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Prologo
Isabella Swan scoccò un bacio sulla guancia di suo padre ed uscì velocemente
dalla porta di casa, consapevole che sarebbe stata largamente in anticipo per
la sua prima giornata di lavoro.
‘Lavoro’ era una parola grossa: una libreria di Seattle l’aveva
provvisoriamente assunta come commessa durante l’estate, per concedere al
proprietario una pausa per qualche mese. Ma il pensiero di poter racimolare
qualche spicciolo per concedersi il lusso di sentirsi più indipendente durante
l’ultimo anno di liceo la eccitava da morire.
E poco importava che sarebbe stata sommersa dalla polvere per tutta la
giornata. Nonostante essa la facesse a volte starnutire a più non posso, non ne
era preoccupata per nulla. Una giornata intera passata fra i libri, l’unica
cosa che riusciva a tirarla su tutte le volta che soffriva, l’avrebbe
sicuramente resa la ragazza più felice del mondo. Figurarsi una stagione.
Fece rombare il motore del suo adorato Chevy del ’54 e lo guidò verso la carreggiata.
Era molto allegra quella mattina, le veniva voglia di cantare sulle note della
canzone sdolcinata che stava passando in quel momento alla radio. Tutto
sembrava perfetto.
E, dopo poco più di un ora, lo vide: un’enorme e lussuosa costruzione dotata di
grandi vetrate si stagliava di fronte a lei, abbagliandola con la sua bellezza.
Bella rimase a bocca aperta, contemplandola.
Era arrivata a Pacific Place,finalmente.
«Davvero lavorerò dentro questo paradiso terrestre?», mormorò fra sé. Ancora meravigliata,
guidò il pick-up fino al gigantesco parcheggio, trovandone a fatica uno vuoto.
«Mmmh», mugolò Bella uscendo dal mezzo ed estraendo un foglio stropicciato
dalla tasca dei pantaloni.
“Potrete trovare la libreria Barnes &
Nobles al primo piano della costruzione. La aspettiamo per il giorno 13 Luglio
alle ore 10:00. Chieda del proprietario, Mr. Barnes”. Bella sospirò, mentre l’agitazione cominciava a fare parte di lei. Erano le
9:40. Aveva ancora il tempo per un caffè, ma era così nervosa che avrebbe fatto
fatica a deglutire.
Perché, poi? Non era il giorno che aspettava da tanto? Farò una buona impressione, si
convinse mentalmente, e si rese conto che forse sarebbe stato meglio cominciare
a cercare la libreria, onde evitare di fare ritardo a causa del suo scarso
senso dell’orientamento.
Mosse qualche passo alla ceca davanti a sé, non badando alla strada. I suoi
occhi scrutavano attenti la lettera inviatole da Mr. Barnes, setacciando il
testo alla ricerca di ulteriori informazioni che avrebbero potuta aiutarla nel
trovare il negozio.
Avanzò, facendo per passare da una fila di auto al marciapiede senza badare di
alzare la testa per controllare dove metteva i piedi. A metà strada, a
pochissimi metri dalle porte scorrevoli del centro commerciale, udì uno strano
suono.
Era terribile. Le passò da un’orecchia all’altra, penetrandole la testa con il
suo stridore metallico e facendole capire, terrorizzandola, cosa stava
succedendo.
Alzò di scatto il capo e tentò di fuggire verso il marciapiede, ma ormai era
troppo tardi. La forza brutale della Volvo grigia metallizzata l’aveva già
investita, facendola cadere a terra e perdere i sensi.
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crede)
Eccoci. Piccola premessa: se questa storia già nei primi capitoli otterrà
poche recensioni, non penso la continuerò. Non riesco mai a scrivere se non
sono motivata dai pochi lettori che ho.
Questa Fanfiction è nata dal mio ennesimo sclero da venerdì piovoso, che non
può far altro che portarmi a fare una cosa: complicare il futuro di questi due
poveri ragazzi.
Cosa m’hanno fatto ‘sti due, che in tutte le mie storie finiscono torturati dal
mio cervello bacato?
Non lo so, ma sappiate che tutte hanno, o avranno un lieto fine. Non sono così
sadica.
Quindi, vediamo. Bells è stata appena investita da un possessore di Volvo
metallizzata – chissà chi sarà, LOL. Sono aperte le scommesse. Cosa succederà
nel prossimo capitolo?
Bella sarà morta? All’ospedale? Si sarà miracolosamente salvata senza un
graffio?
Fatemi sapere cosa ne pensate.
A presto,
WaryJMS
Capitolo primo Oh, merda. Merda, merda, merda. Edward Cullen strinse forte il volante, sotto shock, e fissò da dietro il
parabrezza il corpo riverso della ragazza che aveva appena accidentalmente
investito.
Era bastato un attimo di distrazione, e quella piccoletta dai capelli bruni era
finita sotto la sua auto.
Edward era paralizzato dal terrore. Avrebbe voluto scendere dall’auto ed
aiutarla, chiamare un ambulanza, vedere se stesse bene. Ma non riusciva a muovere
un muscolo. Era assolutamente impietrito.
«Signore? Signore! Sta bene? Mi deve aiutare, su, la prego! Oh mio Dio, oh mio
Dio!».
Una donnetta bassa si agitava davanti a lui, le mani sporche del sangue della
ragazza. Edward sgranò gli occhi, tentando di reprimere il pranzo che insisteva
per tornargli su.
«Devi… devi muoverti», ordinò a sé stesso, e uscì dall’auto.
La ragazza dai capelli bruni giaceva a terra, le gambe ricoperte da piccole
ferite superficiali per aver strisciato contro l’asfalto. Edward ripercorse con
lo sguardo il suo corpo pieno di contusioni, i pantaloncini tagliati al
ginocchio schizzati di sangue come la maglietta larga, i capelli distesi sul
terreno, il viso pallido che sembrava urlargli “guarda! Guarda cosa mi hai
fatto!”.
«Respira», mi accertò la signora che si era accovacciata al suo fianco. «Ma
deve chiamare un dottore. Chiami l’ambulanza, per favore!». La sua voce era
supplichevole, impaurita.
Non c’era bisogno di dirlo. In un secondo avevo già composto il numero
dell’ospedale, terrorizzato dall’idea di avere il peso di una morte sul cuore.
Non c’era modo per descrivere quanto si sentisse in colpa. La ragazza dormiva
apparentemente tranquilla, avvolta fra le sottili coperte offerte
dall’ospedale. Isabella, si chiamava. Bella. Suo padre si era fiondato a
trovarla appena saputo dell’incidente, e, come Edward, era rimasto tutta la
notte a vegliare su di lei.
Il senso di colpa lo aveva attanagliato per tutta la notte, anche nel sonno.
Aveva dormito tormentato dagli incubi: il padre di Bella che gli urlava contro
per aver fatto male alla sua unica figlia, lei che lo guardava terrorizzata per
ciò che aveva fatto. Ma suo padre non lo aveva biasimato, nonostante fosse il
capo della polizia di Forks; e lei aveva continuato a dormire come se nulla
fosse stato.
Il bippare costante del monitor appeso sopra la testa di Bella lo confondeva.
Non riusciva a concentrarsi su nulla, se non sul suono del battito del cuore
della ragazza che rimbombava fra le pareti della stanza.
Cercò di distrarsi, tentando di non pensare al fatto che aveva quasi ucciso una
ragazza. Suo padre, il signor Swan, era sceso al piano di sotto per prendere la
colazione. Lo stomaco di Edward si contorceva dalla fame, ma i suoi bisogni
umani erano l’ultima cosa che aveva voglia di soddisfare.
«Mmmh», mugolò all’improvviso Bella, sorprendendolo.
Sgranò gli occhi. Ormai era un giorno intero che Bella dormiva, era ovvio che
prima o poi si sarebbe svegliata. Ma lui non era pronto, no. Non era per niente
pronto.
«Oh», si lasciò sfuggire, e fu sul punto di correre via a chiedere aiuto. O di
fuggire come un vile.
«Dove… cosa…». Bella sbatté ripetutamente le palpebre, tentando di mettere a
fuoco gli oggetti intorno a sé. Una figura sbiadita era china su di lei e la
fissava preoccupato, quasi terrorizzato.
«Ehm», borbottò, imbarazzato. Non sapeva che dire. «Bella? Isabella?».
Lo fissò, confusa. «Chi è Isabella? E perché mi trovo qua?».
Edward, se possibile, era ancora più nervoso. Alzò un sopracciglio. Suo padre
aveva mentito sul nome della figlia? No, impossibile. Perché mai avrebbe dovuto
farlo?
«Signorina», mormorò infine, indeciso se darle del lei o del tu. «Ha subito un
forte trauma cranico, è ovvio che si senta un po’ spaesata. Stia… ehm…
tranquilla, si. Stia calma».
Lei non gli badò, facendo roteare gli occhi per la stanza. «Dove sono?!»,
esclamò istericamente, respirando affannosamente. Il monitor che seguiva i
battiti del suo cuore impazzì. «CHI SONO?!».
Amnesia da trauma cranico, dicevano i dottori.
Una disgrazia, diceva Edward.
Se possibile, era ancora più in panico del signor Swan. Lui aveva pianto per
chissà quanto tempo, temendo, nonostante le rassicurazioni bonarie dei medici,
che sua figlia non lo avesse mai più ricordato.
Ma il dolore di Edward era ancora più grande del suo. Aveva passato chissà
quanto tempo in silenzio, a guardare il vuoto, a crogiolarsi nel suo dolore.
Perché? Lui non la conosceva nemmeno.
Non importava. Le aveva rubato ogni ricordo, costringendola a chissà quale
triste futuro. Era colpa sua: colpa sua per il dolore fisico che aveva provato,
per quello morale che avrebbe sentito, per quello a cui sarebbero stati
costretti tutti i suoi cari.
Era una disgrazia vivente, l’aveva sempre detto. Tutte le cose che di male
succedevano, accadevano per causa sua. Era il suo destino: fare soffrire tutti
quelli che gli stavano accanto.
E la cosa peggiore era che il signor Swan non gli dava nessuna colpa. “Un
incidente”, aveva detto. “Potrebbe essere colpa tua quanto potrebbe essere
colpa sua”.
Ma lui si sarebbe sentito molto meglio, decisamente meglio se qualcuno lo
avesse odiato. Se qualcuno gli avesse puntato il dito contro, urlandogli che
era tutta colpa sua. Ma nessuno lo faceva mai.
«Edward?», lo chiamò il signor Swan, scuotendolo per una spalla e facendolo
tornare alla realtà. «Ti devo parlare».
Dal corridoio che dava sulla camera di Bella si spostarono nella sala
d’aspetto, e si sedettero sulle scomode sedie di plastica davanti alla vetrata.
Edward si torturava le pellicine delle dita, nervoso.
«Edward, mi dispiace, ma devo andare», borbottò, tenendo lo sguardo basso. Andare dove?
«Una serie di omicidi si stanno susseguendo a Forks, e, da capo della polizia,
non posso stare troppo lontano dal caso. Ovviamente ogni tanto tornerò a fare
visita a Bella, ma, fino a quando non guarirà… Beh, tu mi sembri davvero un
bravo ragazzo molto volenteroso. Mi fido di te». No, no, no. Ti prego, non chiedermi ciò
che penso tu stia per chiedermi.
«Edward, potresti badare a mia figlia mentre io non sarò qua a farlo?».
Prese un respiro profondo, e rabbrividì. Aveva sperato, maledettamente sperato
di potersene andare il più presto possibile. Non ce la faceva a rimanere lì a
vedere ciò che aveva fatto, a farsi sommergere dai sensi di colpa. Avrebbe
sborsato milioni per farla guarire, ma, ora come ora, non poteva che chiedere
di andarsene.
Tuttavia… «Io… io…». Sospirò. Quanto poteva metterci a guarire, infondo?
«D’accordo».
Il signor Swan, a sorpresa, lo abbracciò. «Grazie», gli sussurrò ad unorecchio.
«Signor Swan…», borbottò, a disagio.
«Charlie».
«Charlie, solo, mi chiedevo… ha già detto a Bella… chi… chi sono?».
Lo fissò. «Beh, insomma, io… non ce l’ho fatta. Non ce l’ho fatta a dire che
era stata investita. Secondo lei, è caduta dalle scale e tu, il suo migliore
amico, l’hai portata fino all’ospedale».
Edward si ritrasse, terrorizzato.
Sarebbe davvero riuscito a starle accanto, a stringere un rapporto con lei
basandolo su una bugia?
E se Bella avesse riacquistato la memoria, ricordandosi chi Edward era in
realtà? Gli avrebbe voluto bene lo stesso, nonostante lui gli avesse sostenuto
la più grande bugia che avrebbe potuto inventarsi?
Era davvero sicuro che sarebbe stata la scelta giusta?
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Farai felice milioni di scrittori.
(Chiunque voglia aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio
crede)
Tadaaan. Allora, prima di
tutto, grazie delle recensioni. Davvero, grazie :3
Ricapitoliamo: Bella, nell’incidente, ha subito un trauma cranico. Il trauma
cranico le ha causato un’amnesia. Non si sa se riacquisterà la memoria e i suoi
ricordi, ma, per adesso ha bisogno di qualcuno che le stia accanto.
Charlie deve andare, il lavoro lo chiama. E chi dovrà starle accanto?
EDUAAARDO.
Che poveretto, lui, investito dai sensi di colpa, dovrà mentirle su tutto.
Stando vicino a lei, prendendosene cura, molto probabilmente diverranno amici;
ma se Bella dovesse ricordarsi di essere stata investita? Gli vorrebbe lo
stesso bene, nonostante la bugia di Edward?
Lo scoprirete continuando a leggere.
Grazie ancora di tutto, davvero.
WaryJMS