasi grigio, inghiottito da due grandi pupille che tentavano di orientarsi. Per la sua opaca vista i contorni del suo viso non erano così definiti e il bianco della sua pelle, che mai era stato così bianco, pareva uscire dalle linee dando un aspetto deforme alla sua faccia, cerea e abbattuta, con perenni goccioline di sudore là sulla fronte, sotto l’attaccatura dei capelli, sporchi e flosci.
Si asciugò il viso, infastidita. Non riusciva neanche a distinguere il caldo dal freddo. Aveva freddo, sempre freddo, eppure sudava, sentiva il sudore ovunque, sotto i pantaloni, sotto le ascelle, nei capelli. Si sentiva così sporca. Avrebbe dovuto davvero farsi un bagno.
Si era quasi decisa a sfilarsi i pantaloni quando sentì dei passi e trattenne il fiato, in allerta. Ma i passi erano al di fuori della sua camera, avrebbe potuto ignorarli. E se stessero andando, quei passi, nella camera di Charlene? Cosa le volevano fare?
Eliza uscì dal bagno e controllò l’orologio appeso alla parete. Segnava le tre del mattino. Strano, di solito a quell’ora i vampiri erano fuori casa, a… Eliza inspirò a fondo, senza volerci pensare a quello che facevano. Si avvicinò alla porta chiusa della camera e premette l’orecchio contro il legno.
Una porta si stava aprendo, scricchiolando in maniera sinistra. Una voce concitata seguì subito dopo ed Eliza riconobbe il suo proprietario: Russell. Senza vergogna, la donna emise un sospiro di sollievo. Non era la camera di Charlene quella in cui qualcuno era entrato.
Ma subito dopo l’espressione sollevata che sentiva di avere sul volto si tramutò in un muto grido d’orrore, quando sentì Russell urlare, forte, così forte che lei si allontanò dalla porta e le lacrime ripresero ad scorrere, questa volta più debolmente, timorose e sconvolte.
Poi il tonfo di un corpo morto che cade ed Eliza si premette una mano sulla bocca, per non emettere alcun suono.
Il suo corpo riprese a tremare mentre senza alcun motivo si dava della stupida. Stupida perché aveva creduto di uscire viva da lì? Stupida perché pensava che almeno quel figlio che teneva in grembo avrebbe conosciuto suo padre, al contrario di Charlene? Stupida perché pensava che Kaeso l’avrebbe lasciato vivere Russell?!
Dopotutto aveva già fatto quello che doveva… Russell non aveva più scopo. Eliza capì che finché fosse stata utile sarebbe stata viva. Provò vergogna di sé subito dopo perché pensava a se stessa mentre un uomo veniva privato del suo sangue, ucciso e sfigurato. Ma Charlene… Charlene a cosa poteva servire? L’avrebbero uccisa prima o poi? O avrebbero aspettato che crescesse per trasformarla? Oppure per farle vivere lo stesso tormento di sua madre? Eliza non riuscì più ad alzarsi dal pavimento quella notte e pianse silenziosamente, rannicchiata contro la parete. Avrebbe aspettato il sole. Forse col sole avrebbe trovato un po’ di pace, e sarebbe riuscita a dormire, magari abbracciata a sua figlia. La sola cosa che poteva fare per lei, farla sentire amata.
 
*
 
 
Acilia si procurava valanghe di manoscritti, Viridio neanche sapeva perché. I rotoli di pergamena, poggiati alla rinfusa sul pavimento, regnavano, nel caos e nell’odore pregnante dell’inchiostro.
Viridio stava leggendo con interesse le Heroides di Ovidio. Perché mai Acilia avrebbe dovuto leggere epistole così piene di pathos e dramma? Erano lettere di donne, le eroine dei miti greci, che piangevano per i loro uomini lontani. A volte era questo che Viridio vedeva in Acilia, un’eroina di un mito. La tunica bianca, la stola colorata, i capelli lisci e lunghi che volavano col vento, incorniciandole il viso cereo, con quei smeraldi incastonati. Poi il rosso schizzava quel magnifico quadro e la dea cadeva giù in un dirupo fatto di violenza e morte… Viridio smise di leggere e socchiuse gli occhi.
Poggiò il volume aperto di Ovidio sul tavolo e dondolò su se stesso, seduto sul materasso.
Buttò l’occhio sulla pergamena del volume, pensando a quanto fosse costosa. Non ne aveva mai avuto neanche un pezzetto in vita sua. Il suo sguardò incappò nella parola Didone, che scriveva… A chi poteva scrivere? Viridio si concentrò, aveva già sentito quel nome. Ah, ma certo! Ne aveva parlato Virgilio. Viridio aveva letto l’Eneide solo a tratti, era un latino così diverso da quello che lui era abituato ad usare, troppa difficoltà gli aveva privato la lettura di un’opera che, a detta di Acilia, era magnifica. Però aveva letto la storia d’amore tra Didone ed Enea, la ricordava.
Si alzò in piedi ed avanzò verso la parte opposta del tavolo. Ecco la copia dell’Eneide. Viridio prese il quarto volume e sfogliò qualche carta, nostalgico. A volte pensava che quella vita che ora conduceva non era così male. Finalmente aveva il tempo per cose per cui non lo avrebbe mai avuto il tempo, né la possibilità, nella vita precedente. Erano cose che neanche conosceva prima, e lo affascinavano. A volte mentre leggeva dimenticava tutto il resto, si ritrovava immerso tra le parole, e il sangue che aveva fatto scorrere lui stesso non aveva più importanza, e lui si commuoveva per il sangue che altri avevano versato nella storia…
 
Si mihi mon animo fixum immotumque sederet
Ne cui me vinclo vellem sociare iugali…
 
[Se non avessi deciso nel mio cuore irrevocabilmente di non legarmi mai più a nessuno col vincolo coniugale]
 
Viridio trattenne il fiato quando lesse vinclo iugali. Ricordava i baci di Acilia, i suoi sussurri, le sue carezze… Non erano dolci come quelli dell’amore che ricordava.
 
Postquam primus amor deceptam morte fefellit;
 
[da quando il primo amore mi tradì con la morte]
 
Viridio sentì la presa delle sue mani attorno al volume farsi più forte, mentre le macchie di sangue scivolavano via, Acilia scivolava via, tutto scivolava via e lasciava vedere, intatta e immacolata, un’altra figura. Piccola ed esile, così graziosa, lunghi capelli castani…
 
Ille meos, primum qui me sibi iunxit, amores
Abstulit; ille habeat secum servetque sepulchro.
 
[Il mio amore se l’è portato via l’uomo che mi ha legata per primo a sè, e lui lo conserverà per sempre nella sua tomba]
 
Viridio sentì esplodere qualcosa dentro di sé ma all’esterno uscì solo un flebile suono. Prisca – così si chiamava, vero? – era morta, sepolta da qualche parte… Da sola? Aveva portato con sé l’amore che provava per lui, Viridio, dentro la sua tomba? Sarà per sempre conservata lì dentro la sua – di lui –  antica umanità, il suo antico amore? Quello che era una volta…
E lui invece si era gettato nelle braccia di un’altra donna, come Didone aveva dimenticato il suo primo e unico amore, per lanciarsi su di Enea, che l’aveva solo illusa e tragicamente, portata alla morte…
Il volume di Virgilio cadde dalle mani di Viridio, con un lieve tonfo calpestò il pavimento, ma quel pacato rumore rimbombò all’interno del suo corpo, come se fosse caduto non per terra, ma sul suo cuore, e violentemente.
Che stai facendo, Viridio?
Quanti giorni felici dimenticati, quante promesse distrutte, quanto amore buttato al vento! Per un po’ di sangue… Era come se il sangue gli fosse arrivato al cervello e avesse manomesso tutto, l’avesse fatto impazzire. Quell’angelo dalla veste bianca era solo un demonio, che l’aveva ucciso e poi fatto suo, il tragico destino si vedeva fin dall’inizio, fin dal primo istante, quando aveva visto quegli occhi, di un verde folle, che gli avevano tolto la vita, e l’onore…
Prisca reclamava il suo spazio, reclamava a gran voce l’uomo che le era stato portato via, reclamava una dolce zona nella sua mente, per lei, per i suoi ricordi, di lei e di Iulia.
Viridio nascose il volto nelle mani. Non ricordava più la voce della sua bambina, la sua risata, niente.
Aveva in mente solo i suoi occhi, blu. Come il mare… Digrignò i denti, inconsapevolmente. Li ricordava a fatica, quegli occhi. Erano uguali a quelli suoi, lo sapeva, ma non poteva più vederli, neanche quello gli era rimasto. Non poteva guardarsi perché non aveva più un riflesso, non poteva più ritrovare nella sua immagine gli occhi di sua figlia…
Come il mare…
Più tentava di riacciuffare il ricordo sbiadito di quei blu occhi, più la voce di Acilia gli entrava nella testa, quel sussurro, così fastidioso… Non poteva neanche riesumare i cocci della sua vita perduta senza che quella sua voce, quel suo bisbiglio, limpido, irritante ma così inspiegabilmente suadente gli perforasse il cervello, gli rimbombasse nella mente, cancellando tutto il resto, distruggendo i suoi ricordi, dolci e lontani. 
Come il mare…
Un mare di cadaveri, un mare di sangue che scorreva incessante, e un mare di piacere, che lui stesso aveva provato…
“Kaeso, stai bene?”.
Quanto odio questo nome!
Viridio riemerse dalle proprie mani. La porta della casa era aperta, Acilia era sulla soglia, intagliata perfettamente nella notte, al chiaro di luna.
Viridio, pensò, mi chiamo Viridio. Ma non disse niente.
Non meritava più quel nome che avevano pronunciato tutti i suoi cari. Viridio non esisteva più, Prisca stessa l’aveva seppellito, Iulia chissà quanto aveva pianto per la sua morte! Non c’era più Viridio, esisteva solo Kaeso e sarebbe esistito per sempre solo Kaeso… Che non era più lui, che era un mostro e basta.
“Kaeso?” insistette Acilia, squadrandolo. Entrò in casa e chiuse la porta dietro di sé. “A che pensi?”.
Ancora Viridio non rispose.
“Me lo puoi dire a cosa pensi” disse lei “È normale pensare. Anch’io penso tanto”.
Lui alzò un sopracciglio. Si sentiva arrabbiato. Acilia pretendeva di mettersi sul suo stesso piano? Di capirlo?
“Pensavo alla mia vita passata”.
“Oh, quello” fece Acilia. Si sedette vicino a lui e gli prese la mano “È passato quasi un secolo. Ancora ci pensi?”.
“Tu non ci pensi mai?” ribatté Viridio, con meno collera di quanto avesse voluto.
“No”.
Per un momento Viridio pensò che la ragazza stesse mentendo. Qualcosa nella sua espressione severa e pazza era mutato, ma solo per un istante.
“Beh, io sì” replicò.
“Ci vuole del tempo per lasciarsi tutto alle spalle” fece Acilia, con un tono che sembrava quasi confortante.
“Non basterà mai, il tempo non basterà mai!” sbottò Viridio, alzandosi con uno scatto “Cosa ne vuoi sapere tu?!”.
Anche Acilia si alzò, con la fronte aggrottata e un lampo di rabbia negli occhi.
“Ero umana anch’io, avevo una vita anch’io” disse, con più calma di quella che emanava dallo sguardo. Il suo corpo sembrava tremare, come se si stesse trattenendo, come se stesse sopprimendo… qualcosa.
“Tu non hai avuto figli!” gridò Viridio, senza chiederle nulla, senza voler capire nulla “Tu non puoi capire!”.
Acilia non disse nulla e lui andò avanti, sentendo tutto l’odio che scivolava, mentre la tristezza, quella avanzava crudele, implacabile: “Cerco di ricordarmi il suo dolce viso… Era bellissima, lo sai? Lo so che era bellissima, me lo ricordo… Ma non riesco a… I dettagli del suo volto mi sfuggono via! E sua madre…”. Viridio abbassò lo sguardo, mentre la voce diventava quasi un pigolio “Non voglio dimenticarle… Non voglio che il tempo le elimini…”. Alzò lo sguardo verso di Acilia, ritrovando la rabbia. “Ma finché guarderò te, rivedrò loro” disse, riprendendo il controllo della voce, facendosi velenoso  “Perché sei tu che me le hai portate via!”. E la voce di nuovo si fece tenue, vedendo che Acilia non reagiva, quella sembrò volersi nascondere, e la rabbia così come veniva se ne andava. “Allora… perché le sto già dimenticando? Perché qui ci sei solo tu?!”. Crollò sulle ginocchia, gli occhi fissi sul pavimento, senza volerla guardare quella donna, perché non era vero che se la guardava rivedeva loro, vedeva solo lei, solo lei…
Sentì Acilia che si chinava su di lui, e lo abbracciava. “Ci sono io” ripeté ella “Ci sono solo io… Dimenticarle ti farà bene, non puoi vivere con l’onere dei ricordi della tua vita passata”. Gli prese il volto nelle mani e lui la lasciò fare, completamente succube. “Ti aiuterò io a dimenticarle. Sono l’unica su cui ora puoi contare”. Gli diede un bacio ma lui si ribellò. Indietreggiò ma non poté evitare di guardarla, quella megera, così bella.
Era vero, solo su lei poteva contare. Ed era vero che anche lei era stata umana. Lo poteva davvero capire, forse…
Lei si riavvicinò a lui, paziente. “Non puoi fare altro” disse “Non c’è altra via d’uscita”. Glielo diceva spesso, sempre. Non c’è via d’uscita. “Possiamo solo affrontare tutto questo insieme, io e te”. Gli riprese le labbra e gli circondò il collo con le braccia.
Lui, come una stupida Didone consapevole di quel che l’attendeva, ricambiò il bacio. Pensava alle storie d’amore, quella di Didone ed Enea, di tanti altri, di com’erano tragiche, ma così belle da leggere. Prisca apparteneva ad un altro volume, ora c’era Acilia. Poteva plasmare la sua vita, come se fosse un’opera scritta, o teatrale, un’immensa opera d’arte… Acilia diceva sempre che loro erano natura, e la natura era arte, non c’era dubbio. La lingua fredda di lei solleticava la sua, erano entrambe lingue fredde di due cuori che non potevano più battere, se non, metaforicamente, l’uno per l’altra. Sapeva che avrebbe finito di nuovo col fare quello che lei gli diceva, sapeva che avrebbe ucciso ancora, ma il pensiero lo spaventava sempre meno, lo eccitava. A volte tornava lucido, come se riemergesse da un sogno, e cercava di fare mente locale, e quel che ricordava non aveva senso, perché era tutto pregno di sangue. Ma tornava lucido sempre meno volte, sempre meno…
 
Ti devi svegliare.
 
*
 
 
In un primo momento Acilia non riuscì a reagire. Il primo istinto fu quello di fuggire, perché era quello che facevano gli animali, e lei in quel momento era braccata come fosse un animale. Ma Curtis l’aveva sempre guardata come se fosse umana.
La tua espressione è adulta. Troppo sofferta per una ragazza.
Ma era stata tutta finzione.
Perché non mi racconti la tua storia?
Acilia notò uno scintillio nella mano di Curtis, che stringeva l’arma. Era una fede. Si sentiva stupida, davvero.
Si guardava intorno, quei cacciatori l’avevano accerchiata, da dove poteva fuggire? Ma voleva davvero scappare? Farsi prendere non sarebbe stata una gran liberazione?
Buffo, lei che predicava tanto la convivenza… Morire per mano degli umani che lei stessa difendeva…
No, pensò, non è giusto, io non sono malvagia, non merito di essere presa!
Ma cosa stai dicendo? Certo che sei malvagia.
Aveva mille armi puntate addosso.
Che dici? Saranno solo sette.
Erano tanti, tutti contro di lei, tutti arrabbiati con lei, perché lei era qualcosa di sbagliato che andava assolutamente eliminato.
Affrontali! Sono solo umani!
Se l’avessero eliminata milleottocento anni prima… Se non fosse stata trasformata, se si fosse sposata con… Come si chiamava, Vito? Se si fosse sposata con Vito, avesse avuto figlie sfortunate e presuntuosi figli e poi fosse morta, inutile e indignata… Non sarebbe stato meglio che affrontare tutto questo?
Non avresti conosciuto Miguel. O Jacque.
Non sarebbe morto Damiano.
Sarebbe morto comunque. Che differenza fa?
Perché non farla finita?
Non vuoi più rivedere Jacque?!
Sentì uno sparo, poi un altro, seguiti da un lungo eco, o forse era solo nella sua testa perché con un salto spiccò in aria e riuscì a schivare ogni proiettile. Fischi nelle orecchie, visi levati verso di lei, proiettili che arrivavano, urla lontane, lei doveva scappare, scappare…
Un gran dolore alla gamba e lei planò a terra con un grido, sentì la pesantezza del suo corpo poggiarsi sul cemento, un tonfo, graffi sulle mani. Le voci intorno a lei si fecero insistenti ed emozionate, lei si mise seduta di scatto, ignorando la gamba che doleva. Urlando, tentò di estrarre il proiettile che le trafiggeva il polpaccio. Il sangue colava ma non era niente, niente.
“È un vampiro! È un vampiro!” gridava qualcuno.
“Andiamo via!”.
“Corri!”.
“Sì!” sbottò Acilia, allargando le braccia, mentre le auto inchiodavano e le persone scappavano “Sono un terribile vampiro! Uccido tutte le notti! Sono un mostro!”.
Lo sei. Lo sei.
Estrasse le zanne e vide dei ragazzini correre via terrorizzati e in quel momento le attraversarono la mente i visi delle sue vittime.
Lo sei.
Non poteva ricordare quei visi, ma erano fisionomie comuni, facce qualsiasi, e lei avrebbe potuto averli uccisi tutti.
Credeva di essere stata pazza, ma chi le assicurava che non lo fosse ancora?
Dei passi si fecero concitati, i cacciatori la stavano raggiungendo.
Trafelata, si alzò e si mise a correre, più lentamente di quanto avrebbe voluto.
Li sentiva vicini, troppo vicini. Sentiva anche una sirena, nella sua testa… Ma certo, dovevano aver preso la macchina, l’avrebbero raggiunta!
Disperata, accelerò.
“Emily!” sentì la voce di Curtis “Vogliamo solo parlarti, fermati!”.
Parlarmi? È così che si fa? Prima sparano e poi ti dicono che vogliono solo parlarti?
No, prima dici loro qualcosa di carino e poi, a tradimento, li azzanni…
Acilia aumentò il passo, più che poteva, fuggiva da Curtis e fuggiva dal suo passato. Entrambi la volevano prendere, catturare, fare a pezzi…
Basta, Kaeso, smettila, finiamola, non voglio più, non voglio più…
L’aria, così potente, la colpiva sul viso. A quella velocità non l’avrebbero presa.
Ti devi svegliare. Ti devi svegliare!
Poi sentì ancora degli spari e cadde di nuovo a terra. Si contorse per terra, cercando di capire in che punto l’avessero colpita. Poi si mise sulle ginocchia, ansimando, e scorse la figura di Curtis, sempre più vicina.
 
 
 
I morti sono otto, i feriti tredici, dei dieci cacciatori sopraggiunti ne sono sopravvissuti…”
Emily vide le spalle di sua madre fremere e contemporaneamente un tonfo sonante le fece capire che una stoviglia le era scivolata dalle mani, sul fondo del lavello.
Senza dire nulla, continuò ad asciugare le pentole, una dopo l’altra, poggiandolo sul tavolo in perfetto ordine, inutilmente, dato che poi avrebbe dovuto riporle al loro posto. Dopo un po’ notò che anche a lei tremavano le mani.
Lanciò uno sguardo alla piccola televisione accesa riposta sul mobile di fronte alla tavola. Pensò di spegnerla ma alla fine a cosa sarebbe servito? Le cose succedevano comunque, tanto valeva saperle, ed essere preparati.
Jacque ed Eike, arrivati dopo cena, erano nel salotto, e lei stava lì, in cucina, ad asciugare stoviglie. Era assurdo, e tragico.
“Lydia allora è tornata a casa sua?” fece la voce di sua madre.
Emily ne scrutò la schiena larga e curva.
“Sta cercando Sam” rispose, tristemente. Quella mattina Lydia si era precipitata a casa, e non l’aveva trovato. Lei, Emily, era andata a lavoro, se no l’avrebbe aiutata a cercarlo, avrebbe fatto qualcosa…
“Ma adesso è buio” fece sua madre.
Emily non ne vedeva l’espressione e per un momento la detestò, insensatamente. La detestava perché aveva paura? E per la prima volta aveva davvero paura anche lei? Là fuori era il caos e Jacque non avrebbe potuto fare niente per salvarla. Sarebbe morto anche lui forse, e lei stessa, e i suoi genitori, e Lydia si sarebbe cacciata nei guai, per cercare Sam… Dove diavolo era finito?! Sui giornali e alla televisione avevano elencato i nomi dei morti ma il suo non c’era. Dov’era il suo corpo? Perché ormai non ci sperava più che fosse vivo. Poggiò lo strofinaccio sul tavolo, sentendo che stava per esplodere.
Doveva chiamare Lydia di nuovo, farla ragionare. Ma a che scopo, lo sapeva anche lei che non si sarebbe data pace finché non avesse trovato Sam. L’amore era forte, tumultuoso, ti annebbiava il cervello ma ti infondeva coraggio. Emily neanche poteva immaginare quello che legava Lydia e Sam, neanche lontanamente.
Per quanto si sforzasse di non pensare a Jacque, non poteva, non…
“Emi, mi ascolti?”.
Emily riemerse dai propri pensieri e la prima cosa che vide fu il suo riflesso opaco e distorto su una pentola. Si voltò e vide il viso di sua madre, aggrottato, che la guardava. “Fai venire Lydia qui”.
E quello che significava? Quello sguardo? Un ordine?
“Ci ho provato” rispose, quasi sussurrando. Si sentiva arrabbiata, eppure la voce era fioca.
“Richiamala” insistette l’altra “È fuori, da sola, di notte!”.
“Lo so!” sbottò Emily, ritrovando la voce di colpo. Aveva voglia di buttare all’aria tutte le stoviglie asciugate e poggiate accuratamente sul tavolo – perché?
Sua madre la guardò torva e lei si mise a gridare: “Hai paura, mamma? Ce l’ho anch’io! Ho paura anche per Lydia! Che non trova Sam…”. Le sue stupide grida si sciolsero in lacrime e lei girò la testa di lato, in un vano tentativo di non farsi guardare.
Sentì la madre sussultare.
Jacque era apparso sulla soglia della cucina, imbarazzato, le mani nelle tasche dei pantaloni. Sembrava davvero un teen ager, poco più grande di Michael.
“Va tutto bene?”.
La madre di Emily fece un breve cenno d’assenso col capo e tornò al lavello. La ragazza si asciugò velocemente gli occhi con le mani e si diresse verso di lui, e uscirono dalla cucina.
“Vuoi che vada a cercarla?” domandò Jacque. Si riferiva evidentemente a Lydia.
Sì, digli di sì.
Che gli sarebbe potuto succedere?
Ma non poteva approfittare di lui fino a quel punto, non poteva più farlo.
“Provo a chiamarla di nuovo” rispose infine Emily. Evitava di guardarlo negli occhi, quegli occhi spenti che l’avevano fatta innamorare, perché ora sapeva che quegli occhi non lo erano, spenti. Riflettevano tutta la vitalità di un amore passionale e tormentato, lontano nel tempo ma destinato ad essere eterno, e quell’amore ovviamente non era lei.
“Non mi costa niente andare a cercarla” insistette Jacque.
Smettila, smettila…
Perché le stava così vicino, perché voleva proteggerla, aiutarla? Voleva fare l’eroe, come suo solito? Quando era entrato in casa sua pieno di argento, con le mani lacere… Cosa voleva dimostrare?!
Emily evitò ancora il suo sguardo e afferrò il suo telefono cellulare da una mensola in salotto. Non cercò il numero di Lydia in rubrica ma compose il suo numero, nervosamente, come se volesse prendere tempo.
Ogni volta temeva che lei non rispondesse.
“Ragazzi” li chiamò la voce di Eike, dal divano, lo sguardo fisso sul televisore. Anche la tv del salotto era accesa e il telegiornalista pareva aver cominciato ad elencare un’altra lista di morti.
Emily e Jacque si avvicinarono in fretta. Lei sentiva il proprio cuore battere forte, e la mano si era avvinghiata quasi inconsapevolmente al cellulare. Con l’altra mano avrebbe voluto cercare quella di Jacque, ma non lo fece.
 
In giro per strada non c’era nessuno. La città era un deserto e questo invece di rassicurla, la inquietava. Il cielo si stava rannuvolando, sarebbe arrivato un acquazzone, sicuramente. Ma faceva caldo, l’aria era soffocante lì dentro la sua macchina e il sudore le imperlava la fronte, tuttavia non si sarebbe fermata a riposare. Aveva chiesto di lui in ogni locale e ristorante. Aveva controllato quando si fosse collegato a Facebook l’ultima volta. Aveva chiamato tutti i suoi amici, e quelli di lui. Cos’altro poteva fare? Cosa c’era rimasta da fare?!
 
I nomi erano tanti e il telegiornalista neanche riusciva a mantenere un contegno. Era quello che dovevano fare i telegiornalisti, no? Restare impassibili, essere neutrali qualunque cosa dicessero, avere un’espressione quasi disumana, e usare un linguaggio talmente formale da risultare falso, un sottolinguaggio. Non c’era nulla di tutto questo nel telegiornalista con gli occhiali rettangolari e il mento ispido che Emily aveva di fronte, nulla di freddo e nulla di finto. Era tutto tragicamente vero.
“A Sheffield sono stati identificati i corpi di Herny Mills, ventinove anni. Ian Stevens, trent’anni. Stephanie Knight, quarantotto anni”.
 
Il panico stava prendendo il sopravvento, ma la speranza non l’abbandonava. I vampiri erano crudeli, terribili. Da quando aveva memoria, aveva sempre vissuto in un incubo ma quello era peggio. Non poteva immaginare, non avrebbe potuto mai immaginare! Le cose brutte capitano agli altri, no? Agli altri! A lei non era mai capitato niente, niente…
 
“A Preston. Susan Clark, cinquantadue anni. Aaron Hunt, trentasei anni”.
 
Avrebbe voluto fare la pace con lui. Per che cosa avevano litigato del resto? Neanche se lo ricordava più. Non avrebbe mai più litigato con lui, mai più, per nulla al mondo. Perché lo avrebbe ritrovato, sì, e gli avrebbe detto che lo amava.
 
“A Bristol. Nick Powell, ventun anni. Jonette Mitchell, quarantaquattro anni. E le figlie Betsy Russell, sedici anni; Valerie Russell, tredici anni. Il marito è disperso”.
 
Gli avrebbe detto che l’amava, e l’avrebbe baciato, l’avrebbe abbracciato, stretto, e mai più lasciato andare…
 
“A Horfield. Julyan Smith, trentacinque anni. Pamela Price, ventiquattro anni. Sam Jenkins, ventotto anni”.
 
D’altronde, come avrebbe potuto esserci un mondo senza di lui?
 
Il cuore di Emily saltò un battito. Forse stava per cadere, perché si ritrovò il braccio di Jacque dietro la schiena. Quel contatto così freddo… Lo stesso che aveva ucciso Sam… La stanza sembrava girare e d’improvviso lei avvertì la nausea. Il telegiornalista con gli occhiali appariva tremendamente sfuocato, e la sua voce non la sentiva più. Indietreggiò di qualche passo e si sedette sul divano, delicatamente. Aveva ancora il cellulare nella stretta mortale della sua mano.
“Devo chiamare Lydia” disse, con una voce che neanche pareva più la sua “Devo dirle che ora può tornare a casa”.
Avrebbe risposto, vero?
Sentì la voce di Jacque, ma lui, lei non lo voleva ancora guardare in faccia. “Chiamala. Chiamala subito”.
Come poteva riferire una cosa del genere?
Tuttavia la paura di veder scomparire anche lei ebbe la precedenza.
Ma se poi Lydia avesse fatto qualche cazzata?
“Emily” fece Jacque, quasi leggendole nel pensiero “Non dirle nulla, fatti solo dire dove si trova. La vado a prendere”.
La doveva chiamare davvero, allora. Gliel’avrebbe detto davvero, allora.
Era successo davvero, allora.
Emily premette finalmente il tasto di chiamata.
Eppure lo sapeva già che Sam doveva essere morto.
Ma la speranza talvolta ti si attacca come una malattia fastidiosa, diventa una condanna, e tu non puoi fare altro che aspettare.
 
Se ancora sperava così tanto, perché non riusciva a frenare le lacrime?
 
 
 
Era quasi fatta, il vampiro era a terra, con un colpo alla gamba, un altro all’addome, schizzato di sangue. Il prossimo colpo sarebbe arrivato nel profondo del suo cuore, e poi sarebbe esploso.
Curtis, ansante e sudato, indossava un apposito giubbotto imbottito che avrebbe attutito il penetrare dei denti. Aveva caldo, ma sporadiche gocce di pioggia già cominciavano a cadere e l’avrebbero rinfrescato.
Del resto era solo una misera protezione quella che aveva addosso. Se si fosse presentato corazzato, il vampiro donna sarebbe fuggito subito.
I suoi compagni stavano arrivando, erano appesantiti dalle protezioni e dal casco, e lui era stato più veloce. Forse era anche perché voleva ucciderla lui stesso? Strano, non aveva nessuna voglia di ucciderla. Forse era proprio il contrario, forse voleva salvarla. Tutte quelle sere in cui si erano visti, perché lei non gli aveva mai fatto del male?
Emily – chissà qual era il suo vero nome – si stava guardando atterrita il corpo. Aveva un’espressione spaventata, un’espressione che non le si addiceva, a lei che mostrava così tanta saggezza in un viso fanciullesco. Ora sembrava davvero una ragazzina e sparare sarebbe stato più difficile.
È un vampiro, che aspetti?
Era il suo lavoro. Se avesse ucciso un vampiro avrebbe meritato un po’ di riposo, sarebbe potuto stare con Karen e i bambini. Quelli erano tempi brutti, Karen aveva sempre più paura che lui morisse e li abbandonasse. L’ammirazione che lei provava per il sogno di lui, quando erano ragazzi, si era trasformata in una cieca e rabbiosa paura, ma lui continuava ad amarla. Del resto, se credeva nel suo lavoro era perché voleva proteggerla, proteggere i gemelli e tutte le famiglie, e tutti i bambini. Da quelli come lei.
Devi sparare.
Aveva già ucciso dei vampiri, ma lei era diversa.
Non ho niente che non va, davvero. Mi dispiace se sono di pessima compagnia, ho dei… problemi.
Avrebbero potuto parlare ancora, e lui avrebbe potuto scoprire cose che non sapeva e che non aveva mai voluto sapere sui vampiri. Ricordò il disegno che Sally aveva fatto quello stesso giorno.
Sarebbe bello, aveva detto.
Emily era inerme. Indietreggiava strisciante e lui aveva la pistola puntata contro il suo petto.
Spara. Devi sparare!
Le gocce di pioggia stavano aumentando la loro frequenza, cadevano sul vampiro, si mescolavano col sangue. Precipitavano sul suo volto, e lui pensò alle lacrime. Karen forse stava piangendo, aspettando il suo ritorno, pregando che tornasse… Non poteva più farla piangere, non poteva più farla attendere!
Spinse il braccio ancora più avanti, pronto a sparare. Ma Emily, con quello che pareva uno sforzo enorme, fece un balzo improvviso verso di lui e gli afferrò il collo con le mani. Curtis lanciò un grido e la sua pistola sparò, a vuoto. Sentiva le unghie di lei ferirgli il collo e si dimenava con tutto il corpo, disperatamente. L’immagine di Karen che piangeva era sempre più vivida dentro di lui, dentro al suo cuore.
Gridava e gridò più forte quando sentì i denti di lei perforargli il collo.
Adesso arrivano gli altri, si diceva, adesso arrivano gli altri… Ma quanto erano rimasti indietro?! Sentiva il sangue uscire, insieme alle sue forze, e la vista stava sparendo e tutto gli veniva risucchiato via, l’anima gli veniva portata via, con il terribile morso di un animale che aveva paura di morire, mentre la pioggia, facendosi più insistente, gli picchiava la testa, fresca, unico suo sollievo.
Il suo stesso grido dopo poco si placò, neanche l’aveva più la forza per urlare. Rimpiangeva di aver dedicato tutto se stesso al lavoro, di non essersi sforzato di più con Karen.
Ma torni?
Certo, Sally, certo che torno… 
Non sapeva dire se la vista l’aveva abbandonato o se invece erano le sue palpebre che si erano chiuse, ma era tutto tremendamente buio, e freddo. Non sentiva più il sangue scivolare giù per la sua gola, non sentiva più le gocce di pioggia che gli bagnavano le guance, come fossero le lacrime che non aveva fatto in tempo a versare. Non gli sembrava neanche più di avere un corpo, a dire il vero.
Ma Selwyin lo guardava ancora torvo e la risata infantile di Sally si era trasformata in una risata maligna, e lui non trovava alcun conforto, alcuna serenità, alcuna pace, nella morte…
 
 
 
Acilia correva tra gli alberi del bosco. Non era riuscita a fermarsi perché era ferita. Non era riuscita a fermarsi perché se non avesse bevuto tutto il sangue di Curtis, non avrebbe potuto più correre veloce e gli altri cacciatori l’avrebbero presa. Non era riuscita a fermarsi perché non voleva. E lei, maledetta, continuava a voler vivere!
Dove sarebbe potuta andare ora?
Non importava, se continuava a correre non l’avrebbero catturata. Bastava solo continuare a correre.
La sua mente era attraversata da sangue, solo sangue, lei aveva ucciso ancora, un innocente, lei che avrebbe tanto voluto avere un dialogo con i cacciatori! L’aveva avuto sotto il naso tutto quel tempo, un cacciatore, quante cose avrebbe potuto dirgli!
Ma lui non ti avrebbe ascoltato, lui ti voleva uccidere…
Si era difesa, l’aveva sempre fatto, no? Continuava a difendersi, invece di sparire nell’orrore che aveva fatto tanto tempo prima, che era lontano, ma era lì, sempre lì… Continuava a difendersi e a difendere la sua sporca razza inseguendo un sogno impossibile!
Parlare con Curtis? Fargli capire – e far capire a tutti gli umani – che lei era buona? Lui le aveva puntato una pistola addosso, e lei l’aveva ucciso. Era questa la realtà.
La pioggia si era fatta violenta e ogni goccia la infastidiva. Tutta quell’acqua sul suo viso, le sue finte lacrime, non la voleva.
Pensò che sarebbe stato meglio farla finita, morire, farsi catturare. Ma farsi catturare sarebbe stato un po’ come arrendersi. Lei non credeva più in nulla ma arrendersi non l’avrebbe mai fatto.
Ma allora non era vero che non voleva morire, semplicemente non voleva che qualcun altro lo decidesse per lei, che era giunto il tempo di morire.
Però è giunto da tanto tempo…
Continuava a correre, accogliendo quel pensiero, e poi subito ricacciandolo, ritornello e strofa, l’uno sempre lo stesso e l’altra sempre diversa. Le motivazioni per cui non voleva morire erano diverse, e si rincorrevano pietose, ma il chiodo fisso, come intermezzo, rimaneva sempre quello. E lei intanto correva, mentre la pioggia puliva le sue ferite, e il fango di nuovo la sporcava, e l’animo rimaneva sempre uguale, nella danza frenetica della sua mente.
Chissà per quanto tempo corse, chissà quanti chilometri aveva percorso, prima che, stanca, si fermasse. Chissà dov’era finita, in un limbo tra l’odio e l’amore, tra il il perdono e il rancore.
Si buttò a terra, dolorosamente, accompagnata dagli schizzi di pioggia, che rimbalzavano sul terreno, e su tutto il suo corpo.
In quel momento, Lyuben che le parlava della decisione più importante della sua vita, le sembrava così surreale.
 
Si portò una mano al petto mentre un’idea che aveva sempre avuto ma che la spaventava troppo tornò a galla nel mare tempestoso della sua mente. Sarebbe rimasta lì, sdraiata tra l’erba e il fango, sotto la pioggia, che l’avrebbe rasserenata e fatta sentire parte della natura. Si sarebbe ricordata le cose belle della vita, avrebbe pensato all’unico uomo che aveva davvero amato e l’avrebbe stretto a sé e l’avrebbe scaldato nel gelo dei suoi ricordi. Finché non fosse venuta l’alba.
Allora avrebbe guardato il sole come se lo vedesse per la prima volta, avrebbe sentito il suo calore accarezzarle la pelle, come il calore dell’amore che non voleva dimenticare.
E poi sarebbe bruciata, all’inferno.
 
Chiuse gli occhi, convinta che non li avrebbe mai più aperti, perché la luce del sole sarebbe stata atrocemente accecante, per una figura buia come lei.
Chiuse gli occhi, e per la prima volta dopo tantissimo tempo pensò solo a respirare.
Contava i suoi respiri. Uno ad uno.










Signore, come vedete il cerchio si è chiuso, l'ultimo pezzo del capitolo era proprio lui, il prologo u.u Quindi.. fine? No, mi spiace :D

Dunque, il titolo del capitolo Didoneè stata un'ispirazione dovuta al fatto che protagoniste indiscusse di questo capitolo sono donne, alle quali volevo dare una vaga aria di eroine tragiche, proprio come quelle delle Heroides che leggeva il nostro simpatico Kaeso XD Infatti ogni donna ha la sua disgrazia: quello disperata di Eliza, quella più banale di Emily che ama Jacque, quella drammatica di Lydia che perde il suo ragazzo e, infine, Acilia, l'apoteosi della tragedia che, proprio come Didone, pensa al suicidio come soluzione. Poi, beh, anche Kaeso si è sentito vicino a Didone ma quel riferimento serviva poi per collegare i vari pezzi :D
(ah sì c'è anche la tragedia di Curtis ç_ç)

Ragazze, vi ringrazio tantissimo perché trovate sempre il modo di lasciarmi una recensione (in alcuni casi.. dei papiri D:) il che significa che almeno un minimo la storia vi ha preso e questo mi rende davvero felice :D
Vi lascio ancora in suspanse (ormai ci ho preso gusto con gli ultimi capitoli, vero?), e vi do appuntamento al prossimo capitolo! Ora come ora sono alle prese con la prima parte di un esame caccoso che di umano ha ben poco eee facendo due conti.. dovrei tornare circa a metà marzo ;)
Au revoir! 
[cit. Jacque]

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Capitolo 24
*** Luna ***


Capitolo 23
CAPITOLO XXIII
LUNA
 
 
 
“Lydia… Lydia, aprimi, per favore!”.
Jacque picchiava con insistenza sul vetro del finestrino della macchina della ragazza, illuminata dalla luce di pochi lampioni e da una luna grigia.
“Lydia, sono io… Sono Jacque!”.
Al di là del vetro rigato di gocce di pioggia, vedeva la ragazza guardarlo con espressione spaventata, con occhi spalancati e lacrimosi. Dopo qualche secondo l’umana si decise ad aprire la portiera.
“Cosa sei venuto a fare qua?” esclamò, con voce strozzata “Pensavo venisse Emily per aiutarmi!”.
“Vieni fuori” ribatté il vampiro “Dobbiamo andarcene da qui”.
“No!” gridò la ragazza, affrettandosi a richiudere la portiera ma lui fu ovviamente più veloce e con un braccio la tenne ferma. Lydia non aveva speranze contro la sua forza e se ne rese subito conto, perché estrasse la pistola e gliela puntò addosso, di nuovo.
“Lasciami in pace o ti sparo, giuro che ti sparo!” urlò, esasperata.
Jacque trasse un sospiro profondo.
“Sono qui per aiutarti, mettila giù… È pericoloso per te stare qui” disse, lentamente, con gli occhi come ipnotizzati dalla pistola. Bastava un colpo, premere un solo grilletto e tutto sarebbe finito…
Aveva promesso ad Emily che avrebbe riportato a casa Lydia, sana e salva.
“Ti prego, fidati di me”.
“Perché dovrei fidarmi di te?” sbottò la ragazza, agitando il braccio e la pistola “Solo perché Emily si fida? Emily è impazzita… oppure l’avrai incantata! Ecco cos’hai fatto! L’hai…”.
“Smettila!” esclamò Jacque “Perché non vuoi capire che io sono dalla vostra parte?!”.
“Non mi interessa!” urlò l’altra “Io devo cercare Sam!”. Solo nominandolo, la rabbia abbandonò il suo volto e lei proruppe in un pianto, abbassando l’arma.
Lui strinse le labbra e la guardò, cosparsa di lacrime, pioggia e disperazione. Lentamente alzò un braccio e avvicinò la mano alla pistola. Gliela prese e Lydia non oppose resistenza, continuando a piangere.
“Non urlare, è pericoloso” le disse.
Non aveva idea di come dirle che il suo ragazzo era morto.
Le tese la mano. “Vieni con me”.
Lei smise di singhiozzare, ma aveva abbassato lo sguardo sulle proprie cosce, gli occhi puntati sui jeans bagnati.
“Lydia, vieni con me” insistette lui.
Dovevano muoversi, non sapeva se sarebbe stato in grado di proteggerla se fosse arrivato qualcuno.
“Per favore!”.
Lei aveva preso a tremare, e ancora non lo guardava.
Jacque si decise a prenderla per un braccio e a tirarla fuori dall’auto con la forza. Lei lanciò un gridò e si dimenò ma si trovò presto intrappolata tra le braccia di lui. Gli assestò una gomitata nello stomaco e subito dopo gridò di nuovo, dolorante.
“Calmati, o ti farai solo del male” sibilò Jacque, invocando la pazienza.
“Non torno a casa” stava dicendo la ragazza, furiosa “Devo trovare Sam! Lo devo trovare!”.
Jaque si sentì mosso da pietà, ma, per quanto avesse vissuto a lungo, il tatto non era una cosa su cui Acilia aveva particolarmente insistito, educandolo.
“Non lo troverai” disse solo.
Si aspettava che Lydia continuasse a dimenarsi e che urlasse che invece lo avrebbe trovato, invece si placò.
Lui la teneva tra le braccia. Era calda, proprio come Emily.
“Se ti lascio andare” disse il ragazzo “mi prometti che non tenterai la fuga? Sarebbe inutile, e pericoloso”.
Passò qualche attimo, poi lei annuì.
Lui mollò la presa e la guardò in faccia. Il volto era cereo, i capelli biondi appiattiti e zuppi, il respiro affannoso, che le usciva dalla bocca, semiaperta, come se fosse pronta ad urlare ancora.
“Ora pensa a te stessa e vieni con me” insistette Jacque “Sam vorrebbe che tu ti salvassi”.
Inaspettatamente Lydia crollò a terra e le sue ginocchia sprofondarono in una pozza d’acqua. Appoggiò i palmi delle mani sul cemento e diede in un rantolo, come se stesse per soffocare.
Jacque si chinò subito su di lei, senza sapere cosa fare. Guardò la sua nuca, senza osare immaginare l’espressione che poteva avere ora il suo volto.
“Vieni con me” ripeté “Poi tutto andrà bene. Vieni…”.
“Con te” biascicò Lydia, innaturalmente immobile “Con te… La tua razza… È la tua razza che lo ha…”. Respirò forte, poi tossì. Il suo corpo tremava vistosamente, sotto lo zampillare dell’acqua.
“La mia razza è umana!” esclamò Jacque, lo sguardo fisso sui capelli di lei “So com’è perdere qualcuno… So com’è perché io ho perso me stesso. Ero io il morto mentre tutti gli altri erano vivi. E allora perdi tutti, tutti!”.
Lydia alzò il viso e lui non capì se l’acqua che le rigava il volto era pioggia oppure erano le sue lacrime. Sperò che fossero lacrime, perché se piangi fai uscire la tua afflizione, la espelli, e dentro puoi tornare a sperare. Proprio quello che lui non poteva fare.
“Alzati” disse, tendendole la mano che aveva libera “Alzati… Tu hai ancora un cuore che batte”.
Lei continuava a guardarlo, con un’espressione che Jacque non riusciva a decifrare. Forse anche gli occhi di lei ora erano diventati gli occhi della morte, come i suoi. Perché non c’entra niente se sei vivo o morto, c’entra solo quello che provi.
Ad un tratto si levarono delle urla e Jacque si mise prontamente davanti a Lydia, guardandosi intorno. Sentì dietro di sé la ragazza che lentamente si alzava da terra e aguzzò la vista. In lontananza c’erano dei corpi a terra e un’ombra si stava avvicinando…
Lanciò un’esclamazione quando si accorse che un vampiro era davanti a lui, con le labbra e i vestiti grondanti sangue. Quello fece un sorriso ebete, mostrando denti lunghi e rossi. Sporse la testa, con gli occhi che guardavano proprio dietro di Jacque, mentre le narici si allargavano, estasiate.
“Lascia perdere” disse subito Jacque, cercando di apparire minaccioso “Questa è mia”.
“Oh, andiamo” fece quell’altro “Ha un profumo delizioso, ce la possiamo spartire”.
Jacque notò che pure i suoi pantaloni erano imbrattati di sangue. Di certo aveva già mangiato abbastanza, e in maniera orribile. Non sarebbe stato facile liberarsi di lui. D’istinto, gli puntò la pistola di Lydia addosso.
“Ti ho detto che è mia. Ora vattene!”.
L’altro vampiro alzò le braccia, sinceramente sorpreso. “Un’arma?”. Riprese in fretta il controllo e cercò di essere persuasivo. “Non c’è più bisogno di quella roba, ora che c’è Kaeso al governo possiamo finalmente essere tutti fratelli tra noi! Non dobbiamo inimicarci l’un con l’altro!”.
Ma che belle parole, pensò Jacque con sarcasmo, sono davvero commosso.
Non abbassava l’arma e l’altro si scurì in volto. Si stava arrabbiando.
Fece per lanciarsi su di lui e Jacque sparò. Quello cadde a terra, gridando di dolore. Il proiettile di legno gli si era incastrato nell’addome.
Jacque gli si avvicinò, sentendo una rabbia furente dentro di sé che non aveva mai trovato sfogo da nessuna parte.
Ora il suo nemico era inerme, sdraiato a terra, Jacque avrebbe dovuto provare pietà, invece gli puntò la pistola al cuore.
“No!” urlò il disgraziato “Perché?! A quale scopo?! Io sono come te, sono come te!”.
Jacque guardò il sangue che aveva sui vestiti e sul volto. Erano quelli come lui che avevano ucciso Sam. E ora Lydia ed Emily piangevano…
Quella non era la sua battaglia, non lo era mai stata e neanche gli era mai importato, ma improvvisamente capì che se Acilia e gli altri fossero riusciti davvero a trasmettere il loro modo di vivere a tutti i vampiri, nel mondo ci sarebbe stato meno orrore.
Io sono come te!
Non aveva mai ucciso un vampiro ma aveva ucciso tanti uomini, quando ancora era uomo.
Non dobbiamo inimicarci l’un con l’altro!
Era sempre la stessa storia, che apparteneva ad umani e a vampiri.
Si era così odiato quando aveva ucciso tutti quei ragazzi, solo in nome della patria. Ma ora non si odiava più, forse perché era diventato freddo, forse perché sentiva che stavolta doveva davvero farlo.
“Tu non sei come me, figlio di puttana” disse. E sparò.
Chiuse gli occhi per ripararsi dalla pioggia di sangue ma il boato, insieme con un terribile grido, gli penetravano le orecchie.
Riaprì gli occhi e del vampiro non era rimasto altro che una poltiglia rossa, sporca, viscida su cui schizzava l’acqua, e si scioglieva, e si spandeva, abbandonata nel buio. Il debole spicchio di luna offuscato dal mal tempo le era sopra ma non riusciva ad illuminarla.
Jacque non riusciva a staccare gli occhi da tutto quel sangue, mentre un’amara soddisfazione gli riempiva la bocca. Poi, ad un tratto, si ricordò di Lydia e si voltò subito. Stava andando verso la ragazza, che era di nuovo a terra, con lo sguardo pietrificato, quando delle voci li raggiunsero.
“Ehi! Ragazzi! State bene?”.
Jacque aiutò Lydia ad alzarsi ed entrambi si voltarono, lei avvinghiata a lui, tremante, come se non fosse più in grado di camminare.
Un paio di uomini in armatura li stavano raggiungendo di corsa con delle torce in mano. Erano cacciatori. Jacque inspirò a fondo e, inavvertitamente, strinse più forte a sé l’umana.
Uno dei due cacciatori puntò il fascio di luce nella loro direzione e si tolse il copricapo per farsi guardare. Aveva due folti baffi e uno sguardo rassicurante.
“Siete feriti?”.
“Ne hanno steso uno” osservò il suo compagno, fissando la poltiglia di sangue alla loro destra.
Il cacciatore baffuto notò la pistola di Jacque. “Sei stato bravo” disse.  Lo stava osservando attentamente, con quella dannata torcia puntata su di lui. “Sei riuscito a centrargli il cuore prima che lui ti azzannasse”. Era sorpreso.
Jacque non disse niente, terribilmente a disagio.
“Sì sì, molto bravo” fece il secondo cacciatore, con tono scocciato. Si rivolse a Jacque. “Non giocate a fare i cacciatori, non sarete sempre così fortunati. E ora andate a casa”.
Jacque sapeva che doveva stare zitto e obbedire all’istante, ma qualcosa in quello che l’uomo aveva detto gli aveva dato fastidio. “Non stiamo giocando” disse quasi in un bisbiglio. Non aveva mai giocato in vita sua, mai.
L’uomo gli si avvicinò. “Stiamo cercando un vampiro donna molto pericoloso” disse, rude “Ha fatto fuori uno dei nostri”. Cercava di spaventarli, forse. “Andatevene, sul serio”.
“Jacque” biascicò la voce di Lydia, notevolmente scossa. Era la prima volta che lei pronunciava il suo nome e lui ne fu sorpreso. “Ha ragione, andiamo a casa…”.
Dovevano tornare da Emily, ma quel cacciatore aveva detto che stavano cercando un vampiro donna…
“Com’è fatto?” domandò Jacque ai cacciatori. Quelli lo guardarono straniti e lui aggiuse: “Il vampiro donna, com’è fatto?”.
“Non hai sentito quello che ti ho detto?” replicò il secondo cacciatore “Va a casa, questo non è un gioco!”.
“Magari l’avevamo visto passare” insistette Jacque “Volevo solo dare una mano”.
La pioggia picchiava meno insistentemente di prima, forse il temporale stava cessando.
“Ha l’aspetto di una ragazza molto giovane” rispose l’uomo coi baffi, con l’aria di uno che stava ragionando troppo in fretta “Ha una statura di poco sopra la media e lunghi capelli neri”.
Jacque deglutì. Le probabilità che si trattasse di Acilia erano alte.
Ha fatto fuori uno dei nostri.
In che guaio si era cacciata?!
“No, mi spiace, non l’abbiamo vista” si affrettò a dire “Arrivederci”. Voltò loro le spalle e camminò, sorreggendo Lydia, che silenziosa gli stava accanto nel fascio di luce che ancora li inondava. Poco dopo finalmente la luce si fece più lontana e Jacque portò Lydia dietro un edificio.
“Non… Non torniamo alla macchina?” domandò la ragazza, confusa.
“La macchina va troppo piano” rispose Jacque. Le mise le mani sulle spalle e continuò: “Ora ti devi davvero fidare di me”.
“Cosa vuoi fare?”. Lydia non aveva affatto lo sguardo convinto.
“Ti prenderò in braccio, e correrò” spiegò lui “Ti devi aggrappare forte perché andrò molto veloce”.
Lydia scosse energicamente la testa e Jacque le afferrò il mento, piano, per farla stare ferma, e per farsi guardare.
“Dobbiamo muoverci. Non costringermi ad incantarti”.
Lydia gli stava fissando gli occhi, con un’espressione strana.
“Come fai ad essere morto?” fece con un filo di voce “Come fai a provare dei sentimenti se il cuore non ti batte più?”.
Jacque era sorpreso. Provare dei sentimenti. Non pensava che Lydia l’avesse capito.
“Non lo so” rispose “Non so niente”.
Passò qualche attimo poi Lydia gli passò le braccia intorno al collo, respirando affannosamente, ancora spaventata. Lui le sollevò le gambe e la strinse, preparandosi a correre.
Dove corri? Non pensi ad Acilia?
Doveva portare a casa Lydia, l’aveva promesso ad Emily, doveva proteggerle...
Perché le devi proteggere?
Acilia era in pericolo. In pericolo…
Porta a casa Lydia. Poi ci penserai.
A cosa avrebbe dovuto pensare? Cos’avrebbe potuto fare?!
Si strinse a Lydia più forte di quanto avesse dovuto, come se credesse che fosse Acilia o una qualunque soluzione, come se volesse un patetico conforto.
Si mise a correre, sotto il cielo che poco a poco si stava riaprendo. Sotto quell’esile luna che cercava di farsi spazio tra le nuvole.
Era la stessa luna che c’era in cielo, quando lui era morto.
 
 
 
La sede di Arcangelo era presa e Dubris non sapeva se valesse la pena di attaccare per riprendersela.
“Almeno sappiamo dove sono” osservò Victoire, col suo solito tono di voce fermo “Possiamo attaccarli quando vogliamo”. Fece un passo in avanti, a braccia conserte. “Anche adesso”.
Dubris si guardò intorno. Erano soltanto una decina di vampiri e, come se non fosse abbastanza, Acilia mancava.
“Vuoi farci morire tutti?” sbottò, piuttosto rude, guardando Victoire.
Quella alzò le sopracciglia sottili e severe, alzando un pelo il volto spigoloso. Il collo era candido e invitante, ma l’espressione presuntuosa che aveva dipinta sul volto la rendeva davvero poco desiderabile.
“Là sotto non c’è Kaeso” disse, come se fosse una cosa ovvia, accennando al grosso, vecchio, palazzo grigio che era a poche decine di metri da loro.
“Di certo non si farà trovare in un posto che conosciamo bene” puntualizzò Luca “Del resto, se prendiamo lui, prendiamo tutti”.
Dubris tentò di mantenere la calma ed evitò accuratamente di guardare l’italiano, pensando al suo stupido accento che rendeva ridicola ogni parola che diceva.
“Se fosse solo lui il problema saremmo già un bel passo avanti!” esclamò “Ne ha tantissimi dalla sua parte, come pensate di sconfiggerli?”.
“Sono solo un branco di stupidi ragazzini” disse Victoire, cercando altro consenso in giro “Potremmo farcela”.
Dubris inspirò a fondo. Era vero, non tutti quelli che ora erano nella Sede erano della Rappresentanza, ce n’erano di più giovani, giovani e sbandati, ma erano tanti. Tanti e non tutti ragazzini!
“Per prendere decisioni del genere penso dovremmo aspettare Acilia” disse, consapevole di toccare un tasto dolente.
Victoire infatti emise una risata incredula e spazientita, insieme a qualcun altro. “Acilia? Acilia?”.
Sì, Acilia. Dove cazzo è finita?!
“È la più vecchia del gruppo” si limitò a rispondere Dubris.
“Tu davvero ti fidi di lei?” sbottò qualcuno alla sinistra di Victoire.
Dubris lo guardò e riconobbe Homer, un omone calvo e dall’aria minacciosa, ma buono. Per quanto poteva esserlo un vampiro, come tutti loro.
“Certo che mi fido di lei” ribatté il rosso, arrabbiato. Fece scivolare il suo sguardo su tutti i presenti, sentendo la frustrazione che cresceva, angosciante, all’interno del suo morto cuore, che, se avesse potuto, avrebbe martellato furiosamente. Nessuno di loro c’era, nessuno di loro l’aveva sentita parlare in quel lontano giorno del quattordicesimo secolo, quando aveva dato una possibilità di vita, per tutti i vampiri! Nessuno di loro l’aveva vista mentre lottava per tutto quello che ora avevano, o avevano avuto. Aprì la bocca e parlò liberamente. Si sentiva libero perché neanche Ramona era presente, e non l’avrebbe sentito.
 “Vorrei ricordarvi che senza di lei tutto questo non sarebbe stato possibile!”.
“Certo” bofonchiò Homer “Senza di lei, non ci sarebbe Kaeso”.
Gli altri risero e Dubris sgranò gli occhi, incredulo. Non c’era proprio niente di cui ridere.
“Non tutti sono creatori esemplari” sbottò “E non è questo il problema!”. La sua voce si era alzata e le risate si erano spente. “È lei che ha fatto tutto questo! È per merito suo se ora siamo qui a proteggere qualcosa! E ora mi dite che, solo perché ha sbagliato una volta, solo perché ha vacillato una volta… È direttamente, personalmente coinvolta nella faccenda di Kaeso, è ovvio che abbia vacillato! E ora non vi fidate più di lei?!”.
Il suo grido si spense nella notte e i volti pallidi dei suoi compagni erano ammutoliti, anche se a lui sembrava di non aver detto ancora abbastanza.
“Tu sei innamorato di lei da sempre, Dubris” fece la voce di Victoire, pacata ma tagliente “E non ti rendi neanche conto di quello che dici”.
Dubris la fissò con odio. Perché doveva tirare in ballo questo ora? Non era amore il suo, era rispetto, perché lei gli aveva dato qualcosa di grande… Solo che a lui non era mai bastato.
Stava per ribattere ma l’altra lo precedette, e quello che disse lo lasciò interdetto. “Acilia è un vampiro straordinario” stava dicendo “E non è perché ha creato un mostro che non mi fido più di lei, e non è neanche perché non ce ne ha messi subito al corrente”. Avanzò di un passo, mentre guardava Dubris con i suoi occhi piccoli e pungenti. “Ma l’hai detto tu stesso, Dubris, possibile che tu non lo capisca?”. Improvvisamente il suo sguardo si sciolse, sembrò che gli alti zigomi cadessero, a terra, prorompendo in un lamento, e la voce di Victoire era questo che era, un lamento. “È personalmente coinvolta! È la creatrice di Kaeso! Non lo vorrà mai uccidere!”.
Dubris sbatté le palpebre, cercando di ragionare. Aveva un senso, però Kaeso e Acilia erano come il giorno e la notte, e poi lui aveva ucciso Lyuben…
“Ma lui è…”.
“Dov’è ora Acilia?” esclamò Victoire, allargando le braccia e guardandosi intorno “Dov’è? Se ti fidi tanto di lei, dimmi dov’è! Dimmi dov’è!”. La sua voce era quasi disperata e ciò che era peggio era che Dubris non ce l’aveva, una risposta.
Per qualche secondo ci fu solo silenzio, in quel vicolo buio di Arcangelo. Forse sarebbero dovuti tornare a casa, e lasciar perdere, per quel giorno.
“Devi accettare il fatto che lei non sarà con noi in quest’operazione” continuò Victoire “Non sarà contro di noi, ma neanche con noi”.
Ancora nessuno disse niente. Dubris non sapeva come ribattere ma, da qualche parte, dentro di lui, sapeva che Acilia sarebbe stata con loro. Lui la conosceva meglio di chiunque altro, ne era certo
“Allora, cosa facciamo?” fece qualcuno.
Ma Acilia lì non c’era, e loro non potevano perdere altro tempo.
“Dovremmo rapire qualcuno dalla Sede” disse Dubris, riflettendo “E farlo parlare, farci dirci dove si nasconde Kaeso”.
“Cominciamo a ragionare” fece Victoire, con un sospiro di sollievo.
“Ma non oggi” si affrettò ad aggiungere il rosso, deciso. Su questo non aveva ripensamenti, lei non l’avrebbe avuta vinta su tutto. “Dobbiamo prepararci bene e pianificare la sortita”.
Nessuno ebbe da ribattere, neppure Victoire.
“Uscite dal vicolo a gruppetti, e raggiungete l’elicottero” disse Dubris, facendo cenno a un paio di vampiri di avviarsi. Quelli obbedirono e mentre li guardava allontanarsi, lui sentì una strana sensazione. Era abituato a comandare nella Corporazione ma quello era diverso. Quella era una cosa molto più grossa, e se non c’erano né Lyuben né Acilia… Come avrebbero fatto?
Altri si allontanarono finché non rimasero solo lui, Victoire, Luca e altri due vampiri. Erano gli unici che sapevano volare.
“Ci vediamo a casa mia” disse loro, poi fece un salto e si abbandonò al vento. Il suo campo visuale divenne vastissimo, ma sfuocato. La luna, compagna di tutte le notti, troneggiava silenziosa su di lui.
Passò qualche minuto, in cui Dubris liberò la mente il più possibile, finché non rimase solo qualche opaca immagine di Acilia a invadergli la testa, insieme alla pioggia che cominciò a scivolargli addosso, e lui poggiò i piedi per terra, di nuovo in Inghilterra, in un vasto prato deserto e umido.
Era tutto bagnato, ma non ci fece caso e cominciò ad avanzare tra la pioggia. 
Qualcosa prese a vibrargli contro la gamba e lui estrasse subito il cellulare, ricordandosi di quante volte avesse provato a chiamare Acilia, senza successo.
Il suo cellulare continuava a vibrare, senza sosta e Dubris si affrettò a guardare il display. Erano solo dei messaggi. 
Ti ho cercato alle 01.44 del 4 agosto 2012.
Acilia! L’aveva cercato per tre volte, e infine, dato che il telefono non prendeva, gli aveva lasciato un lungo messaggio scritto.
Dubris asciugò il display e lesse il messaggio, avido, frettoloso, forse qualche frase neanche l’aveva capita bene ma il panico lo invase terribilmente.
“No…” mormorò flebilmente “No… Aci, no!”.
D’istinto cercò il numero di lei in rubrica per chiamarla ma poi ricordò l’ultima frase del messaggio che aveva appena letto.
Non provare a chiamarmi. Dopo che avrai letto questo messaggio, non ti potrò più rispondere.
 
*
 
 
Acilia sedeva alla destra di un cumulo di resti, di un bianco sporco, una colonna fatta a pezzi e caduta a terra chissà quanto tempo prima.
Davanti a lei si ergeva la statua di Diana, che guardava verso l’alto, ammaccata e senza naso. Sotto i delicati panneggi di marmo, una lunga e bianca gamba terminava con un piede sottile e affusolato, che poggiava delicatamente sul terreno, mentre l’altra gamba si interrompeva appena sopra al ginocchio, lasciando solo irregolarità e pesantezza.
“Cosa fai? Preghi?” domandò una voce alla sue spalle.
Lei non si voltò neanche, e scosse la testa.
Diana era la dea delle selve, della luna, protettrice degli animali e delle donne. Acilia un tempo le chiedeva perché le fosse stato fatto questo. Le chiedeva perché l’avesse imprigionata nella notte, lei donna ma ormai anche animale, costretta a stare nei boschi, a rivolgersi solo alla luna, non più meritando di vedere il dio Apollo. Ma aveva smesso ben presto di farlo. Del resto, a cosa serviva?
“Allora cosa fai qui?” chiese ancora Kaeso.
Acilia fissò il volto marmoreo della dea. Una volta era perfetto.
“Guardo i cocci dell’esistenza umana” rispose.
“I Cristiani non l’hanno ancora completamente distrutta, questa statua” osservò Kaeso.
La distruzione, pensò Acilia, non è giusta, stanno distruggendo la civiltà.
“Mi chiedo che senso abbia” continuò l’altro, dietro di lei, con voce pacata “fare tutto questo caos in nome di qualcuno che forse neanche esiste”.
“Forse?” fece Acilia.
“Nulla è certo”.
La ragazza si voltò, senza alzarsi da terra. Alzò lo sguardo e vide il volto di Kaeso, più perfetto di quello di Diana, cereo e compatto, freddo, senza alcuna emozione viva. Aveva ucciso tutto, ce l’aveva fatta, finalmente.
“Non credi più negli dei?” chiese.
“Neanche tu, mi pare”.
Aveva ucciso proprio tutto.
Acilia non disse nulla e Kaeso con un balzo fu coi sandali sopra i cocci della colonna. Le macerie scricchiolavano, lui ridacchiava.
“Almeno noi abbiamo un motivo per cui distruggere tutto” disse.
Lei lo scrutò. “Un motivo?”.
“La sete” affermò l’altro “non è immaginaria, come il loro dio”.
Distruggere. I Cristiani distruggevano in un nome di un loro dio, e loro distruggevano per la loro sete. Acilia a volte aveva la sensazione che le due cose non fossero così diverse, per una qualche ragione, che non riusciva a ricordare…
Abbassò di nuovo la testa, in preda ad uno strano capogiro.
“Allora perché dici forse? Se credi che il loro dio e anche i nostri dei siano immaginari… Perché dici forse?”.
Kaeso non rispose, ma smise di ridacchiare. Le dava le spalle.
“Perché?” insistette lei.
Finalmente lui si voltò a guardarla, per nulla turbato, con un lieve sorriso che gli increspava le labbra.
Le si avvicinò, tendendole le mani per aiutarla ad alzarsi.
“Ho una sorpresa per te”.
 
Perché, cara Aci, di cosa posso essere sicuro? Tu non mi hai insegnato tutto.
 
Acilia gli prese le mani e si alzò, lasciandosi andare in un sorriso. Baciò Kaeso e lo abbracciò. Si strinse a lui e tutto quel freddo la rasserenava, si sentiva una sciocca ma le piaceva pensare che non era sola.
 
Mi hai insegnato ad essere me stesso. Mi hai reso inerme e nudo davanti alla vita. Mi hai dato alla luce, una luce dolce, delicata e suadente – quella della luna.  Mi hai dato un’arma e mi hai detto di combattere, aggrappato a un brandello di esistenza.
“Vieni” le disse Kaeso. La teneva per mano, con un sorriso compiaciuto, e la trascinò con sé via da quelle macerie. Camminavano sempre più veloci, i sandali scalpitavano nella ghiaia, alzando una polvere che però non le impediva di vedere ciò che aveva intorno. Paesaggi sempre diversi, disparate costruzioni, varietà di idiomi, di pelli, di costume, ormai loro due avevano girato tutto l’Impero e Acilia amava quella vita.
 
Ma non mi hai insegnato tutto.
 
La condusse in un boschetto. Gli alberi erano piuttosto fitti, i rami secchi e cumuli di foglie gialle ai loro piedi coloravano la lieve foschia che stava scendendo. Lo scrociare di un fiume lì vicino era la musica perfetta per quel quadretto.
L’autunno aveva un buon odore ma c’era qualcos’altro nell’aria. Un odore ancora più buono che stimolò ogni senso in Acilia che si sentì improvvisamente eccitata, da morire. Si voltò verso Kaeso e con uno scatto si incollò alle sue labbra. Lo spinse contro un albero, con forza, e lo toccò dappertutto, sentendo il suo corpo bruciare. Kaeso la baciava e ricambiava il suo tocco. Lei si avvinghiava a lui, premendosi contro il suo corpo, ansimando contro la sua bocca, felice, piena di un amore strano, un amore nero, dannato, ma libero da ogni preoccupazione…
 
Libero da ogni preoccupazione, il mio amore, in cui riuscivo a percepire di nuovo il calore, quello del sangue, quello del piacere, il godere e il dolore. Non sapevo se fosse vero o falso, ma era vivo, era l’unica cosa viva in me.
E non c’era altro a cui pensare, perché ero morto, ma con qualcosa di vivo, che disperatamente afferravo, per non lasciarlo andare via. Kaeso e nient’altro, chi altro dovrei essere? Chi altro, Aci? Chi?!
 
Acilia si separò da Kaeso e gli accarezzò il viso con entrambe le mani. Quel tocco freddo la scioglieva, come fosse fatta di ghiaccio – forse lo era davvero – e in quegli occhi blu ritrovava la morte che era anche sua, loro eterna compagna.
“Cos’è questo profumo, Kaeso?” chiese, con un largo sorriso. L’odore era così intenso, le sue zanne già spingevano.
“Ti avevo detto di avere una sorpresa” rispose lui, cingendole la vita.
Acilia rise. “Non mi avrai mica preso una schiera di umani!”. Era profumo di un sangue delizioso, non un semplice sangue…
Distruzione.
“Il sangue dei bambini, Aci, è quello più buono in assoluto” spiegò Kaeso, inspirando l’aria “È ancora puro e incontaminato, è così squisitamente dolce…”.
Acilia si lasciò inebriare. Rideva. “E dove li avresti nascosti?”.
“Li ho raccolti un po’ qua e un po’ là” disse l’altro con voce lenta e suadente “Sono tutti in questo bosco. Ho detto loro che avremmo giocato a nascondino”.
Acilia si fece passare la lingua sulle labbra. “Un gioco”.
“Un gioco” ripeté Kaeso “Vince chi trova più bambini”.
“Mi piacciono i giochi”. Acilia gli morse il labbro, glielo morse forte, fino a farlo sanguinare. Lui ansimò e la strinse più forte.
“Ti piace vedere il sangue che scorre…”.
“Hai avvertito i bambini che è un gioco serio, vero?” ribatté lei, assumendo un tono severo, fintamente preoccupato.
“Certo” rispose l’altro, passandosi una mano sulla bocca per pulirsi “Ho detto loro che devono fare attenzione, perché, giocando, ci si può far male”.
Acilia fece un balzo indietro, ilare, lasciando Kaeso appoggiato all’albero.
“Giochiamo allora!”.
Distruzione?
Si mise a correre nel bosco, saltellando di tanto in tanto, chiamando a gran voce i bambini e ridendo.
La sensazione di distruggere qualcosa…
Vide un esile braccio che tentava di nascondersi dietro un grosso arbusto.
Subito lo toccò gridando: “Presa!”. Tirò via dal suo nascondiglio quella che era, si rese conto, una bambina che non dimostrava più di quattro anni. Era sporca in viso e aveva una piccola tunica stropicciata. Gli occhi spalancati la guardavano con un misto di paura, ammirazione e divertimento. “Chi sei?” le chiese, con una bassa vocetta.
“Gioco anch’io con voi” spiegò Acilia, chinandosi su di lei e accarezzandole la guancia. L’odore era fortissimo, si insinuava nelle narici e le arrivava alla testa, la faceva impazzire. Quella guancia era così morbida…
“Ti ho trovata” disse “Ho vinto, e tu hai perso, mi dispiace”. Estrasse i denti e la bambina urlò, atterrita. Acilia la trasse verso di sé e le conficcò le zanne nel collo. Kaeso aveva ragione, quanto era buono e dolce quel sangue! Le sembrava di galleggiare nella vastità e nella perfezione del mondo, mentre quel liquido mielato e delizioso le scivolava giù per la gola, accendendo il suo corpo in un tremore entusiasta, quasi di infantile felicità.
L’urlo della bambina non disturbava quel momento, le grida di terrore, di dolore, erano divertenti…
Cosa stai distruggendo?
Ma quell’urlo e quella voce la fecero d’improvviso stare male e Acilia buttò a terra la bimba, crollando sulle ginocchia. Un altro fastidiso capogiro.
Aci!
Era una voce nota.
Chi sei?
Chi sono?
Alzò lo sguardo e vide la bambina a terra, uno squarcio sul collo, la testa piegata in una posizione innaturale, un piccolo lago di sangue intorno a un debole corpicino.
Strisciò verso di lei carponi, assetata, e, come un cane, leccò la pozza di sangue sul terreno, senza riuscire a farne a meno. Socchiuse gli occhi, estasiata, ma quando li riaprì era così vicina all’occhio spalancato, privo di vita e pieno di terrore, della bambina, che fece un salto indietro.
L’ultima espressione che Damiano aveva avuto sul volto – quella che aveva tuttora – era di terrore, ed era stata colpa sua.
Acilia cercò di nuovo il controllo di sé, mentre qualcosa simile al vomito, ma che non poteva esserlo, spingeva per tornare in superficie, e alla fine sputò sangue.
Chi sei? le aveva chiesto la bambina.
Chi sono?
Tu non sei Aci! urlava lui, in un altro mondo, lontano e passato…
 
Allora, chi altro dovrei essere? Chi sono io? Chi ero? Cosa mi hai fatto dimenticare? Del resto, anche tu avevi dimenticato qualcosa, non è vero? Sei riuscita a recuperarlo, Aci, hai recuperato te stessa o quello che credevi di essere. Perché tu eri come me, e questo non potrai mai cancellarlo.
È questo ciò che non potrai mai dimenticare.
 
Acilia afferrò il corpo della bambina esangue e lo trascinò fino al fiume. L’acqua era torbida e l’azzurro e il verde si mescolavano al rosso.
Buttò il cadavere in mezzo all’acqua, già sporca, già contaminata. Il corpo della bambina si unì ad altri fanciulleschi corpi, che galleggiavano sporcando il corso d’acqua, fatto di sangue, sotto la pacata luce della luna, sotto lo sguardo imperfetto di Diana, distrutto, impietrito forse, da tale distruzione.
I corpi dei bambini erano tanti, Acilia non li contò ma rimase ipnotizzata a guardarli. Kaeso aveva decisamente vinto, era davvero bravo in quel gioco.
Il giorno in cui l’aveva conosciuto stava facendo proprio quel gioco. Insieme a sua figlia.
Kaeso era diventato irrefrenabile, Acilia sentiva la risata di lui, che si mescolava ad altre urla.
L’acqua e il sangue continuavano a scorrere, i cadaveri dai bambini emergevano da quel flusso magico e orrendo, la luna piangeva lacrime di luce su di loro.
 
*
 
 
Emily aveva tentato di abbracciare Lydia, entrata in casa sorretta da Jacque, ma quella si era scostata e, lasciando il braccio del vampiro, aveva salito le scale senza proferire parola.
Emily allora era scoppiata in lacrime e aveva cercato un appoggio che casualmente era Jacque stesso. Le due ragazze si erano letteralmente dato il cambio ed Eike si divertì a vedere la tipica espressione del non-so-proprio-che-fare che si era dipinta sul viso di Jacque.
Il piccolo vampiro non aveva abbandonato la sua postazione sul divano, a poca distanza da Michael che, con lo sguardo abbassato e le lacrime agli occhi, poteva sembrare addirittura una persona seria, se non fosse stato per il pigiama di Spider-Man che aveva addosso. I signori Dixon invece erano a ridosso della poltrona, accuratamente lontani da qualunque vampiro fosse nel salotto. Lei si stava rumorosamente soffiando il naso, tra un singhiozzo e l’altro, mentre lui stava mescolando della camomilla in una tazza arancione, che cercava di sbolognare alla moglie per tranquillizzarla. Tra l’altro, si sarebbe abbinata perfettamente alle sue pantofole. Per non ascoltare i vari mugolii e pianti, Eike cercò di concentrarsi sul tintinnio del cucchiaino ma, dopo un po’, divenne fastidioso anche quello.
Jacque si era finalmente deciso ad abbracciare Emily e l’atmosfera nel salotto stava diventando sempre più seccante.
Eike provava compassione per Lydia, e anche per Emily, ma, si sa, quando dimostri dodici anni non puoi sfruttare certe occasioni.
Dopo qualche minuto Jacque si staccò da Emily, in maniera po’ goffa e imbarazzata, e si diresse proprio verso di Eike.
“L’eroe romantico vuole conferire con me?” fece quest’ultimo, sorpreso.
Michael si lasciò sfuggire un piccolo risolino, che sfumò in qualcosa di simile ad un rantolo. 
“Ehi” disse Emily, mentre Jacque si sedeva tra i due ragazzi “Perché non andate a letto? Sono le due passate”. Aveva un tono quasi incoraggiante.
Per tutta risposta la signora Dixon si soffiò il naso più forte. Emerse un attimo dal fazzoletto e ululò: “Quel povero ragazzo… Quella povera gente…”.
Il signor Dixon ne approfittò subito per metterle davanti alla faccia la tazza, che lei prese come in automatico. Lui si alzò e disse, con voce lenta e stanca: “Chiamo di nuovo mio fratello. Per sapere come va”.
“Chiama anche le mie sorelle” fece la signora Dixon “E mia madre”.
“Tua madre l’abbiamo sentita cinque minuti fa!”.
La signora pianse e, con un tremore del braccio, fece rovesciare un goccio di camomilla sul pavimento. “Bastano cinque minuti per…”. Non finì la frase e continuò a singhiozzare, finché Emily non andò a sedersi sul bracciolo della poltrona, per darle conforto.
Eike ripuntò il suo sguardo su Jacque. Aveva un’aria davvero preoccupata e di certo non era preoccupazione per la nonna di Emily.
“Cos’hai?” bisbigliò.
“Abbiamo incontrato dei cacciatori” rispose Jacque in un sussurro.
Eike non ne fu sorpreso. “Beh, qualcuno che fa il proprio lavoro di sti tempi ci vuole”.
“Cercavano Acilia, ne sono sicuro”.
La faccia di Jacque emanava sicurezza e terrore ed Eike si sentì suggestionato. “A-acilia?” farfugliò, incredulo “Com’è possibile?”.
“Non lo so” sospirò Jacque “Ma sono sicuro che parlassero di lei!”.
Eike notò che Emily li stava guardando. La ignorò e guardò severamente il proprio creatore, consapevole che sarebbe stato capace di tutto. “Jacque, Aci sa badare a se stessa. Non fare stronzate”.
L’altro non disse niente ed estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans. “Non so se provare a chiamarla” disse, pensieroso “Magari si è nascosta da qualche parte e se faccio suonare il cellulare…”.
“Ma quale vampiro tiene la suoneria attiva!” esclamò Eike.
“Ehm…”. Jacque apparve ancora più confuso.
Eike alzò gli occhi al cielo, poi disse: “Se non vuoi chiamare lei, chiama la persona che le è più vicina”. Usò quei termini apposta, per vedere quale reazione suscitassero in Jacque. Perché non era lui stesso la persona che era più vicino ad Acilia.
Come era prevedibile, Jacque si irrigidì. “Intendi Dubris?”.
“Se non ti va, lo posso chiamare io” disse Eike, con un piccolo ghigno.
Il suo creatore scosse la testa e si alzò in piedi, con lo sguardo fisso sul cellulare, stretto nella sua mano destra. “No. Lo devo fare io”.
“Chi devi chiamare?” si levò la voce di Emily “Perché? Cos’è successo?”.
Eike sbuffò. “Non mettergli ansia!”.
La ragazza stava guardando intensamente Jacque e pareva non averlo neanche sentito.
“Chiamo Dubris, c’è… un problema… con Acilia” rispose quello, un po’ controvoglia, mentre pigiava i tasti del telefono.
“Che problema?” insistette l’umana.
“Chi è Acilia?” s’intromise Michael.
Eike sbuffò di nuovo, sperando che Jacque non si mettesse a spiegare la situazione e che si muovesse a telefonare. Fortunatamente il vampiro fece proprio così; fece segno di tacere e appoggiò il cellulare all’orecchio.
Passò qualche lungo secondo e finalmente parlò, con voce piuttosto distaccata: “Dubris… Sono Jacque”. Silenzio e poi di nuovo: “Sai qualcosa di Acilia?”. La sua espressione mutò completamente e il ragazzo spalancò la bocca, sbigottito. “Cosa?”.
Anche Eike si alzò in piedi, sentendo l’ansia che galoppava in corpo. “Cosa? Jacque, cosa?”.
“Ma perché?!” stava sbottando l’altro, frustrato. Poi si premette una mano sul cuore e disse, abbassando il tono di voce: “Non è ancora morta”. Eike sentiva la voce di Dubris ma pure il suo udito non riusciva a distinguere bene le parole che, agitate, incespicavano le une sulle altre. Ma Jacque non faceva altro che ripetere “Non è ancora morta” e dopo poco chiuse la telefonata.
Con aria decisa si diresse verso la porta ma Eike, preparato, corse più veloce e si parò davanti a lui. “Jacque” fece, arrabbiato “Ti ho detto di non fare stronzate! Dimmi cosa ti ha detto Dubris”.
“Devo andare prima che sia troppo tardi!” gridò l’altro, accingendosi a spostare il proprio creato.
Ma Eike, inaspettatamente, gli sferrò un pugno nello stomaco.
Jacque si piegò e guardò attonito il ragazzino. “Ma che fai?” sibilò.
“Che sta succedendo?” stava urlando Emily, raggiungendoli nell’ingresso.
“Dimmi cosa ti ha detto Dubris!” insistette Eike, alzando la voce.
Non avrebbe permesso che Jacque giocasse di nuovo a fare l’eroe, prima o poi si sarebbe fatto ammazzare. Che senso aveva voler salvare Acilia? Se non riusciva a salvarsi da sola, lui cos’avrebbe potuto fare? Era un vampiro limitato, di neanche cent’anni, ed era ora che se ne rendesse conto!
Jacque sospirò, scocciato, e si raddrizzò. Finalmente parlò: “Acilia gli ha detto che si sarebbe consegnata ai cacciatori”.
Il silenzio piombò in tutta la casa. Addirittura la signora Dixon aveva smesso di fiatare.
“Che cosa significa?” chiese Eike, con un filo di voce. Acilia non faceva mai niente per caso, non era quel tipo di persona.
“Una volta lei mi ha spiegato che se fossi morto, lei l’avrebbe saputo” replicò Jacque “E io avrei saputo se lei fosse morta. E la stessa cosa vale per me e te”.
Eike scosse la testa. Quello non aveva importanza.
“Lei non è ancora morta e io devo andare a fermarla!” concluse Jacque.
“Jacque, calmati…” azzardò Emily.
Lui le lanciò uno sguardo obliquo, senza dire niente.
“Smettila” disse Eike “Davvero credi che Aci abbia intenzione di farsi ammazzare?”.
“Cos’altro potrà mai accadere se va dai cacciatori?” sbottò Jacque, che stava visibilmente perdendo la pazienza. Quando si trattava di Acilia, gli si annebbiava il cervello, era chiaro.
“Acilia non vuole morire!” esclamò Emily.
Jacque la guardò torvo. Era uno sguardo brutto, dal labbro superiore spuntarono le zanne ed Emily tremò. Chissà, forse più che paura era dolore, quello di essere respinta, di non sentirsi amata.
“Tu non la conosci” ringhiò Jacque.
“Neanche tu” disse subito Eike “Nessuno di noi la conosce del tutto”. Accennò alle sue zanne. “Ora datti una calmata e dì cos’altro ti ha detto Dubris”.
Jacque non ritirò le zanne ma sembrò placarsi. Sospirò forte e disse: “Acilia ha in mente di parlare ai cacciatori. Non ha senso, la faranno fuori e lo sa anche lei!”. La sua voce vibrava e si alzava, irregolarmente, intramezzata da angosciosi respiri. Si teneva una mano sul cuore. Certo, aveva paura di sentirlo urlare di dolore, sentire come se esplodesse, quando sarebbe esploso quello della sua creatrice.
Né Eike né Emily ebbero il tempo di dire niente perché Jacque continuò, abbassando la voce, che si fece sempre più lamentosa: “Lo sa che il rischio è grosso… Ma l’ha detto solo a Dubris. Non mi vedrà mai più e l’ha detto solo a Dubris!”.
Eike incrociò le braccia al petto. Accecato dalla gelosia, Jacque non si era mai reso conto che con Dubris Acilia aveva condiviso secoli di lavoro e di costruzione. Non si era mai reso conto che Acilia e Dubris facevano parte di un progetto immenso, che prescindeva dall’amore, e se lei ne aveva parlato solo con lui, voleva dire che aveva un piano e che sperava che funzionasse.
Emily d’altro canto si rendeva perfettamente conto di tutto quello che stava accadendo. E guardava il suo amato con gli occhi dell’amore ferito.
“Scusate” fece una voce timorosa.
Eike si voltò e vide che nell’ingresso era arrivato anche Michael. Si stava stritolando un lembo della maglia del pigiama.
“Se davvero un vostro… beh, un vampiro è andato a parlare coi cacciatori… sarà su tutti i notiziari”.
Eike alzò un sopracciglio. Ecco, ci mancava pure un po’ di pubblicità.
“Vuoi dire che Acilia potrebbe apparire in televisione?”.
Michael scrollò le spalle. “Non è una roba che capita tutti i giorni”.
“Ma sono le due e mezza di notte!” osservò Emily.
Il fratello fece un gesto noncurante con la mano. “A chi vuoi che importi! Da quando sono venuti fuori i vampiri, non solo i cacciatori lavorano di notte ma anche giornalisti e reporter! Non credo proprio che si lasceranno sfuggire un’occasione del genere!”.
Eike rifletté, cercando di stare calmo. “Del resto” disse “anche se non la facessero parlare, annuncerebbero comunque di averla uccisa. Lo dicono sempre quando riescono ad uccidere un vampiro, per far vedere che si danno da fare e per tenere alta la speranza”.
Jacque si accigliò. “Molto confortante” borbottò.
“Avremmo comunque notizie” ribatté l’altro.
“Quale speranza” fece Emily a testa china “Se uccidono Acilia non ci sarà più davvero nessuna speranza”.
Quanto siamo positivi, pensò Eike, avanzando verso il salotto. Raggiunse la televisione spenta e l’accese. Ci fu un mugolio da parte della signora Dixon, che evidentemente non ne voleva sapere di sentire altre carrellate di morti, ma Eike frugò in ogni canale, in ogni telegiornale, finché finalmente non trovò quello che cercava. Dietro di lui sentiva Jacque che quasi tratteneva il respiro.
La telegiornalista era una donna truccata, vestita di tutto punto e con i capelli acconciati alla perfezione nonostante l’ora tarda. Stava annunciando che sarebbe andato in onda un servizio speciale. Per la prima volta un vampiro si era consegnato ai cacciatori chiedendo di poter, prima di una qualunque esecuzione, parlare pubblicamente di una cosa da cui sarebbe dipesa l’incolumità dell’intera razza umana.
“La fanno parlare!” esclamò Emily, sollevata.
Allora non sono così scemi gli umani, pensò Eike, tirando un sospiro di sollievo. Se alla frase “vi devo dire una cosa da cui dipende la salvaguardia della razza umana” l’avessero uccisa, avrebbero vinto il primo premio per stupidità.
“Non è detto che dopo averla sentita parlare non la uccidano” sbottò Jacque, scrutando la televisione.
Apparve l’immagine di una stanza spoglia. Una figura nera si intagliava nella parete resa gialla da un’illuminazione vivace. Era Acilia, legata ad una sedia con delle catene d’argento, sporche di sangue come lo erano i vestiti. Il volto era sofferente, gli occhi semichiusi, del sangue colava dalle narici e dalla bocca. Intorno a lei degli umani le puntavano addosso delle armi, pronti a sparare a qualunque mossa falsa.
Jacque cadde piano sulle ginocchia, con un gemito. Era chiaro che soffriva nel vedere la sua creatrice ridotta così. La sua creatrice, o la donna che amava…
“Dov’è?” fece “Dov’è quel posto? Dove si trova?”.
Eike non disse niente. Non avrebbe lasciato andare Jacque: sarebbe piombato lì, avrebbe mandato all’aria il piano di Acilia e i cacciatori li avrebbero ammazzati entrambi.
Notò che anche i signori Dixon si erano alzati, incantati dalla televisione.
“Perché nessuno l’aveva mai fatto?” domandò Emily “Perché nessuno aveva mai tentato un dialogo con gli umani?”.
“Gli umani avrebbero accettato un dialogo solo in una situazione disperata” spiegò Eike, osservando gli occhi di Acilia. Avevano perso il loro bagliore verde, erano due rubini e lei, ora, davvero incuteva timore. “E questa è una situazione disperata”.
Acilia aprì la bocca e tutti si zittirono. Ma dalla sua bocca uscì solo un grumo di sangue.
“Come fa a parlare in quelle condizioni!” esclamò Jacque, da per terra “Come fa…”.
“Mi chiamo Acilia” cominciò finalmente lei, con voce sofferente e trascinata “sono morta a diciotto anni, da più di millenovecento”. Si sforzava di tenere alta la testa per guardare dritto nella telecamera. “Vi… ringrazio per avermi permesso di parlare” continuò.
Eike si chiedeva cosa Acilia avesse in mente. Cosa voleva dire agli umani? Voleva parlare della Rappresentanza? Dei partiti? No, non poteva essere così stupida.
“Ho ucciso uno dei cacciatori di Horfield, si chiamava Curtis”. La voce le tremò. “Ma l’ho fatto solo perché altrimenti mi avrebbe uccisa lui. Non avevo scelta”. Sembrava triste sul serio e lo sguardo si era quasi inavvertitamente ripiegato su se stesso.
“Di solito non uccido” proseguì, a voce un po’ più alta “Mi nutro degli umani di una quantità di sangue che mi è sufficiente per tenermi in forza. E poi li lascio andare, sempre”.
Nessuno fiatava né a casa Dixon, né all’interno del luogo in cui si trovava Acilia e lei, parendo lievemente più serena, rialzò il capo.
“E non solo io agisco in questo modo, ma tantissimi altri vampiri. Non vogliamo che la razza umana sia oppressa dai vampiri, perché noi stessi vampiri, per primi, siamo stati oppressi da loro”. Tossì e sputò ancora del sangue. Le sue cosce ormai erano completamente imbrattate. I suoi occhi parevano folli e cruenti, chi non la conosceva come avrebbe potuto crederle? Ma la sua voce… La sua voce era così disperata. “Ci hanno ucciso, strappato ai nostri cari, ci hanno trasformato in dei mostri” disse ancora lei “Ma, una volta trasformati, siamo ancora in grado di soffrire, ed è questa la cosa peggiore”. Emise un gemito, le braccia scoperte, legate dietro lo schienale della sedia, colavano sangue copioso.
“È per questo”. Acilia quasi urlò, digrignando i denti, per resistere al dolore. “È per questo che io vi chiedo di ascoltarmi… Perché ho a cuore la razza umana… La situazione è così degenerata per colpa di un solo individuo, un vampiro, che ha trascinato dalla sua parte chissà quanti altri! E finché c’è lui non potrete mai più stare tranquilli! È il più crudele di tutti i vampiri, io lo so, io lo conosco…”. La sua voce emanava una tale sofferenza ed Eike ebbe l’impressione che non era solo l’argento a procurarle quell’afflizione.
“Perché sono stata io” continuò lei, con un forte sospiro “Millesettecentocinquant’anni fa, l’ho creato io”.
Il silenzio si ruppe con un’esclamazione di sgomento di               Emily. Jacque aveva gli occhi sgranati e la bocca spalancata accerchiati da una vitrea espressione.
Eike aggrottò la fronte mentre la testa gli si riempiva di domande. Acilia aveva creato Kaeso? Perché non gliel’aveva mai detto? E come era possibile che Kaeso fosse diventato un tale mostro?!
Guardò di nuovo Jacque. Lui non ricambiava lo sguardo, gli occhi immobili puntati sul televisore.
Neanche tu. Nessuno di noi la conosce del tutto.
Eike rivolse lo sguardo ad Acilia. Non l’avevi detto a nessuno, non è vero? pensò.
Sai quanti segreti può avere una persona che ha duemila anni?
Era così ovvio, che nessuno di loro la conoscesse davvero. Neppure Jacque.
“Solo io lo posso fermare” stava dicendo Acilia “L’ho creato io, sono io che devo distruggerlo!”. Lo sguardo traboccante di sangue e furore implorava ed Eike non aveva mai visto Acilia implorare.
“Se voi me lo permetterete, se mi lasciate andare… Io lo ucciderò. Poi, ve lo giuro, mi avrete. E farete di me quel che vorrete”.









Sta durando un pochino questa nottaccia, eh? Ben tre capitoli XD

Dunque, ci sto riuscendo a creare un climax ascendente d'ansia con questi ultimi capitoli? Dai, manca poco, ancora tre capitoli e un epilogo e tutto finirà, in qualche modo.. :DD
Ringrazio tantissimo Nene e Norine che hanno lasciato una recensione allo scorso capitolo e do appuntamento a tutti alla prossima puntata, spero di riuscire ad aggiornare presto! :) 

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Capitolo 25
*** Catene ***


Ventiquattresimo capitolo

CAPITOLO XXIV
CATENE





In tutta la città –probabilmente in tutto il mondo–non si faceva altro che parlare di quel vampiro donna dai capelli neri che aveva fatto un patto coi cacciatori.

Ad Horfield molte persone si erano ribellate. Erano scese in piazza sotto la luce del sole e avevano urlato che non si poteva operare in quel modo, i vampiri andavano eliminati, non ascoltati. Altri invece sostenavano che, se c’era anche una sola, piccola, possibilità che quello che quel vampiro aveva detto fosse vero, se c’era davvero una piccola speranza che davvero potesse fermare quelle uccisioni e quelle stragi, sempre più frequenti, allora sarebbe stato un delitto non ascoltarlo.
In televisione non facevano altro che parlarne e a Jacque ormai scoppiava la testa.
Uccidere non è abbastanza, Jacque, per definire quello che ho fatto.
Significava qualcosa. Significava qualcosa il fatto che Kaeso fosse così diverso da Jacque. Non potevano aver avuto la stessa creatrice. Acilia doveva essere un’altra, millesettecentocinquant’anni prima…
Un giorno ti dirò cosa ho fatto.
E’ questo che non mi hai mai detto? Me l’avresti mai detto che ho un vampiro fratello? Mi hai mai detto qualcosa di te?
Perché poi avrebbe dovuto dirgli qualcosa? Lo conosceva davvero da poco tempo. Conosceva Dubris da molto più tempo. Scommetto che lui lo sapeva, che lui sapeva tutto. Ma lui, Jacque, era il suo creato, doveva pur valere qualcosa…
Jacque alzò di scatto la testa, nella penombra della sala. Ma certo, pensò, è questo il punto, io sono il suo creato.
Acilia gli diceva che c’era qualcosa di sbagliato nel loro rapporto, loro erano genitore e figlio, ma anche amanti. Lei diceva che non era possibile e Jacque non aveva mai capito il perché. Pensava che fosse una scusa.
Non ti sarai mica innamorato di me, vero?
Perché lei non lo amava.
Ma se avesse voluto solo staccarsi da lui perché aveva già vissuto un’esperienza simile? Cos’era successo tra lei e Kaeso?
C’è stato qualcosa tra loro?
Jacque focalizzò il viso di Acilia, poi quello di Kaeso. Ricordò quando lui era stato a casa loro…
E che cosa voleva il capo del PO da te?!
Quegli occhi di lei, sempre così tristi, che lui non aveva mai compreso.
Minacciarmi.
Era ovvio che ci fosse stato qualcosa.
E poi? Cos’era successo poi? Perché si erano separati?
Il volto di Acilia stava sfumando. I suoi tristi occhi verdi divennero sgranati e rossi, rivoli di sangue che uscivano da essi, dal naso, dalla bocca…
L’ho creato io, sono io che devo distruggerlo!
Avrebbe distrutto un suo creato, quale disperazione doveva avere in corpo, mentre lui, Jacque, non faceva altro che giudicarla, in continuazione.
Serrò le dita delle mani in due pugni. Avrebbe voluto vederla, dirle qualcosa, abbracciarla. Poteva essere l’ultima volta, dannazione! Aveva detto ai cacciatori che avrebbero potuto averla, che pazzia!
Non aveva capito niente quando lei cercava di proteggerlo da quell’affetto che sentiva per Emily e non aveva capito niente neanche adesso. Acilia sacrificava se stessa per salvare l’umanità, ma perché non pensava anche a lui? Perché non si fidava di lui?!
Ma perché era qui? Tu già lo conoscevi, vero?
No, gli aveva detto di no. Forse voleva per l’ennesima volta proteggerlo, o si vergognava. Di cosa puoi vergognarti con me, Aci, pensò Jacque, abbandonando il divano e scivolando sul pavimento della sua casa, di cosa devi vergognarti, io sarò sempre dalla tua parte…
Ci fu un grosso rumore e Jacque non capì immediatamente cosa fosse. Poi vide la porta di casa spalancata, la luce dei lampioni entrata prepotentemente in salotto, insieme a del sangue che già vedeva scintillare sul tappeto. Una ragazza ferita in più punti era sdraiata a terra, tossiva rabbiosamente, e tremava, stringendosi l’addome tra le braccia, come se potesse staccarsi e volare via da un momento all’altro. Eike era affianco a lei, in ginocchio.
Jacque si alzò e corse sui due individui. La donna era Claire.
“Sono andato a cercarla” spiegò Eike, con voce inespressiva “Ma era troppo tardi”.
“Perché l’hai portata qui? Bisogna portarla in ospedale!”gridò Jacque, fissando inorridito i suoi occhi sbarrati e pieni di venature rosse. Gli ricordavano quelli di Acilia e barcollò.
“Non c’è più niente da fare” ribatté Eike, più controllato del suo creatore “E lei voleva venire qui”.
Jacque guardò il corpo di Claire. Perdeva sangue dal collo, dalla pancia e da una coscia. Ne aveva perso troppo? Jacque sapeva che in un corpo umano c’erano circa cinque litri di sangue, un vampiro si sfamava con molto meno, com’era possibile perderne troppo? Com’era possibile non poter fare niente?!
“Voleva… venire qui?” farfugliò.
Ricordava Claire coi capelli e il trucco perfetti. Ora la sua faccia era una maschera impastata di nero e rosso, il mascara colava sulle sue guance, insieme alle lacrime, e sospiri affannosi che le sfuggivano dalla bocca, rossa di sangue o di rossetto, che si sforzava di parlare.“Per… favore”.
Per favore cosa?
Cosa potevano fare loro? Eppure Jacque già sapeva la risposta quando Eike parlò di nuovo.“Dobbiamo trasformarla, è l’unica soluzione”.
Jacque vacillò. Trasformare qualcuno? Di nuovo?
Scosse la testa vigorosamente ed Eike lo guardò furioso. “Lo farò io! Ma mi devi aiutare… Non l’ho mai fatto”.
Perché Jacque si sentiva in dovere di urlare ad Eike di non farlo? Perché aveva una terribile sensazione di deja vu? Un corpo morente, in un lago di sangue, un vampiro deciso, un creatore protettivo…
Non farlo, Jacque. Non donargli un’esistenza a metà! Meglio la morte!
Era una catena illimitata, un ciclo infinito di gente che stava per morire e gente che la trasformava, credendo di salvarla.
Jacque, ti ordino di smetterla!
Ma non gliene era fregato nulla degli ordini, a Jacque, e non si poteva fare niente per spezzare quella catena.
“Me l’ha chiesto lei” insistette Eike “E’ lei che lo vuole!”.
Lo voleva davvero? Tutti gli umani preferiscono qualunque cosa alla morte, ma è perché non lo sanno, non lo capiscono qual è il prezzo da pagare per poter scampare alla morte.
Legge numero trentadue: lasciare sempre una scelta agli umani che non possono essere più tali. Morte o trasformazione.
Era la cosa giusta da fare, secondo Acilia.
“Per favore”piangeva Claire, digrignando i denti per il dolore.
Acilia gridava che avrebbe ucciso Kaeso, stremata e lacera.
Portale rispetto, per una volta…
“Jacque!” gridò Eike.
“Avanti” si riscosse Jacque “Falle bere il tuo sangue”.
Il ragazzino si affrettò ad affondare i denti nel proprio polso per bucarlo. Gocce di sangue si inseguirono sul suo braccio e lui avvicinò il polso alla bocca di Claire. Quella si spalancò in un grido strozzato e accolse al suo interno il sangue, che andò a mischiarsi col suo, che si costrinse a non sputare.
“Basta” disse Jacque dopo poco.
Le fuoriscite di sangue si arrestarono, e Claire smise di contorcere braccia e gambe per il dolore. Rimaneva solo il suo respiro angosciato.
Poi gridò di nuovo, mentre ogni ferita che aveva sul corpo lentamente e dolorosamente si ricuciva.
“Ora la formula”disse Jacque, fissando Claire, provando una strana sensazione.
La formula, Jacque.
Avrebbe voluto che ci fosse anche Acilia, a guardare, a stringergli la mano, come quella volta, quando era toccato ad Eike.
“Non me la ricordo”fece Eike.
“Più il cuore non ti batterà” iniziò Jacque. La sensazione di deja vu divenne fortissima e rivedeva davanti a sé un bambino insanguinato, ucciso crudelmente per strada, che sarebbe per sempre, da quel tragico momento, dipeso da lui.
“Più il cuore non ti batterà” ripeté Eike, annuendo e guardando Claire “Più lacrime non avrai… La fame incalzerà, il sangue verserai…”.S’interruppe. Claire gli aveva afferrato il braccio e glielo stringeva fortissimo, continuando a gridare. Perché provava tutto quel dolore? Le ferite si erano rimarginate, cosa stava succedendo? Eike la guardava con volto scioccato.
“Sposa delle tenebre…” lo incalzò Jacque, trepidante.
“Sposa delle tenebre” fece subito l’altro, con voce più alta, per sovrastare le urla della donna, ma incerta “Nemica della luce, mai ti si chiuderan le palpebre, mai fu più la vita truce…”.
Claire lanciò un urlo straziato di afflizione, battendo un pugno sul pavimento, mentre con l’altra mano stringeva sempre più forte il braccio di Eike. Questi guardava confuso il suo creatore ma neanche lui sapeva cosa stesse capitando. Cercava di ricordare il giorno in cui aveva trasformato Eike… Gli aveva dato il suo sangue ed Eike era guarito… Stava bene… Poi la formula. Acilia diceva che era importante la formula, perché?
“Vai avanti, Eike!”gridò.
“Questa notte morirai” continuò l’altro, sempre più inorridito “Torna al tuo creatore… quando risorgerai!”.
Claire piangeva, le sue gambe non riuscivano a stare immobili, e la formula era terminata.
“Claire! Cosa ti senti?” esclamò Jacque “Dicci cosa…”.
Ma lei si limitava a scuotere la testa, in preda a quello che pareva un immenso dolore.
“Che cosa succede?”fece Eike, agitato “Jacque…E’perché ho esitato a dire la formula?”.
Jacque cercava di ricordare, l’aveva chiesto ad Acilia, gliel’aveva chiesto…
Dubris ha detto che un vampiro senza creatore impazzisce. E’ a questo che servono le parole del rito, non è vero?
Ma Acilia aveva risposto di no. Aveva detto che non esistevano formule magiche e incantesimi.
Dubris ha detto che un vampiro…
Cos’aveva detto Dubris? In quale occasione? Ma certo, il patto del sangue!
“Jacque…”mugolò Eike. Ora la sua mano teneva stretta quella di Claire, che ancora si dibatteva, tra lacrime, sudore e il sangue che le sue ferite avevano qualche minuto prima versato.
Il patto del sangue… Dubris aveva spiegato a Jacque e ad Emily ogni cosa.
Jacque scostò la maglietta, ormai cremisi, di Claire in prossimità della pancia, senza dire niente. La goccia…
Certo, Claire aveva fatto il patto… Cos’aveva detto Dubris?
I primi patti del sangue sono stati un fallimento. Non sapevamo come regolarci con le dosi, e iniettavamo troppo sangue di vampiro nel corpo degli umani.
Claire aveva già del sangue di vampiro nel corpo.
Il sangue che viene utilizzato per questi tatuaggi non è il sangue di nessuno, è una miscela di sangue di vampiro.
Il sangue di nessuno. Di nessuno.
Il sangue di Eike non era altro che un’ennesima goccia di un ennesimo sangue di vampiro – sangue nocivo – che andava nel corpo di Claire.
Che fine hanno fatto questi umani che sono stati trasformati per sbaglio?
Avevano perso la ragione, aveva detto Dubris.
Claire continuava a gridare ed Eike fissava, impotente, agghiacciato, il suo fallimento. Come un aborto, l’avrebbe segnato, per sempre.



“Aci, ma che ti è preso?!” stava esclamando Dubris.

Acilia alzò gli occhi al cielo, e lui si sentì ancora più in collera. Presto sarebbero arrivati gli altri nel luogo dell’appuntamento prestabilito e presto sarebbero partiti per Arcangelo. La notte prima avevano progettato un piano, e due notti ancor prima Acilia aveva avuto la folle idea di parlare coi cacciatori.
“Perché l’hai fatto?” continuò lui, serrando i pugni lungo i fianchi. Poteva permettersi di parlare ad alta voce. In quel bosco lontanoo chilometri e chilometri da qualunque centro abitato non l’avrebbe sentito nessuno.
C’era una brezza leggera che smuoveva i rami verdeggianti e il tempo era umido, ma caldo. Tutto quel buio in cui erano avvolti rendeva il volto di Acilia spettrale, ma Dubris ne vedeva chiaramente l’espressione distaccata e fredda.
“Te l’ho detto”rispose lei dopo un po’ “I cacciatori mi avevano trovata. Sono fuggita ma sono tornata indietro. Se continuavo ad essere una fuggitiva, come avrei fatto a dare la caccia a Kaeso? I cacciatori mi avrebbero solo intralciata”. Il suo tono di voce era innaturalmente calmo.
“Sì, certo” fece Dubris, a denti stretti “Ma che mi dici di quel piccolo dettaglio, superfluo, certo, per cui tu, dopo aver ucciso Kaeso, ti consegneresti a loro per farti uccidere?!”.
Acilia non mosse un solo muscolo facciale.
La sua pelle brillava sotto la luce della luna e delle stelle. Quella pelle si sarebbe spenta, quel volto non ci sarebbe stato più…
Dubris neanche sapeva perché si sentiva così arrabbiato. Acilia non doveva rendere conto a lui di niente. Non aveva alcun legame con lei, e lei era pure più vecchia di lui di cinque secoli!
“Pensavi che altrimenti non ti avrebbero lasciato andare? E’così?” continuò, dato che Acilia non rispondeva“Ma come faranno a prenderti dopo… Tu ora sei libera. Fuggirai dopo, non è vero?”.
Dopo. Quel dopo che Dubris aveva usato, dava per scontato un sacco di cose. Dava per scontato che avrebbero trovato Kaeso, che l’avrebbero ucciso e che entrambi sarebbero stati ancora vivi. Ma non vedeva alternative nel suo futuro e non voleva vederlo un futuro in cui Acilia non c’era più.
“No, Dubris, non ho mentito. Io dopo mi consegnerò a loro” dichiarò lei.
“E si fidano…”. Dubris non ci voleva credere.
“Non avevano altra scelta” continuò la ragazza, guardandolo torvo. Il suo tono di voce si incrinò leggermente mentre aggiungeva: “Lo farò, Dubris, lo farò. Fattene una ragione!”.
Dubris sentì il sangue scalpitare all’interno del proprio corpo.
Farmene una ragione?
Si avvicinò ad Acilia, non riuscendo a trattenere l’impeto dentro di sé che sarebbe sgorgato in fiumi di lacrime, ma che scaturì solo in ira.
“Me ne faccio sempre una ragione. Me ne sono fatto una ragione quando sei piombata tra me e Ramona a dirci come ci dovevamo comportare, me ne sono fatto una ragione quando ci hai abbandonato tutti il secolo scorso, me ne sono fatto una ragione quando hai cominciato a voler scopare senza mostrare il benché minimo sentimento nei miei confronti!”. Aveva alzato la voce, senza accorgersene, e si sentiva così triste.“E ora dovrei accettare come se niente fosse anche il fatto che vuoi morire?!”.
Non si era mai sfogato in quel modo con Acilia, e provò vergogna subito dopo. Abbassò lo sguardo ma subito lo rialzò, per vedere che reazione avesse suscitato in lei. Ma lei lo guardava ancora glacialmente.
“Sì” disse solo.
Dubris non se l’aspettava. Acilia non era mai stata troppo sentimentale, ma così… Che le era successo? Perché voleva morire?!
Non disse niente, perché non sapeva più cosa dire e Acilia continuò: “Non sono fatti tuoi, è una scelta mia, solo mia!”.
Le sue parole furono accolte nel buio e nel silenzio. Dubris non trovava proprio altro da dire. La vergogna lo bloccava e gli annebbiava il cervello, gli annodava la lingua.
Per qualche istante stettero in silenzio e Dubris quasi sospirò di sollievo quando giunsero Ramona, Victoire, Luca e gli altri. Ramona fece un rapido cenno di saluto, senza guardare Acilia. L’altra non sembrò farci caso, continuava a guardare dritto davanti a sé.
L’aria si riempì di tensione e Dubris notò che Victoire lanciava uno sguardo di sottecchi rivolto ad Acilia. Non sembrava convinta.
“Aci”fece, dopo un po’, abbandonando stranamente il suo solito tono sicuro e altezzoso “Sei sicura di volerlo fare?”.
Non sono fatti tuoi, è una scelta mia.
Dubris ricordò di come Victoire sosteneva che Acilia non avrebbe mai potuto partecipare all’operazione, perché lei era la genitrice del nemico.
E’ una scelta mia.
Dubris si chiedeva perché volesse morire…
“Sicurissima”rispose Acilia.
Lui si sporse a guardarla, sperando che lei ricambiasse lo sguardo. Ma non lo faceva.
E’ una scelta mia.
Poi qualcosa si ruppe nell’espressione della ragazza e lei stessa, senza spostare il viso, continuando a tenere lo sguardo fisso di fronte a sé, sussurrò con voce bassissima, rivolta solo a Dubris: “E’ come se fosse mio figlio, Dubris, e lo devo distruggere. Come pensi che potrei ancora vivere dopo averlo fatto?”.
La sua voce si era crepata, così il suo viso, ma lei si ostinava a non volerlo guardare.



Gallia Aquitania, 376


Kaeso grondava sangue dai capelli. Capelli scuri, lucenti, incrostati di sangue e violenza. Con la mano si sistemò, sereno, un ciuffo ribelle e ritrasse poi la mano sanguinante, e la lasciò penzolare lungo il braccio, di fianco alla gamba, come se niente fosse, con quel suo sorriso di sangue, perenne, impresso sul volto. E quel sorriso Acilia non la lasciava mai andare, anche lei aveva impresso quel sorriso sporco e cruento, nella mente. Lo vedeva ovunque e a volte aveva pensato di fuggire, perché la stava facendo impazzire.
Anche tu hai avuto quel sorriso…
Kaeso era diventato lo specchio di lei stessa e guardarlo per lei era diventato un obrobrio insopportabile. E si ritrovava sempre con le mani sporche di sangue, con il sangue di qualche vittima nella bocca, e la bocca abbracciata a quello di Kaeso, in un continuo scambio e flusso di sangue.
Guardarlo era come guardare la realtà, ciò che lei aveva fatto, ciò che era e e lei a volte aveva il terribile desiderio di distruggerlo, perché aveva come l’impressione che, se l’avesse fatto, avrebbe ucciso anche quella parte così malsana che era dentro di lei.
Ma la spaventava. Kaeso era diventato la verità e la verità la spaventava.
“Aci” fece lui, curvandosi su di lei “Perché non sei venuta a caccia con me?”.
Le stampò un bacio in fronte e lei sentì subito il sangue colarle sugli occhi. Si mise le mani in faccia e si pulì frettolosamente.
Kaeso la guardò stranito. “Non ti piace più il sangue?”. Subito dopo rise.
Il sangue, certo che le piaceva. Era qualcos’altro che non le piaceva, che non le piaceva più…
“Sì”rispose lei, accovacciandosi per terra e abbassando lo sguardo. Se ne sentiva ancora l’odore in quella casa. I proprietari di quell’abitazione dovevano essere molto ricchi, erano stati trucidati dai barbari, che stavano invadendo l’Impero, da tutte le parti. Goti, o forse Unni…
I barbari sono persone, i veri barbari siamo noi.
L’Impero si era diviso, al potere non si capiva neanche più chi ci fosse. Nella sua testa, Acilia non sapeva più cosa ci fosse…
Distruggere.
La guerra… Barbari contro romani, cristiani contro pagani, vampiri contro umani.
“Meno male” rispose Kaeso “Perché ti ho portato la cena”.
Non ha alcun senso.
Acilia alzò di scatto la testa e vide che Kaeso stava trascinando dentro la stanza qualcuno che era rimasto fuori dalla soglia ad aspettare. Una persona, certo… Strano, Acilia neanche ne aveva sentito i vagiti, o il pianto, o le urla. Quelle che le piacevano, quelle dei bambini…
Quelle dei bambini non le erano piaciute.
Le risuonavano ancora nelle orecchie, con il fiume di sangue, il blu delll’acqua, che era negli occhi di Kaeso, e il rosso, innaturale, che era nella sua bocca. Da allora non sopportava più di sentir gridare le vittime.
Quello che Kaeso aveva portato dentro la stanza era un ragazzino in piena pubertà. Gli mancava una gamba, così non poteva fuggire. Che cosa orribile, pensò Acilia, non sarebbe potuto fuggire comunque. Kaeso gliel’aveva troncata solo per divertirsi.
La tunica era insanguinata ma la fuoriuscita di sangue dalla gamba era stata fermata con delle stoffe.
“Non volevo mica che morisse prima del tempo” spiegò Kaeso.
Il ragazzino aveva gli occhi intrisi di lacrime, ma le labbra erano di poco scostate l’un labbro dall’altro. Emetteva suoni bassi, gutturali, e Acilia aggrottò la fronte, poi notò che quelle labbra, e anche il mento del ragazzo, erano imbrattati di sangue.
Kaeso, tenendo fermo il ragazzo, rivolse ad Acilia uno sguardo dolce.“Non ti piace più che gli umani urlino troppo, e allora li uccidi subito. Gli ho tagliato la lingua, così potrai giocarci finché vorrai”.
Acilia rabbrividì. Non si gioca col cibo, pensò.
Un gioco? Mi piacciono i giochi!
Cercare i bambini nascosti nel bosco… trovarne più possibile, uccidernepiù possibile…
Kaeso spinse il ragazzo e quello, con un goffo saltello, cadde e finì addosso ad Acilia, che si ritrasse un poco.
Il ragazzino, seduto e poggiando il peso del corpo sulle braccia, cercò di indietreggiare, con la paura più folle negli occhi, sgranati e piangenti, spargendo con la voce suoni più forti, ma comunque sordi.
Acilia guardò Kaeso, poi abbassò di nuovo lo sguardo.“Sono io che ti ho ridotto così…”sussurrò.

I ricordi si facevano confusi, annebbiati, colorati di rosso. Quello che lui aveva detto, era meglio non ricordarlo. Lui era malvagio, e lei lo doveva uccidere. Non doveva ricordare, non doveva pentirsi.
Doveva solo ragionare a mente fredda, ripetersi che Viridio non abitava più quel corpo da tempo, ed eliminarlo.
In verità l’aveva già fatto, solo che questa volta sarebbe stato per sempre.

Kaeso era a terra, poggiato sulle ginocchia. Si guardava le mani, che continuavano a colare sangue, incessantemente.
“Sono io che ti ho ridotto così” sussurrò di nuovo Acilia, avvertendo il tremito del ragazzino di fianco a sé. Continuava a mugugnare, sforzando la gola. Era come se urlasse, e Acilia non lo sopportava.
Lo ignorò e si sforzò di guardare Kaeso negli occhi.
“Il giorno che ci siamo conosciuti” disse “ti sei presentato a me con un altro nome… Qual era? Che nome era?”.
Kaeso si era di nuovo oscurato in faccia, e la guardava di nuovo col sangue tra i denti.
“Non ho altri nomi che Kaeso”. Si alzò da terra, con l’aria di chi non sapeva come ci fosse finito, a terra.
Il ragazzino vociava sempre più forte, atterrito. Acilia, presa da una rabbia funesta, si voltò a guardarlo. Gli occhi sembravano così innaturali, troppo grandi, col bianco che dominava mentre il resto non era che un pallino ristretto, sgorganti pianto.
Non gioco più con gli umani.
Senza neanche pensarci, scattò su di lui e affondò i denti nella sua gola. Quello si dimenò ma presto la quiete morte prese il sopravvento su di lui, e lui smise di soffrire.
Acilia, il ragazzo tra le braccia, si voltò di nuovo verso Kaeso, che la osservava con occhi impassibili.
“Ti devi svegliare” disse con voce flebile. Cercò dentro di sé il coraggio e parlò più forte: “Ti devi svegliare… Kaeso, ti devi svegliare!”.
Lui spalancò leggermente gli occhi, per un attimo, poi quelli tornarono freddi, la bocca si espanse in un piccolo ghigno e lui le diede le spalle.




Era notte fonda. Quel vecchio edificio come al solito era avvolto nel buio, senza alcun lampione intorno. D’altronde sarebbe stato uno spreco, non abitava nessuno in quel quartiere di Arcangelo. E i vampiri non avevano certo bisogno della luce per vederci.

I vampiri…
Gerasim lanciò lo sguardo là nel buio. Sarebbe dovuto tornare a casa, lo sapeva, ma si sentiva elettrizzato, dalla paura stessa.
Yan lo tirò per una manica: “Ger, che fai? Andiamo a casa”.
Erano stati a bere in un locale con degli amici, che li avevano già salutati. Molti si rintanavano in casa quando il sole tramontava, ma non loro. Gerasim, Yan e gli altri non ne volevano sapere di rinunciare alle loro serate per degli stupidi morti che camminano. Andavano in giro armati, e si fermavano nei locali, sempre vuoti, ma aperti per loro. Era rigenerante, li faceva sentire potenti.
“L’hai mai visto un vampiro, Yan?” fece Gerasim, continuando a guardare verso il buio. L’ultimo lampione acceso era quello proprio sopra la sua testa.
Yan sospirò e lo tirò ancora per la manica della giacca.“Non farti venire strane idee, hai bevuto troppo tu”.
Gerasim si strattonò e guardò l’amico con una luce violenta negli occhi, rincarata da quella del lampione sopra di loro. “Io ne voglio vedere uno!”. Mostrò il fucile caricato con proiettili di legno, compiaciuto. “E magari ucciderlo”.
“Lasciale fare ai cacciatori queste cose” ribatté Yan, brusco.
“Hai paura, non è così?” fece Gerasim.
“L’avresti anche tu se non ti fossi bevuto tutta quella birra!” esclamò l’altro.
Gerasim scoppiò a ridere, ilare, guadagnandosi una spinta dall’amico.
“Sei proprio un idiota, Ger, ci stavo cascando!”.
Yan, visibilmente sollevato, si portò le mani alla testa, portando dietro i capelli biondo cenere.
“Dai, andiamo”sghignazzò Gerasim.
Entrambi si avviarono verso il centro della città, lasciandosi alle spalle quel misterioso angolo buio.
Gerasim trovava divertente spaventare e prendere in giro i suoi amici. Un vampiro l’avrebbe voluto vedere davvero, prima o poi. Sì, probabilmente aveva bevuto troppo, i pensieri vagavano piuttosto liberi, in un flusso poco sensato. Dopotutto, se non avesse bevuto, probabilmente non avrebbe mai accettato di fare quello che stava per fare.
Ma già non sentiva più i passi di Yan accanto ai suoi, e poi sentì un grido.
Si voltò di scatto e vide che una donna stava tenendo stretto tra le braccia il suo amico che, spaesato, continuava a gridare.
Ecco, pensò Gerasim, agghiacciato. La donna aveva una minigonna e tacchi alti, un bel viso ma un’espressione poco amichevole. Nel buio, la sua chioma bionda sfavillava. E anche la sua pelle…
Gerasim si affrettò a puntarle il fucile addosso, cercando di stare calmo. I suoi pensieri si fecero ancora più strani, spaventati e poco razionali, mentre le gambe avevano preso a tremare. No, questo non era l’alcol. E la testa gli girava un poco… No, devo avere mira, devo avere mira, pensò disperato il ragazzo.
“Non mi puoi sparare” fece la donna, da dietro Yan, con le zanne in fuori, appoggiate al collo del ragazzo “senza colpire il tuo amico”.
Gerasim sudava freddo. Ne valeva la pena? Ne valeva davvero la pena?!
Poi, finalmente, qualcosa vibrò nell’aria e ci furono suoni confusi. Gerasim non era riuscito a vedere niente, e poi Yan finì a terra e il vampiro donna si trovò accerchiata da sei figure nere, con mantelli e passamontagna. Ciascuna le puntava addosso un’arma e quella, braccata e spaesata, levò le mani in alto.
Gerasim si era precipitato sull’amico e lo stava aiutando a rialzarsi.
“Come stai?” gli domandò.
Quello, completamente bianco in volto, si tastò il collo e ritrasse un indice sporco di una goccia di sangue.
“Aiuto… Ger, quella era… e quelli… chi…”. Atterrito, dopo aver visto la morte in faccia, sembrava non avere più voce.
“Ehi”fece subito Gerasim, posandogli una mano sulla spalla“Tranquillo, loro non ci faranno del male…”.
“Li conosci?!”sbottò l’altro, ritrovando la voce.
“Ora basta” fece una voce femminile, piuttosto infastidita. Una delle figure abbandonò la preda e avanzò verso i due ragazzi. Nella mano destra stringeva una pistola, nella sinistra una valigetta nera.
“Qui ci sono i vostri soldi” disse, tendendo la valigia verso Gerasim “Spartiteveli”.
Yan era a bocca aperta e Gerasim, con uno slancio di sollievo e avidità, afferrò la valigetta e l’aprì subito. Era certo che i suoi occhi brilassero, davanti a tutti quei soldi.
“Tu…Tu…”fece Yan, allibito “Tu non mi hai detto niente!”. La paura stava cedendo spazio alla rabbia.
Gerasim tentò di apparire rassicurante. Era ovvio che Yan si fosse arrabbiato, era preparato a questo.
“Hai messo a repentaglio la mia vita!” urlò ancora Yan, indicandosi il collo.
“Quelli volevano catturare un vampiro” spiegò Gerasim, in fretta “Sarebbero intervenuti prima che ti accadesse qualcosa, e così è stato”.

“Guarda!” gridò ancora l’altro, continuando a indicare il proprio collo.
“Ragazzino”disse la donna in tono severo, della quale i due ragazzi potevano vedere solo gli occhi, verdissimi “Non sai che un morso di vampiro che non ti prosciughi il sangue né ti uccide né ti trasforma? Figuriamoci quel graffio”.
Yan parve leggermente confortato, poi diede un’occhiata alla valigetta che Gerasim teneva in mano.
“A me spetta più della metà” disse, in tono nervoso.
“Ehi, ma…”.
“Prendete i soldi e sparite!” disse ancora la donna, alzando la voce.
Gerasim e Yan si lanciarono uno sguardo. Era meglio filarsela. Il vampiro donna che quegli sconosciuti avevano catturato li stava guardando in cagnesco, e aveva cominciato a urlare per chiedere rinforzi. Che rinforzi?
Gerasim annuì e, la valigetta stretta a sé, si mise a correre verso il centro, e Yan con lui, riuscendo però a captare l’ultima, strana, frase che quella donna dagli occhi verdi rivolgeva ai compagni.
“Forza, qualcuno prenda Svetlana e voliamo via. Non vorremmo mica scatenare una battaglia qui, no?”.



Claire era morta, cosparsa di sangue e avvolta nel sangue.
Aveva gli occhi ancora aperti, vitrei, e ancora qualche lacrima appesa alle ciglia.
Eike, chino su di lei, allungò una mano per chiuderglieli. “Cosa succederà tra una settimana?”domandò dopo poco“Come si risveglierà?”.
“Non lo so” rispose Jacque, sincero. Non sapeva cosa dire ad Eike e non sapeva nemmeno cosa fare, o cosa avrebbe fatto, una settimana dopo. Avrebbero dovuto lasciarla morire, Claire, morire davvero, morire in maniera naturale! E invece…
Ecco cos’avrebbe dovuto interrompere quella catena: una trasformazione sbagliata.
Eike non riusciva a distogliere lo sguardo dal corpo di Claire. Aveva la gambe magre e lunghe, un’espressione serena, una ragazza normale, perché perdeva tempo con loro? Perché aveva voluto fare quel maledetto patto del sangue? Jacque si domandava tante cose, chissà Eike a cosa pensava. I suoi occhi erano impassibili come sempre, spenti come quando aveva realizzato che non sarebbe più cresciuto. Sembrava tanto forte, Eike, con la sua lingua schietta e la sua mente vivace, ma era piccolo, e la verità, quella lo annientava sempre.
“Eike…” provò Jacque, ma si fermò, vedendo che il ragazzino stava scuotendo la testa.
Ancora qualche attimo e quello si alzò. “Dobbiamo seppellirla?”.
“Possiamo tenerla nello scantinato” disse Jacque, non pensando che potesse essere una cosa piuttosto macabra. Voleva solo risparmiare ad Eike la fatica di scavare una buca e il dolore di pensare al futuro.
“Dobbiamo ucciderla?” domandò ancora Eike.
Jacque aggrottò la fronte. “Non possiamo”.
“Se le ficchiamo un pacchetto nel cuore, non si trasformerà” continuò l’altro.
Jacque cominciava a capire. “Vuoi che non si trasformi?”.
Eike teneva lo sguardo basso. “Non voglio doverla uccidere quando si risveglierà. Non voglio che soffra ancora”.
Jacque si strinse nelle spalle. Nonostante fosse abituato alla morte e all’orrore, guardando il corpo di Claire, morta così inutilmente, senza motivo, si sentiva intristito.
“Quando si sveglierà potrebbe non essere più lei” disse, riflettendo “Ma potrebbe anche esserlo ancora, in qualche modo, non possiamo saperlo”.
Qual era la cosa giusta da fare? Perché non riusciva a dare ad Eike delle certezze? Mai, non l’aveva mai fatto, tutto ciò sapeva fare era dipendere da Acilia…
“Dovremmo chiedere consiglio ad Acilia o a Dubris” ammise infine, con uno sforzo.
“Oh sì” sbottò Eike“Hanno molto tempo libero in questo periodo”. Non c’era traccia di ironia nella sua voce, ma solo un arrabbiato sarcasmo.
“Seppelliamola”sentenziò Jacque, ignorando il pensiero di Acilia “Quando sarà finita questa storia ci consulteremo con loro”.
L’altro alzò lo sguardo su di lui, uno sguardo pungente, e Jacque, per qualche motivo, si sentì in colpa.
“Aci finirà uccisa o da Kaeso o dai cacciatori, ecco come finirà questa storia”.
Acilia si voleva consegnare, era questa la verità, Jacque non doveva dimenticarla.
Eike vacillava di fronte alla verità, ma lui non era da meno. Erano qualcosa di più degli umani, qualcosa che si avvicinava un poco di più alla verità ma entrambi, in confronto alla terribile verità che li osservava dall’alto, non erano niente.
Jacque scosse la testa, stringendo gli occhi e guardando da un’altra parte. “Non potresti essere un po’ più ottimista?”.
Non ottenne risposta e ripuntò lo sguardo su Eike. Quello aveva di nuovo lo sguardo chino su Claire, intriso di cotanta tristezza, che però Jacque non riusciva a condividere, a ridosso com’era di un altro baratro.
“Non potresti fare uno sforzo?” continuò, con rabbia impastata di dolore “Non potresti crederci?!”.
Ancora fu come se avesse parlato al vento, e dopo aver lungo osservato Eike che trascinava il corpo di Claire, in una striscia di sangue, per l’ingresso fino alla porta sul retro, avanzò verso di lui, per dargli una mano.



Svetlana, seminuda, era legata ad una colonna con tre grosse catene d’argento. Indossava solo il vestiario intimo, in maniera che la pelle nuda soffrisse ancora di più, sotto la tortura dell’argento. Le ferite continuavano ad allargarsi e le gocce di sangue si inseguivano, cadendo l’una sull’altra, estendendo le piccole pozze sul pavimento.

Una quarta catena, più sottile, le cingeva la testa, attraversandole la bocca aperta e urlante. I denti parevano marcire e le labbra parevano sciogliersi in sangue.
“Non è necessario tutto questo” osservò Ramona, gli occhi puntati sulla scena nauseante.
“E’ la figlia di Kaeso” fece Dubris, per nulla risentito.
Acilia era fuori, a montare la guardia insieme agli altri. Non aveva voluto gestire lei la tortura e l’interrogatorio, il richiamo del sangue era forte solo tra creatore e creato ma, del resto, Svetlana era pur sempre come una nipote per lei. Invece Dubris aveva accolto il compito a braccia aperta. Ricordava ancora quella strage avvenuta in Inghilterra, alla veglia funebre di un pover uomo, organizzata dalla sua povera moglie. E c’era quella donna, dai capelli fulvi, con la sua bambina… E c’era Dubris che non aveva potuto fare niente per salvarle, mentre Kaeso e Svetlana se ne andavano lontani.
“E che colpa ne ha lei?” insistette Ramona.
Dubris sentiva la rabbia galoppare. Stragi di umani, la crudeltà di Kaeso, Acilia che lo aveva sempre rifiutato e che lo avrebbe definitivamente abbandonato, la morte di Lyuben, il senso di colpa nei confronti di Ramona… Sì, avrebbe sfogato tutta la sua rabbia, e se non poteva farlo su Kaeso, l’avrebbe fatto sulla sua creata. Lui avrebbe comunque sofferto.
“Non tirare fuori quella scusa. Non dire che è sempre tutta colpa di come veniamo creati e da chi veniamo creati” sbottò Dubris “Io non sono stato creato da nessuno”.
“Ma hai incontrato Acilia”.
Già, Acilia.
Dubris guardò gli occhi di Svetlana, sgranati dal dolore. Erano rossi ma erano diversi dagli occhi sofferenti e disperati che Acilia aveva, quando era in catene davanti ai cacciatori. Quelli erano occhi pazzi, in cui bruciavano le fiamme della scelleratezza, e mai del rimorso.
Urlava, come aveva urlato lui, solo, il giorno del suo risveglio…Gridava il nome di sua moglie, la cercava, la chiamava… Ma il posto in cui si era risvegliato non era casa sua, né tantomeno la sua patria.
Aveva scoperto che il sole gli bruciava la pelle, e aveva urlato, aveva scoperto che non riusciva più a mangiare niente, aveva scoperto che si nutriva di persone, del loro sangue, e aveva scoperto che allora lui non lo era più, umano, e aveva urlato. Non l’aveva più rivista, la sua casa. Quando era riuscito a tornare in Inghilterra, non ne era rimasto più niente. La sua casa era stata bruciata e, del resto, forse, era stato meglio così.
“Non ero come lei”disse, riemergendo dai ricordi e accennando a Svetlana “Anche se non sapevo niente, anche se non sapevo come controllarmi… Non sono mai stato come lei”.
Continuava a fissarla, sentendo accendere il proprio sangue in faville di ira. Non voleva scostare lo sguardo, non voleva guardare il volto pacato e segnato dalla solitudine di Ramona, che l’avrebbe acquietato, cosicché la sua rabbia non avrebbe più trovato un’uscita.
Aveva più volte cercato di ricordare come fosse fatto il suo creatore. Ma l’ultima cosa che ricordava era che tornava a casa, stanco e spossato… Nulla. Chi l’aveva creato doveva averlo incantato, mentre lo faceva. E chissà se aveva pronunciato il rito.
“Ramona, esci”disse, stringendo la scheggia d’argento che aveva nella mano rivestita di un guanto molto spesso “Ora la farò parlare”.
“Non vuoi che io assista? Cosa le vuoi fare?” ribatté la voce di Ramona.
Dubris si voltò finalmente a guardarla, risoluto, e cercando di trasmetterle con la sola forza degli occhi, e del sangue, il suo rancore.
“E’ la figlia di colui che ha ucciso Lyuben”.
Ramona incurvò lievemente le sopracciglia verso l’alto.
“La vendetta non porta a niente, solo ad altra vendetta, in una catena infinita di odio”.
Dubris alzò gli occhi al cielo, incredulo. “Mi vuoi forse dire che hai perdonato Kaeso?”.
“Non cercare vendetta non significa perdonare!” replicò Ramona, alzando la voce, forse per sovrastare i mugolii di Svetlana, che continuava a cadere a pezzi, o forse perché era davvero arrabbiata.
L’altro forse comprese, ma voleva chiedere una cosa alla sua creata. E glielo chiese senza traccia di ira. “E Acilia, l’hai perdonata?”.
Ramona ebbe un fremito. Infine, deviò la domanda e disse: “Non vorrei che si consegnasse davvero ai cacciatori”.
Dubris immaginò che equivalesse a un sì, perché se non c’era odio, allora c’era perdono, per lui.
“Voglio solo farla parlare” sentenziò “Ora esci”.
Ramona non replicò e, rassegnata, uscì dalla stanza.
Dubris si voltò immediatamente verso Svetlana. Le guance, ormai talmente scarne da far intravedere le ossa, esalavano fumo e sangue, gli occhi sembrava piangessero, ma quelle che buttavano fuori erano solo lacrime di sangue e la bocca, che cercava incessantemente di spingere via l’argento da sé, non aveva più labbra. Il corpo bruciava e fumava, l’intimo che Svetlana indossava era completamente insudiciato di sangue e pelle, che cadevano insieme, in gocce e brandelli.
La donna emetteva grida sempre più sommesse, ma, in qualche modo, sempre più laceranti.
Dubris poggiò il pezzo di argento che aveva in mano su una vecchia scrivania e si avvicinò Svetlana e, con uno scatto aggressivo, le strappò la catena d’argento dalla bocca, facendole sbattere violentemente la testa contro la colonna di legno a cui era legata.
Quella, liberata la bocca, diede libero sfogo al suo dolore e gridò fortissimo, un urlo che però aveva un qualche, fastidioso, suono di sollievo.
Dubris, con la mano libera estrasse dalla tasca dei pantaloni uno specchietto rosa. L’aveva trovato nella borsa della prigioniera.
Lo aprì e mostrò il lato fornito di specchio al volto di lei.
“Guardati”.
Svetlana provò a sibilare qualcosa, stancamente. Ma l’assenza di labbra e la lingua bruciata le impedivano di articolare qualunque suono.
Dubris ghignò, senza abbassare lo specchietto. “Non ho fretta. Aspetterò che la lingua ti ricresca, così potrai dirmi tutto quello che voglio”.
Per tutta risposta Svetlana grugnì qualcosa, lanciandogli uno sguardo d’odio. Gli occhi erano ancora rossi, e lo sarebbero stati ancora per molto tempo.
“Oh, e se ti rifiuterai di parlare, ti rimetterò in bocca questa” continuò Dubris, sollevando la catena annerita e sporca “E poi te la toglierò ancora, e aspetterò che ti ricresca la lingua. Così finché non parlerai”.
Buttò la catena per terra, avvertendo un formicolio alla mano, seppur protetta daun guanto.
Svetlana riprese ad urlare di dolore, mentre nascevano sulle sue guance nuovi strati di pelle.
Passarono diversi minuti prima che un accenno di labbra le venisse disegnato sul volto e, dopo altrettanto tempo, tra urla sempre più forti, lei poté parlare.
“Cosa… vuoi” esalò.
Dubris nel frattempo si era seduto sulla scrivania, giocherellando con la scheggia d’argento. Fu piacevolmente sorpreso quando la voce di Svetlana lo raggiunse.
“Oh, ti rigeneri in fretta” disse, compiaciuto “Tipico di voi giovani. Vi scomponete lentamente e vi rigenerate in un lampo… Ah, beata gioventù!”. Si alzò e con un solo balzo fu vicinissimo al viso di Svetlana, ancora rigato da strisce di sangue.“Chissà quanto deve essere doloroso per voi… morire”.
Svetlana gli sputò addosso del sangue.
Dubris rimase un attimo interdetto, poi, con un risolino, si pulì il naso.
“Perché non finisci questa pagliacciata e mi uccidi, visto che ci tieni tanto?” biascicò Svetlana, con voce bassa.
“No, non voglio ucciderti” ribatté l’altro “Voglio solo che tu mi dica dove possiamo trovare Kaeso”.
“Anche se te lo dicessi, poi mi uccideresti comunque” sibilò la prigioniera, sputacchiando ancora sangue.
Dubris rise. “Credi davvero di essere un tale pericolo da dover essere uccisa così?”.
Svetlana non rispose. I capelli biondissimi avevano perso parte della loro luminosità e le cadevano sulla faccia, e lungo il corpo, impiastricciandosi di sangue.
“Rimarrai nostra prigioniera finché non avremo ucciso Kaeso, poi ti lasceremo andare” continuò Dubris “Credimi, quando questa storia sarà finita, se farai di nuovo qualcosa contro la legge, ti ritroverei subito”. Le si era avvicinato con sguardo convincente e con una mano le sfiorò le mutande e lei ebbe un tremito. Continuava a lacrimare e a sudare sangue, e a respirare fiocamente, ma non gridava più.
Dubris le guardò a lungo il corpo. “Sarebbe proprio uno spreco ucciderti, non costringermi a farlo”.
“E la vendetta di cui parlavi?” fece la donna, lievemente acquietata.
“La tortura”rispose l’altro, avvicinando il viso e comprimendole il corpo col proprio.“Lenta, e atroce”sussurrò con voce dolce.
Si allontanò, con i vestiti un po’ macchiati e andò verso la scrivania, mentre Svetlana, agitandosi, gridava: “Pensi sul serio che io tradirei il mio creatore?”.
Dubris afferrò il pezzo d’argento e in un lampo le fu addosso. Con una mano le stringeva la spalla, con l’altra le conficcava nell’occhio sinistro un estremo della sua arma. Lei gridò spaventosamente, mentre l’occhio si scioglieva, in una grande quantità di fumo e sangue che colava copioso, in un elettrizzante fetore di bruciato.
“Ti decidi a parlare?!” abbaiò Dubris, spingendo sempre più in profondità “La tortura è di gran lunga peggiore della morte, quanto resisterai?!”. Aveva urlato per sovrastare la grida di Svetlana, ma anche perché la rabbia e la fretta stavano prendendo il sopravvento su di lui. Estrasse di scatto l’argento dall’occhio di lei e rimase a guardare, senza l’ombra di un ghigno o di un sorriso, quel buco pieno di liquido rosso, con la pelle che si accartocciava su se stessa.
“Sono pronto a rimetterti la catena in bocca” sbottò.
“Kaeso…”esalò Svetlana, la testa piegata sulla sinistra“Kaeso…verrà a salvarmi…”.
“Sei una cretina!”gridò Dubris “ A quello non gliene frega niente di te! Dimmi dov’è!”.
“So bene che lui non ha amore da darmi” continuò a biascicare l’altra, con un torrente di sangue sulla guancia sinistra“Del resto, io non ne ho per lui…”.
La sua voce era debole, il suo corpo tremava e dalla sua espressione sembrava che non potesse davvero sopportare altro.
“Se ti dico dov’è la sua casa… mi lascerai andare?”.
Dubris si placò, soddisfatto.“Non posso lasciarti andare, perché potresti correre ad avvisare Kaeso”.
Svetlana non aveva la forza per scuotere la testa, ma i suoi capelli oscillarono lo stesso, con un gemito per la fatica. “Sono giovane, l’hai detto anche tu… Voi siete più veloci di me, voi potete volare”.
Dubris esitò. Ma il tempo scorreva. “D’accordo allora, ti lascerò andare. Ora parla”.
Svetlana sospirò.“E’ una grande villa, completamente di legno. E’ isolata, a parecchi metri di altitudine”.
“Dov’è?” insistette l’altro.
La prigioniera attese qualche attimo, poi disse: “Zofingen, in Svizzera”.
Dubris annuì, poi si diresse per l’ennesima volta verso la scrivania, dove poggiò la scheggia d’argento. Si tolse i guanti e li pose nelle tasche dei pantaloni.
“Ehi” fece la voce di Svetlana “Ora mi devi liberare”.
Lui le fece cenno di attendere. In una mano prese la borsa della donna e con l’altra impugnò la sua pistola, entrambe dalla superficie della scrivania.
Si voltò verso la prigioniera, che lo guardava confusa. Il bulbo oculare sinistro si stava riformando e la scena stava diventando sempre più raccapricciante. L’altro occhio era sgranato e le labbra, ora perfette, scostate un poco, in un piccolo grido muto.
La vendetta non porta niente, solo ad altra vendetta, in una catena infinita di odio.
Dubris alzò la pistola, puntando dritto al cuore. “Mi hai mentito. Dimmi dov’è Kaeso”.
Svetlana parve incredula. “Non ho mentito!” gridò.
“Dimmi subito la verità, o sparo” disse lui, in tono deciso.
“E’la verità! Ti ho detto la verità, cosa vuoi da me?!”urlava l’altra, disperata, sputando grumi di sangue.
Dubris sbuffò. Non ne poteva davvero più.
La vendetta non porta niente, solo ad altra vendetta…
Sparò.
L’espressione, di dolore e di urlo, che Svetlana aveva in volto rimase fissa per un momento, come se fosse una foto. E poi l’intero suo corpo esplose in sangue, finalmente libero dalle catene.
Dubris si affrettò ad uscire dalla casa, infilando la pistola nella cinghia dei pantaloni, e tenendo salda la borsa della morta per il manico.
Varcata la soglia, la luce delle stelle di quella serena notte lo raggiunse insieme a un belare. Accanto al recinto delle pecore, stavano i suoi compagni, che lo fissavano sbigottiti. Evidentemente avevano sentito lo sparo.
“Le ho dato l’opportunità di dirci dove trovare Kaeso, ma non me l’ha voluto dire” si giustificò lui.
“E l’hai uccisa?”fece Victoire, incredula “E ora come facciamo a…”.
“E’a Gressan, in provincia di Aosta” la interruppe lui, con un sorrisetto. Sollevò la borsa di Svetlana. “Aveva il navigatore acceso, che segnava proprio quella località. Non aveva un grande senso dell’orientamento, la piccola rampolla di Kaeso”.
“Oh” disse l’altra, un po’ sorpresa.
Dubris cercò lo sguardo di Acilia. Lei ricambiava, ma non aveva alcuna espressione.
Ti dispiace che io abbia ucciso Svetlana?
“Che bisogno c’era allora di torturarla e di ucciderla?” se ne uscì Ramona, visibilmente risentita.
“Non ha voluto collaborare fino alla fine” rispose Dubris, in tono piatto “Quindi era a tutti gli effetti una nostra nemica, e andava eliminata”.
La sua creata gli si avvicinò, con qualcosa di peggio che la furia nel volto, la delusione. “Ora sei finalmente soddisfatto?”.
Dubris resse il suo sguardo. “Sì” disse, in tono duro.
Si rivolse indietro, verso gli altri e soprattutto verso Luca, che, con lo sguardo fisso negli occhi del pastore proprietario della casa, continuava a parlare in tono dolce e tranquillizzante, accanto a una borsa nera, piena.
“Lasciagli i soldi e digli che avrà un po’ da pulire, dentro casa. Ora possiamo andare a chiudere questa storia”.



Kaeso sputò il sangue che aveva in bocca, scaraventando a terra l’umano, Albert, da cui si stava nutrendo.

Philippe scattò verso di lui, preoccupato. “Kaeso, stai bene?”.
Lui non rispose, troppo impegnato com’era nel resistere al dolore. Sembrava che il petto gli si stesse squarciando, il sangue che aveva appena bevuto – o il suo stesso – si stava rivoltando contro di lui e lui lo sputò tutto sul pavimento.
Alzò gli occhi, e accanto alle macchie di sangue che stava creando c’era Albert, a bocca aperta, con l’abituale taglio sul collo, in pantaloncini e canottiera, spaventato e infreddolito.
“Che hai fatto, umano?” ruggì Philippe, dando un calcio all’uomo per terra. Si rivolse a Kaeso.“Vuoi che lo uccida?”.
Kaeso si riprese, dopo vari affanni. Alzò lo sguardo sul suo compagno. Sotto i capelli mori, esibiva uno sguardo deciso, che lampeggiava dai suoi stessi occhi scuri.
“Sciocco”lo ammonì Kaeso, stancamente, con un colpo di tosse “Non avrebbe potuto farmi niente. Non lo uccidere, il suo sangue è squisito”.
Philippe era sconcertato. “Non mi pare che tu abbia avuto una reazione molto positiva al suo sangue” disse, osservando le macchie sul pavimento.
Kaeso si rialzò a fatica. Non ne aveva più voglia di bere ed era strano, non gli succedeva mai. Serrò i pugni, nero di rabbia e scagliando un mezzo calcio in aria. Albert intanto stava lentamente strisciando indietro, sul sedere.
“E’morto qualcuno dei miei creati” spiegò Kaeso, rabbiosamente. Chi? Chi poteva essere? Ne aveva così tanti…
Ascolta il tuo sangue.
Socchiuse gliocchi. Ascoltava il sangue ma quello semplicemente ribolliva per la rabbia e l’umiliazione.
“Svetlana non è ancora rientrata” disse Philippe, con uno sguardo terreo.
Kaeso aprì gli occhi e li puntò immediatamente su di lui.
Svetlana?
Furioso, lasciò uscire la sua ira in un grido. Svetlana, chi l’aveva uccisa? Era così giovane, non era un bersaglio difficile per i cacciatori! Sì, forse erano stati i cacciatori, loro, maledetti, stupidi e sporchi umani… Oppure…
“Quell’annuncio che Acilia ha fatto, alla televisione” disse Philippe“Kaeso, ci stanno attaccando”.
Kaeso annuì. Era più probabile che fossero stati loro. Acilia, Dubris e la loro allegra compagnia di mentecatti. Dove, dove era successo? Se si concentrava, avrebbe potuto sentire il richiamo del sangue di Svetlana, che l’avrebbe condotto fino al punto in cui l’avevano ammazzata. Ma era inutile, di certo Acilia non era stata così stupida da farla uccidere nel loro covo.
Aveva ancora le dita delle mani strette in due pugni, serrate fino a graffiarsi e a farsi sanguinare i palmi con le unghie.
Chiunque di loro fosse stato, l’avrebbe pagata cara.



Jacque ed Eike erano appena rientrati in casa, dopo aver seppellito il corpo di Claire nel bosco, sotto un agrifoglio.

Si erano seduti sul divano, e nessuno aveva detto niente per un po’.
Jacque non si era mai reso conto che Eike ci tenesse davvero, a Claire.
Si voleva scusare, ma l’altro lo precedette e parlò.
“A volte mi chiedo da dove veniamo” disse, con gli occhi sprofondati in un alone di riflessione“La scienza ha dimostrato qual è l’origine degli esseri umani. Ma i vampiri? Perché esistono i vampiri?”.
Jacque non rispose. Era una domanda che si era posto anche lui parecchie volte. Era una domanda che si ponevano tutti, in realtà, umani compresi che, con le loro ricerche, non erano ancora arrivati a nulla.
“Forse ha ragione Kaeso” disse dopo un po’ “Forse siamo davvero l’evoluzione genetica degli umani, e noi ci siamo finiti in mezzo, a questa evoluzione. E se è così, allora l’intera umanità è destinata a estinguersi”.
“Il mondo popolato di vampiri” rifletté Eike “E di cosa si nutrirebbero?”.
“Non lo so” ammise Jacque.
Il suo creato scosse la testa, risoluto. “No” disse “Non si può liquidare la faccenda parlando di una semplice evoluzione genetica. Non ha senso”.
Il suo volto dai lineamenti così morbidi, apparve duro come la roccia, in quel momento. Eppure, dentro, doveva essere molto triste, il piccolo Eike.
“Noi abbiamo dei poteri, Jacque” proseguì “Abbiamo una forza incredibile, possiamo correre velocissimamente, incantare le persone, volare…”. Fece una pausa, oscurandosi un pelo, prima di aggiungere: “Non portiamo i segni dell’avanzare del tempo”.Ancora si fermò, poi proseguì:“Queste cose non le spieghi con la scienza, sono poteri soprannaturali. Devono discendere da qualcosa… Qualcuno, o qualcosa, ci ha creati, e questo qualcuno non era un umano. Una divinità?”.
Jacque non disse niente. Quando era umano, credeva in Dio, ma adesso, ora, come poteva crederci? Come poteva credere che un dio avesse creato i vampiri? Eppure Eike gli stava spiegando che proprio loro erano la prova che un dio –almeno uno – esistesse. Perché loro erano qualcosa di soprannaturale.
“Una divinità che ci ha dato dei poteri” continuava Eike, che aveva posato lo sguardo sulle proprie gambe “Poteri inutili, se non dannosi. Poteri soprannaturali, poteri divini ma che non possono fare niente per aiutare le persone”.
Jacque stava guardando il pavimento, ancora sporco di sangue, su cui Claire si stava trasformando in qualcosa che loro non avrebbero potuto controllare. Avrebbero dovuto pulire, sì…
“Siamo tanto potenti ma non siamo stati in grado di salvare neanche una persona” diceva Eike, con la voce che a poco a poco si spegneva.
Si voltò a lato, guardando Jacque. Quello ricambiò, quasi col fiato sospeso, perché aveva paura di quello che Eike avrebbe potuto dire.
“Pare che tu provi compassione solo per le tue donne” disse infatti lui, riprendendo colore nelle parole, che però non suonavano pungenti, ma solo tristi “Forse se ti fossi fatto anche Claire, avresti cercato di salvare anche lei”.
Jacque lo fissò impietriro, senza riuscire a proferir parola. Era questo che Eike, il suo creato, il suo miglior amico, suo figlio, pensava di lui?
“Eppure”continuò amaramente l’altro “per Lydia non hai esitato neanche un secondo”. Sospirò.“Dimmi”aggiunse, guardandolo dritto negli occhi “Ami Emily al punto da voler proteggere tutte le persone che sono intorno a lei?”.
Ancora Jacque ebbe come l’impressione che gli si fosse seccata la lingua.
Eike concluse, usando parole davvero più crudeli dei suoi occhi da bambino: “Sarebbe una cosa che ti farebbe davvero onore, se solo tu l’amassi sul serio”.
A Jacque sembrò quasi di annaspare, ed era una sensazione nuova, essere messo a nudo così, e la vergogna…
“Eike…”provò a dire “Mi dispiace…”. Non usciva altro dalla sua bocca. Alla fine, rimproverava tanto Acila, perché non gli aveva mai detto niente, ma lui non ci riusciva mai a parlare. Le aveva mai chiesto qualcosa? E ad Emily cos’aveva detto? L’aveva lasciata andare così, senza una parola? Ed Eike? Aveva mai fatto qualcosa per lui?
“Mi dispiace”ripeté, sentendosi stupido “Mi dispiace…”.
Ma quello non diceva niente e Jacque abbassò il volto e per un momento davvero credette che avrebbe pianto, ma, ovviamente, il suo corpo non glielo permetteva.
Loro erano potenti, ma senza alcun potere. Potevano solo decidere se uccidere o trasformare, salvare e condannare, la loro era solo una catena di mutamenti, e creazioni, e si passavano l’uno all’altro il rancore e la sofferenza, e la catena, apparentemente senza origine, andava avanti, all’infinito.













Questo capitolo è stato lungo e faticoso :( sottolineo il lungo... solo a rileggerlo e a correggerlo ci ho messo un sacco di tempo .-. Accade tutto in una notte ma volevo spezzettare le scene, in modo che sempre Jacque ed Eike, che hanno aperto il capitolo, lo chiudessero con le loro riflessioni :)
Inoltre, in questo capitolo, come nel precedente, ho eliminato il punto di vista di Acilia, per rendere le cose un po' più.. boh.. interessanti XD infatti il mio scopo è non farvi intravedere quello che lei pensa. Di conseguenza sta acquistando sempre più spazio Dubris e me ne sorprendo io stessa, dato che all'inizio era partito come personaggio moolto secondario, e pure come prefetto rompipalle D:
Ad ogni modo, nella storia mi sto dilungando. Per esempio, vi giuro che la questione di Claire non era prevista, mi è venuta così all'improvviso D: quindi devo annunciarvi che al "gran finale" mancano ancora tre capitoli (più l'epilogo). Spero di non dovermi allungare ancora!

RIngrazio tantissimo Norine, unica superstite ormai dei recensori XDXD e do appuntamento a tutti al prossimo capitolo, che arriverà presumibilmente a fine mese!

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Capitolo 26
*** In pezzi ***


Capitolo 25
CAPITOLO XXV
IN PEZZI
 
 
 
I sentimenti erano in tumulto, i passi erano pesanti, un quarto di luna era nel cielo, sereno, così inspiegabilmente blu, spruzzato di tanti punti luminosi. 
La notte in cui erano andati da Camelio pioveva, Dubris lo ricordava ancora. Era così che doveva essere. Era così strano, quel bel cielo, ignaro, come se niente stesse per accadere.
“Davvero sarà così facile trovare Kaeso?” domandò Ramona, trascinando le scarpe sul sentiero ruvido e ciottoloso.
Dubris alzò il capo e lo sguardo vagò dritto, superando gli alberi e i massi. Poco più in alto, una silenziosa, grande casa li attendeva.
“Non avrai mica pensato che fosse difficile per dei vampiri cercare in un piccolo paese come Gressan?” fece.
Ramona non disse niente per un po’. Poi aggiunse: “Non è strano che abbia dimora fissa? Dovrebbe spostarsi continuamente, per non farsi trovare”.
“Sì, è strano” convenne qualcun altro.
“No che non lo è” intervenne Acilia.
Dubris si voltò subito a guardarla, e così fecero gli altri. Sentirla parlare quella notte era un evento raro. Era distante, come le notti scorse, ma il suo sguardo era come oscurato, chino verso il basso, come una ragazzina che non vuole far vedere che piange. Un’abitudine umana, che Acilia non poteva più avere… I suoi occhi si erano induriti come due pietre, cos’aveva paura di mostrare?
“Kaeso non vuole essere un fuggitivo, lui vuole essere il re del mondo” spiegò. Un lieve soffio di vento le mosse i capelli, fili neri, lunghi e lisci, che nel buio si nascondevano, nascondendole il volto. L’aria di montagna era fresca, e buona. Dubris assaporava il sapore, ma avrebbe voluto vedere Acilia.
“Forse lui addirittura desidera essere trovato da noi, cosicché possa sconfiggerci, noi, l’ultimo ostacolo” proseguì lei. Si voltò verso l’interno della montagna e alzò il viso, guardando in alto. Ma ancora Dubris non la vedeva. “Quello che troveremo non è un nascondiglio. È una fortezza”.
Le sue parole furono accolte nel silenzio, poi Homer disse, cercando di sdrammatizzare: “E smettila di essere così teatrale, per favore”.
Acilia non sorrise e non disse nulla. Riprese solamente a camminare.
Dubris la seguì, riflettendo. Se Kaeso immaginava il loro arrivo, si doveva essere preparato. Non un nascondiglio, ma una fortezza… Non dei fuggitivi ma un esercito…
Guardò i suoi compagni. Erano tutti decisi, e forti, ma non erano tanti.
Ramona… Durante il combattimento contro Camelio, l’aveva protetta Lyuben. Lyuben, che era stato ucciso da quel Kaeso, quell’essere immondo… E Dubris come avrebbe fatto a proteggerla, Ramona? Ne sarebbe stato in grado? Del resto, non riusciva a smettere di pensare ad Acilia. Anche lei andava protetta, da se stessa. Eppure, pensandoci, guardandole la schiena, dritta e sicura, non ne era poi così sicuro.
È giunta l’ora, Dubris?
Per cosa era più preoccupato? Perché non sarebbe stato capace di proteggere Ramona? Perché non avrebbe mai più visto Acilia? Perché forse lui stesso sarebbe morto?
Acilia? Lei vuole questo, lei vuole morire.
Del resto, cosa pretendeva lui? Accusava Acilia di non averlo mai voluto, di non averlo mai amato, e lui cos’aveva fatto per lei? Era un vampiro, proprio come lei, neanche lui era più in grado di dare nulla ad una donna. La sua era una stupida infatuazione per una persona che ammirava, e che l’aveva tirato fuori da un baratro di orrore, per una persona con cui condivideva l’età, il modo di pensare, il modo di vivere… Non voleva che morisse.
La verità è che vuoi morire anche tu. Se muore lei, vuoi morire anche tu.
Perché era quello che desideravano tutti i vampiri. Nessuno lo diceva mai, tutti lo sapevano ma nessuno lo diceva mai, ma d’altronde era per quello che si trascinavano avanti nelle loro inutili vite macchiandosi di delitti. Perché loro in realtà dovevano essere morti.
Allora che differenza fa se muori oggi in battaglia?
Non voleva andarsene se non sapeva che Ramona sarebbe stata al sicuro.
Se tu vuoi morire, se tutti i vampiri lo vogliono, allora lo vuole anche lei.
Forse stavano andando tutti verso l’autodistruzione – e non lo dicevano. Forse l’unico che voleva vivere davvero era Kaeso.
Allora che differenza fa se muori oggi in battaglia?
E lasciare vincere Kaeso? Lui, Dubris, poteva morire, ma voleva avere la certezza che il mondo non sarebbe andato a rotoli, che Kaeso non avrebbe attuato il suo piano… Ma a lui che importava poi? Era morto – sarebbe stato morto. Che gli importava di che fine avrebbe fatto il mondo?
Allora che differenza fa se muori oggi in battaglia?
Ormai erano in cima al sentiero. Che differenza faceva, pensava Dubris. Vorrei salutare Acilia, si disse, vorrei rivederla.
Che differenza fa?
Tutti lo sapevano ma nessuno lo diceva mai. Non sapevano cosa ci fosse dopo la morte e, per quanto potessero pensare di aver già visto cose terribili, avevano ancora paura.
Erano giunti, insieme, davanti alla villa. Avvolta dalla natura, circondata da un prato color verde smeraldo, che scintillava sotto le stelle, emetteva solo inquietudine, nel suo perturbante silenzio.
C’era troppo silenzio.
Dubris fece appena in tempo a vedere Acilia che alzava la testa verso l’alto, poi delle ombre saltarono fuori all’improvviso e tutti loro si trovarono accerchiati.
 
 
 
Roma, 410
 
Sai, non volevo farti male sul serio. Ero solo spaventata.
Acilia faticava a ricordare quel lontano giorno in cui aveva trasformato Kaeso. Ricordare stava diventando una cosa difficile, da quanto tempo viveva ormai? Eppure ricordava molto di più la sua vita da umana, così breve... Guardava i ricordi proiettati nella sua mente e sembravano appartenere a qualcun altro. Era davvero lei quella ragazza, triste, che non poteva coronare il suo sogno d’amore con Damiano?
Anche Damiano è tanto triste…
Il suo sangue, il primo che aveva assaggiato, oh, eppure quello l’aveva dimenticato.
Le era poi venuto in mente Marco, era lui che l’aveva abbandonata, no? Quel dolore al petto, quella sensazione, la polvere tra le dita. Era quello che sarebbe diventata lei, cenere. Poi…
Kaeso inizialmente le era sembrato un angelo. Non ricordava nulla, se non il suo viso in un fascio di luce. Era arrivato da lei per darle conforto, per farle compagnia.
No, te lo sei preso tu, con la forza.
La luce si faceva più fioca.
Davvero?
I ricordi, erano così confusi…
Era sangue quello che vedeva intorno a lei, non luce. Era sangue che non aveva nulla di luminoso, e loro erano intrappolati nelle tenebre.
“Kaeso” fiatò. Voleva ancora tentare, gli si avvicinò, gli toccò un braccio.
Lui le sorrise. “Hai trovato qualche preda che ti piace?”.
Stavano camminando, in quella serata tranquilla. Gli animi erano spenti a Roma, Acilia non la riconosceva più come sua quella città. Brutti tempi, dicevano, si potesse tornare indietro!
Si potesse tornare indietro…
“Kaeso” insitette Acilia “Troviamo una persona… Una sola. Basta la vita di un umano solo per sfamarci entrambi”.
Kaeso alzò gli occhi al cielo. Poi le puntellò un fianco. “Non è divertente così, lo sai”.
“Kaeso” tentò di nuovo di lei, sospirando “Sei troppo violento”.
Lui fece un’espressione strana e Acilia si fermò, prendendo un grosso respiro. Buffo come rimanessero certe abitudini, loro neanche avevano bisogno di respirare.
“Forse dovresti… dovresti pensare che sei stato anche tu umano”.
Lui ancora non disse niente e Acilia andò avanti: “Tua figlia era umana”.
Tutto il sangue, di tutti quei bambini. Le risate di lui in sottofondo, il riflesso delle stelle, affogate nel sangue.
All’improvviso Kaeso abbracciò Acilia, così in fretta che lei non fece in tempo neanche a vedere in quale follia la sua espressione si fosse mutata. La stringeva forte, e lei lo sentiva tremare. Gli occhi, non riusciva ad immaginare i suoi occhi… Lui sussurrò solo una parola: “Aiutami”.
Le sembrava di rivederlo, in ginocchio, davanti a lei, indifeso… Viridio, aveva detto di chiamarsi così.
Tua figlia era umana.
Possibile che Viridio fosse ancora lì dentro da qualche parte?
Acilia cercò di allontanarlo. Voleva vedergli il viso, l’espressione, doveva vedere cos’avesse la sua faccia… Ma lui non demordeva, e la stringeva fino a farle quasi male. “Ho voglia di sangue… Ho voglia di sangue, aiutami…”.
Cosa voleva dire? Che tentava di dire?! Che doveva aiutarlo a procurarsi del sangue? O doveva aiutarlo a smettere?
Smettere è impossibile, lo sai.
Ma Acilia era più forte di lui e riuscì a spingerlo via. In quel momento sentì un urlo e del fumo si levò nel suo orizzonte. L’odore di bruciato le fece storcere il naso.
Negli occhi di Kaeso brillavano due fiamme danzanti. Acilia si voltò, confusa. La gente gridava, fuggendo dall’incendio che era appena divampato. Strilli di bambini si univano confusamente al coro spaventato delle donne, a quello concitato degli uomini.
Strilli di bambini…
Le fiamme negli occhi di Kaeso parvero allargarsi e Acilia non riuscì a fermarlo, quando lui si lanciò tra la folla.
Ora no, ora no, si stava svegliando!
La gente fuggiva impaurita anche da Kaeso. Sembrava un nemico, un barbaro… Qualcosa di peggio… Non bruciava le carni, le divorava.
Ma quante volte ti è sembrato che si stesse svegliando?
Le persone cadevano a terra ma le urla aumentavano. Acilia indietreggiò, il fuoco correva inglobando più spazio. Eccola la luce che credeva di vedere, una luce d’orrore! Il fuoco le faceva paura e lei indietreggiò, mentre con lo sguardo cercava Kaeso, eppure vedeva solo sangue.
 
*
 
 
Dubris aveva prontamente puntato sui vampiri che aveva di fronte il suo fucile. Quelli ricambiavano il favore con altre armi.
Voleva contarli ma non riusciva a schiodare lo sguardo dai due che lo avevano nella mira. Erano alti e slanciati, con un gilè scuro addosso imbottito, che li rendeva più grossi e minacciosi.
Quanti erano? E i suoi compagni erano lì con lui?
Non c’è ancora stato nessuno sparo.
L’aria era tremendamente tesa.
Lui, che poteva sentire un qualunque basso suono anche a distanza, ora non udiva assolutamente niente. Forse avrebbe potuto sentire una cinquantina di cuori che battevano forte, all’unisono, per la paura. Forse…
“Nessuno si farà male” disse la voce di Acilia, da qualche parte dietro di lui “se ci consegnate Kaeso. Ci basta solo lui”.
Ottimo piano, pensò con sarcasmo Dubris, sicuramente cederanno.
I due vampiri che aveva di fronte fecero una risatina, guardansosi.
Dubris approfittò del momento senza pensarci due volte e sparò due colpi, uno per uno, puntando al petto di ciascuno.
Poi subito si voltò, convinto di aver fatto segno, per vedere quale fosse la situazione ma i nemici stavano reagendo e seguirono altri colpi, da entrambe le parti.
Era cominciata, ora non si poteva davvero più tornare indietro.
Non sei arrivato fino a qua per tornare indietro.
Dubris si proteggeva il petto con una mano mentre avanzava, il fucile saldo nell’altra. Faceva vagare il suo sguardo in cerca di qualcuno da aiutare, o da uccidere. Sentì Homer urlare e lo vide cadere a terra. Nel momento in cui il suo corpo toccò il suolo, quello esplose, come se non avesse potuto sopportare l’impatto.
“No!” gridò Dubris, correndo verso il suo assassino. Mentre correva vide con la coda nell’occhio i due vampiri che aveva colpito per primi. A terra, un poco sporchi di sangue, si stavano rialzando.
Dubris frenò la sua corsa, impietrito.
Non è possibile, li avevo colpiti!
Poi il suo sguardo si fermò sui grossi gilè che indossavano. Inorridito si rese conto che tutti loro li avevano, ed erano quelli che proteggevano il loro inerme cuore.
Dove accidenti li hanno trovati, pensò, furioso.
Dimenticatosi dell’assassino di Homer, cercò con lo sguardo Acilia e Ramona. I suoi occhi attraversarono corpi caduti a terra e sangue viscoso che colava sul prato… Stupidamente notò delle margherite, il loro biancore, imbrattato di sangue. Lo spicchio di luna intagliato nel cielo blu fasciava tutto, con la sua debole luce, eppure sembrava così intenso, tutto era così intenso, orribilmente accecante, ogni filo d’erba, su cui ci fosse stata anche una sola goccia di sangue…
Una scarpa marrone, che riconobbe essere quella di Ramona, affondò nel fango colloso di sangue. Gli schizzi le macchiarono i polpacci nudi, che si muovevano freneticamente, come le braccia, brandendo un’arma, furenti, sparando invano. Dubris fece per scattare in suo aiuto ma l’uomo che stava attaccando Ramona cadde a terra in ginocchio, in seguito ad un ennesimo sparo, ma non era stata la donna a sparare. Il vampiro nemico gridava, con una mano si teneva l’occhio, come se esso fosse potuto cadere da un momento all’altro. Una densa striscia di sangue gli colava sulla guancia, certo, il proiettile gli era arrivato dentro l’occhio… Acilia comparse dal nulla, con in mano un fucile automatico, pestando con energia il prato e dando un calcio all’uomo che, prima di scivolare su un fianco, appoggiò la mano sull’erba, per non cadere, lasciando scoperto l’occhio, che, tra gocce di sangue e frammenti, si stava ricomponendo, sotto una pupilla vibrante. Ma Acilia, andando dietro di lui e lasciando cadere il fucile a terra, gli aveva circondato il collo con un braccio, bloccandolo e per un momento Dubris pensò che lei gli volesse staccare la testa. Ma poi lei, con la mano che aveva libera, gli strappò il gilè con forza, conficcando le lunghe unghie nel tessuto. Lanciò l’indumento da parte e in un attimo raccolse da terra la sua arma, che subito premette contro il petto di lui.
“Kaeso è dentro?” domandò, ostentando una tranquillità incredibile.
“Sì! Sì!” gridò quello, con un barlume di speranza che gli usciva dagli occhi come il sangue.
Acilia non disse niente e sparò. La pelle del vampiro deflagrò, tutto il suo corpo si disgregò in brandelli di sangue coagulato e lei, con disinvoltura, cosparsa di grumi, si rivolse rivolse verso Dubris e Ramona.
“Io devo andare dentro a cercare Kaeso e ho bisogno che voi veniate con me” disse, in tono piatto “L’ho già detto a Victoire. Lei e gli altri rimarranno qui e cercheranno di fare piazza pulita”. Indicò il gilè accanto ai suoi piedi. “Uno di voi se lo metta”.
I due annuirono all’istante e Dubris fu mentalmente grato ad Acilia per aver preso la decisione di far venire Ramona con loro. Prese il gilè e lo porse insistentemente a Ramona, che scuoteva la testa, e che poi finalmente cedette e se lo infilò. Si sentiva più tranquillo se poteva tenerla d’occhio e difenderla, poi subito un altro pensiero lo colpì. All’interno della casa le cose sicuramente non sarebbero state più facili. Forse era addirittura più pericoloso…
Aspettò che Ramona fosse pronta e insieme corsero dietro ad Acilia, che si era già avviata verso l’ingresso della casa.
Né dentro né fuori è un posto sicuro, è inutile che continui a pensare a come proteggerla.
Forse il male minore era che stesse nello stesso posto in cui era Acilia. Era lei la più forte.
I tre varcarono la soglia e si trovarono nella prima stanza. Priva di illuminazione, come qualunque casa di vampiri, mostrava un atrio spazioso e pulito ma che celava un odore forte. Il pavimento era ricoperto di moquette, di un rosso irregolare, in alcuni punti più chiaro e in altri più scuro. L’unico mobile che c’era era un divano, amaranto, in fondo, apparentemente lontanissimo, angosciante nel suo essere così isolato. Sulla sinistra una porta aperta mostrava un corridoio buio e sulla destra, accanto alla grande finestra chiusa dalle imposte color nòcciolo, prendeva il via una scalinata di marmo, o forse di granito, lustra di bianco sporco. 
Dubris guardò Acilia, facendo cenno verso le scale. Lei si guardava freddamente intorno, come se si aspettasse – e senza paura – che qualcuno sbucasse fuori dal nulla. Poi annuì e tutti e tre avanzarono sulla moquette, che attutiva i loro passi. Ma altri passi stavano venendo verso di loro, nella direzione opposta e i tre si bloccarono sulle scale, pronti con le armi tese verso il nulla. Ben presto il nulla divenne un gruppo di vampiri che fu loro addosso con una scarica di proiettili. Dubris afferrò Ramona e si lanciò subito da un lato della scala. Entrambi rimasero sospesi, lei aggrappata a lui, ed entrambi risposero al fuoco. Ne colpirono due mentre Acilia planava prontamente su di loro, con le zanne in fuori, e con la sola forza delle mani staccò loro le teste, che rotolarono giù per le scale, in una striscia di sangue che andava a confondersi col rosso della maquette. Quelle esplosero, come i propri rispettivi corpi, e il colore del pavimento si fece più intenso.
Dubris e Ramona atterrarono ai piedi delle scale, affannati. Lui guardò la sua compagna. Gli occhi sgranati, la mano che impugnava la pistola tremava leggermente, e continuava a guardare il sangue che, goccia a goccia, cadeva giù dall’ultimo scalino.
Non sono Lyuben, Rami, ma sono il tuo creatore, ti puoi fidare di me!
D’altronde doveva davvero sentire la sua mancanza… La battaglia, la scalinata, la morte, il vasto salone sporco di sangue. Lyuben che combatteva al suo fianco, che non la lasciava sola.
Dubris si rendeva conto, si rendeva conto che mancava pure a lui. Gli mancava tutto quello che c’era prima della sua morte e gli mancava quel loro primo scontro, contro Camelio. Acilia che lo abbracciava, affranta e triste, nonostante avessero vinto… Avevano una prospettiva davanti e lui, Dubris, sapeva per cosa combattere!
Senza Acilia, non vorrai più combattere.
Ma i nemici continuavano ad arrivare e lui continuava a sparare, cercando di tenere il braccio il più fermo possibile, ma in realtà, anche se avesse mancato il bersagio, cosa gli importava? Se per caso, per errore, avesse colpito Acilia cosa sarebbe cambiato?
Davvero vuoi deluderla fino a questo punto?
Deluderle, si corresse Dubris, cercando di riprendere controllo di sé. Deluderli. Cosa gli stava succedendo? Non voleva più vendicare Lyuben? Lyuben, il più grande vampiro, sarebbe davvero morto invano?!
I suoi canini finalmente si allungarono e lui non sentì alcun male quando gli puntellarono il labbro inferiore. Ricordò la cattiveria che sentiva in corpo quando aveva ucciso Svetlana. Era tutta lì la rabbia, doveva solo farla uscire verso la direzione giusta, verso i nemici.
E non verso Acilia, per non rivedere più i suoi occhi freddi come il ghiaccio.
Si lanciò nel combattimento sparando colpi a destra e a manca. Puntava a tutto, braccia, gambe, occhi, collo… Li voleva vedere cadere a terra, strisciare mentre gli arti si ricomponeva, voleva saltare loro addosso, strappare quei gilè anti proiettili e moderli fino a staccare loro la testa.
L’hai capito che è la tua unica via d’uscita, combattere?
Qualcuno lo colpì e lui cadde a terra. Gridò di dolore, il sangue si espandeva a fiotti da una ferita all’addome. Strisciò in un angolo, sperando di avere il tempo per potersi rigenerare.
“Dubris!” urlò Ramona, correndo verso di lui.
No, pensò lui, allarmato, non venire verso di me, guardati le spalle, guardati le spalle!
A fatica cercò di alzarsi e vide che Ramona scivolava a terra per evitare degli spari. Il proiettile le colpì la fronte e il suo viso fu inondato di sangue. Lanciò un flebile grido ma era già pronta a difendersi, in piedi, scaricando la sua pistola intorno a lei.
Dubris strisciò verso il divano, con la moquette intorno a lui che si faceva sempre più rossa. Si nascose dietro lo schienale e si guardò la pancia. La ferita che si rimarginava faceva male, ma il sangue stava smettendo di uscire. Fece capolino dal divano con la testa e la mano armata. Sparò dei colpi, poi subito si nascose di nuovo, cercando di stare tranquillo. Ancora sbirciò e vide che i vampiri erano sempre più numerosi. Fortunatamente erano giunti nell’atrio anche Victoire e gli altri, e la battaglia si faceva sempre più fitta, e terribile.
Come finirà? Come finirà?!
Finalmente Dubris sentì le forze che gli tornavano e poté uscire allo scoperto ma uno sparo, proprio dietro di lui, lo fece nuovamente chinare a terra. Si voltò di scatto, il dito pronto a premere il grilletto ma, così come si era girato, all’improvviso si sentì frenato.
Davanti a lui stava una donna, tremante da capo a piedi, il volto stravolto e i capelli sporchi, rimescolati gli uni sugli altri, in un goffo caos fulvo. Impugnava una pistola ma il braccio teso tremava ancor più delle sue gambe.
L’ho già vista questa donna…
Era umana, era ovvio.
Piegò il viso in tante piccole rughe e, ad occhi sgranati, lanciò un grido strozzato e ancora sparò.
 
 
 
Kaeso osservava tutto, nel buio. Vedeva Acilia, oh, la vedeva, che continuava a colpire, ferire, crudele come lo era una volta.
Ma non voleva combattere contro di lei, non ancora.
A un certo punto dovrai farlo.
Non ancora.
Voleva eliminarla ed eliminarli, quei matti, ma prima voleva assicurarsi di una cosa. Lo tormentava, incredibilmente, lui doveva sapere una cosa, non poteva permettere che quella persona morisse.
Mi chiedo che senso abbia fare tutto questo caos in nome di qualcuno che forse neanche esiste.
Acilia lo guardava e gli chiedeva perché.
Gli chiedeva sempre perché. Ma lei, a lui, aveva mai risposto invece?
Io lo so cosa c’è dopo. Tu non lo sai. Tu avrai sempre paura.
Era così? Aveva davvero paura di morire?
Lo vedi, Kaeso, che anche tu hai bisogno di trasformare l’indistinto in qualcosa di definito?
Stai zitto, tuonò Kaeso nella sua mente, zitto, Lyuben, tu sei morto, morto!
Sentiva gli spari, ogni colpo gli faceva male… Ma se fosse stata colpita anche Acilia, non gli avrebbe fatto male? Gli avrebbe fatto male da morire…
Lei era lì, bella e assassina, non meno di quanto lo fosse lui, con quell’espressione orribile negli occhi, che trafiggevano la pelle non meno dei suoi denti.
Ti odio.
Intravide finalmente una cascata di ricci scuri, impiastricciati di sangue. Eccola, l’amante di Lyuben.
Come hai potuto, Lyuben, amare una donna sola per così tanti secoli?
L’avrebbe fatto forse anche lui, Kaeso. Con una sola donna, che non fosse Acilia, no, eppure non ricordava di aver mai amato nessun’altra.
Sei sicuro?
Kaeso provò un brivido e si aggrappò alla parete. Il corridoio che collegava la cucina al salone era stretto e buio, ma possibile che nessuno avesse notato la sua presenza?
Sembra quasi che non mi cerchino affatto, pensò, divertito. Massa di stolti, stupidi mentecatti, che avevano rinunciato al richiamo del sangue, come quell’Acilia, che quel giorno, a Roma, quando tutto andava in pezzi…
Patetici, che credevano di combattere per un qualche bene superiore e neanche sapevano cosa fosse. Che credevano di combattere per salvare gli umani, quando gli umani, se solo avessero avuto le zanne anche loro, oh, quanti danni avrebbero fatto! Perché loro, invece, ormai non erano più umani con le zanne, erano microbi che avevano perso la loro umanità, e insieme la loro crudeltà. Non erano nulla, solo qualcosa che strisciava per sopravvivere, e che qualcuno prima o poi doveva pur schiacciare.
Kaeso alzò il cappuccio per nascondere il volto e strinse con più vigore l’impugnatura della sua sciabola. Di scatto si lanciò nella sala, velocissimo, come spinto dai suoi stessi pensieri.
Nella sua visuale, campiture di sangue, come al solito, che cospargevano tutta l’ipocrisia nell’aria.
Ipocriti, ipocriti, urlava nella sua testa, predicate la pace con gli umani ma fate la guerra coi vampiri! Proprio come gli umani si tengono in casa cani e gatti e poi vanno a fare la guerra coi proprio simili! Siete stupidi, pensava, stupidi come loro, falsi, bugiardi, che sognate il nulla e stringete ancor meno.
Tu sei così, Aci, una maledetta ipocrita.
Si guardava intorno. Non vedeva più Acilia ma non era lei che cercava. E allora perché tutto dentro di lui urlava il suo nome? Quel maledetto sangue che scorreva nelle sue vene, apparteneva anche a lei.
E ora sei venuta a finirmi una volta per tutte?!
Uno sparo, e un proiettile fischiò minaccioso vicino al suo orecchio. Si voltò istantaneamente e con un movimento repentino di spada troncò la testa dell’individuo che aveva osato provare a colpirlo. Veloce, Kaeso scavalcò il cadavere, lasciandosi alle spalle l’esplosione. Con lo sguardo ritrovò Ramona e piombò su di lei, stringendole con forza il polso. Quella donna aveva la pelle – incredibilmente scura per appartenere ad un vampiro –  più vecchia della sua, ma Kaeso lo sapeva di essere molto più anziano di lei.
Le strinse il braccio così forte, quasi fino a romperlo, e Ramona, con un grido sommesso, lasciò cadere la sua pistola a terra.
Kaeso diede un calcio all’arma. “Che roba è?” fece, con una risatina “Dubris ti permette di usare solo armi-giocattolo?”.
Ramona gli lanciò uno sguardo sprezzante, stringendo i denti.
Lui allargò il sorriso, mostrando i suoi denti aguzzi. Poi afferrò saldamente Ramona per l’avambraccio, e prima che lei potesse dire qualunque cosa, la trascinò via, senza che nessuno – tutti così presi dalla battaglia – facesse caso a loro. Tenendola stretta, attraversò il corridoio coi piedi a qualche centimetro dal pavimento e, una volta arrivati in cucina, la lanciò per terra, prima di chiudere violentemente la porta.
Ramona, dolorante, si alzò in piedi, grondando sangue da un braccio.
Kaeso si levò il cappuccio, avvicinandosi alla donna.
“A che gioco stai giocando?” domandò lei, tradendo un certo nervosismo.
Lo so che hai paura.
Lui sorrise, giocherellando con la sciabola. Divertito, vedeva lo sguardo di lei come ipnotizzato dalla lama scintillante, che si muoveva, spaventosa, in qua e in là.
“Un’amica una volta mi ha detto che parlo troppo, e che faccio cerimonie inutili” disse, seriamente “Voglio darle ascolto, ora che è morta”.
“Un po’ tardi, mi pare” fece Ramona, mal celando il tremito della voce.
Kaeso la fulminò con lo sguardo. “Tu sai chi l’ha uccisa, vero?”.
“Non so di chi tu stia parlando” ribatté subito lei.
L’altro, rabbioso, le puntò l’estremità della spada alla gola, poi si trattenne. Lo sto facendo di nuovo, Svetlana, pensò, sto perdendo tempo.
“Non sei stata tu” ragionò Kaeso, scrutando la sua nemica “Non ne saresti capace. Ho visto come combatti, come se lo dovessi fare per forza”.
“È così” replicò Ramona “Non credere che mi piaccia essere qui, ma lo devo fare”.
“Per Lyuben, non è vero?” fece lui, con tono fintamente compassionevole.
Ecco, pensò, ecco un cambiamento nel suo volto. Un tremito delle ciglia, gli occhi che si allargano, la bocca che si schiude… Chi dice che i vampiri non hanno un cuore che batte?
Ha perso una persone che ama, dev’essere una cosa triste.
Lo so che è una cosa triste, disse una voce all’interno di Kaeso.
“Ti ho vista anche l’altra volta, ora che ci penso” disse con uno scatto, alzando la voce. Sospirò, recuperando la calma. “Nel castello di Camelio. Eri nascosta, piccola e fragile, dietro Lyuben, che ti proteggeva”.
“Sono cresciuta ora” fece Ramona con voce spezzata. Alzò il tono, più decisa. “Ora so cosa devo fare e lo farò perché devo. Ma non mi piace la violenza, non mi piace perché non è parte di me, ma è parte di te!”.
Kaeso, sei troppo violento.
Kaeso socchiuse gli occhi e strinse le labbra.
“Non pensare che ti stia biasimando” disse, quando l’incendio scoppiato nella sua mente si acquietò. Abbassò l’arma e si chinò verso di lei. “In mezzo a loro, sei la più vera”.
Lei si scostò immediatamente. “Stammi lontano, barbaro!”.
Barbaro.
Kaeso si mise a ridere, neanche capiva il perché. “Sai cos’è successo a Roma nel 410, Ramona?”.
Ramona non rispose, limitandosi a lampeggiare avversione dagli occhi.
“Sono entrati i barbari” proseguì lui “Ero lì, è stato un lungo assedio. Loro distruggevano tutto, oh sì, e per cosa? Io non distruggo niente, io mi prendo solo quel che mi appartiene”.
La donna aveva una faccia stranita. Poi scosse la testa, con uno sguardo timoroso ma anche concentrato. “Puoi nutrirti anche senza fare delle stragi! Se solo imparassi a controllare… Si può fare, è Acilia che ce l’ha insegnato!”.
Aveva alzato la voce, e con essa forse la speranza. Credeva forse che nominando la sua creatrice avrebbe fatto centro?
Kaeso le fu addosso e la spinse contro la parete. Lei gridò e lui le mise una mano intorno alla gola, per mozzarle il respiro, per farla smettere di urlare.
Perché ricordi sempre quella data?
“È buffo che tu lo dica” le bisbigliò, furiosamente “Perché, sai chi me l’ha insegnato a fare le stragi?”. Ramona scalciava e gli picchiettava sul petto, come fosse una bimbetta isterica. Avrebbe smesso, subito.
Quella data…
“Acilia”.
410, Roma.
Ramona si bloccò, come previsto. Kaeso sentiva il suo respiro affannoso e vedeva i suoi occhi sgranati.
Fa male la verità, non è vero?
“Voi tutti” sibilò ancora lui “andate dietro a colei che ha seminato il male”.
Lei gli conficcò lunghe unghie nella mano, fino a farla sanguinare e lui si ritrasse, con un’imprecazione.
“Ha seminato anche il bene!” esclamò la donna, una volta libera. Ma si vedeva che, in fondo, non era convinta.
Del resto chi mai è convinto fino in fondo di qualcosa?
“Sei proprio ottusa” ribatté Kaeso “Se il bene e il male hanno la stessa faccia, allora non esistono, nessuno dei due, non ti pare?!”.
Ramona parve guardasi intorno, disperata.
No, nessuno ti verrà a cercare…
“Che cosa vuoi da me?!” sbottò infine “Dicevi che non ti saresti perso in chiacchiere, eppure non hai fatto altro! Cosa vuoi?!”.
Ti hanno abbandonata?
Di nuovo Kaeso le puntò addosso la sciabola, questa volta contro il petto, cercando di ritrovare la concentrazione. Aveva il gilè, doveva averlo sottratto a qualcuno.
“Qual era il segreto di Lyuben?”.
Ramona aggrottò la fronte. “Ma di che parli?”.
“Non fare la finta tonta!” gridò Kaeso, sentendo la furia che galoppava dentro di sé “Lyuben sapeva qualcosa sull’origine dei vampiri, è impossibile
che non te l’abbia detto!”.
L’altra esitò. Poi scosse la testa e disse: “Non ti dirò niente”.
Non ti dirò niente a proposito del mio creatore, non ti darò la possibilità di dare un senso alla tua vita, non ti darò nessuna speranza di redenzione! 
Lyuben urlava nella sua testa e alla sua voce si univa quella di Ramona, sua complice.
Kaeso gridò di rabbia e con uno scatto di sciabola, le tagliò di netto il braccio destro, che cadde a terra in fiotti di sangue.
Lei urlò e si gettò per terra sulle ginocchia, tenendosi il braccio mozzato nella mano sinistra.
“La degna amante di Lyuben Vladimir” farneticò Kaeso, ilare e tremendamente furente allo stesso tempo “Ma se non parli… ti ucciderò”.
“Accomodati!” gridò l’altra, col viso deformato dal dolore, mentre nuovi strati di pelle e sangue fuoriscivano dal suo braccio monco “Non so se l’hai capito ma non me ne frega proprio niente di morire! Anzi, fallo! Uccidimi!”. Si rannicchiò sul pavimento, gli occhi fissi sul suo stesso sangue, con un fioco, doloroso affanno “Uccidimi…” continuò, con voce più flebile “E potrò rivedere Lyuben…”.
“Rivedere Lyuben?” ripeté Kaeso, allarmato. Rivedere… Rivedere le persone che erano già morte era un pensiero che lo perturbava, terribilmente. Allora era possibile? Allora c’era davvero qualcosa dopo la morte?
“Parla!” strepitò, fuori di sé.
“Piuttosto uccidimi!” strillò lei.
Kaeso lanciò un verso, furibondo. Non poteva ucciderla, non poteva… Non avrebbe mai saputo quello che disperatamente voleva sapere!
Ma perché ti interessa tanto?
Un posto dopo la morte… rivedere i morti… qual era il problema? Cosa gli faceva tanto paura?!
Chi hai seppellito nel mondo dei morti, Kaeso? Chi hai paura di rincontrare?
“Se non parli” fece, riabbassando la voce, serio come non lo era mai stato “ucciderò Dubris”.
“Non sai neanche dov’è!” esclamò l’altra, incredula.
“È stato lui a uccidere Svetlana, non è vero?” insistette lui.
Ramona sgranò gli occhi.
Centro.
“Credo che tu sia stata troppo sulla difensiva quando ho accennato a Svetlana, all’inizio della nostra chiacchierata” spiegò Kaeso, soddisfatto, ritrovando la sua sicurezza “E poi… Dubris è fatto così, no? Stupidamente impulsivo”.
“Non è stato lui” si affrettò a dire Ramona “Non è stato lui!”.
“Allora chi è stato?” domandò lui, cordialmente.
Lei fu colta alla sprovvista. Esitò e Kaeso poté mettere a tacere anche gli ultimi dubbi.
“Credimi, sono molto arrabbiato” disse, facendo oscillare la spada. Ramona di nuovo ne fu ipnotizzata, dallo scintillio o al sangue. “Ma ti prometto che gli risparmierò la vita, se mi dirai ciò che voglio sapere”.
“Non mi fido delle tue promesse” rispose lei, dopo un po’.
“Non mi pare che tu abbia molte alternative” ribatté lui.
Ramona digrignò i denti, mentre qualcosa di bianco spingeva per uscire dal suo avambraccio. L’osso stava ricrescendo e lei non ebbe la forza di trattenere le grida.
Kaeso, senza alcuna pietà, le troncò di nuovo il braccio che stava rigenerandosi.
Ramona urlò per un attimo, poi smise, sofferente, mentre non colava altro che sangue.
“Ti fa meno male se non si rimargina” disse Kaeso “Ora parla, prima che ricominci a urlare. Non ti darò un’altra possibilità”. La fissò, irremovibile.
Lei aveva un mare di calcoli negli occhi, Kaeso quasi riusciva a vederli. Sprigionavano dolore, conteggi, possibilità, speranza.
Uccidimi… così potro rivedere Lyuben…
Poi parlò.
 
 
 
Dubris si buttò di nuovo a terra, evitando il proiettile. Poi si mise in piedi, ritirò le zanne e alzò le braccia, in segno di resa, guardando l’umana.
“Ferma, ascolta…”.
Lei per tutta risposta sparò di nuovo e lui si spostò ancora, velocemente.
“Aspetta… Aspetta un attimo!” sbuffò.
La donna continuava, imperterrita, a sparare e lui prese il volo. Subito dopo le fu così vicino che lei indietreggiò gridando. Lui per precauzione coprì con la mano il foro della canna della pistola e fece per afferrare l’arma, e lanciarla via, quando lei fece partire un altro colpo ancora.
“Ahi! Maledizione!” imprecò Dubris, mentre la pistola cadeva a terra e lui si guardava la mano bucata.
L’umana lo fissava con occhi deformi e tra le labbra screpolate fuoriusciva il suo urlo: “Non ho paura!”. Singhiozzò mentre lo diceva, con le mani si toccava il ventre. “Non ho più paura…”. La voce abbassò il suo tono, sommersa com’era di singulti.
Dubris ignorò la propria mano dolorante e le si avvicinò, riconoscendo, forse per prima, proprio la sua disperazione.
“Sei viva” fiatò, incredulo.
Il pensiero di aver lasciato fuggire Kaeso lo logorava tutti i giorni. Il pensare che gli avrebbe potuto sparare, sacrificando due persone che sarebbero comunque morte, quel terribile pensare che Lyuben sarebbe potuto essere ancora vivo…
“Non ti voglio far del male” si affrettò a dire, vedendo che l’umana lo guardava spaventata e smarrita. Indicò il suo stesso volto. “Forse tu non mi riconosci ma io…”. Si bloccò.
Deve aver passato le pene dell’inferno, e vuoi che ora si ricordi di te?
“Non importa, non importa” disse poi.
Ma lo sguardo della donna era curiosamente concentrato sui suoi capelli, come se fossero un particolare importante.
“Salva mia figlia, ti prego… Salva mia figlia…” disse con un filo di voce.
Le grida della battaglia non riuscivano a sovrastare il suo debole pianto. Le urla, le esplosioni, la paura…
Non puoi lasciare la battaglia!
Dubris si voltò di scatto verso la mischia. I corpi ormai erano intrecciati tra loro e vedeva più sangue che pelle…
E Ramona? Vuoi abbandonare Ramona?
Ma se lui, Dubris, non aiutava quella donna e sua figlia, sarebbe stato tutto davvero inutile… Far fuggire Kaeso, la morte di Lyuben, il dolore di Ramona!
“Aiutaci, ti prego!” insistette l’umana, chinando il viso e piangendo.
Dubris, non è quello che vuoi? Predichi la convivenza con gli umani e preferisci fare la guerra piuttosto che aiutare uno di loro? 
“Dov’è?” domandò il vampiro.
“Al piano di sopra” rispose l’altra.
Lui l’afferrò per un braccio e le disse di aggrapparsi forte. Pensava che lei si opponesse e che lo allontanasse, invece subito obbedì, con espressione sofferta ma determinata.
È disperata al punto di fidarsi di un vampiro?
Eppure era una bella sensazione, sentire il calore di un umano, e la sua fiducia… Faceva sembrare tutto sensato; quello che aveva fatto, quello in cui credeva.
Dubris la prese tra le braccia e si librò in volo puntando alle scale. In un attimo fu al piano superiore ed entrambi atterrarono su un largo e silenzioso corridoio di moquette grigia.
Dubris fissò per un attimo il pavimento, stranito dal fatto che non fosse rosso ma poi vide che l’umana si stava allontanando, facendogli cenno di seguirla e lui obbedì all’istante.
Lo condusse ad una porta ed entrarono in una camera da letto. Una bambina con capelli appiattiti, che un tempo dovevano essere ricci, stava seduta sul letto, rivolta verso la finestra. Una volta entrati, si voltò con uno scatto verso di loro, con un viso pallido e sciupato. Non c’era nulla di fanciullesco nel suo volto e gli occhi grandi erano secchi di pianto, proprio come quelli di un vampiro.
 
 
 
“Lyuben apparteneva alla terza generazione di vampiri. Quelli più vecchi di lui sono morti tutti da tempo” disse Ramona, con voce apatica e amara.
Kaeso annuì. Certo, non aveva mai conosciuto un vampiro più vecchio di Lyuben… Perfino Camelio era più giovane. Ma non era abbastanza.
“Chi era il primo vampiro? Chi l’ha creato?”.
“Non era nessuno” rispose Ramona, stringendo i denti e con la mano che febbrilmente toccava il suo braccio monco, come se volesse fermare il flusso di sangue “L’ha creato la Divinità a sua immagine e somiglianza e l’ha mandato nel mondo dei mortali a mordere tre uomini. Uno di loro era il creatore di Lyuben”.
Divinità?
“Hai detto… mordere?”.
“Un tempo bastava un morso per trasformare un essere umano in un vampiro” spiegò ancora Ramona “I più vecchi hanno più potere semplicemente perché sono più vicini a essere una divinità… I più giovani sono più lontani da quel primo vampiro e quindi sono meno forti. I poteri scompaiono… I giovani di oggi non impareranno mai a volare, come voi, che pure siete vecchi, ma giovani di un tempo, non avete mai imparato a trasformare solo con un morso”.
Vicino a una divinità… Era dunque questa l’origine dei vampiri? Discendevano direttamente da una divinità?
Ramona fece una smorfia, di amarezza, di dolore e di sprezzo.
“Puoi immaginare perché Lyuben non avrebbe mai detto una cosa del genere… a un fanatico come te”.
Ma Kaeso si sentiva smarrito. “I poteri scompaiono? Scompariranno tutti, prima o poi?”.
“Lo spero” rispose Ramona, in tono di sfida “Tutte le razze prima o poi si estinguono. I vampiri più di tutti dovrebbero davvero sparire dalla faccia della terra”.
Kaeso stava riflettendo in fretta, stordito dalle nuove notizie. “Perché la divinità avrebbe mandato quindi questo essere tra di noi? Perché avrebbe fatto una cosa del genere?”.
Non riusciva a capire… Una divinità avrebbe dovuto avere a cuore il proprio mondo… O no?
L’ha creato la Divinità a sua immagine e somiglianza.
“Tu hai detto…” proseguì, prima che Ramona potesse rispondere “Quindi questa divinità è uguale a noi?”.
“Uguale al primo vampiro” precisò lei.
Quindi simile a loro, anche se con molto più potere! Ciò significava che niente, dopo la morte, l’avrebbe punito per quello che aveva fatto. O forse sì?
“C’è un altro mondo dopo la morte, non è vero?” domandò. Sentiva la sua voce così strana… Davvero stava interrogando qualcuno, così ingenuamente, senza minacce, solo per la sua sete di sapere?
Ramona scrollò le spalle e a Kaeso parve addirittura che qualcosa nel viso di lei si stesse addolcendo. “Non lo so, Kaeso… Io spero di sì…”. Socchiuse gli occhi e continuò, con voce lenta e faticosa: “Spero di avere ancora un corpo, e di non provare mai più la fame, e di poter versare le lacrime, tutte quelle che voglio…”.
Kaeso cadde sul pavimento accanto a lei, la spada ancora stretta in pugno.
“Spero che rivedrai Lyuben” disse, e si sorprese lui stesso della sua sincerità.
Ma Ramona aveva capito, e lo guardava con un triste sorriso. “Lo sapevo che non avresti mantenuto le tue promesse”.
“Devo vendicare la morte di Svetlana”.
“Te l’ho detto, non mi importa assolutamente nulla. Uccidimi”. Ramona aveva la voce sempre più fioca e la serenità che stava prendendo il sopravvento su di lei pareva farle scivolare sempre più giù, delicatamente, le palpebre. Il braccio aveva cominciato a rigenerarsi, ma lei sembrava non sentire più dolore.
“Non è te che voglio ferire” replicò Kaeso, sentendo l’antica rabbia tornare “Dubris ha ucciso la mia creata, e io ucciderò la sua. La mia vendettà sarà sentirlo urlare, e vederlo soffrire!”.
Mosse la lama così velocemente verso il collo di Ramona, non prima di aver visto i suoi occhi spalancarsi, angosciati, consci di quello che sarebbe stato il dolore di Dubris; e quando la testa della donna cadde, prima di esplodere, il suo viso aveva ancora quell'espressione.
 
 
 
La bambina continuava a fissarlo, senza timore. Neanche sbatteva le palpebre.
Dubris sgranò gli occhi e fu allora che lo sentì.
Quella fitta, e quello spasimo, che mai avrebbe voluto sentire, che lo costrinsero a cadere a terra, sulle ginocchia, lo sguardo fisso in quello vuoto della bambina, mentre pensava alla sua di bambina – avrebbe potuto chiamarla così? Eppure in quel momento non gli veniva altra definizione – mentre un incendio gli divampava nel petto e un grido di terreo, eterno dolore gli usciva dalla bocca. 
 
*
 
 
Le case bruciavano, tutto cadeva a pezzi e lui correva, le mani sporche di sangue.
Come al solito.
Le persone intorno a lui cadevano in laghi di sangue. Non importava se fossero romani o visigoti, pagani o cristiani oppure ebrei! Non importava, non gliene importava più nulla di quell’Impero che stava crollando a pezzi!
I pezzi… Pezzi di pelle, pezzi di legno, di marmo, pezzi infuocati o bruciati, tutto ridotto in pezzi! E tutto cadeva, crollava, esplodeva… E lui continuava a correre tra i frantumi, senza scivolare mai, tutto precipitava, ma lui mai, lui non sarebbe sprofondato, mai…
Tra i frammenti delle urla, le schegge di dolore, Kaeso cercava ancora altro. La vedeva ancora, vedeva il suo viso, circondata da fiamme. La vedeva col terrore negli occhi, scuoteva la testa mentre lo guardava e lui la vedeva sempre, ogni volta! Come in un sogno lontano…
Ma tu non sogni più, è sempre la realtà quella che tu vedi.
La realtà… Eppure sembrava tutto così finto.
Gli cadeva tutto addosso ma niente gli faceva male.
Cercava di raggiungerla. Ma Acilia, triste e sporca di sangue, gli aveva voltato le spalle e se n’era andata, allontanandosi per sempre da lui, triste e sporco di sangue.
Gli cadeva tutto addosso ma niente gli faceva male.








Fine aprile, come no! XD Questa volta non sono stata per niente puntuale.. XD 
Mi scuso per il mega ritardo, ho avuto un esame che mi ha risucchiato tutta la vitalità.. poi altre faccende.. e vedo periodi sempre più neri! Ma ce la farò, voglio finire presto questo libro!
Passando al capitolo.. Spero vi piaccia, l'azione non è il mio forte, si sarà capito : per quel che riguarda l'origine dei vampiri immagino abbiate le idee un po' confuse ma non vi preoccupate, non è finita qua ;)  
Infine grazie mille a Norine e a tutti coloro che leggono e non recensiscono e a tutti coloro che leggono e recensiscono in altre sedi! 
Spero di tornare presto, ma meglio non fare previsioni.. ad ogni modo putroppo mancano ancora tre capitoli alla fine! Ma possibile che in OGNI capitolo io dica che ne mancano ancora tre? Più ti avvicini al traguardo e più quello si allontana, eh sì.. O_O
Alla prossima! :) 

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Capitolo 27
*** Il sole non cambia ***


Ventiseiesimo capitolo

Un riassuntino veloce per i miei lettori, perché stavolta ho fatto passare davvero troppo tempo! Che può essere utile anche per chi è rimasto un po' indietro ;)

Curtis ha rivelato la sua vera identità: un cacciatore. Acilia, per salvarsi, è stata costretta ad ucciderlo ma, braccata ormai dagli altri cacciatori, ha preso la difficile decisione di consegnarsi. Sotto tortura, ha dichiarato davanti all'intera nazione che, se l'avessero lasciata andare, avrebbe ucciso Kaeso, un vampiro crudelissimo, da lei stessa creato, che sta seminando il panico nel mondo. E, una volta fatto, si sarebbe consegnata a loro. Gli umani l'hanno assecondata e Acilia, Dubris, Ramona, Victoire e gli altri  si sono messi sulle tracce di Kaeso. Rapita e torturata Svetlana, creata di Kaeso, i protagonisti hanno scoperto dove trovarlo: in un paese in Valle D'Aosta. Dubris ha poi ucciso Svetlana, con grande disappunto di Ramona. Il PPC ora si trova all'interno del castello di Kaeso e la battaglia è cominciata. Dubris ha trovato Eliza e Charlene, entrambe prigioniere di Kaeso. Ramona è stata costretta a rivelare a Kaeso il mistero dell'origine dei vampiri e lui l'ha uccisa per vendicare Svetlana. 
Nel frattempo in Inghilterra Claire, essendo stata attaccata da dei vampiri, in punto di morte ha chiesto a Jacque e ad Eike di essere trasformata. L'esperimento è fallito perché Claire aveva già del sangue di vampiro in corpo, avendo fatto il patto. Per il momento è sepolta in una fossa, e Jacque ed Eike non sanno che fare: si tratta solo di aspettare una settimana. 

In questo capitolo c'è una sequenza appartenente al passato, che è il continuo di una sequenza di due capitoli fa. Kaeso, mostro sanguinario, nel 376, ha mutilato un ragazzino, privandolo di una gamba e della lingua, e l'ha portato, come fosse un dessert, ad Acilia che, spaventata, cerca di far rinsavire il suo creato. E Kaeso mostra un lato di sè che Acilia ora preferirebbe dimenticare... 








CAPITOLO XXVI
IL SOLE NON CAMBIA







Acilia e gli altri erano partiti la scorsa notte. Jacque lo aveva detto con una pesantezza negli occhi che ad Emily non era potuta sfuggire.
 
Poi, ve lo giuro, mi avrete. E farete di me quel che vorrete. 
Le parole di Acilia, così strane, risuonavano nelle orecchie di Emily. L’immagine di Jacque che cadeva sulle ginocchia davanti alla televisione con quellosguardo si faceva molteplice nella sua mente. 
Aveva provato a chiedergli come stava ma lui non le rispondeva. Anche Eike, seduto sul divano e dondolando concitatamente le gambe, mostrava un certo triste nervosismo, e non era da lui. 
Che ne vuoi sapere tu, Emily, di quello che provano? 
Se Jacque avesse perso Acilia, cos’avrebbe perso? Quello che lei non aveva mai capito, quel loro rapporto così strano. Una madre, una sorella, un’amica e amante allo stesso tempo. Ad Emily venivano i brividi. 
Michael succhiò rumorosamente dalla cannuccia il fondo del suo succo di frutta ed Emily si ridestò. 
Lo guardò un po’ torva, poi si addolcì, guardandolo a testa china sul suo succo, tristemente curvo e ingobbito. 
“Come sta Lydia?” si levò ad un tratto la voce di Eike. 
Emily lo fissò, stupita. “Male” rispose, automaticamente “Ho provato a parlarle… Sono stata capace solo di mettermi a piangere con lei”. Forse ora stava dormendo, pensò poi, chissà se ci era riuscita, ad addormentarsi. Aveva paura di incontrare Sam nei sogni, o forse era quello che sperava. “Non esce mai dalla mia camera”. Anche i suoi genitori erano da poco andati a letto, rassegnatisi all’idea che Jacque ed Eike non sarebbero stati pericolosi per i loro figli. 
Eike annuì senza dire altro. Ad Emily dispiacque. Le sarebbe piaciuto fare conversazione, qualunque cosa era meglio di quel silenzio. 
“Non avete notizie?” chiese. Era una domanda stupida. 
“Staranno combattendo, non possono stare al telefono!” esclamò Eike. 
Michael soffocò una risata con la cannuccia in bocca e quasi si strozzò. Emily gli batté la mano sulla schiena mentre lui tossiva, riemergendo con le labbra e il mento arancioni. 
“Erano diretti in Italia, sulle Alpi” aggiunse Jacque “Sono andati con l’elicottero e là avrebbero preso un furgone, han detto. Saranno già arrivati da un pezzo”. 
Quindi ha parlato con qualcuno, pensò la ragazza, con Dubris? Con Acilia? 
Lo squadrò con cautela. “Ma sono sicuri che Kaeso sia lì?”. 
Lui annuì e non pareva intenzionato a parlare ancora. 
Emily si alzò in piedi, di scatto, mentre tutte le sue ferite si riaprivano. Jacque aveva finalmente parlato dopo tanto tempo e lei non avrebbe permesso che lui si richiudesse di nuovo nel suo silenzio. 
“Jacque” fece, poco convinta “Posso parlarti un attimo? Per favore”. 
Lui la guardò con ancor meno sicurezza, la sua espressione diceva tutto: che non gliene fregava più nulla di lei. Però poi si alzò, sotto lo sguardo curioso di Eike, e la seguì in cucina. 
Lei chiuse la porta, tentando un sorriso in direzione di Michael che, dal divano, la guardava incerto. Stette qualche secondo a fissare il legno graffiato della porta poi prese coraggio e si voltò. 
Jacque la guardava mestamente e lei non sapeva più cosa dire. Frasi cominciate e lasciate a metà, parole a caso, impulsi ed emozioni, che le percorrevano la mente di continuo, e ora il vuoto. 
Ma, sorprendentemente, parlò lui: “Non ti ho ancora ringraziato per il sangue che mi hai dato”. 
“Oh” fece Emily, con un piccolo tremito “E io devo ringraziarti per essere venuto qui con l’argento in mano… E per aver portato a casa Lydia”. 
L’altro annuì, puntellandosi il labbro inferiore con quello superiore. 
“Perché l’hai fatto?” proruppe improvvisamente la voce di lei “Perché sei qua?”. Sentiva gli occhi inumidirsi e lei si voltò da un’altra parte per asciugarseli, odiandosi. 
Lui non rispondeva, allora lei andò avanti: “Perché mi vuoi proteggere?”. 
“Perché ti voglio bene, lo sai”. 
Emily pensava che la risposta fosse un’altra. Gli si avvicinò, sforzandosi di trattenere le lacrime. “A te piace proteggere la gente. E ora stai così perché non puoi fare niente per proteggere Acilia”. 
Certo, però lei, lui l’ama. Si vede, è ovvio. 
Fu più forte di lei e lo abbracciò. Era da quando lo aveva visto entrare in casa, qualche notte prima, con tutto quell’argento letale in mano, che aveva voglia di farlo. 
Lo abbracciava, voleva baciarlo, parlare di loro ma parlava di un’altra. 
“Hai tanta paura per lei, vero?”. 
Lui finalmente le mise le braccia intorno alla vita ed Emily non riuscì a trattenere un singulto. 
“Sì”. 
La ragazza si mise a piangere e Jacque la strinse. “Voglio che muoia nel modo in cui vuole. E non è così, non è così…”. 
“Non lo sai, Jacque” disse lei, tra le lacrime “Devi lasciarla andare, farle fare quello che crede…”. 
Jacque la strinse più forte e il suo respiro si fece più irregolare. “Mi manchi” le sussurrò, debolmente. 
Emily non riusciva più a tenere a freno le lacrime e pianse senza ritegno contro il petto del vampiro. Era freddo, freddissimo ma la faceva sentire bene. La morte di Sam, l’umanità in pericolo, il suo stupido e sciocco amore… Tutto si riversava in gocce di pianto disgraziate, che non ne volevano sapere più di niente. Non volevano nulla, solo uscire e inondare tutto, distruggerlo. 
Lo stai facendo, stai distruggendo tutto… 
“Emily” fece Jacque “Dai, per piacere, smetti di piangere…”. 
Lei tirò su col naso alzò il viso, cercando i suoi occhi. “È una delle prime cose che mi hai detto: non piangere”. 
Jacque sbatté le palpebre, lievemente attonito. 
Emily proseguì, con voce spezzata: “E io poi ti domandai se avevi voglia di piangere, ti ricordi?”. 
Lui annuì. Quegli occhi secchi e spenti, quegli occhi che, la prima volta che li aveva visti, la terrorizzavano. 
“Tu mi risposi di sì ma io… Io non avevo capito” disse ancora Emily “Non avevo capito niente…”. Strinse gli occhi per far uscire le lacrime. Bruciavano e rendevano tutto opaco. Mentre Jacque era splendente e lei voleva vederlo. Le stava accarezzando il viso, con un’espressione che in qualche modo era quella di qualche mese prima, ma in un altro modo ancora era diversa. 
“Ora ho capito perché vuoi tanto piangere” fece lei “Adesso più che mai, non è vero?”. 
Jacque le era così vicino. La sua mano, sul viso di lei, fredda, refrigerante, come poteva lei perdersi in un torpore d’amore? Lui la teneva sveglia, viva, triste, arrabbiata, felice. 
“E anche tu mi manchi…” pianse infine Emily. 
Jacque continuava a tenerla stretta e a guardarla, lei non poté più trattenersi. In tutte quelle notti niente le arrecava sollievo più di lui, era lui che le faceva ancora sperare, e le faceva pregare che il sole tramontasse al più presto e che non la faceva mai sentire stanca, non più. Si avvicinò alla sua bocca e lui ricambiò il bacio. In uno scatto di passione lui la sollevò e la fece sedere sul tavolo. Rovistava nella sua pelle come se non avesse cercato altro per tutta la vita e lei sentì infuocarsi, nonostante la pioggia di ghiaccio che le cadeva addosso. Era pronta a spogliarsi, pronta a cedere ad un magico momento di un periodo oscuro, quando la lingua di Jacque smise di muoversi e con un ultimo bacio sulle labbra lui si discostò. 
“Scusa” disse lui, evitando il suo sguardo “Non posso, non riesco, in questo momento…”. 
Ma certo, pensò Emily, nel momento in cui pensa così intensamente ad Acilia, e ha paura per lei, non può fare niente con me. 
Sei la solita egoista. 
Eppure mentre le lacrime tornavano a riempirle prepotentemente gli occhi e vedeva il ragazzo con cui era stata per sei mesi che neanche riusciva a guardarla, non si sentiva affatto un’egoista. 
“Mi dispiace” continuò lui, scuotendo la testa “Ti ho già delusa, ho deluso Eike, tutti… Non posso”. 
Perché mi hai detto che ti manco? 
Emily annuì, senza riuscire a dire niente. Le parole le si strozzavano in gola. 
Cosa ti manca di me? 
Jacque si allontanò e lei scese dal tavolo. Lui la stava aspettando di fronte alla porta e lei gli fece un cenno. “Vai prima tu” disse, con voce tremante. 
Il ragazzo obbedì e richiuse la porta dietro di sé, e lei scoppiò istantaneamente a piangere. 
Acilia è stata importante per me… Ma lei mi ha trasformato in quello che sono… Che senso ha mi chiedo? 
Che senso ha, si chiedeva Emily. In quale malsano modo si era innamorata di un vampiro? Ricordava l’espressione pungente di Lydia; tu sei malata, le aveva detto. 
Era un amore malato e ho provato a guarire, aveva detto Jacque. 
Non sei guarito, pensò Emily, non sei guarito e ora lo provo anch’io un amore malato, è malato tutto questo. 
Continuò a piangere. Nella sua testa sentiva le urla disperate di Lydia, e lei piangeva di più, sempre di più. 
  
  

Dubris non sapeva dire da quanto tempo stesse gridando, ma a un certo punto il dolore finì e lui capì di essere rannicchiato a terra sulle sue ginocchia. Annaspò e alzò la testa. 
La donna umana era a ridosso di una parete e lo guardava spaventata. La bambina non aveva mosso un muscolo, e lo fissava. 
Dubris si alzò, a fatica. L’impulso gli gridava di correre via, andare a cercare Ramona e assicurarsi che fosse stata solo un brutto scherzo della sua mente. Ma lo sguardo di quella bambina lo teneva lì inchiodato. 
“Chi è stato?” sussurrò. Chi aveva ucciso Ramona? Chi?! 
“Quel vampiro di nome Kaeso” rispose l’umana, avvicinandosi un poco. 
Kaeso… è stato Kaeso… 
Dubris puntò il suo sguardo sull’umana, che si ritrasse appena. Non doveva avere uno sguardo molto amichevole in quel momento. 
“Come fai a saperlo?”. 
“Stava sempre con lei” singhiozzò l’altra. 
Dubris aggrottò la fronte poi capì che la donna si riferiva alla sua, di figlia. 
“Ho paura ad avvicinarmi a lei” diceva, piangendo “Come posso aver paura di mia figlia?”. 
Il vampiro si avvicinò alla bambina e le toccò una guancia. Carne morbida e fredda. 
“Come ti chiami?” le chiese. 
“Charlene” rispose quella. Inclinò appena lo sguardo, sembrava volesse cercare la madre con gli occhi, ma si fermò a metà strada. “Non voglio fare male alla mamma”. Indossava un vestitino rosa a fiori. 
“Fai bene a non avvicinarti” disse Dubris, rivolgendosi alla madre, continuando ad accarezzare il viso di Charlene, come in un gesto automatico che poteva non avere mai fine “Non sarebbe in grado di controllarsi”. 
Tu non ti sei controllato, Dubris. 
“Me l’hanno tenuta lontana perché volevano che rimanessi incolume… Lei… Lei… non mi guarda neanche!”. 
Ramona, davanti a lui, gli diceva di controllarsi, di non uccidere Svetlana. 
La vendetta non porta niente, solo ad altra vendetta. 
“E’ incredibilmente controllata, per essere un vampiro così giovane” si sforzò di dire Dubris. Charlene era davvero intelligente, sapeva cosa sarebbe successo a sua madre se si fosse avvicinata? E se si fosse trattato di un altro umano? L’avrebbe attaccato, sicuramente. Ma da quanto tempo non mangiava? Se non si nutriva, l’avrebbe attaccata, avrebbe ucciso sua madre… Quando lui era entrato nella stanza, aveva notato i suoi grandi occhi blu. Il loro colore ora invece stava cominciando a sfumare, in una striscia purpurea. 
“Devo portarvi fuori di qui, subito” disse. 
Che fai, Dubris? Vuoi proteggere anche il vampiro infante? 
Senza creati, cerchi già qualcun altro di cui occuparti… 
Dubris gridò e scivolò di nuovo a terra. 
Non vuoi che io assista? Cosa le vuoi fare? 
Mi dispiace, mi dispiace, pensò Dubris… Era tutta colpa sua! Era stato Kaeso… si era vendicato! 
Potrei cercare la morte, cercando di uccidere Kaeso. 
No, si disse il vampiro, a chi sarei utile in questo modo? Ramona era morta, così come lo era Lyuben. Non doveva più cercare vendetta, non doveva più distruggere, doveva salvare delle vite! 
Chissà se Ramona sarebbe fiera di me se porto via Charlene e sua madre… 
Dubris lanciò di nuovo un grido, battendo un pugno sul letto su cui Charlene era seduta. D’altronde era il suo modo di piangere. 
“Che succede?!” strillò l’umana. 
Voglio vederlo morto, morto! gridava Dubris, dentro di sé. 
E se uccidesse anche Acilia? 
“Che succede?!” gridò ancora la donna. 
Dubris inspirò a fondo, poi alzò lo sguardo verso di lei. “Colui che ha fatto questo a tua figlia, ha ucciso la mia creata”. 
L’umana sembrò non capire. “Creata…”. 
“La mia figlia vampira. Una donna che ho trasformato io stesso” spiegò lui. 
“Mostri…” fece lei, scuotendo la testa “Siete mostri che trasformate!”. 
Dubris vacillò. Non aveva mai chiesto scusa a Ramona, per averla trasformata. Ma lei gli voleva bene, lui lo sapeva… Gli voleva bene davvero? 
“Vi porterò fuori di qui” dichiarò. 
Si alzò, reggendosi sul bordo del letto con le mani. 
“Charlene” disse “Sei veloce ora. Seguici”. 
In un lampo fu vicino alla madre e la prese per la vita. Lei lasciò andare un’esclamazione, poi scosse la testa dicendo: “Prendi in braccio lei”. 
Dubris fece un sorrisetto mesto. “Non ne ha bisogno”. 
Le iridi castane della donna parvero vibrare poi lei aprì la bocca, premendosi una mano contro le labbra. I suoi occhi si chiusero e lei si acquietò. 
Dubris aggrottò la fronte e finalmente chiese quello che, in realtà, si era domandato fin da subito. “Perché non ti hanno fatto niente? Perché volevano che rimanessi incolume?” fece, ripetendo le parole che aveva usato lei. 
La donna scosse la testa e inspirò a fondo. Poi alzò quegli occhi caldi e arrossati su di lui. “Sono incinta” disse. 
Dubris rivedeva davanti a sé Kaeso che teneva in braccio quell’umana e sua figlia, che le portava via. E lui, lui non poteva fare niente… Sparagli gridava Victoire Dobbiamo prenderlo! Non gli aveva sparato e Ramona non c’era più. Credevi di fare l’eroe? si era chiesto, cosa credevi? 
Ramona era volata via in un posto di morte, nel vero posto di morte. 
Un pensiero positivo per la prima volta lo pervase, mentre continuava a contare i respiri della donna davanti a lui. Ramona avrebbe raggiunto Lyuben. 
Ma dove? 
Eppure è stata colpa tua, Dubris, tua! 
I respiri dell’umana si trasformarono di nuovo in lacrime. Un lamento di bambina affamata, presto quella donna sarebbe morta, dissanguata, uccisa da sua figlia… E Dubris le rivedeva, le avrebbe sempre riviste, nei suoi ricordi, volare via da quella finestra in braccio al vampiro più crudele di sempre. 
E’ colpa tua! 
Sparagli, gridava Victoire, sparagli, sparagli, sparagli. 
E quella rabbia, che gli aveva fatto uccidere così violentemente Svetlana. 
Sparagli, sparagli, sparagli… 
Era lui che doveva colpire! 
Sparagli! 
Ma ormai Kaeso e Svetlana erano volati via, tenendo salde la donna e la bambina. E il cuore di Ramona ormai era a brandelli, l’esplosione era già avvenuta. 
Dubris abbracciò la donna. La voleva sollevare, voleva volare via ma si tenne stretto a lei. Anche se puzzava, anche se non sapeva chi fosse, anche se lui era affamato. 
Lei rimase spiazzata e cercò di allontanarlo. “Tu… sei… un vampiro”. Dubris non capì se si trattava di una domanda o di un’affermazione ma avrebbe fatto in modo che non andasse tutto perduto. Aveva commesso un grave errore a non sparare in quel bagno, ma voleva fare in modo che servisse a qualcosa. Almeno una delle tante persone coinvolte ne sarebbe uscita viva. 
“Qual è il tuo nome?”. 
“Eliza” rispose lei, dopo un po’ “Sei… sei molto freddo”. 
Tremava di paura e ad un certo punto urlò. Dubris si separò da lei e vide che la piccola Charlene, con sguardo famelico, aveva i denti infilati nella mano della madre. Eliza urlava d’orrore, senza staccare gli occhi dal visetto della figlia, mentre il sangue colava sulla moquette grigia e Dubris capì in quel momento che anche al piano di sotto la moquette un tempo doveva essere di quel colore. Subito afferrò la bambina e la lanciò lontano. 
“Andiamo!” esclamò, afferrando Eliza. Corse fuori dalla porta con la donna in braccio e Charlene si lanciò subito nell’inseguimento. 
  
  

Finalmente lo vide. Era comparso vicino ad un atrio buio ed era sporco di sangue. C’era del vento che gli muoveva i capelli. Il portone del castello era aperto. 
Acilia diede un calcio ad un vampiro che le impediva la vista poi gli trafisse il collo con una scarica di proiettili. Alzò la testa e vide che anche Kaeso l’aveva vista. La stava guardando, da lontano, come il giorno in cui lei l’aveva abbandonato. Quel giorno lei si era allontanata sempre di più, fino a perderlo di vista. 
Hai sbagliato tutto, lo sai?! 
Ma ora si sarebbe riavvicinata, passo dopo passo. Tra gli schiamazzi, le grida e il sangue, proprio come quella volta. Avrebbe dovuto percorrere il cammino a ritroso, raggiungerlo, arrivare alla sua morte, quella che gli aveva inflitto millesettecento anni prima. Era quello il punto di partenza a cui sarebbe dovuta tornare. 
Lui rimaneva fermo. Sembrava la stesse aspettando, impugnando una spada. 
No, non ho paura. 
Del resto, paura di cosa? Tanto sarebbe morta comunque. La paura era una cosa egoista, non poteva aver paura di fallire e di lasciare in eredità al mondo quel mostro. Perché da morta, non gliene sarebbe importato più nulla. 
O sì? 
A Jacque? Non ci pensi a Jacque? 
Nel volto dell’uomo che aveva davanti non c’era nulla di Jacque. Erano entrambi suoi ed erano così diversi, perché era lei che era diversa. Non era una persona sola. 
Chi ero? Cos’ero? 
Vivere così tanto tempo era logorante; non si faceva altro che cambiare, in continuazione, non si stava mai fermi, non si era mai gli stessi. Pareva di vivere più e più vite, tutte d’orrore, ma sembrava capitasse solo a lei, solo lei sembrava capirlo! 
Kaeso era ancora più vicino. Lui di certo non lo avrebbe capito. Il sangue colava dalla sua spada e le gocce si schiantavano silenziosamente sul pavimento. Quel sangue… di chi era? Acilia provava una strana sensazione, come se Kaeso avesse colpito qualcuno della sua famiglia. Ma era Kaeso stesso la sua famiglia! Acilia pensò d’istinto a Dubris, vedendo quel sangue colare. Perché pensava a lui? Era da un po’ che non lo vedeva combattere… 
Dubris l’ha mai capito che tu non sei mai stata la stessa? 
Dubris aveva fatto il possibile per lei ma comprenderla era impossibile. Lui non riusciva neanche a capire perché lei volesse morire! Lui era così… attaccato ai suoi sogni, attaccato alla vita! 
Ecco, ora Acilia avrebbe voluto rivederlo, mentre vedeva solo Kaeso, spiegargli tutto – ma cosa c’era da spiegare? Era stata così fredda nei suoi confronti negli ultimi giorni, solo per farsi odiare. Voleva che Dubris, quando lei fosse morta, non se ne rattristasse, ma che al contrario pensasse che liberazione! Non aveva più voluto guardarlo in faccia perché forse sarebbe stato capace di farle cambiare idea… 
Non cambio idea, non mi muovo, non mi muovo! 
Non rivedrai più Jacque… 
Stai fuggendo da quello che hai fatto. 
Acilia si riscosse. Quella voce sembrava provenire da Kaeso, ma lei non ne era sicura che fosse stato lui a parlare. La fissava, eterno e immobile, perfetto. 
“Fuggi?” diceva. 
Ancora. Vuole chiedermi se fuggirò ancora, pensava Acilia. 
“Quando mi hai abbandonato, non pensavi che mi avresti più rivisto, non è così?” domandò lui. 
Acilia non disse niente. Sentiva tutto il suo corpo intorpidito. Quella che aveva davanti era il suo sangue, il suo amore e il suo sbaglio, tutto insieme, tutto così dolosamente insieme, e intricato. 
“Era quello che speravi. Hai sbagliato tattica” proseguì lui “Sei diventata un personaggio in vista, lo dovevi pur sapere che io ti avrei cercata!”. Le ultime parole le pronunciò quasi sibilando, con un moto di cattiveria che per un attimo abbandonò la pazzia. Non era pazzo, ora era arrabbiato. 
“La prima volta ti ho rivisto nel castello di Lucius” riuscì a dire Acilia. 
“Quando stavo per ucciderti” precisò lui. 
Lei ebbe un fremito, e si vergognò di averlo avuto. “Mi odi così tanto?” fece. 
Kaeso alzò le sopracciglia, abbandonando la rabbia e con un sorriso quasi ilare. “Hai dichiarato in televisione che mi avresti ucciso. Hai fatto irruzione in casa mia con un esercito. Ora, dimmi… Perché non dovrei odiarti?”. 
Acilia fece un altro passo verso di lui, mordendosi il labbro. Sentiva il suo stesso sangue colare lungo il mento. 
Si era lasciata alle spalle la mischia, sicuramente qualcuno si era accorto che lei si era allontanata, che era con Kaeso… 
O forse no, perché stanno tutti morendo. 
Kaeso fece un cenno alla spada e continuò, cancellandosi il sorriso dalle labbra. “Mi sto solo difendendo, Aci. E’ quello che ho sempre fatto”. 
Le si avvicinò di scatto e fu a pochissima distanza da lei. Acilia lo vedeva alto, troneggiare su di lei, ed aveva paura. Cercava di ricordarsi chi fosse stata lei stessa, perché se fosse riuscita a vedere se stessa negli occhi di Kaeso, sarebbe stato più facile, forse… Ma l’idea la faceva solo rabbrividire di più e la vergogna si impadroniva di lei, accartacciandola come fosse fatta di carta, un foglio di carta da buttare. 
“Ricordi quando ti ho detto che oppressore e vittima non sono intercambiabili?” chiese lui, tranquillo. 
Acilia ricordava bene. Una serata che sembrava infinitamente lontana, eppure non erano passati che due mesi. Il tempo, scorreva così strano… 
“L’oppressore sei tu” sussurrò Kaeso, e tutto parve bloccarsi. Non c’erano le grida, gli spari, tutto era immobile e silenzioso, solo la voce del vampiro serpeggiava fino al suo orecchio. “Sei sempre stata tu”. 
Acilia voleva trovare la forza di alzare la sua arma e puntargliela dritto in quegli occhi malvagi, ma il suo braccio non si muoveva. 
“Per quanto tu lo desideri” continuava Kaeso “non sarai mai una vittima. Non stanotte e neanche dopo. Tu non ti consegnerai mai, non ti suiciderai mai! Ti conosco!”. Alzò la voce e, con un movimento rabbioso, levò la spada pronto a colpire. Acilia fu veloce e si spostò. Era quello che doveva fare, doveva combattere, doveva fermarlo e poi… uccidersi. 
Non ti suiciderai mai! Ti conosco! 
“Non è vero che mi conosci” ribatté “Non è vero! Tu hai conosciuto solo una parte di me!”. 
Kaeso era pronto a riprovarci e lei quasi gridò per la frustrazione. “Non lo sai perché voglio tanto morire!”. 
Il suo creato si fermò con la spada a mezz’aria, attonito. Ripresosi disse, con un mezzo sorriso: “Non lo so?”. 
Acilia trattenne il fiato, incerta. Non voleva che Kaeso dicesse più niente, lei non voleva ascoltarlo. Le venne in mente quando lo vedeva pieno di sangue, assetato più che mai, crudele e perfido, e lei si rivedeva in lui, e aveva paura. Non voleva che succedesse di nuovo la stessa cosa. Non voleva ascoltarlo e scoprire cose di lei che lei non sapeva! Ma Kaeso non parlò e scosse la testa, ancora con quel mezzo sorriso. 
Devo agire. Devo agire. 
“Sei entrato nella Rappresentanza per me?” domandò Acilia, con un tremito. Perché parlo? pensò disperatamente, guadagno tempo per cosa? 
Non lo vuoi uccidere. 
“Hai fatto tutto questo per me? Per vendicarti?”. 
Perché se lo uccidi, dovrai morire anche tu. 
“Mi stai facendo impazzire per farmela pagare?!” gridò ancora lei, esasperata. 
Kaeso finalmente rispose: “Sì”. 
Allora non è che ti dispiace per lui. Allora non è che gli vuoi bene. 
Acilia inspirò a fondo. “Quindi… Se io mi lasciassi uccidere da te, fermeresti poi questa follia?”. La sua voce stessa tremava. Sembrava incredibile pensare che solo poco prima lei era così tranquilla – o fingeva di esserlo. Aveva paura della risposta di Kaeso. Se lui avesse risposto di sì, lei si sarebbe sacrificata. Era quello che doveva fare. Aveva una maledetta paura di quella risposta – perché non lo voleva fare. 
Allora non è che ti dispiace per lui. Allora non è che gli vuoi bene. 
Kaeso fece un sorrisetto, poi aprì la bocca, fissandola dritto negli occhi. 
“No”. 
  
  
  
Il ragazzino, seduto e poggiando il peso del corpo sulle braccia, cercò di indietreggiare, con la paura più folle negli occhi, sgranati e piangenti, spargendo con la voce suoni più forti, ma comunque sordi. 
Acilia guardò Kaeso, poi abbassò di nuovo lo sguardo. “Sono io che ti ho ridotto così…” sussurrò. 
  
I ricordi si facevano confusi, annebbiati, colorati di rosso… 
  
Kaeso si buttò a terra, con la testa china. Il suo corpo tremava e Acilia lo raggiunse di scatto. Alzò una mano, incerta, pensando di toccarlo, di accarezzarlo – ma sarebbe servito a qualcosa? 
Il ragazzino continuava a emettere versi così fastidiosi. Fastidiosi? Acilia si voltò a guardarlo. Piangente, mugugnava, viola di paura. Poverino, pensava lei, poverino… Riesci davvero a provare pena per lui? 
E allora perché non gli diceva niente? Perché non lo rassicurava? Perché non lo liberava? 
Che vita potrebbe mai avere ridotto in quello stato? 
“Aci” fiatò Kaeso. 
Acilia si chinò sul suo creato. Gli prese il volto tra le mani. “Dimmi, dimmi…”. 
Era stato lui a ridurre a quel modo il ragazzino. Non doveva essere compassionevole, doveva sgridarlo, doveva imporsi! 
Non è colpa sua, lo sai, è colpa tua. 
“Vorrei tanto poter rivedere mia figlia”  biascicò Kaeso, con gli occhi sgranati e tristi “Secondo te è per questo che torturo dei ragazzini? Per la rabbia?”. 
Acilia non sapeva cosa dire. I versi del bambino erano strazianti per le sue orecchie, ma perché solo quelle di lui? Perché quelle di tutti gli altri no? E perché ora Kaeso diceva quelle cose? Era davvero lui? O era qualcun altro? Non si poteva essere due cose contemporaneamente, non si poteva! 
Allora tu cos’eri? 
“Kaeso, io…”. 
“Viridio, chiamami Viridio!” esclamò lui, guardandola con un sorriso. “Mi chiamava così mia moglie, sai…”. Le poggiò le mani sulle guance, con un velo di dolcezza poggiato sui suoi occhi rossi. “E io ti amo come ho amato lei, davvero”. Acilia trattenne il fiato e il velo di dolcezza su di lui parve poi stropicciarsi, in una smorfia su quel viso che sembrava sereno, un tempo, e lui strinse gli occhi, e digrignò i denti. “Perché mi hai fatto questo? Perché l’hai fatto?!”. Le sue mani si fecero pesanti e le graffiarono le guance. Acilia sentì un lieve dolore e il sangue che colava vicino alle orecchie. Lui era arrabbiato e continuava a stringerla, ferendola con le unghie. “Perché?!”. 
Acilia si lasciò graffiare e percuotere le guance, stringendo i denti per il dolore, davanti alla bocca teneva una mano, in cui cacciava grossi e tristi respiri. 
“Ti posso aiutare” disse dopo un po’, in un lamento, allontanandosi dalla presa di Kaeso. “Ti posso aiutare… Devi solo controllarti un po’ di più… Potrai ancora uccidere ma solo per sfamarti! Senza torturare, e senza bambini…”. 
Kaeso aggrottò la fronte. Non sembrava rincuorato, solo disgustato. “Potrò ancora uccidere… Che vita è… Che vita è!” urlò e conficcò le sue unghie, che poco prima avevano graffiato il viso di Acilia, sul suo collo, come se avesse voluto scavare a fondo nella sua gola e staccarsi la testa. Gridava e le sue dita si imbrattavano di sangue, quando Acilia gli prese con forza le braccia urlandogli di fermarsi. 
Kaeso, frustrato, abbandonò le braccia lungo il corpo, richinando la testa. 
“Cosa siamo, Aci?” domandò, con voce affatica “Tu lo sai?”. 
Alzò il viso e ad Acilia tremavano le mani, in quel momento si poteva perdere negli occhi di lui e si sarebbe persa volentieri, in quel mare. Perdersi, piuttosto che rispondere… 
“No” ammise “Non lo so…”. 
“Quanto durerà ancora?” continuava Kaeso “E cosa ci sarà dopo? Sarà così per sempre? Per sempre?”. La sua voce s’affievolì e quel per sempre, che pronunciava così mestamente – ma che suonava così minaccioso – si ridusse quasi ad un eco. 
Le prese una mano e la guardò con due occhi blu che mai erano stati così grandi, e vivi. “Hai detto che mi puoi aiutare. Promettimelo…” fece. 
Acilia si sentì mozzare il respiro. Kaeso… Dov’era finito Kaeso? Possibile che se ne fosse andato davvero? Per sempre? Strinse la sua fredda mano, come pervasa da un’istantanea fiducia. “Promettimi che mi aiuterai, e che non mi abbandonerai mai!” concluse lui. 
La fiducia scivolò via, come quel sangue appiccicoso e lei sentì un gran peso sul proprio cuore, era un macigno. Non era brava lei con le promesse. Era stata in grado di uccidere l’uomo che amava – e ancora aveva voglia di gridare per questo! – cosa sarebbe stata in grado di fare a Kaeso? 
Cosa gli hai già fatto… 
“Sì” disse dopo un po’ “Sì… Sì!”. Strinse con più vigore la mano, convincendosi lei stessa. 
“Staremo sempre insieme, non è vero?” chiese Kaeso, incurvando le sopracciglia. Tremò quando sentì il ragazzino mugghiare, e per un attimo non disse nulla, poi la sua voce riemerse da quelle spalle ingobbite e insicure, come un naufrago che ancora aveva speranza. 
“Questo per sempre mi fa paura, ma se staremo insieme… se ci sarai anche tu…”. Ebbe un altro tremito e guardò con orrore il ragazzino mutilato. “Tutto questo mi terrorizza!” esclamò. I suoi occhi rimasero fermi, come ipnotizzati dal sangue e dal dolore che colavano dalla sua vittima. 
“E’ come se non fossi più io… Non lo sono, non sono più io… Perché io sono morto, e questo è un altro me…”. Tornò a guardare Acilia, che intanto lo fissava, allucinata forse, o con chissà quale altra espressione di sgomento sul volto. “Sei tu che mi hai ucciso” dichiarò e lei non aveva più voglia di guardarlo in faccia. “Mi hai ucciso tu” continuò lui, annuendo e alzando la voce “Mi hai ucciso tu, ora non mi puoi più abbandonare, me lo devi… Me lo devi!”. 
Acilia mollò la presa e si portò entrambe le mani al viso. Aveva voglia di nascondere lacrime che non aveva. La voce di Kaeso la raggiunse attraverso le fessure tra le dita. “Se tu te ne andassi… Penso che potrei impazzire del tutto”. 
Acilia allargò le dita e guardò Kaeso. Guardandolo, si sentiva sicura. Bastava poco, un solo momento per cancellare tutto il resto. “Non ti abbandonerò” fece, con voce spezzata “Staremo insieme, sopporteremo tutto insieme…”. 
Kaeso fece un debole sorriso poi richinò lo sguardo sulle proprie mani, ancora sporche di sangue. Il suo viso divenne a poco a poco più freddo, e non diceva più niente, e Acilia aveva paura. Ad un tratto il vampiro si leccò avidamente le dita, con sguardo trasognato. “Ho fame”. I suoi occhi intercettarono il corpo del ragazzino che ancora era lì, tremante e disperato, e non avevano più niente di vivo dentro. 
Acilia si impietrì. Gli aveva tenuto stretto le mano, gli aveva fatto una promessa, lui le aveva sorriso. 
Come pensavi di poter cancellare tutto il resto? 
“Sono io che ti ho ridotto così” sussurrò nuovamente, ripetendo quello che si diceva sempre, quello che si infliggeva sempre, quello che non doveva dimenticare, mai. 
  
  

Dubris cercava di evitare il più possibile la mischia, tenendo ben stretta a sé Eliza, quando si accorse che nessun vampiro stava cercando di attaccarlo. Si fermò e si voltò indietro. Persino Charlene si guardava intorno, spaesata. La sala dal pavimento sempre più rosso, sangue che colava ovunque, di corpi a terra non ce n’erano e Dubris non riusciva a capire chi fosse vivo. Poi capì perché in quel momento la battaglia sembrava sospesa. 
Dalla parte opposta della sala Kaeso e Acilia stavano combattendo. Lei in realtà sembrava solo evitare la spada di lui, con un’inutile arma in mano. 
Cosa aspettava? Doveva colpirlo! 
Dubris sentiva di nuovo dentro di sé una grande rabbia e strinse più forte Eliza per calmarsi, fino a che lei non gemette. 
Scusa, pensò Dubris chinando la testa, senza parlare, scusa. Voleva vedere Kaeso morto, ora! 
Poi sarebbe morta anche Acilia… 
Dubris alzò di scatto il viso e vide la spada di Kaeso conficcarsi nel fianco di lei. 
“No!” gridò. Doveva andare ad aiutarla, subito. 
La gente urlava intorno a lui, parecchi fomentavano Kaeso, correvano, gli si avvicinavano brandendo le loro armi… “No!” urlò ancora Dubris, sentendosi inerme, con il peso di quell’umana addosso. 
“Fermi!” tuonò Kaeso voltandosi verso tutti loro, mentre Acilia, a terra, fiatava e gocciolava sangue. “Non vi intromettete. Questa è una battaglia tra me e la grande Acilia”. Tutti tacquero e Dubris lo odiò. Poi ebbe una strana sensazione, un presentimento così assurdo… Era come se Kaeso stesse dando il tempo ad Acilia di riprendersi. Dubris si guardò intorno. Tutti erano attoniti. Charlene guardava Kaeso con gli occhi e la boccuccia spalancati. 
Poi quello urlò di nuovo. “Uccidete tutti gli altri!”. 
Dubris ricevette un pugno o qualcosa di simile alla schiena e barcollò. Eliza era aggrappata a lui piangendo piano e digrignando i denti. 
Non posso aiutarti, Aci, non posso. 
Tutti ripresero a muoversi e a gridare, un terribile formicaio che Dubris doveva riuscire a superare. Doveva portare in salvo Eliza, doveva… Doveva salvare qualcuno! 
Perché non hai salvato Ramona. 
Corse più velocemente possibile, intorno a quelle macchie di colore che si muovevano repentine quanto lui, e lui vedeva tutto sfuocato, finché non vide… 
“Dubris! Dov’è Ramona?”. 
Non era possibile, quello era Lyuben! Vedeva distintamente la sua chioma bionda, increspata, e un rivolo di sangue che gli usciva dalla bocca. Stava combattendo al loro fianco! “Dov’è Ramona?!” insisteva. 
Come faccio a dirglielo, pensò Dubris, atterrito, come faccio… 
Aprì la bocca, sentendo le proprie labbre così pesanti. 
“E’… è morta”. 
Lo sguardo di Lyuben si raggelò. I suoi occhi si fecero così stranamente crudeli. 
“Non l’hai protetta” disse. 
A Dubris tremarono le gambe. Lyuben non poteva fare niente, quella volta toccava a lui, Dubris, il suo creatore, proteggere Ramona… Non l’aveva fatto e ora Lyuben l’avrebbe odiato. 
“E quella che hai in braccio chi è?!” abbaiò ancora il biondo, arrabbiato. 
“E’… è…”. Non è nessuno in confronto a Ramona, pensava Dubris, non ho giustificazioni. 
“Dubris! Ti ho chiesto chi è!”. La voce di Lyuben si era alzata, era diventata squillante… Sembrava una voce femminile. 
“Dubris!”. 
Dubris sbatté le palpebre più volte. Victoire era davanti a lui con gli occhi sgranati, i capelli impastati di sangue, un rivolto che le correva giù per il mento. “Mi dispiace per Ramona, Dubris… Ma non è colpa tua! Reagisci!”. 
Non l’hai protetta. 
Non c’era Lyuben in quella stanza. Certo, Lyuben era morto. 
Dubris fece un cenno d’assenso, confuso. Victoire lo guardava in attesa e lui parlò: “E’… è l’umana che ha rapito Kaeso. Ti ricordi? E’ incinta. La devo salvare”. 
Victoire spalancò ancora di più gli occhi. Era lei la stessa che gli gridava di sparare a Kaeso, anche se aveva quella donna in braccio, e ora non riusciva a dirgli che stava sbagliando ancora. 
“Vai” disse “Vai… al furgone… muoviti… tra un po’ sorgerà il sole!”. 
Allora sto facendo la cosa giusta. 
Dubris non disse più niente e corse, ignorando gli spari, le urla, il pianto di Eliza che, disperato, gli chiedeva dove fosse Charlene. 
  
  

Acilia si era rialzata ed aveva riacquistato velocità. 
Kaeso aveva di nuovo mancato il colpo. 
Perché fallisci? 
Lei era più forte e più veloce, ma lui non stava forse sbagliando un po’ troppo? Non stava prendendo tempo? 
La verità era che voleva che durasse molto, moltissimo tempo quella battaglia. Lui e Acilia, quel per sempre di cui avevano più volte parlato. 
Per farsi coraggio a vicenda. Per non arrendersi. 
Ma Kaeso aveva imparato ad apprezzare quello che era. 
E allora perché avresti voluto Acilia al tuo fianco? 
Acilia non faceva altro che evitare i suoi colpi, col volto concentrato e gli occhi tristi. Non avere quegli occhi tristi, pensò lui, è solo colpa tua se siamo arrivati a questo punto. 
Apprezzi davvero quello che sei? 
Ramona gli aveva parlato di una divinità che era più simile a loro che agli umani. Era una cosa strabiliante, ciò che aveva temuto per tutta la vita non era altro che un’immagine più potente di se stesso. 
Un’immagine più potente di me stesso. 
Acilia sparò improvvisamente un colpo e Kaeso fu costretto a volare via. Il respiro mozzato, le gambe sospese per aria, la spada lucida e oscillante. 
Un tempo, lui aveva avuto paura di se stesso… 
Rise appena quando vide Acilia librarsi in aria e raggiungerlo. Lo guardava con sfida, odio e rancore. 
No, quello è il tuo sguardo. 
Gli occhi di Acilia sono tristi, ricordi? 
Smettila di confondere le cose! 
“Kaeso” lo raggiunse la voce di Acilia. Ora Kaeso la vedeva bene. Aveva i lunghi capelli neri appiccicati alla faccia, i vestiti sporchi di sangue e non gli puntava la pistola addosso. Il viso piegato in rughe che la rendevano così vecchia, così tanto più vecchia di quello che era… 
Lei è vecchia. Lo sei anche tu. 
“Non ti ricordi più nulla di Viridio?”. 
Kaeso schioccò le labbra, infastidito. “Il mio nome da umano”. 
Acilia parve confusa e lui ridacchiò. “Aci, io mi ricordo tutto… Non sono pazzo, renditene conto”. 
Lei inspirò a fondo. Esitò un attimo, poi disse: “La pazzia ha preso completamente possesso di te. Sei pazzo da talmente tanto tempo che non lo sei più”. Aveva sussurrato, come se parlasse a se stessa. 
Kaeso rivide l’immagine di Acilia che sussurrava a se stessa, lo sussurrava sempre. Sono io che ti ho ridotto così. 
L’antica rabbia che tornava, una ragazza dal volto innocente che gli si avvicinava e a tradimento lo uccideva, beveva il suo sangue… E osava venirgli a dire che era pazzo! 
“Sono solo cambiato!” gridò “Tu ti credi la buona, non è vero? E io sarei il cattivo! Ma chi era il cattivo millecinquecento anni fa?!”.    
“Ho fatto degli errori!” urlò Acilia in risposta ma Kaeso non aveva alcuna intenzione di lasciarla parlare. Con odio, alzò il braccio e sfregiò con la punta della lama la bocca della ragazza. Lei barcollò, nella brezza che proveniva dalla porta aperta, e si portò una mano alla bocca con un urlo soffocato, imbrattandola subito di rosso e Kaeso recuperò la calma. 
“Non si tratta di essere buoni o cattivi, non si è mai trattato di questo” disse, fissando Aci, mettendo bene a fuoco il suo dolore, con piacere “Ci sono solo epoche da attraversare, scelte da compiere e personalità che cambiano”. 
Acilia ritrasse la mano lasciando intravedere sangue e labbra che si ricomponevano e Kaeso concluse: “Nessuno vive così poco da non cambiare volto nemmeno una volta”. Le si avvicinò in un lampo e le prese il viso tra le dita, stringendoglielo. “E tu hai vissuto parecchio, no?”. 
Acilia, immobile nella sua stretta, lo fissava senza battere ciglio e lui sputò fuori di nuovo la rabbia, gridando. “E io non so chi sei veramente!”. 
Alzò la spada, deciso finalmente a decapitarla, a punirla. 
Per cosa la vuoi punire? Ora fai tutto quello che ti ha insegnato. Ti piace quello che ti ha insegnato. 
Urlò di collera e la sua mano era pronta e veloce, il collo di Acilia in attesa. 
Quale parte di te la vuole punire? 
Ma ci fu uno sparo e Kaeso cadde all’indietro, planando a terra. 
Non ti ricordi più nulla di Viridio? 
L’impatto col pavimento fu forte e doloroso. Kaeso gridava, si contorse, ma il dolore diminuiva e lui si guardò il torace. Il proiettile si era infilato in una costola e il suo corpo e lo stava espellendo, insieme a fiotti di sangue. La spada era caduta poco distante da lui. 
Allora mi hai finalmente sparato, pensò. Guardò verso l’alto. Acilia aveva il fucile puntato su di lui e avrebbe di nuovo colpito, Kaeso ora sapeva che l’avrebbe fatto… 
“Papà!” fece una vocetta squillante, sovrastando il caos. 
Sia Kaeso che Acilia si voltarono. Lontana dalla mischia stava una figurina coi capelli ricci, in un vestitino schizzato di sangue. I suoi occhi blu, Kaeso li vedeva così bene, anche se erano rossi. 
“Charlene” fece lui, allarmato “Non dovresti stare qui! Torna di sopra!”. 
“Papà!” insistette lei, avvicinandosi “Stai bene?”. 
Papà. 
Kaeso sentiva qualcosa di stranamente caldo nel petto. Aveva voglia di abbracciare la bambina ma voleva anche che se ne andasse, che se ne stesse al sicuro. Charlene continuava ad avvicinarsi, ma era diversa. Aveva i capelli lisci e scuri, una tunichetta sporca e dei sandali. 
“Hai ricreato Iulia” giunse la voce di Acilia, incredula. 
Kaeso si voltò di scatto a guardarla. Lei aveva gli occhi spalancati, fissava Charlene e sembrava non capacitarsene. “Hai trasformato una bambina… Sì che sei pazzo!”. Sembrava un dolore immenso quello sul volto di Acilia e Kaeso non capiva il perché. Non c’era niente di sbagliato in quello che aveva fatto, niente! 
“Charlene, tesoro, è pericoloso qua… Torna di sopra” disse, rivolto a Charlene. Ma la bambina non si muoveva. Gli sorrise, e non aveva i denti aguzzi. Gli occhi non erano rossi e la sua carnagione era olivastra. 
Ma fasci di luce luminosi stavano entrando nel castello dall’ingresso e i piedi di Charlene cominciarono a fumare. La sua tunica si allungò e divenne un vestito, la pelle impallidì e i capelli tornarono ricci. Nei suoi occhi rossi zampillavano fiamme. 
“Spostati!” urlò Kaeso, sgranando gli occhi. 
Che è successo? 
Corse verso la bambina e la spinse via, verso l’interno e il buio del salone. Gli altri combattenti si erano fermati, allarmati. La notte era già finita, il sole stava sorgendo e loro erano diventati tutti ugualmente inermi. 
Hai ricreato Iulia. 
“Moriremo insieme, Kaeso!” gridò qualcuno, spintonandolo. Lui ricadde a terra, Acilia troneggiava su di lui. Il suo viso era un esplodere di angoscia e ira. Si chinò su di lui e lo afferrò con una mano, con l’altra ancora stringeva il fucile. Prese il volo, trascinandolo fuori. 
Kaeso non oppose troppa resistenza, non capiva cosa diavolo avesse in mente la sua creatrice, sapeva solo che se si fossero esposti entrambi alla luce del sole lui non sarebbe morto per primo. 
Il calore cominciò a trafiggerlo con delle fitte fastidiose, poi il calore divenne dolore e il dolore divenne insopportabile. Si sentì spinto e lui cadde a terra, sui fili d’erba che divennero rossi, perché lui stava sputando sangue, ma non era sangue normale… Era così rosso, fumante, gorgogliante ma lui dovette smettere di guardarlo perché gli occhi gli facevano male e gridò, rigirandosi e contorcendosi. 
“Tranquillo, non ci vorrà troppo” disse la voce di Acilia, lì vicino, affaticata “Siamo vecchi, bruceremo presto”. 
Kaeso si mise seduto con quelle che sentiva ancora come sue gambe e si sforzò terribilmente di aprire gli occhi. Si mise una mano sulla fronte, che fungesse da visiera, perché aveva paura che i suoi occhi si squagliassero e lui voleva vedere Acilia, la voleva vedere dannatamente bruciare. 
“Brucerai prima tu” biascicò, sentendo le guance che scendevano sulla bocca, impedendogli di articolare bene i suoni. 
Acilia aveva i capelli incendiati, in una corona di fuoco. Ed era bellissima, così illuminata; il sole, doveva essere bellissimo… Kaeso l’aveva dimenticato. I vestiti della donna si stavano annerendo e lacerando, scoprendo il suo corpo, che presto sarebbe stato cenere. 
Allora lo vuoi davvero, morire. 
Nessuno dei due riusciva più a parlare e Acilia si buttò a terra affianco a lui perché le sue ginocchia stavano scomparendo. Metà del suo viso stava bruciando ed era una visione orribile, perché Kaeso sapeva che stava capitando la stessa cosa a lui. 
Non riesco a essere felice. Non riesco a vederla bruciare ed essere felice. 
Ma stavano bruciando insieme, era la loro fine, decretata da un destino crudele, che li aveva voluti insieme, in tutti i modi in cui due persone possono stare insieme. 
Ma Acilia stava sollevando una mano annerita. Riusciva ancora a tenere il fucile con quel braccio, facendo ombra con il suo stesso corpo. 
La sua bocca smise di urlare e digrignò i denti che ancora aveva, preparandosi a parlare. E i suoni uscirono angosciati, spezzetati e brucianti, ma Kaeso capì. 
“Se brucerò per prima… Mi devo…” un urlo e chiuse l’occhio che ancora era intatto. Doveva muoversi, prima che le fiamme arrivassero alla bocca. “Assicurare… che tu… muoia”. Gli puntò il fucile tremante contro il petto e Kaeso si preparò. 
Mi abbandoni anche stavolta. Allora tu non cambi mai. 
Kaeso non capì come ma riuscì a parlare, mentre le fiamme continuavano a divorarlo. Non capiva neanche come potesse essere ancora vivo, ma forse era già morto e l’al di là non era che un ripetersi di tutti gli avvenimenti più brutti della propria vita. 
“La finiamo come… l’abbiamo cominciata, Aci. Con te che mi uccidi”. 
Acilia era ormai incandescente, avvolta dal fuoco, dal sole, dalla luce, tutto ciò che Kaeso aveva sempre disprezzato, e temuto. 
Almeno aveva potuto vederle un’ultima volta: il sole, la luce, Acilia. 
  
  

Dubris aveva volato fino ai piedi del monte con Eliza in braccio, ignorando i suoi scalpiti e le sue grida, ed aveva raggiunto il loro furgone. Il sole aveva cominciato a sorgere e lui aveva perso velocità ma era giunto appena in tempo. I suoi capelli avevano cominciato a fumare un poco e ora, seduto con la schiena poggiata alla parete del furgone, a grossi respiri, si stava riprendendo. Aveva una gran sete ma doveva trattenersi perché l’unica umana che aveva vicino era una donna incinta a cui aveva appena salvato la vita, e dissanguarla non sarebbe stato un gran finale.   
Eliza stava piangendo a dirotto. “Charlene…”. Guardava Dubris implorante, con gli occhi che traboccavano lacrime a non finire, una disperazione lacerante sul volto. “Ti prego… Dobbiamo tornare indietro e salvare Charlene!”. 
Dubris scosse la testa, sentendo un grossissimo nodo alla gola. “Non posso più uscire, Eliza, c’è il sole”. 
“Ti prego…” continuava a singhiozzare lei. 
Lui non ce la faceva più. Aveva le orecchie perforate dal suo pianto e non poteva fare più niente per aiutarla. Si sentiva inutile e stupido, impotente… Cosa sarebbe successo a Charlene? Forse… forse se la sarebbe cavata, in fondo era un vampiro. 
“C’è il sole” ringhiò, costernato, tirando un pugno sul pavimento “C’è il sole…”. 
“Lascia andare me” disse Eliza “Lascia andare me!”. Si alzò in piedi, accingendosi ad uscire ma Dubris in un attimo le fu addosso con un abbraccio strettissimo. “Smettila, moriresti!”. 
“Devo salvare mia figlia!” strillò lei. 
“E’ un vampiro! Non è più tua figlia!” gridò lui, continuando a stringerla. Non l’avrebbe mai lasciata andare, avrebbe fatto di tutto pur di proteggere almeno lei. 
Eliza sembrò acquietarsi un attimo poi scoppiò a piangere più forte. Guardò Dubris con odio e disse: “Anche tu sei un vampiro. Credevo che non facesse differenza”. 
Dubris annuì, poi scosse la testa subito dopo. Era confuso, era tutto assurdo, quella battaglia era andata in un modo così strano… così sbagliato. 
“Tutti i vampiri perdono la propria famiglia, tutti…”. 
Eliza si riagitò tra le sue braccia. 
“Vuoi uccidere anche il bambino che porti in grembo?” sbottò Dubris “Non andare, fallo per lui”. 
La donna si calmò di nuovo e poi scivolò giù dalle braccia del vampiro, cadendo sulle ginocchia, gemendo atrocemente. 
Dubris si chinò a terra insieme a lei e le prese le mani. “Mi dispiace, davvero, mi dispiace…”. 
Eliza continuò a piangere così forte che l’altro fu tentato di mettersi le mani sulle orecchie. Per lui era tutto moltiplicato, il sentire, il vedere, il soffrire… Ma si trattenne. Rimanse con le mani nelle sue, ad aspettare, chissà cosa. 
  
  

Il dolore era immenso e Acilia doveva riuscire a premere quel maledetto grilleto prima che il fucile le si sciogliesse in mano, per il contatto con la sua pelle, o prima che la mano le cadesse. Doveva farlo, l’aveva promesso: uccidere Kaeso e consegnarsi agli umani! 
Un urlo la raggiunse, ancora quell’urlo, questa volta più straziante… 
“Papà!”. 
Roteò gli occhi, o un occhio, la vista la stava abbandonando, liquefacendosi e nella luce che divampava e uccideva tutto vide un incendio. Era la bambina, quella povera bambina trasformata da Kaeso. Aveva i capelli e il vestito in fiamme e gridava tantissimo. Li aveva seguiti! Ad Acilia parve di rivedere Lolita, crogiolarsi in lingue di fuoco, mentre urlava all’ingiustizia umana e a tutto ciò che c’era di crudele. 
Poi sentì Kaeso gridare disperatamente il nome di Charlene ed Acilia desiderò di aver premuto subito il grilletto, per risparmiare a lui quella vista infame. Solo un mostro poteva trasformare un bambino in un vampiro per divertimento, ma non era un mostro il creatore che urlava così furiosamente vedendo la morte di un suo creato. 
Lei è un creato diverso dagli altri. Lei, per quella parte di lui sepolta e scomparsa, è Iulia. 
Acilia premette il grilletto con un ultimo sforzo e un ultimo urlo, proprio contro il petto di Kaeso, mentre gli guardava il volto stravolto dalle fiamme, dal dolore, dall’amore. 
Allora Viridio non è morto del tutto. 
Riuscì a udire lo sparo e riuscì a vedere Kaeso esplodere in un mare di sangue, avvolto da un mare di luce, così intenso e accecante. Poi gli spasimi e le fitte di dolore aumentarono vorticosamente e Acilia dovette abbandonare il fucile perché la sua mano non esisteva più – non se la sentiva più – e poi si accasciò a terra, o quella che pensava fosse terra, perché intorno a lei era tutta luce, e tutto fuoco. E lei bruciava. 
  
  

Dubris provò quella sensazione, di nuovo. Il suo petto che sembrava lacerarsi, un dolore così forte da farlo urlare. Dovette allontanarsi da Eliza e rimase sul pavimento del furgone, a contorcersi, senza sapere perché. Ramona non poteva essere morta due volte e lui non sapeva di chi stesse il suo corpo piangendo la morte. Ma un creatore del resto, da qualche parte, doveva avercelo anche lui. 
Ed evidentemente stava morendo.














Ormai ci siamo, mancano solo due capitoli, ma mi vedo costretta a rimandare il prossimo a fine luglio perché tra poco parto :) intanto non abbandonatemi! Entro agosto la storia sarà conclusa! Alla prossima! E buoni esami/vacanze (madonna che ossimoro) a tutti :)


ps: l'azione lascia sempre a desiderare, lo so.. abbiate pazienza XD























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Capitolo 28
*** All'origine ***


Ventisettesimo capitolo
CAPITOLO XXVII
ALL’ORIGINE
 
 
 
Era tornata bambina. Si sentiva bambina. Correva con le gambe nude esposte al sole, bianchissime, ma calde. Correva lungo una spiaggia e i suoi piedi morbidi e bianchi venivano bagnati dal mare, che veniva e se ne andava, e tornava, e si ritraeva, continuamente. La sabbia umida si alzava coi suoi passi, insieme agli schizzi, e a lei veniva voglia di ridere.
Il sole era bello e la riscaldava, finalmente poteva di nuovo vederlo. Ora poteva vederlo perché era libera. Aveva pagato per i suoi delitti e scontato i suoi peccati. Ora poteva essere felice.
La sua corsa non si fermò nemmeno quando vide una nuvola passare sopra il sole. Lei non ci fece caso. Ma poi ne arrivarono altre e il cielo si fece sempre più scuro. Qualcosa stava inghiottendo il sole e lei voleva smettere di correre ma non ci riusciva. Il giorno stava diventando notte e il sole le era alle spalle. Il mare divenne più schiumoso e irrompeva bruscamente sulle sue gambe. Il pezzo di cielo verso cui stava andando era sempre più nero e lei si rese conto che non stava andando da nessuna parte.
Stava solo tornando indietro.
 
 
 
Era tutto il giorno che Jacque provava a chiamare Acilia e Dubris. Il sole tra poche ore sarebbe di nuovo tramontato e lui non aveva chiuso occhio. Lui ed Eike erano rintanati nello scantinato della casa, ma adagiarsi sul pavimento e dormire era impensabile.
“Lo sapresti se lei fosse morta” disse Eike, sdraiato per terra e girato su un fianco.
“Mi sento strano” rispose Jacque, agitato “Ho una brutta sensazione e un vuoto allo stomaco… È questo? Vuol dire che lei è morta?”
Eike alzò gli occhi al cielo. “Quella si chiama fame.”
L’altro sbuffò e fece due passi, carcando di calmarsi. Eike aveva ragione. Erano affamati e preoccupati, ma Acilia stava bene. Altrimenti non se lo sarebbe chiesto ogni due secondi, lo avrebbe saputo e basta. E attendere il momento in cui forse si sarebbe accasciato a terra per l’orribile consapevolezza, quella era la cosa peggiore.
“Non risponde nemmeno Dubris” sbuffò ancora.
Eike rimase immobile nella sua posizione. “Forse è lui che è morto.”
Jacque non rispose ma la sua preoccupazione cresceva. Non credeva che si sarebbe mai dispiaciuto per Dubris.
Le sue orecchie avvertirono un rumore provenire dal piano di sopra. Era lieve, proveniva dall’esterno della casa. In un lampo si precipitò su per le scale e fu in salotto. Eike era dietro di lui, con la stessa espressione attenta.
Qualcuno stava bussando al portone della villa e Jacque si sentì tirare per un braccio.
“Facciamo attenzione” gli disse Eike.
“Sarà Acilia” ribatté l’altro, felice e stordito come non mai.
“Facciamo attenzione comunque” ringhiò il biondo, passando avanti.  Jacque non replicò, cercando di contenere la propria agitazione. Era Acilia? Dubris che veniva a dire loro che Acilia era morta? Ma Jacque l’avrebbe saputo… E se fosse stato Dubris che era venuto per dire loro che Acilia si era già consegnata? Lei non era ancora morta… E se fosse stato un umano? Una squadra di cercatori? Acilia aveva rivelato la loro posizione? Oppure… Kaeso? Era venuto per prendersi un pezzo della sua famiglia? Jacque rabbrividì. Ma poi si avvicinò cautamente alla finestra chiusa per sbirciare oltre il vetro, stando attento a non lasciarsi catturare dai raggi di luce.
Fuori dalla porta c’era una figura alta di donna insanguinata e Jacque trattenne il respiro.
Claire lo squadrava con un sorriso maligno, gocce di sangue che colavano dalle zanne, i capelli biondi che riflettevano la luce del sole.
 
 
 
Le immagini sfuocate intorno a lei stavano poco a poco riprendendo forma e colore e lei riusciva a sbattere le palpebre. Le sentiva meno pesanti e il terribile caldo che aveva provato stava lentamente andandosene. Un corpo ce l’aveva ancora, ferito e dolorante, ma la schiena le obbediva e l’alzò, mettendosi seduta. Un tremendo capogiro la colse e sputò sangue. Si guardò le braccia, segnate da graffi, pezzi di pelle bruciata, fori che si stavano chiudendo. Acilia digrignò i denti per il male, e non capiva. Stava bruciando, non doveva morire?
L’ultima cosa che ricordava era che stava bruciando… poi c’era quella spiaggia, calda, infuocata…
“Aci! Acilia!” gridavano intorno a lei “Si è ripresa!”
Finalmente Acilia alzò lo sguardo e ciò che vide la raggelò. Intorno a lei stavano distesi tre corpi bianchi di umani. Morti.
Dissanguati.
“No…” biascicò, ritraendosi sconvolta “No…” Scalciò strisciando all’indietro, ignorando il dolore e urlando. Allora era così, era sopravvissuta a spese di altri! Aveva dissanguato tre persone per potersi riprendere! C’era qualcosa di davvero demoniaco in lei, che non voleva lasciarla morire…
“Stai bene?”
Acilia inquadrò il volto di Victoire. Sembrava stare bene e accanto a lei c’erano i suoi compagni. Ma mancava qualcuno… mancavano… Li cercò con lo sguardo. Erano nel salone della casa di Kaeso. Non c’erano più tende alle finestre e dai vetri si vedevano il cielo chiaro e una pallida luce di sole. Si rese conto che le tende rosse erano a terra, sul pavimento, delle quali una era proprio accanto a lei.
“Kaeso è morto” disse Victoire.
Morto, morto davvero… Perché lei non lo era?
“Ci siamo coperti con le tende e ti siamo venuti a prendere. Stavi bruciando.”
Lo so, pensò Acilia, lo so che stavo bruciando, maledizione…
“Ti abbiamo dato del sangue per…”
“Delle persone.” Acilia parlò per la prima volta, arrabbiata, con voce spezzata e affaticata. “Mi avete dato delle persone. Chi erano?”
“Prigionieri di Kaeso” rispose Luca “Erano gli unici umani nei paraggi, tu avevi assolutamente bisogno di…”
“Di essere lasciata in pace, ecco di cosa avevo bisogno” farfugliò l’altra. Tossì subito dopo, sputando ancora sangue. Guardò con odio tutti i presenti. Molti si lasciarono intimorire, Luca era contrariato, Vicotire aveva affilato lo sguardo. “Tu vuoi morire, d’accordo, ma non puoi farlo subito. Non puoi lasciarci così, senza dirci cosa fare dei prigionieri e della Rappresentanza.”
Acilia si guardò intorno e vide che legati con dell’argento c’erano innumerevoli vampiri, sul lago di sangue che apparteneva ai caduti. Poi rifece scivolare lo sguardo sui tre umani morti. Erano due donne giovani e un uomo. “Siamo venuti qui per salvarli” bisbigliò “Siamo venuti qui per fermare Kaeso e salvare gli umani…”
“Non è vero” insistette Victoire “Siamo venuti qui per fermare Kaeso, e salvare l’umanità.”
Acilia voleva rispondere ma, ancora, rantolò.
Noi proteggiamo gli umani, voleva dire. Voleva urlarlo, voleva urlare quello che aveva sempre pensato Jacque, quello che aveva capito anche lei – ipocriti! Quello che pensava anche Kaeso – Acilia boccheggiò col sangue tra i denti.
Insensibile, pensò, mentre a fatica si rialzava in piedi ed evitava lo sguardo di Victoire. Quando marchi la differenza tra umani e umanità, allora sei diventato insensibile.
“La loro vita valeva più della mia” biascicò.
“Non dire sciocchezze” replicò qualcuno.
Acilia cercò chi avesse parlato. Pensò a Dubris ma lui non c’era.
“Non sembra che abbiamo vinto” borbottò qualcun altro.
Acilia ignorò i commenti e le voci che si levarono dal gruppo e passò oltre, zoppicando, sentendo la sua faccia ancora bruciare. Guardò oltre il portone, tentata di fuggire di nuovo sotto il sole.
Codarda.
Le avevano messo sotto il naso tre umani e lei li aveva finiti in un lampo, senza neanche accorgersene.
Per quanto tu lo desideri, non sarai mai una vittima. Non stanotte e neanche dopo.
Allora lei era ancora attaccata alla vita. Perché?! Odiava pensare che Kaeso potesse avere ragione.
Tu non ti consegnerai mai, non ti suiciderai mai!
Ti sbagli di grosso, Kaeso, pensò, tu non mi conosci, non mi conosci…
E se invece fosse colui che ti conosce meglio di tutti?
I tre corpi morti ai suoi piedi, erano tre come potevano essere venti… Era quella la sua vera natura…
Si girò di scatto verso gli altri, ansimando per la paura, anche se di paura ormai non doveva più averne.
Se hai paura, hai ancora qualcosa da perdere.
“Victoire” chiamò. La stimava poco, quell’amica. Eppure stimava molto meno se stessa. “Dov’è Dubris? E Ramona?”
Quella non parlava e Acilia gridò: “Dove sono?!”
Victoire scosse finalmente la testa.
Acilia rimase a fissare tutto quel sangue sul pavimento, tutti quei vampiri, tutte quelle persone.
Se hai paura, non sei ancora pronta per morire.
Crollò sulle ginocchie e non riuscì a dire altro.
 
 
 
“Non… non dovresti dormire?”
Dubris, rintanato in un angolo del furgone, alzò lo sguardo verso Eliza, seduta dalla parte opposta.
Era molto stanco, ma non faceva altro che rimanere immobile e assorto.
“D-Dubris…” balbettò ancora la donna.
Lui scrollò le spalle. “Prova tu a dormire. Io rimango di guardia.”
“Cosa stiamo aspettando?” domandò lei, mettendosi a carponi e avvicinandosi.
“Non lo so…” ammise Dubris. Lanciò un’occhiata ai sedili del furgone, illuminati dalla luce che filtrava dal finestrino. “Appena cala la sera andrò a vedere che è successo.”
“Ma…”.
“Per il momento non sta succedendo niente. Di giorno i vampiri sono più deboli, non stanno combattendo.”
Eliza annuì e tirò su col naso.
No, non rimetterti a piangere.
“Quell’urlo… Me lo vuoi dire perché hai urlato così prima?”
Prima poteva voler dire interi giorni prima, o solo qualche ora, o addirittura pochi minuti. Dubris non lo sapeva, era tutto così lento.
“È morto il mio creatore” rispose. Non aveva creati oltre a Ramona e Ramona era già morta, e quella era l’unica spiegazione.
“Il tuo… quello che ti ha trasformato?”
Dubris annuì. Era così strano… A qualche decina di metri da loro stavano combattendo dei vampiri e il suo creatore era morto. Non aveva certezze a riguardo ma… sembrava proprio che il suo creatore fosse all’interno della villa di Kaeso. Non si stupì. Chiunque fosse non poteva altro essere che uno della razza peggiore se l’aveva abbandonato appena creato.
“Quindi… sei contento?” domandò Eliza.
Dubris sorrise dell’ingenuità della donna. Pensava che i vampiri odiassero i loro creatori. Certo, non faceva una piega. In verità non era mai così, ma Dubris, Dubris lo detestava davvero il suo creatore. Anche se una strana malinconia lo attanagliava. Forse quel dolore gli aveva ricordato la perdita di Ramona, o forse il rimpianto di non aver conosciuto il suo creatore.
“Ti prego, rispondimi” fece Eliza, asciugandosi gli occhi “Se non mi tengo impegnata, se non parlo… impazzirò.”
Dubris la guardò e notò i suoi occhi fiammeggianti. Spalancati, rossi di pianto, incavati nelle orbite e due occhiaie profondissime. Un’espressione che sembrava non potesse mai più aggiustarsi.
Già due lacrime le stavano percorrendo il volto stanco e Dubris si decise a parlare: “Voi umani credete che noi vampiri siamo senza cuore. Beviamo il vostro sangue, trasformiamo altre persone… Ma spesso lo facciamo per non sentirci soli. Ci costruiamo una famiglia.”
Eliza non disse niente, neanche un battito di ciglia.
“Quando un vampiro crea un altro vampiro, non è mai un atto di crudeltà. È un atto di fiducia, di affetto, di compassione, a volte anche d’amore” proseguì Dubris. Guardò Eliza e non si stupì di vederla perplessa. Cercò le parole giuste per dire quello che voleva: “Sono sicuro che Kaeso non odiasse Charlene. Charlene non è morta circondata d’odio.” La sua voce si incrinò mentre vedeva gli occhi di Eliza rigonfiarsi di lacrime.
“Il mio creatore invece mi ha abbandonato” disse ancora “Non l’ho mai conosciuto, nessuno mi ha mai parlato di lui… però so che è morto. Buffo, no?” Eliza si asciugò ancora gli occhi, senza staccarli da lui. “Lui l’ho odiato, oh se l’ho odiato. Perché mi ha trasformato senza neanche darmi una spiegazione” continuò Dubris “Però… Ora che è morto… Mi dispiace. La verità è che avrei voluto conoscerlo. Avrei voluto chiedergli perché mi ha creato, perché mi ha lasciato, se l’ha fatto apposta, se è stato costretto…” La sua voce diventava sempre più bassa, mentre dava sfogo a tutto ciò che non aveva mai detto a nessuno. “Era l’ultimo pezzo del puzzle, e ora non posso più averlo. Senza di lui non potrò mai capire certe cose della mia vita perché purtroppo lui fa parte di me.”
Eliza singhiozzò e si mise una mano davanti alla bocca. Fece un profondo respiro poi disse: “Non posso più credere che voi vampiri siate senza cuore.” Sembrava volersi avvicinare ma poi rimase ferma dov’era. “Io ho perso mia figlia…” pianse “Tu hai perso la tua… Non avrei mai pensato di… di poter accumunare le due cose.”
Dubris sentì una stretta allo stomaco. “Io e Ramona siamo stati insieme sette secoli” disse, in tono spento “Tu e tua figlia sette anni. Neanch’io pensavo di poter accumunare le due cose.”
Eliza gli punto gli occhi addosso, annacquati ma sempre più curiosi, quasi affascinati. “Chi sei tu? Chi siete voi che siete entrati nella casa di Kaeso?”
“Siamo i vampiri che credono nella convivenza pacifica con gli umani” rispose Dubris, semplicemente, come se fosse semplice “Ci nutriamo senza uccidere e cerchiamo di dare meno fastidio possibile. Kaeso aveva preso il controllo di troppi vampiri, e noi avevamo il dovere di fermarlo.”
Eliza aveva gli occhi ancora più sgranati. “Gli altri che stavano combattendo… Sono tuoi amici?”
Dubris fece un sorrisetto. “Le amicizie più lunghe di sempre.”
“Hai paura di perdere anche loro?”
Lui si sentì come oscurato, dal pensiero di Acilia. Ci aveva pensato, e se fosse lei ad essere morta? Le voleva talmente tanto bene che il suo corpo la percepiva come sua? Per quello aveva urlato? Aveva un senso, poteva averlo. In cosa doveva sperare? Cosa preferiva? Aver perso il proprio creatore o Acilia?
“Quando sei un vampiro hai sempre paura di perdere qualcuno. O perdi te stesso, o tutti gli altri.”
 
 
 
Eike lanciò un grido e indietreggiò. Gli occhi gli stavano facendo uno scherzo, non poteva essere vero quello che vedeva! Claire era uscita dalla sua tomba prima del tempo e ora stava fuori alla luce del giorno.
Lanciò un’occhiata Jacque e vide che anche lui era tremendamente confuso.
“Facciamola entrare” disse, ripuntando lo sguardo su quella terribile Claire, che continuava a scrutarli con occhi rossi e folli.
“Non brucia al sole” farneticò Jacque, sconvolto “Non brucia al sole… Chissà cos’altro può fare! No, non possiamo…”
“Jacque!”
“È pericolosa!”
Eike batté un piede a terra come un vero bambino e poi puntò un dito contro il vetro della finestra. “È più pericolosa per gli umani là fuori! Di chi credi che sia tutto quel sangue?!”
Sapeva di aver toccato un tasto dolente. Dopotutto durante il giorno Emily non se ne stava in casa impaurita. Non aveva motivo di temere per la propria vita di giorno, ma se ci fosse stato un vampiro come Claire…
“Okay” fece Jacque, frustrato. Avanzò verso la porta e mise una mano sulla maniglia. “Stai indietro, Eike.” Non sarebbe entrata solo Claire, ma anche qualche raggio di luce.
Eike obbedì e non si mosse.
Jacque aprì la porta, standosene dietro, senza sporgersi dalla soglia e con un lungo balzo Claire entrò. Lui si affrettò a spingere la porta per richiuderla e il sole uscì in un lampo così com’era entrato.
“Claire?” tentò Eike.
La donna si voltò, ingobbita e con un lieve ringhio sul volto. Non era più lei, quella cosa non poteva più essere una donna che amava vestirsi bene e truccarsi. Era così primitiva
“Claire, sai chi sono io?” domandò di nuovo Eike.
Lei si pulì con il braccio la bocca, facendo gocciolare sangue tutto intorno. “No” rispose.
La delusione di Eike era immensa. Sconfortato, guardò Jacque. Questi si rivolse a Claire, con cautela: “Sai chi sei tu?”
Gli occhi di lei si illuminarono. “Sono Dio.”
Eike rimase interdetto. Questa non se l’aspettava proprio.
“Ma davvero?” fece Jacque, nervoso.
“È impazzita, non è Dio” ribatté Eike.
“Beh” continuò l’altro, sempre più nervoso “Il fatto che sia un vampiro che non brucia al sole potrebbe essere una prova convincente.”
“Voi che osate chiamarvi vampiri” tuonò Claire, emanando quasi dei lampi dagli occhi rossi, ancora cerchiati di trucco e sangue “vi siete pateticamente rammolliti. Sono tornato per diffondere il mio seme ancora una volta.”
“Il tuo… cosa?”
“Potere, potenza, potenzialità” proseguì la donna, avanzando un passo ad ogni parola “E crudeltà.” Sul finale sibilò e la sua lingua si sciolse in sangue, per poi ricomporsi nuovamente, orribilmente appuntita.
“Te l’ho detto che non dovevamo farla entrare” disse Jacque, appiattitosi contro una parete, terrorizzato.
Eike fissava il volto un tempo candido di Claire e la sua mente lavorava febbrile. “No” disse poi, rivolto al suo creatore “Pensaci, Jacque… Se è Dio come dice di essere, perché sarebbe venuta da noi?”
Era sangue schiumoso quello che usciva continuamente dalla bocca della donna, come fosse la sua bava, come fosse un animale.
“È Claire che l’ha condotta qua, la vera Claire” proseguì Eike, serrando i pugni “Vuole che la fermiamo.”
 
 
 
Era calato il sole e finalmente potevano uscire dalle mura della villa.
Acilia non poté fare a mano di cercare le ceneri di Kaeso sparse per il prato. Avrebbero potuto esserci anche le sue lì in mezzo, magari proprio mescolate a quelle di lui, così come doveva essere. Non meritava altro che quella fine.
La finiamo come l’abbiamo cominciata, Aci. Con te che mi uccidi.
Aveva ripetuto tutto, ma questa volta non era uno sbaglio. Non era uno sbaglio ucciderlo, era stato uno sbaglio non morire con lui. Quello che gli aveva detto… così tanto tempo prima…
Promettimi che non mi abbandonerai.
Non aveva mantenuto la promessa, fino alla fine.
Mi hai ucciso tu, ora non mi puoi più abbandonare, me lo devi… Me lo devi!
Morire insieme a lui… Gli doveva semplicemente questo. Quando aveva visto quella bambina trasformata, l’aveva capito. Lei gli aveva strappato la vita, l’aveva fatto impazzire e l’aveva fatto impazzire di più, abbandonandolo.
Me lo devi… Me lo devi!
Kaeso urlava ancora nella sua testa e lei non riusciva più a sopportarlo. Sopportare tutto quello che aveva fatto, sopportare di aver ucciso il suo creato… Di averlo abbandonato ancora, nel modo più crudele. Quel dolore così forte, divampato insieme alle fiamme, era convinta che l’avrebbe uccisa.
Le sue gambe erano pesanti. Non vedeva l’ora di essere davanti agli umani, non vedeva l’ora di essere giudicata, condannata… Ne aveva un eterno bisogno. Non ti ho abbandonato, Kaeso, pensava, ti raggiungo, ti raggiungo.
Lo raggiungi dove?
Il segreto che Lyuben custodiva, ora Acilia avrebbe avuto il tempo di leggerlo. Non voleva leggere quella lettera, aveva paura… Con la mano cercò all’interno della tasca dei pantaloni. Era ancora lì, spiegazzata ma intatta. Se l’era portata dietro, per qualche motivo, credeva forse che l’avrebbe protetta? Credeva che avrebbe potuto leggerla? Ma il destino le aveva regalato ancora un po’ di tempo. E poi forse avrebbe raggiunto Kaeso e, chissà, gli avrebbe chiesto scusa.
Si mise in allerta, perché qualcosa si stava avvicinando. Un motore, ruote che graffiavano il sentiero… Possibile che…
Ci fu un coro di sorpresa e il loro furgone apparve proprio davanti a loro. La portiera si aprì e uscì Dubris.
Acilia si portò una mano alla bocca, stordita dalla contentezza. Doveva trattenersi, doveva mantenersi fredda, pronta a sposare la morte e invece corse verso di lui e gli gettò le braccia al collo.
“Dubris!”
Lui la strinse. “Aci… Sei viva” Dopo poco la lasciò andare e il vampiro venne accolto da altre esclamazioni entusiaste. Finalmente c’era aria di vittoria.
“E così” disse poi lui, guardandosi intorno “Kaeso è morto.”
Ci furono mormorii di assenso, che poi divennero veri e propri boati di gioia.
“Questo furgone lo possiamo usare per i prigionieri” intervenne Victoire, calma, addirittura un poco accigliata, discostandosi dai festeggiamenti e aprendo il retro del furgone.
“No, aspetta!” esclamò Dubris, correndo verso di lei. Ma Victoire stava già osservando stupita ciò che vi era all’interno. Acilia si accostò a loro e vide una donna che doveva avere all’incirca l’età di Curtis, dai capelli ruffi che se ne stava rannicchiata con due occhi spaventati.
“Sei riuscito a salvarla” fece Victoire, sbattendo le palpebre.
“Cos’è questo tono stupito?” replicò Dubris, con un mesto sorriso.
La donna, come presa da un improvviso e folle coraggio, uscì dal furgone e si guardò intorno, terrea. “Mia figlia… Mia figlia… Non è tra voi?”
Acilia capì immediatamente che si trattava di quella Charlene. Nessuno rispondeva ma lei si avvicinò all’umana, assumendosi le sue responsabilità – le sue colpe – senza sforzarsi nemmeno di trovare le parole giuste. “È bruciata, l’ho vista.”
La donna si premette una mano sulla bocca, come per impedirsi di urlare. Strinse gli occhi – dovevano bruciare parecchio, le lacrime. Stava per cadere a terra ma Dubris, che era al suo fianco, la sorresse.
“È meglio così, mi creda” proseguì Acilia “Una persona intrappolata nel corpo di una bambina vampiro… Neanche si immagina quanto avrebbe sofferto.” L’immagine di Eike le percorse la mente. Con Jacque, un creatore fantastico, più simile a un padre, sempre al suo fianco.
L’umana non disse niente, si limitò a piangere più forte. Dubris la prese in braccio, come fosse una piuma, e la portò sul sedile anteriore del furgone. Chiuse la portiera e tornò dagli altri.
“Li porto io i prigionieri col furgone. Voi andrete volando” disse.
“Dubris” fece Acilia, sforzandosi di non tendere le mani verso di lui “Ramona…”
Lui abbassò le palpebre. “L’ha uccisa Kaeso, ne sono sicuro.” Riaprì gli occhi e con essi cercò lei. “Sono contento che tu l’abbia ammazzato.”
Acilia chinò il capo, sentendosi le viscere contorcersi per la tristezza. Era il sangue, che non ribolliva più di rabbia, ma lento e addolorato strisciava sotto la sua pelle.
“Cosa ne faremo dei prigionieri?” domandò Luca, avanzando un passo, interrompendo il silenzio che era appena sceso.
Acilia aveva ancora la testa abbassata ma sentiva gli occhi di tutti puntati su di sé. “Non morirà più nessuno per la follia e gli errori di qualcun altro” disse, in tono spento ma deciso “Abbiamo delle prigioni, usiamole.”
Nessuno disse niente e lei non volle neanche vedere che tipo di sguardi si stessero scambiando.
“Muoviamoci allora” annunciò Victoire.
Intorno a lei tutti si mossero ma lei vedeva ancora i piedi di Dubris che puntavano esattamente nella sua direzione. Alzò la testa, pensando a cosa potergli dire – e da dire ce n’era troppo – ma fu lui a parlare.
“Aci… Durante la battaglia, poco dopo il sorgere del sole… Chi è morto?”
Acilia aggrottò la fronte. Non si aspettava una domanda del genere.
“Kaeso” rispose.
Dubris si mordicchiò il labbro. “Solo lui?”
Acilia non ne era sicura ma credeva che, una volta sorto il sole, tutti gli altri avessero smesso di combattere. “Solo lui.”
L’altro sembrava sconvolto e lei non ne capiva il motivo. Voleva chiedergli cos’avesse – ma ne aveva poi il diritto? Era stata talmente poche volte sincera con Dubris che ora non riusciva più a dire nulla.
“Rispetto la tua scelta” disse poi lui.
Acilia alzò le sopracciglia. “Cosa?”
“Se ti consegnerai agli umani mi dispiacerà molto” spiegò ancora lui “Ma rispetto la tua scelta.”
Lei non fece in tempo a rispondere che lui subito si voltò, diretto ad aiutare gli altri nel caricare i prigionieri sul furgone, che scalciavano e si lamentavano. Uno minacciava di mordere e Luca gli aveva staccato le zanne a mani nude.
Dubris aveva detto che rispettava la sua scelta, motivo in più per cui Acilia poteva andarsene serena. Ma ora era di nuovo spaventata, era davvero quello di cui aveva bisogno? Sentirsi dire che poteva andare tranquilla, che faceva la cosa giusta… Nei giorni precedenti non aveva mai voluto parlare con Dubris perché temeva che potesse farle cambiare idea. In realtà forse aveva solo paura che lui non lo facesse.
 
 
 
Jacque teneva salda nella mano la pistola, con la testa quasi svuotata. Era incredibile quello che stava capitando ma non doveva avere paura. Se moriva non avrebbe perso niente. Ma Eike sarebbe rimasto solo, senza più né lui né Acilia…
“La dobbiamo uccidere” disse Eike, a malincuore.
Eike voleva bene a Claire, Jacque l’aveva capito tardi. Non poteva lasciargli fare una cosa del genere. Dopotutto era anche colpa sua se erano finiti in quella situazione, doveva fare qualcosa per rimediare!
“Lo farò io” disse, deciso.
Eike non ribatté e Jacque capì che allora era la cosa giusta da fare. Non fece in tempo ad alzare il braccio che Claire gli fu vicinissimo, col petto premente contro la canna della pistola. Jacque rimase talmente interdetto che la sua mano rimase immobile.
“Questo corpo non è invincibile e morirà” disse la donna, lasciando correre rivoli di sangue giù per il mento a ogni parola “Ma io ho già morso tre umani, che sono già diventati vampiri. Veri vampiri.”
“Già diventati… ma cosa…” farfugliò Eike.
Jacque si sentiva come ipnotizzato dallo sguardo di Claire. Non aveva senso, non poteva avere senso. I vampiri non incantano altri vampiri…
“E questi vampiri morderanno altri umani. È il ricambio generazionale, miei cari. Voi siete vecchi e spenti ormai” proseguì lei, con un ghigno.
Jacque poteva sparare in qualunque momento, ma non lo faceva. Aveva paura di uccidere Claire di nuovo? Aveva paura di fare un torto ad Eike?
“Non capisco” disse “Non capisco proprio niente di quello che stai dicendo.” O forse voleva capire? Voleva sapere?
“Ho morso tre umani” ripeté Claire, parlando più lentamente e spalancando gli occhi “Proprio come l’ultima volta.”
Voleva davvero sapere?
Jacque sparò finalmente un colpo e la pallottola di legno si piantò con un boato nel corpo dello strano vampiro, che cominciò ad emanare luce, prima di sgretolarsi in tanti piccoli pezzetti insanguinati, e poi l’esplosione, e tutto nel salotto venne imbrattato di rosso.
Era morta.
Jacque fece cadere la pistola, attonito, mentre Eike, lì di fianco, ansimava.
“Chi cazzo era, Jacque? Che cazzo è successo?” domandò, con un sincero panico nella voce.
“Non lo so” gli rispose l’altro, respirando fiaccamente “Non lo so.”
Ma se quella cosa era realmente Dio e davvero c’entrava con l’origine dei vampiri – Dio poteva forse c’entrare…? – Jacque preferiva non sapere altro.
 
 
 
Cara Acilia,
come ti ho detto, vorrei che tu leggessi questa lettera quando avrai preso la decisione più importante della tua vita. Sì, sono così ottimista da sperare che deciderai tu il momento della tua morte. Ma forse non è ottimismo, è giustezza. Non solo per ogni vampiro, ma per ogni essere vivente – anche gli umani, certo – dovrebbe essere consentito scegliere quando morire. Si parla di suicidio come un atto di debolezza. Non riusciva a reagire, dicono, non riusciva ad affrontare la vita, ha preferito scegliere la via più facile. Secondo me morire non è mai la via più facile. Come può essere facile andare incontro all’ignoto? È molto più semplice resistere, stare fermi, aspettare qualcosa che ci faccia sorridere. È sperare la cosa più facile del mondo. Capire quando è il momento giusto per andarsene, questa è la cosa più difficile. Mi chiederai allora cosa ho fatto io in proposito. Vedi, Aci, io so già che morirò per mano di Kaeso. Ho vissuto troppo a lungo per non capire ancora come funziona la mente delle persone, e per persone voglio intendere sia umani sia vampiri. Lui, sì, cercherà di uccidermi. O forse sarebbe più giusto parlarne al passato, visto che tu stai leggendo questa lettera, e se la stai leggendo io sono già morto. Eppure ho ancora qualche difficoltà a pensarmi come morto, forse è perché sono vivo da troppo tempo, perdona questa mia debolezza. Dunque – proviamoci –  lui mi ha ucciso. Perché? mi chiedi. Tu sei più forte, perché gliel’hai permesso? Perché andavi in giro da solo, senza una scorta? Le cose sono andate così perché lo volevo io, Aci. Avrei potuto elaborare un piano, se l’avessi voluto. Ci sarebbero stati mille modi per evitare di essere ucciso. Non voglio peccare di superbia, ma non sono debole né tantomeno sciocco. Ho lasciato semplicemente che gli eventi scivolassero in avanti. La mia ora era giunta, ero il vampiro più vecchio ancora in circolazione e non ho rimpianti. L’unico mio desiderio era che la mia morte – che mi avrebbe portato finalmente alla pace – avesse uno scopo, che servisse a qualcosa. Per questo ho deciso di lasciarmi uccidere da Kaeso: per aprirti gli occhi.
Kaeso è diventato malvagio e pericoloso, Aci, devi fermarlo e smetterla di temporeggiare. Lo so che alla fine riuscirai a fare ciò che devi. A te la scelta se cercare di fermarlo, catturarlo o ucciderlo. Prenderai una decisione e niente di ciò che farai sarà sbagliato. Solo a te spetta decidere quale sarà il suo destino, perché l’hai creato tu. Non essere sorpresa, lo so fin dal principio, ma volevo che lo capissi da sola che nasconderlo era inutile. Sono sicuro che crescerai, e che non mi deluderai.
Come so che sei la creatrice di Kaeso? Come so di essere il vampiro più vecchio nel mondo? Sono tante le domande che mi vorresti fare ed è per questo che ho scritto questa lettera. Quello che so riguardo alla nostra esistenza l’ho confidato solo a Ramona, perché è in lei che ho trovato una fedele e dolce compagna per la vita. Ma, ahimé, anche lei prima o poi dovrà morire e io non voglio che con lei muoiano anche tutte le risposte. Ho scritto questa lettera appositamente per te, Aci, e l’ho fatto per ringraziarti. Una volta letta, voglio che tu la consegni al tuo caro Jacque, quando verrà il momento. E dopo che Jacque l’avrà letta, la consegnerà ad Eike. Non voglio che sappiate la verità prima del tempo, non voglio che conviviate per un’eternità con questo segreto. È bello vivere senza pensieri. Ma è anche giusto che voi sappiate, prima di morire, a cosa andrete incontro.
È grazie a te, Aci, se ho scoperto che un’esistenza serena e non da assassini è possibile anche per noi vampiri. Quando ci siamo incontrati per la prima volta, era da tantissimo tempo che non mi nutrivo. Non volevo uccidere.
Una volta noi vampiri, quando ci trovavamo davanti un essere umano, avevamo ben poca scelta: bere il suo sangue, uccidendolo o trasformandolo. Bastava un morso. Un morso e se non bevevi tutto il sangue di quel poveretto, allora quel poveretto diventava un vampiro. Non ho mai trasformato nessuno. Per nutrirmi ho dovuto uccidere, mi sono sempre rifiutato di non andare fino in fondo.
Ma poi tu mi hai aperto un mondo. Ero rimasto indietro, non sapevo che il nostro morso avesse perso quella sua capacità… magica? La trasformazione era diventata una cosa più complessa, più artificiosa, più simile a un rituale.
Sarai sbigottita. Un solo morso per trasformare? Ebbene, Aci, non è questa l’unica capacità che abbiamo perso. Siamo sempre meno magici, sempre meno potenti, siamo sempre più vicini agli umani. Con Ramona ho fantasticato che un giorno i vampiri potrebbero addirittura estinguersi.
Sei confusa, me lo sento. Lascia che ti spieghi, lascia che ti racconti una storia. È la storia dell’origine dei vampiri. Vedrai che poi tutto sarà più chiaro.
Circa cinquemila anni fa è arrivato nel nostro mondo un essere di cui ovviamente ho solo sentito parlare. Era un essere mandato da Dio, a sua immagine e somiglianza, così mi han detto. Si nutriva degli umani, poteva volare, far fare agli altri ciò che voleva, camminava sia di giorno sia di notte, senza aver mai bisogno di riposo. Non aveva zanne e la sua pelle era lucente, non bianca. I suoi occhi erano sempre color del cielo, mai rossi. Così me l’hanno descritto. Questo essere ha morso tre umani, sparsi per il mondo. Questi tre umani si sono trasformati, senza prima morire. La loro pelle è diventata lucente e i loro denti sono diventati più appuntiti. I primi tre umani contagiati, i primi tre vampiri. Più simili all’essere divino che li ha morsi, che a noi. Uno di loro era Tahn-ka, il mio creatore. Gli altri si chiamavano Kas e Rankan. L’essere divino li riunì e disse loro di creare delle famiglie, di mordere più umani possibili, ma di sceglierli prima. Gli umani erano animali inferiori, ma andavano studiati e analizzati. Bisognava scegliere i migliori, quelli più forti, e diffondere con loro la propria razza. E poi l’essere se ne andò, così come era venuto.
Tahn-ka ha creato pochi anni dopo il suo primo vampiro. Non l’ho mai conosciuto perché venne presto ucciso da un membro della famiglia di Kas. Avevano una mente primitiva, Aci, sono sicuro che comprendi. L’essere divino avrebbe voluto che convissero pacificamente, avendo come unico nemico gli umani, ma invece i tre vampiri si facevano la lotta tra loro, per capire chi tra loro era il più forte, chi doveva essere il capo, il re.
Io sono stato il secondo e ultimo creato di Tahn-ka. Prima che rimanesse ucciso da Rankan stesso, Tahn-ka è riuscito a dirmi tutto ciò che ti ho spiegato fin’ora. Secondo lui avrei dovuto continuare a combattere, io, unico superstite della nostra piccola famiglia. Io ho ceduto subito le armi, preferendo vivere da solo una lunga e triste vita. Ero pallidissimo, all’occasione i miei denti si allungavano terribilmente e diventavano zanne, come quelle di un animale. Ero morto. Sono stato il primo umano a morire per colpa di un morso che non mi prosciugasse. E poi sono risorto, vampiro. Ci stavamo evolvendo. Non avremmo potuto avere le caratteristiche dei nostri padri per sempre, più ci mescolavamo con gli umani più le cose cambiavano.
Girovagavo per il mondo – al tempo c’era ben poco da vedere – e mi nutrivo infelicemente. Andavo velocissimo, più veloce di quanto tu possa immaginare, e neanche me ne rendevo conto. Incontravo spesso dei vampiri: era la famiglia di Kas quella che si stava più vistosamente allargando. Ho scoperto che anche altri vampiri, prima di venir trasformati, morivano. Anche loro erano pallidi, avevano le zanne e i loro occhi diventavano rossi per la fame. Stavamo poco a poco diventando dei mostri. E c’era di più: pareva che i più giovani corressero e volassero meno velocemente. Sempre più diversi dagli umani, ma sempre meno potenti.
Il sole cominciò a farci male quando io avevo più o meno cinquecento anni. Me ne sono sempre domandato il perché. Il sole, l’emblema di Dio, perché doveva volerci male? Perché non stavamo compiendo il suo destino abbastanza velocemente? O forse – ed è solo una mia ipotesi – il sole è quella parte di Dio che non avrebbe mai voluto l’espansione della razza di un mostro, a discapito degli umani. Ho cominciato ad elaborare questa teoria l’anno della venuta di Cristo. Credi in queste cose? mi chiederai. In realtà no, però vorrei. Vorrei credere che quell’essere piombato sulla Terra cinquemila anni fa non fosse il vero Dio, ma un impostore. Il sole ci ricorderebbe questo, in continuazione, tutti i giorni, che su questo mondo noi non siamo i benvenuti.
Ho imparato a girare solo di notte, mentre di giorno me ne stavo nascosto. Scoprii che altri vampiri più giovani di me avevano bisogno di riposare durante il giorno. Io invece non ero mai stanco.
Qualche secolo prima della venuta di Cristo, incontrai nell’antica Roma per la prima volta un vampiro che mi fece pensare bene della mia razza. Come me odiava la sua vita e si poneva tante domande, pur non trovando nessuna risposta. Era un uomo, più giovane di me di più di mille anni e apparteneva alla famiglia di Kas. Il suo nome era Marco. Ho saputo da lui che Kas e tutti i suoi creati erano morti, in quella stupida battaglia contro la famiglia di Rankan. Io e Marco ci siamo congedati, io ero fatto per stare in solitudine e, ti dirò, di questa mia scelta mi sono pentito. Poco tempo dopo seppi che Marco era diventato Prefetto dei vampiri di Roma. E seppi anche che aveva creato il suo primo vampiro: tu. Vedi, Aci, ti conosco da sempre, ma non pensavo che tu saresti diventata così importante per me. Marco è stato poi ucciso, lo saprai, da Camelio, quel vampiro orribile che ho avuto l’onore di combattere al tuo fianco. Se è Marco il primo vampiro che ha capito che non serviva più solo il morso per trasformare e ha trovato in questo piccolo dettaglio una via di salvezza per tutti noi, allora sono stato ben contento di accompagnarti in quella missione per vendicare la sua morte.
Di Camelio me ne aveva parlato già una volta Marco. Me ne aveva parlato con odio, lo vedeva come un pericolo. Bada bene, Camelio non era l’unico vampiro malvagio a quel tempo, ma era quello che stava acquistando sempre più pericolosamente fama. Camelio  era stato creato da un creato di un creato di Rankan. Può sembrarti uno scioglilingua, ma ecco come sapevo che in quella battaglia sarei stato il più vecchio. Rankan e i suoi creati erano morti, Aci. Io ero ufficialmente il vampiro più vecchio di tutto il mondo.
Come so che Kaeso è tuo creato? Dopo la morte di Marco, ho temuto per te. Già nutrivo del risentimento nei confronti di Camelio ma ancora di più avevo una strana voglia di occuparmi di qualcuno. Di fare un favore a Marco. Ho chiesto in giro a tutti i vampiri se sapevano chi fossi, se sapevano dove avrei potuto trovarti. Eri famosa, e puoi immaginarne il motivo. Io ti cercavo, Aci, non è un caso se ci siamo incontrati. Quando, quel felice giorno, incontrai te, Ramona e Dubris, non ero sicuro fossi tu, ma perché non ho detto niente? Volevo conoscerti per quel che eri e non per quel che di te avevo sentito dire. E, lo ammetto con gioia, non solo non hai deluso le mie aspettative, ma mi hai letteralmente sconvolto. Hai fatto un’evoluzione straordinaria, non ricadere nel tuo passato e lascialo andare. Non ti appartiene più. Sei un’altra persona ora e, come ti vergogni di quello che eri, ora devi andare fiera di quello che sei. Ti ringrazio ancora, e non c’è nulla che valga di più di un grazie. Non sappiamo ancora di preciso cosa incontreremo. Un Dio c’è e voglio sperare che sia buono. Qualcosa dall’altra parte c’è, Aci; ci rincontreremo.
 
Un abbraccio,
Lyuben
 
 
Acilia rilesse più volte diversi punti della lettera, stordita. Si lasciò cadere sulla poltrona del salotto di casa di Dubris, con quel pezzo di carta in mano. Si sentiva addirittura tremare ma contemporaneamente presa da una strana commozione. Sentiva ad un tratto Lyuben vicino, si immaginava la sua voce e la sua voce la confortava, era una bella sensazione che non voleva far andare mai via. Ma tutte quelle novità… Il fatto che Lyuben fosse morto per sua scelta! Per aprirle gli occhi… Lui sapeva… Sapeva tutto! E lei che si vergognava soprattutto con lui! Non doveva, ma si sentiva ancora più stupida. Il fatto che però Lyuben sapesse e che le volesse lo stesso bene, e che fosse morto per sua scelta, per ritrovare la pace… La faceva sentire meno in colpa. I primi vampiri, l’essere divino, quali cose incredibili!
Ci ricontreremo.
Presto, presto, ci rincontreremo presto, si diceva Acilia, eccitata e impaurita. Ma poi rilesse quell’unica riga in cui veniva nominato Jacque. Doveva dargli la lettera ed era giusto dargliela, cosicché sapesse anche lui…
Come fargliela avere? Non lo voleva vedere, non voleva essere costretta a dirgli addio, non voleva vedere quanto gli faceva male… Non aveva più pensato a lui, chissà a cosa pensava. Mi sta odiando, pensò Acilia, proprio come mi ha odiato Kaeso.
Si alzò in piedi e chiamò Dubris a gran voce.
Dopo poco lui arrivò dal piano di sopra. “Che c’è?” domandò, in allerta “Vuoi già andare?” Dubris sarebbe stata l’unica persona che avrebbe salutato, insieme a Lyuben, con quella lettera.
“Andrò tra poco” confermò Acilia. Gli tese la lettera. “Ti chiedo di dare questa a Jacque.”
Dubris la prese, perplesso. “L’hai scritta tu?”
“No” disse subito Acilia. Se ne andava così? Senza dirgli niente? Non trovava proprio altre parole se non che le dispiaceva, all’infinito. Poteva dirglielo, almeno quello. “Digli che la deve leggere solo quando sarà giunto per lui il momento di morire” continuò “E digli che mi dispiace tanto… E che gli voglio bene.”
Una fitta tremenda le prese lo stomaco. Voglio piangere, pensò, voglio piangere, forse poi potrò farlo.
Ma Dubris non allungò la mano, si limitava a guardarla torvo.
“Ti sembra giusto scappare così?” le disse “Non è un comportamento da veri creatori.”
Acilia sgranò gli occhi. Lo sapeva, ma si sentì offesa. “Non ho mai detto di essere una brava creatrice.”
“Con Kaeso hai sbagliato tutto, lo sappiamo” insistette Dubris “Ma per Jacque puoi fare ancora tanto! Almeno digli addio!”
Acilia si mordicchiò il labbro mentre guardava, sorpresa, l’ardore sul viso del suo amico. Proprio lui, che detestava tanto Jacque, ma che in realtà lo aveva a cuore, perché aveva a cuore lei.
La ragazza strinse gli occhi, come per far uscire lacrime fastidiose infossate da qualche parte nel suo corpo. “Come faccio… io…”
“L’ho chiamato io per te” la interruppe Dubris “Sarà qui tra poco.”
No, no…
Rivedere Jacque, dopo tutto quello che lui aveva scoperto di lei! Le girava la testa. Indietreggiò quando qualcuno bussò alla porta.
Perché mi fai questo, Dubris? Mi vuoi trattenere? Mi vuoi complicare ancora di più le cose?
“Io ho perso Ramona, Aci” proseguì Dubris, emanando dolore dagli occhi “So come sarà per Jacque perdere te. Non fare in modo che questo dolore venga improvviso e inaspettato.”
Acilia annuì, chiusa nel suo solito egoismo mentre Dubris andava ad aprire la porta. Nella stanza entrarono Jacque ed Eike e ad Acilia si sarebbe fermato il cuore, se avesse potuto battere.
“Ciao” fece, un po’ titubante, e chissà quale espressione aveva sul volto.
I due ricambiarono il saluto, non meno esitanti.
Acilia non riusciva neanche a ricordare da quanto tempo non parlasse con loro. Le cose avevano preso una piegha strana e tutto era precipitato all’improvviso.
“Eike” saltò su Dubris, con un tono che forse voleva essere allegro “Vieni, lasciamoli soli.”
Eike gli lanciò uno sguardo funereo ma non trovò da ribattere. Lo seguì ed entrambi sparirono su per le scale.
Acilia sospirò e si avvicinò a Jacque. Chinò il capo, non riusciva a – o non voleva – guardarlo in faccia.
“Non te lo farò fare” proruppe all’improvviso la voce vibrante di lui “Hai capito? Non te lo lascerò fare.”
Lei alzò la testa e vide il corpo di lui tremare. La guardava come non aveva mai fatto, il capo alto, senza vergogna ma con gli occhi sfavillanti e la mascella tesa. “Non mi puoi abbandonare, okay? Ne abbiamo passate tante insieme… Pensavo… Pensavo che avremmo continuato a sopportare insieme.”
Promettimi che non mi abbandonerai.
Acilia sentiva i suoi occhi sgranarsi mentre terribili deja vu le trapassavano la pelle come spilli appuntiti, facendola sanguinare all’interno.
“Sei tu che mi hai trasformato!” sbottò ancora l’altro “Tu mi hai legato a te, non te ne puoi andare così!”
Mi hai ucciso tu, ora non mi puoi più abbandonare, me lo devi… Me lo devi!
Non era Kaeso quello che disperatamente stava parlando davanti a lei, era Jacque, Jacque! Aveva ucciso entrambi, li aveva legati a lei per l’eternità, come un macabro e funesto matrimonio… Voleva morire perché aveva portato alla follia e ucciso Kaeso… E a Jacque, a Jacque non ci pensava più?!
L’immagine del volto triste e supplichevole di Jacque si sovrappose all’immagine del Kaeso triste e furente.
Stava per abbandonare anche Jacque? Avrebbe commesso lo stesso errore una seconda volta?
Non è che perché Jacque è un vampiro eccellente, non devi più preoccuparti di lui.
Lo aveva trasformato lei. Non si era comportata come aveva fatto con Kaeso ma aveva causato eterna sofferenza anche a lui! E lui meritava così tanto di più, rispetto a tutti gli altri…
Quindi non era ancora arrivato il momento per morire? Non era ancora l’ora giusta? Si sentiva pronta, eppure… Ma se continuava a legarsi alle persone che le stavano accanto non sarebbe mai stata pronta! Ricordò le parole di Lyuben.
Capire quando è il momento giusto per andarsene, questa è la cosa più difficile.
Strinse in un pugno la lettera, accartocciandone una parte. Era davvero difficile.
Quando avrai preso una decisione.
Quale decisione, Lyuben? Quale?
La più importante della tua vita.
Si riferiva palesemente alla morte. Decidere di morire, era questa la scelta più ardua, più importante…
Continuava a guardare Jacque, come ipnotizzata, come se stesse per la prima volta capendo qualcosa.
“E non ti sto dicendo queste cose perché non so cavarmela senza di te” proseguì lui, traboccante di sofferenza nella voce “Sono un vampiro indipendente ormai…” La fissava dritto negli occhi. Erano occhi bellissimi, grandi. Perché lei vedeva un’anima in quei occhi? I vampiri stanno perdendo potere, pensò Acilia, tenendo a mente la lettera di Lyuben, per questo Jacque non può volare ed è meno forte… Per questo forse lo vedo così umano, per questo mi sono lanciata tra le sue braccia.
“Te le sto dicendo perché ti amo” concluse lui, dopo qualche attimo di esitazione. Le si avvicinò, insicuro nello sguardo ma sicuro nelle mani, che le presero il volto e l’accarezzarono.
“Ti amo… ti prego, non mi lasciare.”
Amare, anche quella era una scelta importante.
Acilia si lasciò abbracciare senza opporre alcuna resistenza, completamente attonita, sentendo uno strano formicolio allo stomaco che non credeva di poter provare ancora. Nonostante vivesse da duemila anni, allora, poteva ancora provare qualcosa. L’abbraccio di Jacque… l’aveva dimenticato.
“Ti prego…”
Lui continuò a sussurrare contro la sua bocca, poi la baciò teneramente. Lei ricambiò il bacio e se avesse avuto delle lacrime le avrebbe spese tutte per quel momento.
Vivere, anche quella era una scelta importante.
Kaeso aveva torto. Non è che Acilia non avesse il coraggio, semplicemente non era ancora giunto il momento.
Kaeso aveva torto – o era l’unico ad aver ragione.
“Scusami” sussurrò lei, tra un bacio e l’altro, con le braccia al collo di Jacque “Scusami…” Si riferiva ad ogni cosa, si rivolgeva non solo a Jacque, ma anche a Kaeso. E forse anche ad Eike, a Dubris, a Lyuben, a Ramona… Chiedeva scusa al mondo intero, perché ancora non riusciva a piegarsi a una volontà più grossa ma seguiva il suo cuore, come aveva sempre fatto.
Baciò ancora Jacque, scavando nella sua bocca come se volesse scavare nella sua vita, con una passione di duemila anni che tornava fuori, e non si era ancora spenta. Aveva solo bisogno di sentirsi amata, stupida ragazza di diciotto anni che non sarebbe mai cresciuta. Era ancora umana, da qualche parte. E finché se lo fosse sentita dentro, non sarebbe mai stata pronta per morire.
 
 
 
“E così” stava dicendo Eliza “quel vampiro che è di sotto… è lei che ha creato Kaeso.” Aveva lo sguardo vacuo, con qualche traccia di risentimento.
“È anche quella che l’ha ucciso” aggiunse Eike, seccato “salvando il culo a tutti voi.”
La donna lo guardò con occhi gonfi di lacrime e Dubris si impietosì.
“Puoi lasciarci un attimo soli, Eike?” domandò al solito piccolo impertinente.
“Non posso stare di sotto, non posso stare qui…” ribatté lui con tono spento e occhi irrisori “C’è un posto in questa casa in cui non rischio di interrompere un felice e vomitevole idillio?”
Dubris rimase interdetto mentre Eliza era del tutto sgomenta.
Eike sorrise all’umana ed estrasse le zanne. “No, signora, non sono un bambino come tutti gli altri.”
Dubris lo avrebbe preso e appeso letteralmente per il collo ma quello uscì, soddisfatto, chiudendosi la porta della camera dietro di sé.
Eliza era sconvolta, e bella. Aveva potuto rinfrescarsi con una doccia e profumava di buono. I capelli ramati non erano curati ma, puliti, le ricadevano in buffe ciocche arrotolate sulle spalle. Seduta sul letto della camera, teneva le braccia conserte e le spalle curve, in un umano tentativo di difesa.
“Mi dispiace” si affrettò a dire Dubris “Eike è un vampiro buono, fa parte della famiglia di Acilia, è solo un po’…”
“Anche tu fai parte della loro famiglia?” lo interruppe Eliza.
Dubris inarcò le sopracciglia. “Io… non ho mai detto…”
“Allora perché sono a casa tua?”
“È… complicato.”
Eliza alzò gli occhi al cielo, asciugandosi le lacrime. “Che cosa non lo è?”
Il vampiro sospirò, pensando a come spiegarsi. “Acilia vuole suicidarsi” disse poi, pensando che non era poi una tematica così complessa, dopo tutto quello che Eliza aveva passato “È stata costretta ad uccidere il suo creato e ora non vuole più andare avanti. Io voglio salvarla ma le mie parole non contano niente. È Jacque l’unico che può salvarla, per questo l’ho chiamato.”
Eliza lo guardava mestamente. “L’ami?”
Dubris fu sorpreso e lei fece un gesto noncurante con la mano. “Noi umani siamo bravi a capire queste cose… Cioè, solo noi donne, in realtà.”
Lui fece un sorrisino, ma c’era un pensiero che gli ronzava in testa da tutta la sera.
Anche tu fai parte della loro famiglia?
“Forse mi sono così tanto affezionato ad Acilia perché era la cosa più simile ad una creatrice che avevo” rifletté ad alta voce. Guardò Eliza dritto negli occhi e disse la cosa che ancora non aveva detto a nessuno. “Del resto lei ha creato Kaeso, e Kaeso ha creato me.”
La donna spalancò gli occhi, sbigottita. “Credi davvero…”
“È molto probabile” fece lui, scrollando le spalle. Non riuscì a trattenere una mezza risata. “In pratica Acilia è mia nonna!”
Eliza non rise con lui. “Lei lo sa?”
Lui scosse la testa. “Non importa.”
Sperava davvero che Acilia e Jacque si riconciliassero, che lei trovasse in lui un motivo per andare ancora avanti. Tutto il resto non importava, ed era giusto così. Dubris si sorprendeva di se stesso: chissà, dopo millecinquecento anni, si poteva ancora maturare?
“Forse a lei importerebbe” insistette ancora Eliza.
Mi vergogno, pensò Dubris, senza guardarla, mi vergogno. Aveva combattuto, aveva ucciso, senza domandarsi il perché di niente – aveva ucciso sua sorella senza pensare a niente. Kaeso l’aveva abbandonato ed era stata la sua fortuna. Se l’avesse conosciuto, se fosse cresciuto con lui, ci sarebbe stato lui legato a quella colonna, al posto di Svetlana, con l’argento addosso, il sangue addosso, i pianti mai fatti, quelli di sangue, ma un amore, per il proprio creatore… Non avrebbe conosciuto altro, e sarebbe morto, così, ucciso da qualche stupido, rancoroso, accecato, senza conoscere altro.
“Avrei potuto aiutarla” fece in un sussurro, stringendo i pugni “Avrei potuto…”
Alzò lo sguardo e vide che Eliza, con la testa china, stava piangendo piano. Capì che neanche Svetlana importava più ormai, e sarebbe stato per lui solo un offuscato e insanguinato rimorso.
“Non è giusto che tu stia ancora qui a soffrire” disse, sentendosi in colpa “Ti porto a casa, dimmi dove ti devo…”
Ma Eliza stava vistosamente scuotendo la testa. “Non è più casa mia senza Charlene.”
“Casa dei tuoi genitori?” tentò Dubris.
“Morti entrambi.”
“Un fratello? Un’amica?”
La donna incurvò le sopracciglia ma questa volta i suoi occhi non si sciolsero, parvero solo disillusi. “C’era solo Ralph…”
Dubris non disse nulla e lei tirò su col naso.
“Non voglio che anche questo figlio che nascerà cresca senza padre e nella paura” disse, assumendo uno sguardo deciso. Guardò Dubris, e la sua espressione divenne implorante. “Al momento mi sento al sicuro solo qui.”
“Oh” rispose l’altro, stupito “Okay, puoi restare qui… Tutto il tempo che vorrai.”
Eliza gli si avvicinò e gli prese le mani. “Se mi succedesse qualcosa… voglio che sia tu ad occuparti di mio figlio… Veglia su di lui… In qualunque modo tu creda di fare il suo bene.” Le lacrime percorrevano il suo volto, grazioso, nonostante tutta la paura e l’angoscia, e la stanchezza, che le piegava le guance in morbide rughe. “Promettimelo, per favore…”
Dubris, stupefatto, non lasciò la presa. “D’accordo, d’accordo… Te lo prometto” disse, dopo un po’.
Eliza gli sorrise tra le lacrime, poi si tuffò tra le sue braccia, e pianse, pianse tanto. Come poteva quella donna avere ancora delle lacrime dentro ai suoi occhi? Gli esseri umani erano creature meravigliose, piene di risorse, che non si arrendevano mai.
Dubris l’abbracciò forte e la baciò sulla fronte, avvertendo uno strano, caldo, formicolio. Qualcuno finalmente si fidava totalmente di lui e lui si sentiva, per la prima volta dopo più di millecinquecento anni, a casa.
 
 
 
Sono passati quasi nove mesi dal mio primo incontro con Jacque. Ho avuto paura di lui, poi l’ho trovato intrigante. Poi mi sono innamorata. Ho pensato di essere completamente folle, o più probabilmente una deficiente che si andava a mettere nei guai. Ho capito che amare è la cosa più facile del mondo. Anche se si tratta di un vampiro. Ad amare qualcuno non ci vuole niente. Ancora più facile è innamorarsi di una persona che non puoi avere. Anche – soprattutto – se si tratta di un vampiro. Forse mi sono comportata, io adulta, come una sciocca ragazzina ma non mi pento di niente. Ho vissuto questi mesi intensamente e così continuerò a fare fino alla fine dei miei giorni. Jacque mi ha insegnato ad amare la mia vita più di ogni altra cosa. Non devo amare lui più della mia vita, lo so. È per questo che non voglio diventare un vampiro, anche se in questo modo gli starei accanto. Non lo voglio fare, per lui. Ognuno andrà avanti per la sua strada. Jacque ha scelto Acilia, ed è stato giusto così. Lei gli può offrire cose che io posso solo sognare. E lui può offrire tanto a lei, mentre a me quasi nulla. Avranno un futuro insieme e io sarò contenta per loro, e probabilmente non li rivedrò mai più.
Ieri ho detto addio a Jacque per sempre. Loro devono partire, fuggire dall’Inghilterra. Ho pianto ma gli ho detto di non sentirsi in colpa. È stata una mia scelta e ora sarò forte, per me stessa e per Lydia.
In realtà il mio cuore ha detto addio a Jacque da molto più tempo. Me ne sto rendendo conto ora, perché so che la ferita si rimarginerà.
Che dire, termino così questo strano diario di paura e amore. Dopotutto è stata una bella avventura, un’esperienza che non dimenticherò mai. Jacque non lo dimenticherò mai. E pure Eike mi mancherà.
Il bello di noi esseri umani è che abbiamo una vita breve, così breve, che se diciamo che non dimenticheremo mai qualcosa – o che ricorderemo per sempre qualcosa – allora non ci sono dubbi, sarà così.
 
Emily
 
 
 
Erano partiti, diretti verso un posto lontano, ancora non sapevano quale.
La Rappresentanza era un punto interrogativo. Ci sarebbero state le elezioni, ma Acilia se n’era di nuovo chiamata fuori. Quando ci sarebbe stato bisogno, allora forse sarebbe tornata. Chissà chi sarebbe stato il nuovo presidente: Acilia faceva il tifo per Dubris.
L’Inghilterra era alle loro spalle e Acilia si intristì. Avevano vissuto parecchi anni là, sperando e aspettando. Aveva ritrovato Kaeso, aveva conosciuto Curtis. Aveva rincontrato Jacque. Erano morti Lyuben, Ramona e tanti altri. La lettera di Lyuben, Acilia l’avrebbe conservata con cura. Le dispiaceva averla letta prima del tempo, ma, dopotutto, se era lì con Jacque ed Eike in quel momento, era anche perché l’aveva fatto. Chissà perché, era convinta che questo Lyuben lo sapesse. Le aveva detto di leggere la lettera quando avesse preso la decisione più importante della sua vita, e lei aveva deciso. Aveva deciso di non morire ancora. Eppure non si sentiva né coraggiosa né entusiasta né felice.
“Non sei ancora soddisfatta, Aci? Perché non sorridi?” chiese Jacque, vagamente deluso.
Acilia lo guardò. Di cosa avrebbe dovuto essere soddisfatta? Stava fuggendo, come sempre. Il suo sogno era lontano come lontano lo era duemila anni prima. Era salva, era con lui, questo gli leggeva lei negli occhi. Avrebbe dovuto bastarle, per ora. Ma si stavano lasciando dietro una valanga di morti, vittime della loro guerra senza fine.
“Sorridere? Credi che i soldati russi che hanno liberato Aushwitz abbiano mai sorriso?” fece.
Jacque si mordicchiò il labbro.
E tu, perché non sorridi?
“È la vergogna” continuò lei “La vergogna di cui il mondo non ne ha mai abbastanza.”
Gli prese la mano e continuò a camminare.
Vorrei solo che tu mi stessi accanto per sempre, gli voleva dire. Ma non glielo disse.
Sentiva lo sguardo sereno di Eike che li guardava e li guidava, come sempre aveva fatto.
Senza dire altro, i tre si allontanarono sotto la pacata luce della luna, la loro luna, come una famiglia taciturna e inquietante, con cui nessuno avrebbe mai voluto avere niente a che fare.












Ho accorciato ed ecco l'ultimo capitolo! Spero sia tutto chiaro, in caso contrario scrivetemi!

Aspetto recensioni :) a breve l'epilogo!

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Capitolo 29
*** Epilogo ***


Epilogo

In data 11 agosto ho aggiunto una sequenza all'ultimo capitolo, se l'avete letto prima ridateci un'occhiata ;)


EPILOGO 

 

 



Inghilterra, 2073
 
  
Chiuse la porta dietro di sé, non prima di aver acceso la luce dell’ingresso. La luce non gli serviva, oh no, ma bisognava stare attenti. Un piccolo dettaglio come quello quello e ti potevi ritrovare denunciato dai vicini. E’ un vampiro, avrebbero gridato, i vampiri non accendono mai la luce! 
“Papà…” lo accolse una voce lagnosa. 
“Eccomi a casa” disse lui, avanzando a fatica tra degli scatoloni che ingombravano il soggiorno. 
Maryann lo guardò con un sorriso colpevole. “Sto facendo pulizie, non sei contento? Dici sempre che ho troppi vestiti”. 
“Certo” borbottò l’altro “Hai accumulato più vestiti tu in cinquant’anni che me in…”. 
“E tu” lo interruppe Maryann, strizzando gli occhi “che pure sei nato nell’età della pietra, ti ostini a voler accendere queste fastidiosissime luci…”. 
“Norme di sicurezza, semplici norme di sicurezza…”. 
Maryann cominciò a fargli il verso e lui s’alterò. “E poi, quale età della pietra! Sarebbe meglio se ti rifacessi un bel ripasso di storia…”. 
La ragazza si mise a volteggiare nel soggiorno con un risolino. “E’ ovvio” cantilenava “Tu sei Dubris, il Presidente… Se non le rispetti tu le norme di sicurezza!”. 
Dubris si puntò le mani sui fianchi, esasperato. Poi sospirò, poggiò la borsa sul tavolo e l’aprì. Porse a Maryann il barattolo pieno di sangue che vi era all’interno. 
Quella sbuffò ma lo afferrò. “Papà… Quando potrò tornare ad occuparmi da sola del mio sostentamento?”. Aprì il barattolo con foga e bevve tutto in in sorso. 
Dubris sorrise. “Lo sai che questi sono tempi brutti, Mary”. 
Si sedette, pigramente, sentendo scivolargli addosso tutta quanta la preoccupazione che credeva di aver abbandonato una volta uscito dalla Sede. 
“Ci sono stati altri casi strani?” domandò Maryann, diventando seria tutto a un tratto. 
Dubris annuì. “Umani che muoiono per mano di vampiri durante il giorno… e così tanti vampiri che vengono uccisi da altri vampiri”. 
“E’ così assurdo?” chiese la ragazza “Voglio dire… I vampiri di solito andavano d’amore e d’accordo tra di loro?”. 
Dubris non poté trattenere un sorrisetto all’ingenua domanda, pensando a ricordi neanche troppo lontani. 
“Ci sono sempre stati vampiri che fanno la guerra ad altri vampiri” spiegò “ma il fenomeno si è davvero intensificato. Io credo che ci sia un collegamento con gli umani che vengono morsi di giorno”. 
Maryann si abbandonò su una sedia con un sospiro. “Vampiri che vedono il sole… Che invidia”. 
Dubris la guardò torvo ma non disse nulla. Maryann era così giovane… I capelli ondulati le coprivano gran parte della schiena, era quella la pettinatura che la ragazza aveva scelto prima della sua trasformazione. Gli occhi erano di un delicato marrone, che si circondava all’estremità dell’iride di un verde scuro. Fulve ciocche le ricadevano sulla fronte e aveva qualche lentiggine sul naso. Era così dolce guardarla, e Dubris si lasciava andare ai ricordi. Solo settant’anni prima neanche credeva che avrebbe mai avuto qualcuno che lo chiamasse papà. 
“E’ come se fossero arrivati dei vampiri fortissimi da chissà dove” disse, ridestandosi “Vampiri incredibili… Che ci vogliono mandare un messaggio di guerra. Per gli umani sarebbe la fine”. 
Era per quel motivo, del resto, che Maryann era stata trasformata. Fin da piccola sognava di diventare come il suo “papà”. Eliza, sua madre, era spaventata ma quando, una volta malata, Dubris le aveva chiesto se poteva trasformare Maryann per tenerla al sicuro, la donna gli aveva ricordato quello che tanti anni prima gli aveva detto. Di occuparsi del suo futuro figlio – o figlia – nel modo migliore in cui credesse di fare il suo bene. 
E così, una volta compiuti ventitré anni, Maryann venne trasformata da Dubris, dilaniato da due sentimenti contrastanti. Il dolore di trasmettere l’eterna dannazione alla creature a cui voleva più bene in assoluto e la gioia, vergognosa, di avere un’altra creata che, in qualche modo, potesse rimpiazziare il vuoto lasciato da Ramona. 
Cercò con lo sguardo la fotografia di Eliza poggiata su una mensola del salotto. La cercava sempre in cerca di approvazione. Sto facendo del mio meglio, Eliza, ci sto provando, pensava. 
Perché non hai trasformato anche la mamma prima che morisse, lo aveva rimproverato una volta Maryann, ora saremmo tutti e tre insieme. 
A Dubris sarebbe piaciuto ma Eliza non aveva voluto. Aveva preferito crescere sua figlia da umana, insegnandole i giusti valori, facendola giocare all’aria aperta. E poi era diventata vecchia, si vergognava perfino di farsi vedere da Dubris, che pure continuava ad amarla tantissimo, e aveva preferito lasciarsi morire. Gli mancava tanto. 
“Ma da dove arrivano?” stava ragionando Maryann “Non possono essere stati creati da poco, no? I vampiri giovani sono quelli più deboli”. 
Dubris la guardava e ne andava sempre fiero. La guardava perché rivedeva Eliza in lei. 
“Già” ammise dopo un po’ “Non riesco proprio a spiegarmelo”. 
Eppure, se ci pensava, se guardava quella fotografia di Eliza, se ricordava i momenti in cui quella vecchia casa si era riempita di vita, non poteva che essere felice. Aveva scoperto la gioia di avere una vera famiglia, quella che credeva potessero avere solo gli umani, quella che, se guardava Mary, era contento, perché l’avrebbe avuta per sempre. 
  
  
  
Il sentiero ciottoloso, qualche zolla di terra, qualche respiro di prato; file e colonne di lapidi bianche. La sera, con la sua leggera foschia, avvolgeva tutto col suo solito fascino, mentre la luna risplendeva della sua solita inquietudine. Il luogo più spaventoso per Jacque. 
Era diventato bravo a capire quanto potessero vivere gli umani. In realtà non sapeva con quale speranza fosse entrato nel cimitero. Forse avrebbe preferito rincontrarla, da viva, anziana, e farsi raccontare le sue vicende. Quali uomini avesse conosciuto, se era soddisfatta della sua vita. O forse preferiva ricordarla com’era, giovane e forte, con le lacrime agli occhi e le guance rosse, l’umanità che gli aveva fatto credere di poterla avere. Era stato un egoista. Pagava continuamente il suo prezzo, scontava la sua pena, guardando ancora le tombe degli altri. Gli altri, quelli che riposavano in pace, quelli che una risposta già ce l’avevano. 
  
Emily Dixon 
1985 – 2069 
Amata moglie e una madre premurosa per Jack 
  
Era giusto così, che fosse morta così. Jacque la vedeva nella piccola fotografia accanto ai fiori. Riconosceva i lineamenti, gli occhi nocciola, il sorriso sincero. E quelle rughe lo angosciavano: quale ragazzo di vent’anni – era questo che lui sembrava – non sognerebbe di non avere mai neanche una ruga? Il pensiero lo attanagliava in una morsa, come al solito. 
I suoi occhi caddero sul nome del figlio di Emily. Sorrise, sicuro come lo era del tempo che Emily non lo avesse mai dimenticato. Quando gli umani dicono che non dimenticano, non dimenticano davvero, pensò. Chissà se invece lui, tra due o trecento anni, si sarebbe ancora ricordato di lei. 
Del resto aveva cose così importanti per la testa ora… 
Nella mano sinistra teneva una lettera, il cui contenuto era assai rilevante. Quello che aveva letto… Doveva parlarne con Dubris, il Presidente della Rappresentanza. Soltanto ora i pezzi del puzzle combaciavano. Umani che venivano morsi durante il giorno, Claire vampiro che camminava sotto il sole, dicendo di aver morso tre umani, come l’ultima volta… Non farneticava, non era impazzita. 
Jacque inspirò a fondo. 
“Sono contento che tu sia vissuta prima di tutto questo, Emi” sussurrò alla tomba “Spero che tuo figlio Jack viva a lungo come te”. 
Strinse nella mano sinistra la lettera che gli aveva donato il suo unico e tormentato amore. Con la mano destra mandò un bacio alla foto di Emily. Poi si voltò e tornò sui suoi passi, nel silenzio della notte.












Non mi sembra vero aver finalmente finito! Un anno e mezzo fa questa storia era solo uno schema fatto su un quaderno e mi sembrava una storia così complicata, e ora sono ben 563 pagine :S Nonostante la debba riguardare e rifinire, sono soddisfatta del mio operato e ringrazio tantissimo chiunque abbia letto e soprattutto chi ha recensito. Mi farebbe assai piacere se chi l'ha letta fino alla fine (i pochi coraggiosi XD) mi lasciasse un piccolo parere sui contenuti e sulla forma :) 


A chi ama recensire pongo le mie questioni/curiosità:
1) qual è il personaggio riuscito meglio e quale quello riuscito peggio, che dovrei cercare di approfondire di più?
2) ha un senso veder evolvere il personaggio di Dubris da personaggio secondario a personaggio principale (insieme agli altri)? Le sequenze col suo punto di vista appaiono solo verso la fine, dovrei metterne qualcuna anche all'inizio?
3) i personaggi hanno un loro senso individuale o ragionano tutti in maniera simile? sono sufficientemente approfonditi?
4) qual è la coppia che vi è piaciuta di più? Aci-Manlio, Aci-Miguel, Aci-Kaeso, Aci-Jacque, Aci-Dubris, Jacque-Emily, Dubris-Eliza e poi non mi ricordo più nemmeno io.. 
5) personaggio preferito? XD
6) i continui salti temporali appesantiscono la lettura? c'è il rischio di perdere il filo? 
7) ci sono descrizioni a sufficienza? o l'immagine visiva si fa difficoltosa?
Alcune domande mi possono aiutare con la revisione, ma ovviamente non siete tenuti a rispondere a tutto :)

So che questo epilogo lascia un piccolo dubbio in sospeso (come l'ha avuta Jacque la lettera?) e lascia presagire l'inizio di una nuova storia, ma per il momento non è previsto un seguito. Chissà, magari un giorno mi verrà voglia.. ma mi piace anche concludere così. Del resto le cose non hanno mai una fine precisa. 

Di nuovo grazie a tutti, è stata una gran bell'esperienza, come lo è ogni storia.  

Loda

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