Troppo giovani per perderlo, troppo giovani per sceglierlo.

di _Velvet_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un risveglio ***
Capitolo 2: *** Paura della realtà ***
Capitolo 3: *** "Mi sento fatto a pezzi" ***
Capitolo 4: *** Rimani. ***
Capitolo 5: *** Quel che non ti uccide ti rende più forte. ***
Capitolo 6: *** Comin' back to life ***
Capitolo 7: *** 1984 ***
Capitolo 8: *** Hanna ***
Capitolo 9: *** Goodbye crue world, it's over. ***
Capitolo 10: *** Allo sbando. ***
Capitolo 11: *** Incontriamoci dove non c'è tenebra ***
Capitolo 12: *** This is only the end. ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Un risveglio ***


Capitolo 1, Side A.
Manchester, 15 marzo 1978

 
Non ricordavo come fossi tornata a casa, la notte scorsa. Tutto quello che ora la mia mente annebbiata riusciva a mettere a fuoco era un nome: Ian.
Non ricordavo nemmeno dove lo avessi sentito. Probabilmente ieri, alla festa.  Che volto aveva questo misterioso nome? Era solo frutto della mia testa, oppure esisteva davvero? Dovevo capire chi diamine fosse, se non altro per placare una minima parte di quell’emicrania che già si presentava come un’ospite costante della mia giornata. D’altro canto, però, non potevo telefonare a Karen per chiederle se al suo party per i 18 anni ci fosse stato un tale di nome Ian. Di cui, per di più, nemmeno sapevo il cognome, né l’aspetto fisico.
“Aspetta un attimo, Christiane. Tu ti ricordi come era fatto. O, per meglio dire, ne hai un annebbiato ricordo.” Parlavo a me stessa, come mi era stato insegnato per diminuire lo stress.
Gli occhi. Più azzurri dell’acqua di montagna. Di una bellezza da mozzare il fiato.
“Brava, vedi? Già un passo avanti. Ricordi altro?”
Sì… qualcosa ricordo. Oh, mi sta tornando alla mente. Dio, la mia testa!
Sì, aveva un cappotto nero, lungo fin quasi ai piedi. Scarpe pesanti, nere anch’esse.
E i capelli… corti, corvini. Classico taglio da middle class.
Più di così non riesco a pensare, il mattino.

***

Solo mezz’ora dopo riuscii ad alzarmi da letto. Non era una bella mattinata. Il cielo era di un grigio abbacinante, mi feriva lo sguardo.  La testa mi doleva, anche se la sera precedente non avevo bevuto molto. La mia unica fortuna era di non vivere più con i miei genitori. Dovevo frequentare l’università, che a loro piacesse o meno. Avevo scelto apposta il luogo più lontano possibile da quel paesello dello Yorkshire  dove ero nata. Manchester era perfetta, non troppo affollata, negozi meravigliosi, gente tranquilla, intelligente; gente al tempo stesso così triste.
Forse era per quello che mi ci trovavo così bene. Non ero una ragazza allegra. L’allegria, in un certo senso, mi sfuggiva via, lontano, verso gente che se la meritava forse più di me. Ma c’era un motivo più pesante, sotto. Molto più serio della tristezza adolescenziale. Una cosa talmente profonda che mi impediva quasi di dormire, di fare qualsiasi cosa senza sentirmi sempre un peso sulle spalle.
Non avevo mai raccontato i miei segreti a nessuno. Nessuno sapeva cosa c’era nella mia mente, e non penso che mai nessuno avrebbe potuto capire i miei fantasmi.
All’improvviso, però, mi colpì un ricordo. Un ricordo che forse non era vero, ma invece magari lo era. Mi aggrappai disperatamente alla speranza che lo fosse.
Il ricordo riguardava la festa di Karen. O, meglio, chi incontrai alla festa di Karen.
Sì, di nuovo questo Ian. Sapevo, o almeno una parte di me sapeva, che lui era diverso da quelle figure grigie come me che si trascinavano in miserevoli esistenze condotte per abitudine;  lui probabilmente era diverso da tutti noi.
Sentii l’impulso irrefrenabile di sapere chi fosse questo misterioso personaggio. Sì, dovevo telefonarle.
 
 
Capitolo 1, Side B.
Manchester, 15 marzo 1978
 
In realtà, io ho sempre odiato, in maniera più o meno forte, Karen. Ci eravamo conosciute all’età di 11 anni alla scuola del nostro paesello di origine. Da quel momento lei si era sempre ritenuta la mia migliore amica, seguendomi dopo essermi trasferita per seguire i miei studi. Evidentemente la trattavo in maniera un po’ meno fredda rispetto alle altre ragazze e deve aver frainteso un sentimento di pietà con uno di amicizia.
Provavo pietà per Karen poiché, se possibile, veniva da una situazione ancora più disastrata della mia: sua madre era morta due anni prima, quando aveva solamente 9 anni, giusto in tempo per poter soffrire in maniera quasi adulta. Da quel momento suo padre era diventato ancora più distratto nei suoi confronti di quanto non lo fosse anche prima. Karen quindi viveva in maniera quasi totalmente indipendente. Furono proprio queste libertà a rovinarla per sempre.
Infatti, approfittando della scarsa attenzione del padre nei suoi confronti, aveva iniziato prima a fumare e poi, successivamente, a drogarsi.
Quello che le rimprovero, però, è stato il fatto di aver trascinato giù con sé stessa anche me.

***

La prima volta che provai qualcosa di più pesante di una sigaretta fu 6 anni fa, quando ero un’allegra quattordicenne. Da qual momento la discesa è stata sempre più rapida, finché l’anno scorso ho deciso di piantarla per sempre con le droghe. Sì, ho deciso di trasferirmi qui a Manchester per cambiare aria, per non dover vedere i miei amici ridursi a rottami umani, per non dovermi più nascondere dagli sguardi accusatori dei miei parenti, dei miei genitori.
Ma sono stata fortunata, a scamparla. Non tutti hanno la mia stessa fortuna. Sono sopravvissuta, ma lo devo al fatto di non essermi mai bucata con l’eroina.
Il fatto di drogarsi iniziò, appunto, tre mesi dopo il mio quattordicesimo compleanno. Ricordo anche la data: 27 giugno 1972. Ero seduta in un angolo seminascosto di un giardinetto pubblico con Karen e altri due nostri amici: Martin e Jay. Dopo aver parlato per un po’, Jay cavò fuori dalla sua tasca un sacchettino di plastica pieno di polvere non troppo fine, di colore verde: marijuana. Si rollò una canna e ce la offrì.
Da quel momento usavo le droghe per evadere dalla mia realtà, sempre più opprimente. Provai ogni tipo di stupefacente, fino al giorno in cui i miei genitori si accorsero di ciò che mi stava accadendo: stavo tornando a casa in bicicletta dopo essermi fatta una quantità bestiale di LSD, quando andai a sbattere contro un palo della luce, causandomi una frattura al cranio abbastanza seria, mettendo in pericolo la mia vita. Avevo appena finito il liceo. Ricordo che mi caricarono di peso in macchina appena fui dimessa dall’ospedale. Mi portarono nel nostro mini-appartamento di Manchester che mio padre usava quando doveva recarvisi per lavoro. Dopo un mese, fui assunta come commessa in un negozio di dischi e mi iscrissi all’università.
 Non ho mai più toccato una droga in vita mia.
 
Capitolo 1, bonus track.
Sbaglio, nell’affidare a Karen tutta la colpa della mia distruzione. Ora so che la principale responsabile di tutto sono stata io sola.
Ma non è vero nemmeno questo: io sono stata la conseguenza della mia situazione terribile,  che mi ha influenzato e continua a farlo.
Forse, l’unico periodo relativamente felice della mia esistenza è stato quando assumevo droghe. Almeno non ero costretta a pensare.
 
No, Karen  non merita il mio rancore. Merita la mia gratitudine, per avermi regalato 5 anni di nulla, di oblio, di libertà. La ringrazio per avermi fatto assaporare cosa vuol dire non dover continuamente rispondere delle proprie azioni. Io, semplicemente, non commettevo azioni, quindi non avevo assolutamente colpe.
 
Grazie Karen.

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Capitolo 2
*** Paura della realtà ***


Capitolo 2, Side A.
Manchester, 16 marzo 1978
 
Trovai la forza per telefonare a Karen solamente il giorno successivo; avevo, in un modo difficile da spiegare, paura.
Avevo paura che le mi dicesse che non ricordava nessun Ian alla sua festa. Avevo forse ancor più paura che lei mi dicesse che sì, lo ricordava, ma che non sapeva né il suo nome né il suo indirizzo. Io però avevo bisogno che lei ricordasse, avevo bisogno che lei mi rassicurasse, mi dicesse che questo ragazzo lo conosceva.
Nutrivo un’illimitata fiducia in lui, in cuor mio sapevo ancor prima di parlarci che lui mi avrebbe strappato alla nube grigia della mia vita, io lo sapevo.
Era una sensazione strana, che non  avevo mai provato prima. E’ più o meno quello che si prova quando si beve una tazza calda di thè: non sei mai sicuro che sia quello che ti faccia stare meglio, ma quando il liquido dorato scende giù per la tua gola infreddolita sai di aver fatto la scelta giusta. Allo stesso modo sapevo che Ian mi avrebbe salvato.
Salvato da cosa, ora riuscivo a metterlo a fuoco. Ero certa, però, che c’era qualcosa che non andava in me, qualcosa che avrei dovuto eliminare, qualcosa che mi avrebbe potuto distruggere se lasciato in libertà, qualcosa su cui dovevo mantenere il controllo.
Con il massimo della fiducia nel prossimo, chiamai Karen.
***
Me ne pentii nell’attimo stesso in cui sollevai la cornetta nera.
-Pronto?...” biascicò una voce impastata dal sonno dall’altro capo della linea.
-Ciao Karen, sono Christ. Senti, volevo chiederti una cosa, ma forse è meglio che provi dopo, preferisci?
-No, no... Ci sono. Dimmi pure!- Karen sembrava molto più lucida e sicura, ora.
-Beh, volevo sapere... Tu ricordi gli invitati alla tua festa di compleanno? C’era anche un certo Ian?
-Ian... Ian... Ian... Dammi un attimo, eh.
In quel momento di attesa so che avrei potuto morire e non avrei sentito nessun cambiamento fisico. Io sapevo, sapevo già che non c’era nessun Ian.
Era solo la proiezione della mia mente frustrata, io volevo che ci fosse, ma sapevo già che non c’era, né mai ci sarebbe stato.
Dopo un tempo che mi parve infinito, Karen rispose:- Beh, chiedere di un Ian a Manchester è come chiedere di un François a Parigi, vero? Ho chiesto a Nick, lui ha una memoria di ferro, e ha detto che sì, un Ian c’era. Mm, alto, capelli neri, anzi... tutto vestito di nero, giusto?
-Sì, corrisponde ai miei vaghi ricordi.
-Beh, sei fortunata. Non conosco il suo cognome, ma dalle parti dell’università è una specie di mito, da quanto capisco. E’ uno che ha due interessi: i dischi e i libri. Mi stupisco che tu l’abbia visto per la prima volta alla mia festa!
-Sai, non sono una che fa molto caso alle persone.. Comunque grazie, mi sei stata di grande aiuto. Ora devo andare al lavoro, a presto cara.
Riattaccai prima che avesse il tempo di farmi una qualsiasi altra domanda. Non volevo che lei sapesse nulla di me, non volevo che sapesse nulla della mia momentanea ossessione nel cercare qualcuno di simile a me.
Con un vago senso di felicità che mi avvolgeva, cominciai a percorre le stradine deserte della città alla volta del negozio in cui lavoravo.
 
 
Capitolo 2, Side B.
Manchester, 16 marzo 1978
 
Udivo il suono distinto della suola delle mie scarpe che colpiva ripetutamente l’acciottolato della stradina secondaria che avevo imboccato. Mi capitava spesso di scegliere la via più lunga per raggiungere un luogo, se avevo voglia di pensare; pensare, in quel momento, era l’unica cosa da fare. Cercavo di riordinare i pensieri nella mia testa, ma ogni volta era come cercare di spazzare in un mare di sabbia: un compito ingrato e senza fine.
Non sapevo come prendere la dichiarazione di Karen: in un certo senso era positiva, certo, perché era la lampante dimostrazione che Ian c’era; dall’altro canto, però, Ian doveva essere uno di quegli intellettuali che si circondano di una cerchia di amici e non considerano il resto del mondo.
Stavo ancora pensando a ciò, quando intravidi l’ingresso del negozietto in cui lavoravo. Erano esposto in bell’ordine molti dei dischi cosiddetti “indipendenti” usciti nell’ultimo anno. Tra questi c’era uno strano EP di un gruppo chiamato Warsaw, “An Ideal for Living”. Era l’anno d’oro di quel movimento chiamato Post-punk, che poi avrebbe influenzato tutta la musica dark degli anni ’80.
Casualmente, il cantante dei Warsaw (e dei successivi Joy Division) si chiamava Ian. Un Ian tristemente noto, a causa della tragica fine.
Mi trovai a ricordarmi delle serate passate a suonare, fino a pochi mesi fa. Mi venivano alla mente le luci di un bianco abbagliante che contrastavano in modo così artificioso con le pareti nere dei locali, le bevute prima, durante e dopo il concerto. Chi veniva per ascoltarci davvero, veniva quando mancavano 20 minuti alla fine del concerto. Era lì che usciva la nostra anima.
Sì, il nostro modo di suonare era simile a quello di tanti gruppi nostri contemporanei, primi fra i quali i Warsaw. Un modo di suonare fatto di suoni distorti, canzoni senza capo né coda, dettate dalle lunghe parti strumentali e dalle parti cantate urlate con disperazione. Era il nostro modo di esprimerci, il nostro urlo da poeti maledetti, la nostra denuncia contro il passato, il diniego del futuro.
***
Entrai nel negozio, mi accesi una sigaretta, cominciai ad aprire i pacchi di dischi che erano arrivati e necessitavano di essere ordinati per bene. C’era un EP appena pubblicato da un gruppo, gli Easy Cure, che promettevano grandi cose.
C’era Siouxsie and the Banshees, c’era Bowie, c’era Lou Reed. Tutti nomi che aspettavano solo di essere impilati nella sezione corretta.
Devo dire che amavo particolarmente sistemare i dischi. Mi faceva stare bene, mi faceva sentire il controllo su qualcosa. Sembrerà squallido, ma i dischi mi elettrizzavano, c’era qualcosa di magico nel vinile.
Avevo appena finito, quando alzai gli occhi verso la strada.
Il marciapiede era diviso dalla strada da un viale di olmi che cominciavano a far spuntare le prime foglie. Cadeva una pioggerella sottile e gelata, il cielo era grigio e la temperatura piuttosto bassa. Sulla via opposta si aprivano numerose botteghe, soprattutto librerie, ma anche piccoli pub e cinema. Era quel particolare momento della giornata in cui non è né sera, né pomeriggio: era quella meravigliosa parte della giornata che non è definita, in cui notte e giorno si fondono, un momento in cui tutto può succedere.
Stavo bevendo l’enorme tazza di the che mi ero appena versata, quando vidi un giovane attraversare la strada e avvicinarsi incuriosito alla vetrina. Mi si fermò il cuore in gola: era spaventosamente simile all’Ian della festa. I capelli erano decisamente gli stessi, ma non riuscivo a scorgere i lineamenti del volto.
Non sapevo se desiderare che entrasse o se ne andasse, lasciandomi con la speranza che fosse Ian. Ora che probabilmente il momento della verità era vicino, scoprii che ne avevo una paura terribile. Avevo paura di scoprire che Ian fosse solo un ragazzo come tanti, né stupido né brillante.
Non volevo che il personaggio che mi ero costruita nella mente venisse disintegrato dalla verità. Se Ian non fosse stato quello che pensavo, allora che ne rimaneva di me? Ormai vivevo nella speranza di incontrare qualcun altro come me, qualcuno con cui poter parlare. Ed ora, se non ci fosse stato, con quale speranza avrei vissuto?
Cercai di ricordare come fosse stata la vita senza il pensiero di Ian. Scoprii che in cuor mio c’era sempre stata l’ambizione di poter condividere i miei pensieri con ragazzi simili a me. A volte c’ero riuscita, ma sempre più raramente.
Ed ora, avrei avuto un’altra delusione? Era davvero Ian, quello lì fuori?

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Capitolo 3
*** "Mi sento fatto a pezzi" ***


Capitolo 3, Side A.
Manchester, 16 marzo 1978.
 
Gli occhi mi bruciavano dalle lacrime, appena ripresi contatto con il mondo reale. Avevo pianto dentro quello che una volta era il the. Scoprii però che le mie riflessioni avevano occupato poco più di un minuto di tempo, anche se a me erano parsi molti di più. Il ragazzo era ancora lì fuori. Sembrava piuttosto indeciso se entrare o meno, ma visto che il tempo peggiorava sempre più e un vento gelido proveniente da est aveva iniziato a soffiare per le strade, si decise ad entrare.
Avevo il cuore a mille. Se non fosse stato lui, probabilmente ne sarei stata quasi sollevata.
Invece era lui.
***
Gli occhi furono la prima cosa che notai per accertarmi che fosse veramente Ian. Due occhi così non si possono dimenticare. Sì, erano i suoi. Occhi azzurro chiaro, limpidi; avrei potuto leggerci attraverso, se lo avessi voluto.
Entrò sbattendo la porta: il vento fuori era davvero terribile e le nuvole si stavano spaventosamente ingrossando.
-Ermh, salve... esordì con un filo di voce. –Volevo sapere, avete qua in negozio “Idiot” di Iggy Pop? Sa, sono mesi che lo cerco, ma sembra finito in ogni negozio in cui entro.
-Certo, ora controllo, ma dovrei averlo di sicuro.
Risposi meccanicamente, con un sorriso.
Mi dressi verso il magazzino, e intanto valutai attentamente la situazione: Sì, quello era davvero Ian, non c’erano dubbi. Ora, come comportarsi? Dovevo conoscerlo meglio, ne avevo il bisogno.
Trovai facilmente il disco e riemersi verso la zona principale della bottega.
Lo sguardo luminoso che fece il ragazzo appena mi vide tornare con il vinile sotto braccio non lo dimenticherò mai. Ora che ci penso, fu una delle pochissime volte che lo vidi sorridere.
Mentre pagava, non poté fare a meno di complimentarsi per la scelta dei gruppi proposti. Mi chiese se fosse opera mia. Risposi che, sì, in parte era opera mia, in parte del ero proprietario del negozio, in signor Hammett.
-Oh, quindi non è tuo il negozio?
-Io ci lavoro part-time. Durante il giorno di solito studio all’università.
-Anche tu? Io studio storia inglese e letteratura. Strano, non ti ho mai notato alle lezioni. Piacere, Ian.
Mi tese la mano e mela strinse con una stretta sicura, sincera.
-Sono un persona con il dono dell’invisibilità. Io seguo i corsi di letteratura contemporanea, storia e psicologia. Mi chiamo Christiane. Ci siamo già visti alla festa di Karen, una mia amica..
-Ora che mi ci fai pensare me la ricordo. Pensa, sono venuto alla festa solo per caso.
Senti, ti andrebbe di prendere un caffè dopo le lezioni, qualche volta? Sai, mi farebbe piacere la tua compagnia.
 
Senza nemmeno aspettare una risposta, uscì sulla strada con il vinile sotto braccio.
 
 
Capitolo 3, Side B.
Manchester, 20 marzo 1978.
 
Erano passati quattro giorni da quando Ian era entrato nel negozio. Quattro giorni di inferno. Quattro giorni in cui non aveva fatto altro che pensare, pensare e pensare. Mi nutrivo di ragionamenti e di aria, ormai.
Lo vidi una volta sola all’università, era circondato da ragazzi simili a lui, cappotti neri e lunghi, pantaloni neri. Se li avessi visti da lontano, avrei potuto credere che si trattasse dell’ennesimo gruppo di filo-nazisti che erano spuntati come funghi a Manchester. Invece erano solo musicisti, amanti della letteratura, amanti della poesia, ragazzi sensibili che si trovavano a combattere con la morte progressiva della propria città natale.
Manchester stava morendo lentamente insieme all’industria pesante.
Non lo avevo avvicinato in quella occasione perché mi rendo conto di avere paura della gente. Ho paura di chi non conosco, ho paura della folla.
Eppure sentivo che avrei dovuto parlargli. Avrei dovuto chiedergli di uscire, di andare in un bar a bere una tazza di Irish Coffee.
Una parte di me, però sapeva benissimo che era un miraggio. Sì, qua a Manchester avevo avuto la possibilità di ripartire da zero, ma il mio cervello ricordava. Non riuscivo ad avere fiducia nella gente, non dopo quello che era successo.
***
Sentii qualcosa sfiorarmi la spalla destra. Mi voltai rapidamente, giusto in tempo per riconoscere il viso inconfondibile di Ian. Si sedette di fianco a me sulla panca di pietra lungo il viale dell’università senza dire una parola.
Non sapevo assolutamente cosa dire per iniziare una conversazione, quando dalla sua bocca uscì una frase secca, quasi formale.
-Spero di non infastidirti se mi siedo qua.
Il suo sguardo era duro, impenetrabile. Tuttavia, mi sentivo a mio agio con la sua personalità ferma. Era una barriera che non potevo superare, mi dava un limite. Ciò mi dava la sicurezza che non avevo mai avuto guardando qualcuno negli occhi. Sembravano dire: questo è il limite, non andare oltre perché non puoi.
Il semplice fatto di avere una regola mi aiutava tantissimo. Avevo bisogno di impormi dei freni mentali, non potevo semplicemente fare senza pensare: fare senza pensare è come far battere il cuore senza però respirare.
 
-No, non mi disturbi affatto.- Stetti un attimo in silenzio, poi chiesi:- Come mai oggi non sei con loro?
Piegai la testa verso i ragazzi vestiti di nero.
-Ah, gli hai notati. Beh, non siamo esattamente amici. Non nel vero senso della parola. Devono giudicarmi particolarmente interessante, ma io per loro non provo quasi nulla.
Sai, -disse con un sorriso malinconico- penso quasi di avere paura delle altre persone. Non so perché tu mi ispiri talmente tanta fiducia da parlarti così, liberamente. Sugli altri non riesco a mantenere il controllo, anche se sarebbe così facile essere il loro leader e indurli a fare ciò che dico.
Le gente è così priva di senso, a volte. Seguono il gregge, il capogruppo senza nemmeno pensarci. Credono bianco, ma il giorno dopo il capo dice che tutto è stato sempre nero, hanno sempre creduto nel nero.
E loro lo accettano così, senza nemmeno pensarci.
Non lo trovi... spaventoso?
 
I suoi occhi si alzarono verso i miei. Sì, era davvero spaventato, glielo si leggeva in faccia.
Prima che avessi il tempo di replicare, si alzò di scatto e se ne andò verso il gruppo con cui passava i pomeriggi di solito.
Notai che aveva lasciato sulla panca un foglietto spiegazzato. C’era scritta sopra un’unica frase: “Mi sento fatto a pezzi”.
Alzai lo sguardo dal foglio giusto in tempo per vedere l’ultima occhiata piena di sofferenza che mi lanciava, una muta richiesta d’aiuto.
Capii che non ero l’unica che aveva bisogno di qualcuno che fosse rimasto fuori da tutto, qualcuno che non seguiva gli altri perché gli altri non volevano che i miserabili li seguissero.
 
 
 

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Capitolo 4
*** Rimani. ***


Capitolo 4, Side A.
Manchester, 29 marzo 1978.
 
Cercavo disperatamente un qualsiasi tipo di contatto con Ian, sapevo che lui aveva bisogno di me allo stesso modo in cui avevo bisogno di lui.
Ci rivedemmo solamente più di una settimana dopo. Mi apparve ancora più stremato del solito, con le occhiaie nere che gli segnavano il volto, molto più magro dall’ultima volta che avevo potuto osservarlo bene.
D’altra parte, io non me la passavo di certo meglio. Le notti passate alzata a leggere o a suonare e bere non mi facevano bene; ero di una magrezza spettrale, facevo fatica a stare in piedi. I miei capelli rossi non riflettevano più le luci della primavera, ma sembravano essersi spenti tutti di un colpo.
Ogni volta che ci vedevamo era una cosa improvvisa, mai pianificata. Quel pomeriggio mi afferrò per una manica e mi portò in una strada secondaria, senza dire una parola, come sempre. Anche lui era magro, troppo magro. Le sue mani sembravano gli artigli di uno scheletro, era ormai solo un mucchio d’ossa.
Quando ci fermammo di camminare, mi disse:-Vedi, io vivo in quell’appartamento lassù, all’ultimo piano. Vuoi salire?
Sgranai gli occhi; annuii in silenzio. Mentre salivamo silenziosamente per le scale grigie e fredde del palazzo, mi accesi una sigaretta con le mani tremanti: avvertivo un freddo terribile.
***
Ian aprì la porta di casa sua in perfetto silenzio, come sempre. Era la casa più bella che avessi mai visto: le pareti erano grigie, ma sul lato ad est il muro era dominato da due grandi finestre che lasciavano entrare le ultime luci del giorno che moriva. Veramente, non era proprio un appartamento, quanto un monolocale in quella che poi oggi verrebbe considerata la mansarda. La stanza era occupata in parte da un enorme divano di pelle nera invecchiata che aveva un’aria decisamente comoda. La parete opposta a quella delle grandi finestre era occupata da una libreria in cui erano disposti sia libri che dischi e da un angolo cottura appena sufficiente a scaldare il the. Nell’ultimo angolo in fondo, c’era un letto di ferro battuto appoggiato sotto una finestrella che dava sul fondo di una viuzza.
-Vuoi qualcosa da bere?
Il suono della sua voce mi fece trasalire.
-Emm, certo! Avresti un qualcosa di caldo? Qua c’è un freddo...
-Ti andrebbe bene un Irish Coffee? Non conosco nulla che scaldi come quello.
Ovviamente non aspettò la mia risposta e mise a scaldare sul fuoco una caffettiera.
-Siediti pure. Ah, la giacca puoi appenderla qui- disse indicando un attaccapanni appeso al muro. 
Misi la giacca a posto e mi accomodai sul divano.
Notai che c’era una televisione, piccola ma funzionante, con tanto di videoregistratore. Volevo chiedergli se potevamo guardare qualcosa mentre aspettavamo che il caffè fosse pronto, ma mi precedette.
-Ho appena comprato un nuovo film di questo regista, David Lynch. Ti va di guardarlo? Si chiama Erasehead.
-Molto volentieri, ne ho sentito critiche fantastiche.
-Bene, allora! Vado a preparare il caffè, tu intanto metti su la videocassetta.
10 minuti dopo eravamo seduti entrambi sul divano a guardare questo film vagamente assurdo.
Non so se fosse merito del liquore, del film o del fatto di essere con lui, ma mi sentivo felice, una sensazione che mi era mancata a lungo.
 
 
Capitolo 4, side B.
Manchester, 30 marzo 1978.
 
L’alba mi sorprese come un tradimento.
La prima cosa che mi colpì fu l’odore di caffè che riempiva la stanza. La seconda era che non mi trovavo a casa mia. Capii con sommo imbarazzo che evidentemente il pomeriggio prima mi ero addormentata sul divano di Ian dopo aver finito di vedere il film. D’altro canto avevo talmente bisogno di una dormita ristoratrice e questa mi aveva davvero fatto bene, che non me ne dispiacqui troppo.
-Oh, finalmente ti sei svegliata! Mi sembravi caduta in coma. Come va?
Ecco, di nuovo. Aveva l’innata capacità di farmi prendere paura parlando così, quando meno me lo sarei aspettato.
-Mmmm, sto bene, grazie... Ma quanto ho dormito?
-Un bel po’, te lo assicuro, mi sei crollata addosso ieri! Da quanto tempo non dormivi?
Dio, che figura. –E’ quasi una settimana, ad esser sinceri... Ma che giorno è oggi? Io al mattino non carburo bene.
-Immagino, Christiane, nessuno al mattino carbura bene. Sono le 10 e 36 di domenica 30 marzo. Vuoi un po’ di caffè?
Mi alzai dal letto, mi diressi verso il piccolo tavolino dove erano radunati biscotti, caffè e pane. Avevo una fame spaventosa, mangiai quasi tutto.
Intanto lui fece partire un disco che riconobbi subito: The Idiot.
-Ricordi? Beh ad esser sincero, questo disco lo avrei potuto trovare dappertutto. Ma cercavo te.
Dall’altro lato della stanza mi fece un sorriso radioso e sincero.
Io ero stupita, impressionata, felice, spaventata. Ma, quando una persona è felice, ed era tanto tempo che non lo ero, dimentica le altre sensazioni e si concentra sulla gioia.
Lui proseguì:-Ti avevo notato alla festa di quella Karen, Avevi negli occhi un’aria assolutamente disperata, sebbene ti atteggiassi a persona felice. Conosco bene qual modo di fare, anche io sono come te. E, beh, speravo che tu mi avresti potuto comprendere, almeno i parte.
-E’ la stessa cosa che ho pensato anche io di te. Però di ne avevo solo una vaga idea, il mattino dopo. Dimmi, quella sera ci siamo parlati? Non ricordo nulla o quasi di quella festa.
-Sì, ma per pochissimo tempo, abbiamo fatto solo in tempo a scambiarci i nostri nomi, Chris.
Ho bisogno di te; per favore, non tornare a casa, non tornare al tuo grigiore; rimani con me. Ho desiderato per troppo tempo qualcuno con cui poter parlare, qualcuno che avesse vissuto un inferno e fosse ancora qua, aiutami a non portare da solo il peso dei ricordi. So cosa hai vissuto. A me non è andata meglio. Sono rimbalzato per mesi da cliniche di igiene mentale a consultori giovanili, ma il male non lo avevo fatto io: il male lo portavo dentro da mesi, anni, prima di fare ciò che ho fatto.
 
Si scoprì i polsi: una sottile linea bluastra li percorreva orizzontalmente.
 
-Ho provato ad uccidermi perché il peso nel mio cuore era troppo grande.
Ti rendo conto cosa voglia dire svegliarsi e sapere che ciò che volevi abbandonare c’è ancora? Immagini nulla di peggio di sopravvivere al proprio suicidio?
Io so che tu puoi riuscirci; per questo ti chiedo di rimanere. Se sono solo, inoltre, so che potrei rifarlo. Se tu sei qua con me, so che riuscirò a vivere ancora. Resterai, vero?
 
Mi lanciò una delle sue tipiche occhiate disperate, in cui potevo leggere numerose emozioni, ma il dolore era la principale.
Mi alzai dalla sedia lentamente. Abbassai gli occhi verso il pavimento di legno.
Lo abbracciai di slancio. Lui mi strinse con forza a sé. Sentivo le sue lacrime bagnarmi i capelli. Sentivo le mie scendere calde dai miei occhi.
Fu un abbraccio eterno, pieno di dolore, ma anche di sollievo, di felicità implicita.
Sapevamo entrambi che ci saremmo annientati, però c’era sollievo in quelle lacrime. Erano lacrime di gioia, in parte. Non avremmo più combattuto da soli contro tutti, ma saremo rimasti uniti.
–Certo che resto.

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Capitolo 5
*** Quel che non ti uccide ti rende più forte. ***


Capitolo 5, Side A.
Manchester, 15 aprile 1978.
 
C’era sempre freddo, dentro quella casa. Per quanto cercassi di non pensarci, l’aria era piena di un’aura strana, malefica. Forse era causa nostra.
E poi c’era la questione dei tagli.
Ogni sera sapevamo che ce n’era almeno uno o due nuovi in ciascuna delle nostre braccia. Era più forte di noi, il dolore era la nostra espiazione quotidiana. Provavamo a distrarci leggendo, ascoltando musica, andando fuori a bere. Ma alla fine, sapevamo che la notte ci era traditrice.
Nella notte, siamo soli contro noi stessi. Non riuscivamo a dormire. Con il dolore nel cuore, scivolavamo giù dal letto ed andavamo in bagno. Ne uscivamo con una calma, una risolutezza impensabile, ma anche con un lungo graffio sul braccio sinistro. Era il nostro modo di urlare senza parole, il nostro personale grido d’aiuto, ma volevamo un aiuto che non poteva arrivare perché non ci lasciavamo aiutare da nessuno.
Le occhiaie ci scavavano il volto, non mangiavamo quasi, il nostro corpo era solo ossa e nervi. Ma questo non ci importava; a dire il vero, nulla ci importava. Non ci interessava il fatto che eravamo talmente magri da far paura; non ci interessava che ormai ci nutrivamo solo di sigarette, latte, the, whiskey e occasionalmente yoghurt. Né tantomeno ci interessava il fatto che vivevamo quasi chiusi in casa, che uscivamo sempre meno, che l’università stava andando male e che nessuno sapesse che vita facevamo.
Noi eravamo il nostro universo. Ci bastavamo, ci completavamo. Ci stavamo uccidendo.
Stare insieme era stato il più grande errore che avremmo mai potuto fare.
Eppure c’era quella bellissima sensazione, la gioia di aver qualcuno da abbracciare dopo aver pianto, il calore dopo le lacrime, l’amore dopo l’odio.
***
Ci trascinavamo dal letto al divano e occasionalmente all’esterno, in una Manchester tiepida e gioiosa, in cui iniziavano a fiorire le piante e gli alberi a mettere le foglioline verdi e tenere.
Ma a noi del tempo esterno non ci interessava alcunché. L’appartamento era sempre grigio, sempre ugualmente grigio. La luce entrava sempre fredda ed impersonale, il sole appariva scialbo all’orizzonte.
Alla mattina eravamo svegliati (nelle rare occasioni in cui dormivamo) da una luce sbieca che cadeva da sopra sul letto. Una luce naturalmente grigia, fredda. Non c’era bontà, né clemenza nell’inizio di un nuovo giorno.
Avremmo tanto voluto non svegliarci, rimanere stretti l’uno all’altra sotto quella luce innaturale per sempre.
Quel che non ti uccide ti rende più forte.
Non è vero: eravamo deboli, disperati, ma in un certo senso felici. Sapevamo che il nostro destino era quello di soffrire. Almeno soffrivamo insieme.
Era, a dirla tutta, una magra consolazione. Tutto quello che non era il nostro piccolo mondo era tagliato fuori. Se avessimo voluto tornare a stare all’esterno avremmo dovuto fare uno sforzo immenso. Stavamo sacrificando tutto in nome di noi soli.
Perché quella che doveva essere comprensione, era diventata da subito un amore profondo, radicato e difficile da demolire.
Ci amavamo perché non potevamo fare altro. Eravamo totalmente identici, anche se provenivamo da situazioni differenti e avevamo una concezione del dolore molto diversa: entrambi però concordavamo sul fatto che il dolore a livello fisico non lo si può esprimere a parole, ma solo con altro dolore fisico capace di far dimenticare almeno per un po’ quello così profondamente radicato in noi.
Il farsi lunghi tagli su tutte le braccia era una specie di esorcismo del dolore vero. Un modo per avere qualcosa sui cui sfogare e focalizzare il tutto. C’erano troppi frammenti in noi per rappresentare qualcosa di vero, perciò aggiungevamo ogni giorno un pezzetto di dolore in più per cercare di capire cosa ci facesse davvero male: era come fare un puzzle, stavamo aspettando il quadratino che dà un senso al tutto, ma quel quadratino non arrivava, né pensavamo che sarebbe mai arrivato.
 
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Attenzione: questa è solo la prima metà del 5° capitolo. E’ un capitolo eccezionalmente lungo, ho quindi deciso di pubblicarlo separatamente.

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Capitolo 6
*** Comin' back to life ***


Capitolo 5, Side B.
Manchester, 19 aprile 1978
Le giornate passavano tutte uguali, con una monotonia spaventosa e crudele. Il cambiamento non sarebbe stato determinato, né  sarebbe avvenuto grazie a noi. Eravamo troppo deboli per una qualsiasi azione; cercavamo di non darci peso, ma entrambi sapevamo che se non avremmo fatto qualcosa, saremmo lentamente morti dentro quella casa così fredda e impersonale. Eppure non volevamo sopravvivere a noi stessi. Volevamo finire così, insieme, magari nel sonno, senza dolore: ne avevamo già patito troppo.
Ma qualcosa finalmente cambiò. Volevamo andare avanti, volevamo tornare su dal quello che ci pareva il fondo. Ci rendemmo conto che avevamo fame, volevamo finalmente magiare di nuovo qualcosa, volevo tornare a sentire i sapori.
Ero davanti allo specchio a pettinarmi i capelli: mi facevo impressione. La pelle del volto era tirata sugli zigomi e creava una specie di incavo dove di solito avrebbero dovuto esserci le guance, sotto agli occhi una decisa linea nerastra mi faceva assomigliare sempre più ad un teschio; nelle spalle ogni osso si distingueva perfettamente e sulla schiena potevo sentire chiaramente la spina dorsale. Le ossa del bacino spuntavano in fuori nette e definite, le gambe erano così sottili da poterle circondare senza fatica con due mani unite.
Mi vestii velocemente con un vestito nero e una giacca lunga nera, un paio di scarpe basse e la prima cosa vagamente somigliante ad una borsa che vidi.
Scesi dunque in strada per comprare il minimo indispensabile. L’esterno mi colpì in faccia come un pugno. Era quasi un mese che non vedevo il sole. Tutto era diverso: colori, odori... mi era mancato il mondo. Di solito era Ian che scendeva in strada per comprare il minimo indispensabile, ma non mi aveva mai detto che così tante cose erano cambiate. Non mi ricordavo più del canto degli uccellini, né dello stormire delle foglie: l’ambiente naturale mi aveva fatto tornare la voglia di vivere più di qualsiasi altra cosa.
***
Un’ora dopo eravamo entrambi seduti davanti a quel tavolo così piccolo a mangiare una zuppa calda: quello era uno dei tanti piaceri che ci negavamo da tanto tempo, ormai. Erano finiti tutti i dolori, le disperazioni, i tagli. Noi volevamo che così fosse: non ne potevamo più del buio di noi stessi, avevamo bisogno della luce. Ci giurammo che mai e poi mai più saremmo tornati a farci così tanto male inutilmente, male solo per noi stessi. Basta dolore narcisistico, da spiriti dannati. Non potevamo più nemmeno permetterci di soffrire solo perché lo volevamo: non bisogna mai desiderare di aumentare il proprio dolore. Eppure spesso siamo portati a voler soffrire di più per avere qualcosa sui cui focalizzare un arcobaleno di sensazioni diverse e, visto che non tutti nasciamo con la predisposizione per la gioia, ci rifugiamo nel patimento.
 
Ian mi raccontò della sua vita, degli studi brillanti, dei genitori che erano morti quando aveva 15 anni, dei suoi zii che lo avevano preso in affido, e alla fine, dell’eroina.
La sua storia era simile alla mia: si sentiva oppresso dalla realtà e dalla libertà; aveva bisogno di sentirsi vincolato da qualcosa come ne avevo bisogno io.
Ammiro coloro che combattono per la libertà, ma spesso si rivela un’arma a doppio taglio.
Ian aveva iniziato con le droghe a 17 anni, quattro anni fa. Niente gli bastava, aveva dovuto aumentare tutto sempre di più per sentire “lo sballo”, per andarsene. Era diventato totalmente schiavo dell’ero. Era però riuscito a mantenere, non so come, una specie di controllo su sé stesso, aveva potuto continuare a studiare con lucidità, si era diplomato a pieni voti.
Ma durante l’estate, tutto era andato a catafascio. Un’overdose dietro l’altra, una perdita di controllo dietro l’altra. Era sempre più spaventato. Ormai era schiavo di due cose: della droga e della paura.
Paura significa perdita di controllo ed il controllo era tutto. Tutto era rappresentato dal controllo: dovevo controllarti con i tuoi tutori, dovevi controllarti durante gli esami, dovevi controllarti con gli amici, dovevi controllare che l’eroina fosse non troppo pura né troppo tagliata e, soprattutto, dovevi controllare che non fosse mai troppa. Ed era questo senso di oppressione e di fallimento che lo aveva portato sempre più in basso, in quello che lui definiva “un viaggio senza ritorno”, una scala buia da cui non si può più risalire.
-In un certo senso, è bello sapere che non puoi tornare indietro. Non ti viene quell’ipocrita idea di potercela fare a mollare tutto. Io non avrei voluto mollarla, l’ero. Era la mia vita. Eppure quelle due settimane in ospedale mi hanno reso intollerante ai suoi effetti. Devono avermi depurato per bene: ero dentro per coma etilico misto ad una copiosa emorragia ed a un’overdose che in qualsiasi altra circostanza sarebbe stata letale. Avevo bevuto finché non ero lì lì per svenire, mi sono iniettato 15 grammi di eroina e mi sono tagliato le vene, qua sui polsi. Ero certo che non sarei sopravvissuto. Eppure la sorte è strana. Sono qua, come sei qua anche tu. Cosa regola la sopravvivenza di un uomo, Christiane? Forse mezzo grammo in più mi avrebbe ucciso, forse un taglio più netto mi avrebbe stroncato. Ma non dovevo morire così, evidentemente. Nella vita altro mi aspetta, c’è qualcosa in serbo per noi. Fosse anche la più banale delle esistenze, mi andrebbe bene.
Dopo un tentato suicidio, capisci la bellezza della vita, capisci che per le altre persone sei importate. Ho incontrato te, la cosa migliore che mi sia mai capitata.
Però, cosa abbiamo fatto finora io e te, invece di vivere la nostra vita? Ci siamo annientati lentamente, eravamo ancora immaturi e non riuscivamo ad esprimere ciò che sentivamo. Io sto riuscendo a farti capire quello che ho passato solo ora, dopo quasi un mese di nulla, di vuoto.
Mi dispiace di aver lasciato tutto a sé stesso, ma non riuscivo a reagire. Ora ci sto riuscendo.
Promettimi una cosa: mai più, mai più il dolore sarà una forma di sfogo.
Dobbiamo imparare ad elaborare quello che abbiamo, se no sarà sempre peggio. Entreremo in un circolo vizioso, come in questi 20 giorni.
Guardati: sembri morta. Io mi vedo in te, anche io sembro morto. E’ tempo di tornare a vivere. Superiamo tutto, ce la possiamo fare. Ma ce la faremo solo insieme, senza silenzi, senza dolore. Vieni qui.
Mi strinse di nuovo in uno dei suoi abbracci pieni di sollievo e dolore.
I nostri abbracci erano un po’ come il sole che tramonta inondando di rosso un lago: uno spettacolo contraddittorio, ma bello da mozzare il fiato.
Rimanemmo ancora un po’ a guardarci negli occhi senza dire una parola. Ci bastava sentirci di nuovo, di non essere più due fantasmi, ma di nuovo le due persone che eravamo prima.
-Mi dispiace-dissi chinando la testa verso il basso- è stata forse colpa mia? So che non è colpa mia il tutto, però forse ti ho trascinato verso il basso con me. Non è stato un bel periodo, questo. Secondo me non abbiamo voluto reagire alle nostre debolezze. Tu, insomma, senza di me vivevi ed avresti vissuto meglio.
E in quel momento, capii che stavo perdendo il controllo.
-Io, io insomma... Ian, tu sai bene quel che provo per te. E immagino che tu sappia che non riuscirei a farne a meno. Solo che so che staresti meglio senza la mia presenza così perennemente cupa. Io non ti aiuto a stare meglio, lo so.
Non ce la facevo più. Sapevo benissimo che era tutta colpa mia; era una convinzione che mi si era radicata profondamente nel cuore.
Io senza di lui non riuscivo a stare, ma lui? Lui era un’altra persona prima, una persona probabilmente più, se così posso dire, allegra.
Cominciai a piangere tutte le lacrime che mi ero tenuta dentro per mesi, anni. Ed era una strana sensazione: è come se le lacrime che mi sgorgavano calde dal cuore le avessi gelosamente conservate come un tesoro prezioso ed ora qualcuno me ne stesse privando: dolore, dolore. Il fatto di parlare aveva scatenato in me una reazione immensa: ora finalmente riuscivo a liberarmi di tutto il dolore, di tutto il risentimento verso i miei genitori che non mi avevano mai aiutato, verso Karen che mi aveva fatto iniziare qual viaggio oscuro, verso me stessa e le mie debolezze che non sapevo controllare.
Mi liberai di tutto come se avessi avuto finalmente scaricato per terra un carico troppo pesante che mi gravava sulle spalle.
Mi sentivo più leggera, ma ora il mio cuore era vuoto. Quanto di me era racchiuso nelle lacrime che avevo versato?
Le sue mani mi accarezzavano la schiena, ma non mi parlava: sapeva meglio di me che parlare a qualcuno che piange è come non parlare. Aspettò che il crollo finisse e che io cominciassi a respirare affannosamente, smettendo di piangere.
-Scu... scusa. Mi dispiace. Ho.. ho perso il controllo, ancora una volta.
-E’ tutto a posto, tranquilla. E’ tutto a posto. Ora per favore smettila di dire queste cose. Non è vero nulla. Ho bisogno di te quanto tu ne hai di me. Fai silenzio.
 
Mi addormentai così, tra le sue braccia.

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Capitolo 7
*** 1984 ***


Capitolo 6, Side A.
Manchester, 1mo maggio 1978.
 
Pian piano le ferite si rimarginarono.
Eravamo tornati ad essere un po’ più “normali”, o almeno noi ci consideravamo tali.
La verità è che eravamo riusciti a raggiungere un equilibrio. Semplicemente, quando uno dei due non si sentiva in grado di sopportare il clima che veniva a crearsi in casa, usciva finché non stava meglio.
Riprendemmo a studiare e a lavorare. Tutto andava bene, eravamo felici, ci volevamo bene.
Leggevamo tanto, parlavamo altrettanto. In quel periodo stavo leggendo 1984.
La notte piangevo per quello che leggevo. Cominciai ad avere veramente paura. Ian faceva veramente di tutto per aiutarmi. Mi raccontò che la prima volta con Orwell è sempre così, che mi sarebbe passato.
Ma io non volevo che mi passasse, volevo continuare a mantenere una sorta di integrità mentale e di riuscire ad assorbire meglio il messaggio del libro, volevo mantenere qual senso di indignazione che sentivo in fondo al cuore.
Dio, quanto piangevo la notte per quelle pagine. Piangevo per Winston e per noi uomini, una specie così fragile eppure così crudele. Piangevo per un futuro che non ci sarebbe mai stato, piangevo e piangevo.
Nemmeno Ian poteva farci più di tanto, nessuno poteva farci qualcosa. La notte sentiva il mio singhiozzio sommesso, la mattina mi vedeva con gli occhi cerchiati di blu. Era spaventato da cosa avrei potuto fare, mi disse di lasciar stare il libro e riprenderlo in mano tra una settimana.
Ma io riuscii a finirlo.
La perdita di libertà. Il trionfo su sé stessi. Winston. “Ora amava il Grande Fratello”.
Mi aggrappai ad Ian con tutta la mia forza: quel libro mi aveva sconvolto più di ogni altra cosa. Avevo bisogno che mi tenesse sul bordo della realtà.
“Controllati”.
-Christiane, calmati. Stai calma. Non è mai successo nulla di quel libro. Non penso nemmeno che potrebbe mai succedere. Su, va tutto bene.
Non ci saranno mai totalitarismi finché la gente potrà pensare con la propria testa. La libertà individuale è la nemica naturale della dittatura. Dobbiamo mantenere il nostro pensiero affinché nessuno ce ne privi. A volte non pensiamo a quanto sia bello poter affermare che due più due fa quattro, non è vero? Ora, noi non sappiamo quanto ciò conti, ci sembra scontato e naturale poter dire una cosa del genere. Però, fermati a pensare un attimo: cosa saremmo noi senza la libertà? Noi siamo fatti di essa, se ce la togliessero che rimarrebbe di noi?
Saremmo solo delle macchine, macchine soggiogate. Christiane, Orwell vuole dirci di urlare il nostro pensiero, non c’è bisogno di piangere.
 
Le sue labbra indugiarono a lungo sulle mie in un bacio perfetto, che comunicava tutto quello che c’era da dire.
Ian, come sempre, aveva ragione: la forza di un libro sa nelle parole e nell’intensità con cui le comunica al lettore.
Sì, quello era un grande libro, solo i libri che contano qualcosa alla fine ti fanno piangere e ti fanno desiderare di rileggerlo da capo.
 
Ero ristorata questo dialogo, ogni cosa dopo sembrava più semplice, meno pesante. Erano piccole briciole di felicità che si andavano a sommare ad altre, allo stesso modo in cui le preoccupazioni si sommano ad altre preoccupazioni formando un muro di panico; in questo caso però lo stavo abbattendo, quel muro.
Un muro che si era formato 15 anni fa e che solo ora si stava sgretolando come un castello di sabbia costruito dalle mani di un bimbo inesperto.
 
Capitolo 6, Side B.
Manchester, 3 maggio 1978
 
Mi alzai da letto facendo il minor rumore possibile per non svegliare Ian. Avvertii un brivido netto, definito quando i miei piedi scalzi toccarono il parquet per terra. Mi infilai un paio di pantofole e mi diressi verso il bagno.
L’acqua che scorreva calda sulla mia pelle scacciava i demoni notturni che avevano turbato il mio sonno: mi rigeneravo sotto il getto della doccia ed entravo in un luogo dove non c’era né dolore né tenebra.
Un luogo in cui ritornavo bambina, tornavo ai miei prati di erba verde e di erica profumata dove correvo felice, tornavo al ruscello fresco che si snodava per la campagna.
Era quella un’età perfetta, dove il sole spendeva sempre e anche la pioggia era una festa, dove la cioccolata è più preziosa dell’oro e a pensare agli uccellini che d’inverno non hanno da mangiare vien da piangere. Avrei tanto voluto tornarci, ai miei 5 anni.
 
Però c’era il buio, un mese di cui non ricordavo nulla. Ma c’era anche quel lungo segno verticale che mi segnava il polpaccio: quanto il buio e la cicatrice erano collegati? Cosa era successo?
Non lo sapevo, e nemmeno avevo la convinzione di volerlo sapere con precisione: era un tassello mancante, ma talmente piccolo da non notarne nemmeno l’assenza.
 
Quando uscii dal bagno, mi investì il dolce e profondo aroma di caffè che avvolgeva l’enorme stanzone. Ian era in piedi vicino al fornelletto a preparare la colazione.
Mi salutò con un bacio sulla guancia e una carezza sui miei capelli appena lavati che mi scendevano morbidi sulle spalle.
 
Uscimmo di casa entrambi molto presto quel giorno, non era una giornata triste e piovosa, metteva voglia di uscire. Era strano che volessimo uscire da quella che avevo imparato a considerare, con un brivido, “casa nostra”. Era l’aggettivo “nostra” a mettermi paura, significava un qualcosa da condividere, da mettere insieme. Non sapevo se ne ero pronta, non così presto. Al tempo stesso, non sapevo nulla e sapevo tutto di lui. Però c’era quella sensazione quando mi trovavo a guardare i suoi occhi che mi impediva di avere sospetti su di lui. Era una cosa a livello subcosciente. Ci eravamo innamorati così, di colpo, ma era come se ci conoscessimo da sempre. Non avevo paura di parlare, di espormi, quando ero con lui. Non nutrivo la solita diffidenza che avevo nei confronti degli altri: forse era il fatto che venisse da una situazione ancora peggiore della mia, forse il fatto che sapeva quello che provavo in ogni istante... era un insieme di cose.
Ma non era solo questo: mi faceva paura pensare a un futuro con lui, non volevo pensare alla nostra vita in termini di un progetto da portare avanti, ma solo come un film fatto di tanti “adesso” e pochi “domani”.
Dopo ciò che era accaduto, i 20 giorni di inferno che avevo passato, avevo capito che con me, con noi, era sbagliato fare previsioni: tutto andava preso come veniva, affidandoci al caso. Era il caso a farci assaporare il meglio.
 
Ci lasciammo su quelle che erano le porte della facoltà di storia. Ero entrata solo da pochi minuti e già mi mancavano il suo viso, i suoi occhi, i suoi baci. Ero in un certo senso dipendente da lui.
Nessuno mi salutò nell’atrio, non sono nemmeno sicura che qualcuno mi avesse riconosciuto. Non che me ne interessassi molto, meno gente avevo tra i piedi meglio era. Però avrei voluto un’ochetta come Karen che mi domandasse cosa mi fosse successo, perché ero stata via tutto quel tempo e come mai non avessi chiamato. Ma in cuor mio sapevo che non c’era, né probabilmente ci sarebbe più stata. Ora tutto era diverso; mi resi conto però che andava bene così, non avevo bisogno degli altri. Dio, che rumore. Il chiasso era assordante in quella stanza dove tutto rimbombava: io ero abituata ai suoni sommessi, delicati, non a quel vociare di ragazzi intenti a scambiarsi gli appunti.
Entrai nella grande aula. Tema del giorno: “Totalitarismi in Europa: quando un partito proletario cede il governo ai signori”. Finalmente qualcosa su cui concentrarmi. Mi era mancato il piacevole conforto delle vicende narrate ai posteri.
Sentii le loro occhiate gelide, il brusio cessare di colpo quando entrai, gli sguardi alzarsi sommessamente dai punti più lontani dell’aula. Cosa c’era che non andava?
Mi sedetti al solito posto, vicino alla finestra, ma in terza fila, abbastanza da poter fare domande al professore senza urlare.
Vicino a me c’era una ragazza che non avevo mai visto. Sembrava così... normale. La gente normale mi attrae, so che posso prevalere su di loro senza impegno. Aveva i capelli biondi, indossava un paio di occhiali marroni, era magra quanto me. Potevo provare a parlarci, se ne avessi avuto voglia. Ma, in fin dei conti, oggi non sembrava un buon giorno per parlare con gente sconosciuta.
Doveva solo finire la lezione, dovevo solo tornare a casa da Ian, non volevo altro.

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Capitolo 8
*** Hanna ***


Capitolo 7, Side A.
Manchester, 10 maggio 1978
 
Qualcosa era cambiato in Ian, era più distante. Non erano però influenze esterne, quanto più un suo incupimento personale.
Certo, mi voleva ancora bene, forse più di prima, però c’era qualcosa nei suoi occhi che comunicavano un progressivo abbandono di sé.
Era il modo in cui si voltava da un’altra parte dopo avermi abbracciata, non mi guardava più negli occhi, aveva paura che io lo guardassi in faccia.
Passava le notti chino sulla pesante macchina da scrivere a battere i tasti, riempiendo fogli e fogli di frasi –probabilmente versi.
Tirava fuori centinaia di libri, ne leggeva una frase e poi li buttava con un tonfo sul pavimento, svegliandomi tutte le volte. Ormai la stanza era ingombra di volumi, tra cui tutto Proust e Burgess. Non voleva che leggessi quello che scriveva, al mattino lo riponeva ordinatamente in un cassetto.
Una sera finalmente la smise, lasciò tutto sul tavolinetto e si sdraiò accanto a me nel letto.
-Mi dispiace, ma devo farlo.- ogni sua frase era una coltellata fredda nella schiena.
-Fare cosa, scusa? Svegliarmi?- Ero stanchissima, proprio non volevo parlare.
-No. Devo scrivere, devo cercare di elaborare il tutto: ogni cosa è così veloce, diventa più veloce ogni giorno e non riesco a tenere sotto controllo nulla.
Non voglio che ne faccia sempre tu le spese dei miei problemi.
-Però di fatto è così.- Giuro che non volevo essere cattiva.
-Smettila! Io sto cercando di spiegarti. Se non vuoi nemmeno sapere il perché, torno a Proust.
-Vedo come ci tieni a Proust. È lì sul pavimento da due giorni.- Mi odiavo, mi odiavo, non si meritava il mio rancore.
-Ma perché mi fai questo?- Sentivo la disperazione nella sua voce.
-Sono io che dovrei chiederlo a te!- Ormai piangevo dalla rabbia.
-Christiane, ascoltami. Ho bisogno di te ora. Se...-
-Sono stanca dei tuoi se. Io non ti sopporto più: esisti solo tu, sei importante solo tu. Io.. io ho bisogno di uscire.
 
Mi alzai, mi buttai addosso un vestito di cotone nero, una giacca sottile, un paio di stivaletti e scesi le scale.
Perché lo avevo fatto? Io sapevo che aveva bisogno di me ora, ma io non potevo essere sempre lì solo per lui. Lui... lui doveva capire che anche io c’ero.
Mentre correvo verso il parco, sentii una voce profilarsi chiara all’interno della mia testa, una voce crudele, maligna. All’inizio cominciò come un brusio di parole veloci, senza senso, poi arrivò la freccia avvelenata lanciata da me stessa.
“Sei un’egoista, Christiane! Lo sai benissimo che lui per te c’è sempre, e dico sempre, stato. Sei tu che non vuoi prenderti responsabilità, non dopo quello che è successo a Hanna, vero?”
Hanna. Sì, è vero. Hanna era la causa del mio litigo con lui. Era da quella così lontana serata che non volevo più responsabilità. Perché la mia “metà cattiva” me lo aveva ricordato così malignamente? Ero riuscita a dimenticarmene del tutto, perché ora oltre allo strazio di Ian si aggiungeva il ricordo di Hanna?
Tutto era successo così velocemente; ora avevo bisogno di conforto.
Un conforto che non ci sarebbe più stato: quella notte non ci sarebbe stato amore per nessuno.
 
Mi sedetti su una panchina ed improvvisamente, tutto divenne apparì nitido come un film nella mia mente: le fiamme, il caldo, il dolore, Hanna.
Hanna era solo una bambina, il 4 settembre 1963; eravamo entrambe bambine.
Quella era stata un’estate eccezionalmente calda, il sole splendeva alto nel cielo. I nostri genitori ci avevano dato il permesso dio giocare nel vecchio fienile dei nonni di Hanna, una costruzione che aveva all’incirca cento anni. Tutto sembrava perfetto: cosa c’è di più bello per due bambine scapestrate che un fienile in cui giocare agli esploratori?
Ci avevano proibito però l’uso del fuoco: la costruzione era interamente di legno, non ci sarebbe voluto nulla per far divampare un incendio.
Hanna aveva un anno in meno di me, quindi la responsabilità su di lei era interamente mia. Fu di Hanna l’idea di disubbidire agli ordini dei genitori e di accendere un “fuoco da campo”. Non feci nulla per impedirglielo: l’idea mi parve ottima, sebbene sovvertisse agli ordini che ci erano stati dati. Non ci preoccupammo troppo dei possibili incendi, non ne vedevamo il motivo: avevamo numerosi secchi d’acqua da cui attingere se il fuoco fosse uscito dal nostro controllo.
La gioia di accendere fuochi era la stessa descritta da Bradbury in Fahrenheit 451: una gioia febbrile, vorace, che ci alimentava nel profondo. Ben presto perdemmo la misura: ci importava solo di farlo crescere come una sorta di sacrificio agli dei. Finché le fiamme non arrivarono a lambire le pareti di legno del fienile: ormai la fiamma era così alta che non c’erano bacinelle d’acqua che potessero fare qualcosa. Hanna però volle salire a tutti i costi sul soppalco e provare a buttare l’acqua dall’alto sul fuoco.
Mentre ormai era circondata dalle fiamme, il piolo della scala di legno che stava salendo si ruppe e lei fu inghiottita dal fuoco (questo me lo raccontarono in seguito, io non ero presente).
Io stavo correndo fuori per cercare aiuto, quando una trave chiodata mi cadde sulla gamba sinistra, impendendomi di scappare fuori.
 
Gli adulti arrivarono poco tempo dopo, ma il disastro era già successo: non seppi nulla di Hanna fino alla settimana successiva, quando mi raccontarono una bugia per non farmi soffrire: Hanna era partita insieme alla sua famiglia.
Però non ero cieca, vidi benissimo quella piccola tomba appena scavata nel cimitero del villaggio.
 
E ora tutto questo mi tornava in mente in un parco vuoto di Manchester. L’unica cosa che avrei dovuto fare era tornare indietro e chiedere perdono ad Ian, ma non lo feci. Avrei dovuto raccontare ancora una volta tutto, di come fosse stata tutta colpa mia. Non credevo assolutamente di farcela. C’era qualcosa che mi bloccava dal tornare da lui, da spiegargli cosa mi aveva fatto reagire così. Forse, però, avevo paura che mi incolpasse di tutto: ero già abbastanza mortificata di mio senza il suo prezioso supporto.
Decisi di passare quella notte da sola, senza di lui. La mattina avrei potuto ripensarci e tornare indietro.
Mi sdraiai sull’erba, vicino ad un grosso albero e lì mi addormentai. Fu un sonno orribile: urla, urla nella mia testa, finché tutto scivolò nell’indefinito.
 
 
Capitolo 7, Side B.
Manchester, 11 marzo 1978.
 
Era tutto avvolto dall’ombra del dormiveglia, quando finalmente aprii gli occhi.
Frugai nella borsa per cercare il pacchetto di sigarette e improvvisamente le mie mani incontrarono un oggetto rettangolare, morbido ma non troppo: un libro.
Era 1984, la copia di Ian. Sul frontespizio c’erano due righe scritte da lui, nella sua calligrafia curva e un po’ antica: “Alla mia Christiane, perché ricordi che la libertà è poter dire che due più due fa quattro pur sapendo che la legge dice cinque. Ian”
Mi tornarono agli occhi le lacrime che avevo pianto la sera precedente. Come avevo potuto andarmene così? Per quale motivo? Mi vergognavo di me stessa in quei momenti. Ero così egoista da voltare le spalle al ragazzo che amavo solo per proteggere il mio stupido io ferito.
Capii che l’unica cosa che potevo fare era tornare da lui.
Non ero certa, però, che lui volesse davvero rivedermi. Non dopo aver visto che mostro egocentrico sapevo essere; però dovevo almeno provare.
 
Salii le scale fredde e strette del palazzo ed entrai nel monolocale. Ian stava ancora dormendo. Era la cosa più bella che mi potesse mai capitare, vedere che in un certo senso mi aspettava.
Rimasi seduta sul divano a guardare il suo corpo magro muoversi impercettibilmente a pari passo col respiro. Avevo fatto uno sbaglio, ora ero lì per rimediare.
Tutt’a un tratto, però la stanchezza che si era ammassata in me per una settimana mi piombò addosso, e mi addormentai di nuovo sul divano, come la prima volta che ci incontrammo.
 
Sentii il vecchio parquet scricchiolare sotto i suoi piedi. Per un momento non sentii più nulla, poi il divano si tese verso il fondo: si era seduto. Mi sfiorò il collo con un timido bacio e decisi che, dopotutto, potevo anche svegliarmi.
Aprii, mezza intorpidita, gli occhi: ero così felice di rivederlo, anche se era passato così poco tempo. Lui era lì, seduto vicino al mio corpo raggomitolato e fissava il paesaggio fuori dalla finestra. Con l’autocontrollo che potevo avere alle nove di mattina, biascicai uno “scusa” poco comprensibile. Ma lui lo sentì lo stesso e si voltò nella mia direzione:- Non preoccuparti, ora stai tranquilla e non ci pensare: per me non è successo nulla. Vuoi alzarti o continui a dormire? Oggi è sabato, non c’è lezione, fai come credi.
-No, no, mi alzo.
Mi misi a sedere e lo strinsi a me. –Senti, quello che è successo ieri è colpa mia. È una lunga storia e se ne hai la pazienza te la racconterò.
Fu così che piangendo come non mi era mai successo, gli raccontai la storia di Hanna e di come questo aveva distrutto la mia famiglia, permettendomi di sfasciarmi a quel modo con la droga.
-Quando muore un bambino, specie se così piccolo, è come se ti morisse l’innocenza: sai che è colpa tua e solo tua perché l’hai permesso. I miei genitori non mi hanno più aiutata dopo questa storia, mi hanno lasciato in balia di me stessa ad affrontare i miei mostri. Ho imparato che non esistono i cavalieri delle fiabe, ma solo i draghi da cui nessuno ci può salvare. Poi cresciamo e c’è chi innalza le barriere dell’indifferenza e c’è chi, come me, che ne resta distrutto. Renditi conto di cosa può aver voluto dire per me, a sei anni, aver dovuto affrontare ciò.
 
E di nuovo, mentre parlavo diventavo più leggera: tante parti di me se ne andavano e continuavo a chiedermi quanta di me stessa fosse racchiusa nei miei problemi.

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Capitolo 9
*** Goodbye crue world, it's over. ***


Capitolo 8, side A.
Manchester, 12 marzo 1978
 
Non c’era odore di caffè nell’aria quando mi svegliai.
L’appartamento era freddo, vuoto. Tutto era silenzioso, non si sentivano nemmeno le macchine passare sulla strada opposta.
“Dov’è?”
Sapevo che non poteva essersene andato così, di punto in bianco. Insomma, ci eravamo riappacificati la sera precedente, sembrava che andasse tutto bene.
Mi alzai faticosamente e andai al tavolino. E mi si gelò il sangue nelle vene.
Un foglio scritto a macchina era fermato da una scatolina nera.
Lo presi in mano con le dita tremanti, gli occhi cominciarono a riempirsi di lacrime ancora prima che iniziassi a leggere.
 
 
 
Christiane,
sono un codardo. Non ho avuto nemmeno la forza di dirti in faccia ciò che sto scrivendo. Ed è questa lettera che ho provato a scrivere per una settimana, cercando il modo più indolore per dirtelo. Ma un modo semplice non c’è, né ci sarà mai per dirti questo: ci sono ricaduto dentro.
Non vedi che creatura spregievole che sono? Avevo tutto ciò che potevo desiderare, eppure... eppure ho scelto di nuovo di imbarcarmi verso il luogo senza destinazione. Ero approdato in un’isola di tranquillità con te e ho saputo solo rovinare tutto.
Ma non cercare in questa lettera i motivi per cui l’ho fatto: non ce ne sono.  L’ho fatto e basta, come potrei comprare un libro oppure andare a vedere un film al cinema. E’ forse questa la cosa peggiore: non ne avevo ragione.
Però il suo è un richiamo carezzevole come quello di una sirena,  non lo si può ignorare a lungo. Non darti la colpa di quello che è successo, è solo mia.
Sono ben un uomo debole: mi sei stata lontana per un giorno e ho visto il mio mondo disfarsi davanti agli occhi, tutto diventare una rapida discesa verso l’inferno.
Ti prego, cerca di capirmi. Io non ci sono riuscito, fallo tu per me. Pensavo che l’eroina mi avrebbe aiutato a superare il tutto, a riacquistare controllo: invece mi ha solo aiutato a perderlo di nuovo. E’ inspiegabile come il cervello dimentichi facilmente i suoi veri effetti e si illuda che ti possa davvero aiutare.
Speravo che tu non te ne saresti accorta, ma nemmeno riuscivo a nascondere a me stesso il fatto che avessi compiuto un altro errore.
Ho provato a cercare rassicurazioni nella lettura, ma sentivo l’accusa salire dalle pagine di ogni libro.
Non posso sperare nel tuo aiuto, nessun può aiutarmi perché non volglio essere aiutato.
Lasciami alle conseguenze del mio ennesimo sbaglio. Hai già sofferto abbastanza senza di me, non prentedenre di poter recuperare l’irrecuperabile.
Ian
P.S. Apri la scatola, volevo dartelo da tanto tempo ma non ne ho mai avuto il coraggio.
Ti amo e lo farò sempre.

 
 
La prima sensazione che provai dopo aver finito di leggere non fu dolore, fu rabbia.
Ero infuriata con lui perché aveva anche solo potuto pensare che non ce l’avrei fatta ad aiutarlo, che non ne sarebbe uscito.
Era così... stupido il suo ragionamento.
Se mi fosse capitato sottomano, avrei potuto dargli un pungo in faccia per aver pensato quelle cose.
 
Ma ora, dovevo trovarlo. Se si fosse fatto del male un’altra volta, non l’avrei sopportato: sarebbe stata solo colpa mia. Era la mia cattiveria la causa di tutto, era solo il fatto che non sapessi vedere oltre i miei bisogni il motivo per cui Ian non era riuscito a parlarmi. Non ero riuscita a capire che lui aveva qualcosa che non andava, ero riuscita solo a lamentarmi e lamentarmi e lamentrami.
 
Sentii il rimorso farsi lentamente strada nel mio animo. Le lacrime scesero incontrollate come sempre, ormai.
Mi resi conto che piangevo più di quanto mangiassi.
Con gli occhi velati, aprii la scatolina nera sul tavolo. E lì dentro c’era un anello talmente bello da sembrarmi un’allucinazione. C’era una piccola iscrizione incisa all’interno con la sua tipica scrittura: “L’amore ci farà a pezzi” .
Sentivo il dolore puro salirmi dal cuore verso la gola, cercai invano di confinarlo in un angolo di me stessa come facevo sempre, ma questa volta ne ero sopraffatta: troppo dolore e troppo in fretta. Il rimpianto era la cosa peggiore: capivo quanto quel ragazzo contasse per me solo quando se n’era andato, probabilmente per non tornare mai più.
 
Le mie mani tremavano sempre più velocemente, non riuscivo più a ricacciarmi le lacrime indietro. Sussurravo come un mantra funebre le parole incise all’interno dell’anello, speravo di darmi coraggio con quelle. Invece stavo sempre peggio, ogni volta che chiudevo gli occhi mi ricordavo di ogni piccolo particolare del suo viso. Ricordavo le serate passate ad ascoltare David Bowie e il suo Ziggy Stardust. Ricordavo la dolcezza del suo sguardo e incolpavo solo me stessa per il fatto che se ne fosse andato.
 
Piansi finché  l’oblio di un sonno senza sogni non arrivò.
 
 
Capitolo 8, Side B.
Manchester, 15 marzo 1978
 
Dovevo assolutamente fare qualcosa. Non avrei permesso a me stessa di rivivere nell’incubo nel nulla assoluto.
Se volevo ritrovare Ian, avrei avuto bisogno di tutta me stessa, avevo bisongo di controllare i miei istinti autodistruttivi.
C’era una cosa che il tempo trascorso con lui mi aveva insegnato: non essere mai passiva a me stessa; solo dominandomi sarei riuscita a salvarlo. Ora come ora, lanciarmi alla ricerca disperata di Ian era l’unica cosa che valesse la pena di esser fatta.
Mi sorse spontanea una domanda: ci sarei riuscita? Non volevo tornare anche io a perdermi nel tunnel dal quale ero uscita a forza poco tempo prima. Sì, perché sapevo che giri bisognasse frequentare a Manchester per poter trovare dell’eroina, ed erano i giri peggiori. Mi sarei dovuta completamente immergere in quel mondo, abbandonare per un po’ l’università. Non credo che avrei avuto la forza di ritornare su, una volta entrata nel viscido fino alla cintola. E lui, lui ne avrebbe avuto voglia?
Me lo immaginavo già, in uno di quegli infami gabinetti pubblici ad iniettarsi il suo quartino nel braccio pallido; vedevo i suoi occhi chiudersi di colpo per la forza della frustata dell’eroina, lo vedevo diventare ogni giorno più diafano, più sottile, man mano che il suo “viaggio senza ritorno” proseguiva, lasciandomi lontana e sola.
 
I ricordi cominciarono a fluire come acqua dalla sorgente, di nuovo. Erano scorci, fotografie, mai scene intere. Per un po’ mi crogiolai nel mondo del passato, quella piccola anticamera del dolore in cui nulla di male può succedere.
Non potevo però lasciare prendere ai ricordi il posto della realtà, ci fu un tempo per permettere anche quello. Ora la realtà era più importante di una qualsiasi immagine, avrei dovuto agire senza lasciarmi influenzare da nulla che non fosse la disperazione più pura e semplice, la disperazione coraggiosa che spinge a gesti eccessivi ma necessari.
Sapevo di cosa avevo bisogno, sapevo quale era il mio “gesto eccessivo”: abbandonare le mie paure e scendere nella città dei drogati e degli spacciatori, diventare come loro, ma senza assorbire troppo della loro essenza. Continuai a ripetermi che non facevo questo per me stessa, lo facevo per lui.
“Però è una gara, vero?” “Sì, è una gara. Devo dimostrarmi che ne sono uscita, che ce la posso fare a non lasciarmi influenzare. Lo faccio per noi, per le frasi che aspettano di esser dette e i baci che aspettano di esser dati, lo faccio per il futuro che deve esser fatto, un futuro di cui voglio fare parte.”
La vertigine mi colse appena pensai di voler far parte del futuro. Solo sei mesi prima avrei preferito una morte da star, una morte gloriosa, piuttosto che una pigra e banale esistenza. Sei mesi prima pensavo che la vita fosse uno schifo, una cosa da evitare. Sei mesi prima ero un’aspirante suicida che non aveva abbastanza coraggio per inghiottire una scatola di sonniferi. Sei mesi prima avrei voluto tornare a drogarmi solo per disubbidire a me stessa. Non volevo sopravvivere a me stessa, ma solo smettere di vivere, quindi di soffrire.
 
Le cose non erano però più le stesse, potevo finalmente determinare il cambiamento che da tanto aspettavo: ora ero tornata a credere non tanto in me stessa ma nella mia forza di ripresa. Le ferite si sarebbero rimarginate, non importava quanto sarebbero state profonde, con quanta determinazione avrei dovuto lottare, io ce l’avrei fatta.
 
Avevamo odiato noi stessi abbastanza a lungo, non doveva succedere di nuovo, perché si sa che chi tenta di suicidarsi la seconda volta non fallisce.
I suicidi sono persone egoiste, non riflettono su quanto gli altri possano soffrire per la loro perdita, assecondano solo il proprio dolore.
Ero sicura che non avrei riflettuto a lungo sui miei genitori se avessi dovuto “farla finita”; non avrei pensato nemmeno a Karen, nemmeno a mia sorella, nemmeno al corpicino di Hanna divorato dalle fiamme. Avrei pensato solo a me stessa.
Ed erano quelli i pensieri di Ian quando si era bucato di nuovo: non aveva pensato a me, né a gli altri, ma solo al suo dolore psichico che cercava una via d’uscita.
Non avrei permesso però che se ne andasse per sempre, piuttosto sarei morta con lui nel tentativo di fargli capire che ce l’avremmo fatta, che al dolore c’è una via di fuga.
 
 

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Capitolo 10
*** Allo sbando. ***


Capitolo 9, Side A.
Manchester, 20 giugno 1978
 
Le gambe mi dolevano per il gran camminare. Non riuscivo a dormire con regolarità da molto tempo. Lucy Star non stava meglio di me, anche il suo volto era profondamente segnato.
Ci alzammo dall’androne del negozio dove ci eravamo fermate per riposarci. La via era illuminata a giorno, ma al di là del marciapiede c’era un buio denso come inchiostro. Ed era quel buio che noi cercavamo, i lampioni ci ferivano lo sguardo, i barboni addormentati agli angoli non ci piacevano. Forse solo al parco avremmo avuto un po’ di tranquillità, dove David ci stava aspettando.
Aveva notizie, notizie fresche.
-Credi che sia la volta buona?- mi chiese Lucy Star con la sua chioma bionda da stella.
-Ho smesso di sperare nella volta buona da troppo.- risposi io, con gli occhi verdi cerchiati dal nero.
-Fidati, David sa qualcosa, lui sa sempre tutto. Non scoraggiarti, Chris. Se c’è una possibilità David te la riferirà, sai quanto ti voglia bene, non te la nasconderebbe.
-Mi nasconderebbe però che non c’è nessuna possibilità? Secondo me sì, continuerebbe a dirmi di avere pazienza.
-David non usa l’aggettivo ‘fresco’ per una notizia che può aspettare.
Camminavamo nel buio, la luce era troppo dolorosa.
 
Arrivammo finalmente al parco, pieno di gente come noi: drogati, spacciatori, prostitute. Ed eccolo lì, con i sui capelli rossi pettinati all’indietro e la sua giacca di pelle nera. Ci stava aspettando, appena vide me e Lucy avvicinarsi ci fece segno di sedersi sulla panchina di fianco a lui.
Il vento fresco soffiava tra le piante, portando verso di noi la puzza di marcio dei bar vicini.
-Chris, forse ci siamo- David era serio, parlava lentamente.
-Cosa vuoi dire?
-Voglio dire che forse l’abbiamo trovato. Zona eroinomani, ovviamente. Però non nei soliti bar o centri assistenziali. Biblioteca pubblica. Ora penso che sia da un suo amico, forse Peter.
-Stai scherzando?- ed ecco lì una luce che non mi feriva gli occhi, forse perché era talmente effimera e lontana da essere quasi impercettibile.
­David non scherzava. Gli avevano raccontato le sue fonti che a Ian era venuto un collasso mentre cercava qualcosa da leggere tra gli scaffali.
Non che ai bibliotecari interessasse molto del fatto che un drogato collassasse sul pavimento, ci erano abituati. Era stato Peter a preoccuparsi, ricordando di quella famosa estate di due anni prima.
Se mi sbrigavo, la mattina avrei potuto rivederlo. L’unico problema era la distanza, andare dall’altra parte della città voleva dire almeno 3 ore di cammino. Lucy Star era disposta ad accompagnarmi, dopo David sarebbe venuto a riprenderla.
Alzai gli occhi al cielo nero: c’era qualcosa lassù che aveva messo una buona parola per me col Capo.
 
Ci sedemmo solo un momento sull’erba, bevvi da una bottiglia di non meglio specificato alcolico posata in un angolo mentre Lucy inghiottiva un paio di pastiglie della sua migliore amica, quella che non l’avrebbe mai tradita. Un paio di settimane prima, appena l’avevo conosciuta, mi aveva spiegato il perché della sua scelta, di voler tagliare i ponti dalla realtà: era stanca di essere perennemente a contatto con la banalità. Invece, grazie alla droga, nulla era banale. Viveva perennemente in uno stato di allucinazione più o meno forte. Era come una bambina con tanta immaginazione: lei giocava.
 
Trovammo la forza di alzarci solo mezz’ora dopo, quando l’alcool cominciava a farsi sentire per davvero e la droga a fare effetto. Lucy mi prese per mano e cominciammo a percorrere vie deserte.
 
 
Capitolo 9, Side B
Manchester, 21 giugno 1978
 
Era il solstizio d’estate, il giorno più lungo dell’anno. Sì, immaginavo già quanto quella giornata sarebbe stata lunga, tutto lo faceva presagire: il cielo che cominciava a stingere, passando dal nero ad un innocuo azzurro pallido, le ombre che cominciavano a profilarsi nettamente tra una casa e l’altra.
Cominciavo ad aver paura, ad essere spaventata da ciò che sarebbe potuto accadere. Mi sentivo allo stesso modo di quando lo vidi nel negozio di dischi, più di tre mesi prima.
Rividi la nostra storia nella mia mente, come si potrebbe vedere un film: l’amore, il dolore, la distruzione, l’abbandono, la solitudine. Ed ora tutto stava per finire, stava per giungere l’atto finale. Cosa avrei fatto quando l’avrei rivisto? Avrei potuto ancora stringerlo come prima? Ci sarebbe stato lo stesso calore che c’era prima che se ne andasse?
Alla mano portavo ancora il suo anello nero, con la sua scritta così melodrammatica, quasi esagerata. In una tasca dei pantaloni avevo la sua lettera, ormai illeggibile a causa delle lacrime che avevo versato e della vodka che c’era finita sopra. Ma era l’unica cosa che mi rimaneva davvero di lui, l’unica cosa che potessi toccare, stringere. Non puoi abbracciare un ricordo, non puoi sperare che qualcosa della persona ci sia rimasta.
Avevo paura che tutto ciò che sapevo di lui, che i suoi occhi, i suoi capelli, fossero sola un ricordo, avevo paura di ciò che avrei potuto vedere.
 
Il respiro accelerava, le mani mi tremavano, Lucy parlava e parlava, ma io non capivo cosa stesse dicendo. Hanna! Le fiamme mi balenarono di nuovo davanti agli occhi. Avevo caldo. Le ginocchia mi stavano cedendo. Paura, ansia. Ian! È rimasto qualcosa di te?
-Chris, bella mia, siamo arrivate.- Sobbalzai, non ero più abituata alla sua voce. Lucy Star mi baciò affettuosamente sulla guancia. –Buona fortuna, io vado a chiamare David, oppure vuoi che salga con te?
-No, grazie Lucy, ce la dovrei fare.
-Se avessi bisogno di qualunque cosa, sai dove trovarmi. Stammi bene, e ti auguro parte di quella felicità che non ho mai avuto.
 
Ripensai alla sera di maggio in cui l’avevo incontrata per la prima volta. I neon illuminavano malamente la saletta del bar universitario, eppure lei risaltava come una stella al centro del palcoscenico. Era sola, in un angolo, con vicino una bottiglia piena per metà di vodka. Mi ci ero seduta vicino, mi sentivo profondamente attratta dalla sua figurina minuta, dai suoi occhi grigio chiaro, dai suoi capelli biondo platino. Sembrava un’aliena.
Da lì il nome Lucy Star, un nome che anche lei usava come se fosse quello vero. Non penso che ricordasse nemmeno il suo vero cognome, non ne aveva bisogno. Lei era Star e basta, una creatura arrivata sulla terra completamente impreparata alla vita.
 
Tirai fuori dalla tasca la lettera di Ian, o almeno quello che ne era rimasto. La rilessi un’ultima volta, pregando iddio che sopra mi aspettasse lo stesso Ian che l’aveva scritta. Era paura, paura allo stato puro.
Le mani mi si congelarono; quando ero spaventata o preoccupata avevano il vizio di diventare due pezzi di ghiaccio.
Cominciai a salire la scala che mi portava all’appartamento del terzo piano, dove viveva Peter.

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Capitolo 11
*** Incontriamoci dove non c'è tenebra ***


Capitolo 10, Side A.
Manchester, 21 giugno 1978
 
Time takes a cigarette, puts it in your mouth
You pull on your finger, then another finger, then your
cigarette
The wall-to-wall is calling, it lingers, then you forget
Ohhh, you're a rock 'n' roll suicide

 
Stavo bussando da pochi secondi quando Peter mi venne ad aprire.
-Shh, fai piano, si sveglierà. Si è addormentato da poco.
Mi avvicinai silenziosamente al divano, Ian aveva un’espressione inquieta che ben gli conoscevo. Profonde occhiaie gli segnavano il viso, tutto il corpo era magrissimo. Tremava visibilmente e ,forse, stava sognando.
-Ha smesso, stai tranquilla. Però dovrai controllarlo, e di conseguenza controllarti, di più.
Guardai Peter lievemente stupita: non era il tipo da dare consigli, soprattutto se sensati. Anche lui proveniva da una situazione difficile ed era molto spesso ubriaco. Era però il migliore amico di Ian, o almeno lui si considerava tale, e da quando aveva saputo della ricaduta dell’amico aveva fatto di tutto per lui. Gli aveva fatto capire meglio di me quanta importanza avesse il fatto che smettesse una volta per tutte.
Mi sedetti vicino a Ian, di nuovo i ricordi mi investirono come un’onda. Lo rividi seduto di fianco a me il mattino prima che se ne andasse, lo rividi seduto a scrivere l’ultima versione della lettera, lo vedevo che lasciava tutto sul tavolo e se ne andava in silenzio nascondendo persino a sé stesso il fatto che avesse preso la decisione sbagliata.
 
You're too young to lose it, too young to choose it

And the clock waits so patiently on your song
You walk past a cafe but you don't eat when you've lived
too long
Oh, no, no, no, you're a rock 'n' roll suicide

 
I singhiozzi mi affollavano la gola, cercavo di resistere al pianto, di soffocarli, ma non ci riuscii.
-Sai, non ti dico in che condizione l’ho ripescato. Ancora un giorno e ci restava secco. Era in un pub, tutto accovacciato in un angolo. Tremava come un invasato, aveva gli occhi spiritati. Non ti dico con quanti puntini si era segnato le braccia! Era un puntaspilli, ormai. Penso che fosse rimasto a corto di soldi e si era sparato un quartino tagliato male. Figurati, l’ho preso su a peso (non che ci voglia molto, è magro da far ribrezzo) e l’ho portato qua. Ci abbiamo messo un po’, ma ora è completamente pulito da una settimana. Si è sentito male in biblioteca perché non vuole mangiare. Ian non è un tipo da amare la vita, vero?
 
Lo vidi con una chiarezza allucinante, vidi tutto dalla prospettiva di Peter: Ian, rannicchiato in un angolo, appena tornato dal bagno del bar, si rende conto che la roba è impura. Sente un brivido gelato attraversargli la schiena, un lampo di dolore attraversagli le ossa. Ha paura, paura, paura. Vuole tornare indietro, da Christiane, vorrebbe non essersene mai andato via. Oh, ormai il controllo se n’è andato, lo ha lasciato solo in un angolo buio di un miserabile bar. Sì, morirà lì, solo. Non importa. Nulla importa più.
E poi arriva Peter, lo porta in un letto pulito a dormire. Tutti gli spiriti cattivi se ne vanno. Sa che tutto tornerà a splendere di quella luce che non fa male agli occhi.
 
Chev brakes are snarling as you stumble across the road

But the day breaks instead so you hurry home
Don't let the sun blast your shadow
Don't let the milk float ride your mind
You're so natural - religiously unkind



Lentamente gli occhi di Ian si schiusero, vidi il fastidio dell’essere svegliato tramutarsi prima in sorpresa, poi in gioia.
Si tirò su di scatto e mi abbracciò stretta.
-Dio, Christiane. Non ci credo... come hai fatto? Non... non ci credo.
Stava piangendo, piangendo di gioia.
Continuò, tra un singulto e l’altro:- Mi dispiace tantissimo, non immagini quanto. Sentivo che fosse l’unica soluzione, volevo risparmiarti tutto. Non penso di esserci riuscito, vero? Grazie di essere tornata, di avermi comunque voluto cercare.
-Smettila, non pensare a me. Promettimi che ora hai davvero chiuso. Dai, torniamo a casa, ora.
-Sì, torniamo alla nostra vita, torniamo alla vita comune ma non banale. Torniamo a vivere senza eccessi, torniamo ad amarci, torniamo a ciò che eravamo riusciti a costruire.
 
 
Oh no love! you're not alone
You're watching yourself but you're too unfair
You got your head all tangled up but if I could only make you care
Oh no love! you're not alone



No, non saremmo stati più soli, era una promessa che ci eravamo già fatti e sapevamo che avremmo infranto, ma ora non importava. Io per lui ci sarei stata, non doveva temere il mio giudizio e il mio dolore. Avrei sofferto in ogni caso di più se mi avesse giudicata inadatta alla sua fiducia.
Non dovevo temere la sua lontananza, saremmo rimasti sempre insieme, lo spazio non era importante.
Sapevo la solitudine che si sente davanti al dolore, conoscevo l’abbandono a cui non ci si può sottrarre, la debolezza che si prova nell’ammettere i propri errori, la vergogna di sé. Non importa ciò che hai fatto o sei stato. Ora cerchiamo di goderci la pace, la calma prima della tempesta.
 
-Ci sarò sempre per te, ci sarò nel dolore e nella tempesta, ci sarò quando il passato ti lacererà il cervello, dividerò ogni cosa con te. Non ha più peso quello che hai visto o ciò che sei stato, ora ci sono io per te. Fidati di me, ti prego.
 
Ian mi guardò come se mi avesse vista per la prima volta.
 
-Lo so, Christiane, che tu ci sei, c’eri e ci sarai, ma il problema non sei tu, il problema è la mia coscienza interna, il mio orgoglio che mi impedisce di parlarti come vorrei. Perdonami, perdonami tutto. Dimmi che non devo più avere del peso nascosto nel cuore, dimmi che riuscirai a fare quello che io non sono riuscito a fare: giustificare la mia avventatezza, la mia crudeltà. Sono stanco di conflitti interni, dimmi che non dovrò più averne.
-No, non ne avrai. Non sarai mai più solo. Dammi le tue mani, perchè sei bellissimo!
 

Just turn on with me and you're not alone
Let's turn on with me and you're not alone
Let's turn on and be not alone
Gimme your hands cause you're wonderful!
Oh gimme your hands.





P.S. La canzone che ho scelto per questo capitolo è Rock'n'Roll Suicide di David Bowie. Canzone che poi ha dato origine a tutta la storia.

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Capitolo 12
*** This is only the end. ***


Capitolo 10, Side B.
Manchester, 22 giungo 1978
 
Capisci che una persona ti è mancata da quanto sei disposta a cancellare ogni errore solo per poterla riavere vicino. Io non ci misi che un secondo per dimenticare la rabbia e il risentimento nei confronti di Ian, avevo troppo bisogno di lui per dar peso a sentimenti quasi ingiustificati.
Per me i suoi baci erano più dolci del miele, più caldi del whiskey, erano tutto ciò di cui avevo bisogno.
-Christiane, grazie per avermi ritrovato. Ma cosa ti ho fatto passare?
-Tante cose, Ian. Ero sul punto di mollare troppe volte. E poi, insomma, ce l’ho fatta, non ci sarei mai riuscita da sola però.
-Raccontami com’è andata, se vuoi.
Aggiungere una condizione, tipico suo. Non mi voleva obbligare, non voleva sensi di colpa, aveva già abbastanza dei suoi.
 Non sapevo se ne avessi voglia, non volevo aggiungere la mole della mia coscienza ferita alla sua. Poi però pensai a quanto male faceva il risentimento muto, le occhiate cariche di rimpianti che avrei potuto lanciarli; non ne avrebbe potuto capire il senso, ci sarebbe ricaduto.
-E sia. Bene, ti racconterò tutto, sai che voglio solo essere sincera. Fermami se i fa troppo male.
 
Cominciai a raccontargli tutto, di come avevo mandato all’aria i miei buoni propositi di resistere a me stessa, di come avevo iniziato ad annegare la mia totale inettitudine nell’alcol. E gli raccontai di Lucy Star e della sua luce ferita, gli raccontai di come mi aveva aiutato portandomi nel suo mondo di squallore e facendomi bere quanto volevo; gli raccontai del fidanzato di Lucy, l’inarrivabile David e di come mi avesse promesso che mi avrebbe aiutato a ritrovarlo. Gli raccontai dei bar che chiudevano alle cinque da cui uscivamo ubriache ma felici, delle panchine di metallo su cui dormivamo, del mondo che avevo scoperto. Gli descrissi la puzza dei gabinetti pubblici, la luce cadente dei neon, i lampioni che mi ferivano lo sguardo e il nero che mi offriva conforto.
E poi gli dissi del sollievo con cui lo avevo rivisto da Peter, di quella situazione così pura che avevo provato nel vederlo aprire gli occhi, del sollievo di aver potuto vedere che era rimasto lo stesso nonostante tutto.
 Ma soprattutto gli raccontai di come mi fosse mancato, di come ogni sera avessi sperato di svegliarmi tra le sue braccia, di come volessi scacciare ogni cosa come un brutto sogno e di come puntualmente mi svegliavo sempre più disillusa. Gli raccontai di quella mattina in cui mi ero svegliata senza di lui, di quanto avessi pianto con la sua lettera in mano, quanto avessi amato quell’anello che mi aveva lasciato. E gli narrai la rabbia che provavo per lui, il risentimento che avevo covato; gli chiesi con che coraggio mi aveva lasciata sola.
E gli parlai di come finalmente tutto si fosse risolto, di come avremmo vissuto superando le nostre debolezze, debolezze da vincere con la nostra unica arma: il controllo. Gli ricordai che lo avrei amato per sempre, che nulla ci avrebbe più separato. Per quanto in basso volesse spingersi, io sarei scesa con lui.
 
Lui però aveva molto da dire.
Mi descrisse il dolore che aveva provato nello scrivere la lettera d’addio, della frustrazione di non trovare parole adatte all’abbandono della sua metà perfetta, del buio in cui si immergeva con l’eroina. Parlò del controllo che se ne andava, abbandonandolo come il calore abbandona un corpo in una serata d’inverno passata all’aperto; di come capii subito che dove non c’era controllo c’era l’Ian drogato, una parte della sua personalità che era sempre esistita nascondendosi sotto uno strato di misero autocontrollo. Mi descrisse lo squallore di rivedersi negli occhi degli altri bucomani come lui, il rimpianto per quello che era forse il più grande errore della sua vita, i sensi di colpa che accompagnavano ogni iniezione.
Mi tracciò la sua sfiducia un futuro luminoso, dell’impossibilità di essere del tutto felice, ma anche la sua volontà a non lasciarmi mai andare.
Tornò indietro al dolore puro che provava mentre mi vedeva sempre più spenta e al rimorso che provava nei miei confronti, per aver permesso che mi riducessi così.
Mi raccontò della sua voglia di rivedermi in ogni angolo della città, della speranza che come un angelo lo riportassi verso la ragione; della droga tagliata male e della prima crisi convulsiva, di Peter che lo aveva salvato, dei libri che aveva letto senza capirne il senso globale ma solo le frustrazioni di chi li aveva scritti.
Mi raffigurò la disintossicazione fatta in casa, del dolore fisico che aveva sofferto allontanandosi dalla droga.
 
Alla fine del racconto era stremato. Rimanemmo mezz’ora stretti l’uno all’altra, senza nemmeno la forza di muoverci.
Avevamo paura di quello che sarebbe potuto accadere, di quello che avremmo potuto farci. Sapevamo che la nostra pace non sarebbe durata a lungo, che presto o tardi qualche elemento sarebbe venuto per turbarci.
Ma vivendo solo per non fare accadere cose negative, non avremmo vissuto del tutto: se il nostro destino era soffrire, avremmo sofferto insieme. Il male che ci saremmo fatti non sembrava una prospettiva crudele, ma realista. Era un male inevitabile, era come la prospettiva della pioggia nella calda estate: lontana, distante, quasi impensabile; però prima o poi la pioggia sarebbe arrivata, portando via il sole e accorciando le giornate. Ma per noi ora era estate, l’autunno lontano. La pioggia non ci faceva paura, ora avevamo il sole e tanto ci bastava. Sì, le nuvole sarebbero arrivate ad oscurarci, ma non ora. Godiamo del presente come un dono prezioso, da guadagnare con la fatica, la sofferenza, un dono che avremmo conservato non guardando né in avanti né indietro. Di nuovo saremmo tornati a vivere giorno per giorno senza badare al futuro, l’unico metodo che ci garantiva un’isola sicura dalle prossime sofferenze.
 
Tornai a pensare a Lucy Star, la stella ferita. Per lei era sempre autunno, non ci sarebbe mai stato il sole perché lei poteva farne a meno. A pensarci bene, non lo voleva nemmeno il sole, non voleva che arrivasse l’estate. La luce l’avrebbe costretta ad uscire dal suo mondo sotterraneo, ad affrontare l’esterno, avrebbe minato la sua precaria sicurezza.
Capii che le volevo un gran bene, che eravamo due creature simili. Dopotutto Lucy Star era una bambina, con i suoi grandi occhi da cerbiatta e la luce dei sui capelli. Ed lei c’era stata quando nessuno c’era, nemmeno io.
Era affetto quello che provavo per lei, volevo rivederla. Chissà come stava, con quale droga si sballava e dipingeva di colori una vita grigia. Chissà quanto avrebbe tirato avanti prima di distruggersi il cervello e rinunciare a pensare.
 
Il mio sguardo corse al viso addormentato di Ian, così pacifico, senza affanni. Ci immaginai come una coppia di corvi che volavano nel cielo sereno. Volavamo e volavamo finché non sentivamo l’energia abbandonarci, finché non ci posavamo sul ramo più alto di un albero e lì morivamo in silenzio, senza lamenti.
Dietro di noi solo il cielo, sotto solo un ramo sottile. Davanti a noi il nulla più puro, il nulla del riposo eterno.
Era un pensiero confortante, rassicurante.
Mi addormentai di nuovo appoggiando la fronte al collo di Ian e, per la prima volta, non sognai fiamme, morte, distruzione. Sognai prati fioriti, cerbiatti e il sole, sì, finalmente tornai a  sognare il sole.

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Capitolo 13
*** Epilogo ***


Epilogo
Londra, 18 dicembre 1990
 
A conferma delle mie idee, dopo pochi mesi di tranquillità eravamo tornati a cadere nel tunnel delle dipendenze.
Ian si era iniettato il buco finale una sera in cui io ero uscita, non riuscendo più a sopportare le sue crisi depressive. Penso che lo stesse preparando da tempo.
Lo avevo trovato riverso sul pavimento, senza sangue, senza ferite, gli occhi azzurri spalancati nel vuoto.
Ricordai di quando lo portarono via su quella barella bianca, il braccio pallido che sporgeva di fuori. Mia madre che mi guardava senza muovere un dito, ogni volta che capitava qualcosa che mi avrebbe segnato per sempre lei non c’era, non voleva materialmente toccarmi. Mio padre che guardava fisso dall’altra parte della strada, verso le fabbriche grigie col loro respiro fumoso.
 
Da lì in poi tutto era scivolato nell’indefinito. Bevevo, bevevo per tornare indietro nel tempo, per tornare alla “nostra” estate in cui ogni giorno era una festa. La sera tornavo a casa da sola e mi infilavo in quel letto così freddo, così vuoto senza di lui. E fingevo che fosse con me, che mi stringesse contro il freddo che sentivo crescere nel cuore.
Una volta giurai di aver sentito lo scricchiolio delle sue scarpe di pelle contro il parquet, mi ero svegliata con il volto rigato dalle lacrime di matita nera. Ma la stanza era vuota, vuota per sempre. Non ci sarebbe più stato Ian, né David, né Peter, né Lucy Star: erano tutti morti, nella mia mente e nella realtà.
La mia vita era il sogno, nella mia mente eravamo ancora tutti insieme, non c’era nessuna forza malvagia che ci poteva dividere.
 
Anche la forza di piangere se n’era andata, erano mesi che non versavo una lacrima. Avevo abbandonato l’università, ormai passavo le giornate in un angolo isolato del bar dove avevo incontrato Lucy Star, sperando di rivederla.
Ero insensibile alla luce, i neon non mi ferivano più. Le altre persone mi fuggivano, sapevano forse quello che avevo passato o forse immaginavano solo quello che poteva spingere una ragazza giovane a bere così tanto.
Ma io lo sapevo il perché: perché solo con un bicchiere in mano Ian tornava da me, a volte rimaneva tutto il giorno, a volte scorgevo solo i suoi occhi nell’ombra. E nei momenti in cui tornava, ogni cosa si sfumava intorno a lui; ci dicevamo tutto quello che non ci eravamo mai detti, annegavo dentro di lui, tutto era meno doloroso.
Col passare del tempo però rimaneva sempre meno, i nostri incontri erano sempre più fugaci.
E avevo bevuto, bevuto, bevuto nella speranza che rimanesse di più, nella speranza che non se ne andasse, finché tutto non era diventato nero.
 
Mi ero svegliata in un letto di questa clinica, diagnosi: coma etilico e schizofrenia aggravata da alcol e droghe.
Ma io non ero pazza, Lucy sarebbe tornata per portarmi da Ian, lo sapevo com’è vero Iddio, lo sapevo.
Anzi, io l’avevo già vista, mi era già venuta a trovare in clinica, di notte quando nessuno l’avrebbe vista.
Mi aveva abbracciato, facendo affondare la mia testa nella sua nuvola color platino.
“Ian ti sta aspettando dove non c’è tenebra. Ti porterò io da lui.” Era sparita lasciandomi solo in compagnia della speranza, dell’attesa nel suo ritorno.
Non ne avevo parlato con nessuno, nemmeno con quell’impicciona della MacMiller che voleva sempre sapere del mio passato.
 
***
 
Lucy è tornata ieri, mi ha detto che oggi è il giorno. Non avrebbe fatto tutto lei, però. Ha detto che l’avrei dovuta aiutare io, avrei dovuto recidere personalmente i contatti col mio corpo fisico.
Mi ha lasciato questa lametta affilata. È la cosa migliore che possa usare: un taglio netto, preciso, e tornerò da Ian.
 
Non c’è nessuno, è notte. Le infermiere hanno già fatto il loro ultimo giro d’ispezione. Ho esattamente due ore di pace prima che sorga il sole, due sole ore mi separano dal mio ricongiungimento con Ian.
Ecco, è il momento.
Il bagno non mi è mai sembrato così confortevole come ora.
L’acqua della vasca è ancora calda. Ci entro nuda, con la lametta in mano.
Odio i miei polsi azzurrognoli, polsi che mai più nessuno ha accarezzato.
 
E finalmente la vedo: bionda, alta, con la bocca rossa distesa in un sorriso.
-Lucy, finalmente sei qui, ti aspettavo. Ora, rispetta il nostro patto, portami da lui.

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