What if..?

di Midnighter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17. ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20. ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23. ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24. ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25. ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26. ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27. ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28. ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29. ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30. ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31. ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32. ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33. ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34. ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35. ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36. ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37. ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38. ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


"What if..?" "Cosa sarebbe successo se..?"

Quante volte ci poniamo questa domanda? Quante volte ci siamo ritrovati di fronte ad un bivio senza sapere quale strada intraprendere?

E' successo anche a me, in tante occasioni. Cosa sarebbe successo se quella mattina il contenuto di quella benedetta lettera fosse stato diverso?

Ma andiamo con ordine.. tutto ciò è successo qualche decennio fa. In un'altra vita, oserei dire. All'epoca ero solo un ragazzo, un giovane che non sperava più in una svolta. Ma non credevo minimamente che arrivasse in maniera tanto improvvisa. Sì, perché la vita cambia così velocemente che a volte non ce ne rendiamo nemmeno conto. A volte saliamo su questa stramba giostra senza nemmeno averlo chiesto.

 

 

Era un venerdì mattina e mi svegliai di soprassalto con le urla di mia madre nelle orecchie: "Leo! Leo! E' arrivata!"

Mi alzai controvoglia, prima di realizzare ciò che mia madre mi aveva appena detto. Era arrivata la lettera dal college, la quarta lettera che ricevevo e, dopo tre rifiuti, non sapevo più che pensare, cosa sperare. Il mondo mi era crollato addosso così tante volte che avevo quasi paura di credere in qualcosa col timore di farmi male di nuovo. Prima di aprire la porta di camera mia feci una promessa a me stesso: "Se anche questa università non mi accetta, cambio totalmente vita." Era un pensiero che mi balenava in testa già da giorni, da quando avevo spedito la mia ultima lettera d'ammissione.

Scesi le scale e mi ritrovai in cucina: mia madre preparava la colazione, mio padre leggeva il giornale.. e quella lettera, che racchiudeva il mio futuro, sul tavolo ad aspettarmi.

Sentivo uno strano groppo in gola, tutto era diventato più difficile dopo la promessa fatta pochi minuti prima.

Guardai i miei e presi coraggio. Sono stati sempre loro a darmi la forza di andare avanti, sono la mia roccia, il mio appiglio. Oltre, ovviamente, a mia sorella e al mio migliore amico.

Presi la lettera tra le mani e la aprii. La lessi. Sospirai. E, senza dire una sola parola, uscii di casa stringendo ancora tra le mani quella lettera. 

Decisi di rileggerla all'aria aperta senza che nessuno mi vedesse, senza insinuare false speranze nei miei genitori.

"Gentile Leonardo Locket, abbiamo preso in seria considerazione la sua lettera, ma.."

Questo finto tono cordiale non faceva altro che peggiorare le cose. La verità è più accettabile se la si presenta senza troppi fronzoli. Per la quarta volta l'esito non accennava a modificarsi: nemmeno quella università mi aveva accettato.

"Coraggio, calmati e respira!" dissi a me stesso. Presi fiato, alzai la testa e mi ritrovai in un giardinetto pubblico. Il mio rifugio. Il mio porto sicuro. Ho continuato ad andarci per anni per pensare, per piangere, per prendere a pugni gli alberi. Incondizionatamente le mie gambe mi portarono lì. E' strano come il cervello, quasi subdolamente, agisca molte volte alle nostre spalle. Il corpo umano è così dannatamente perfetto..

Iniziai a respirare lentamente, assaporando il profumo dell'erba. Era una giornata di sole nella città di Frederick, non c'era nemmeno una nuvola in cielo. "Meglio così.." mi ritrovai a pensare, "il cattivo tempo non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione."

"Bene, amico mio, e ora che si fa?" Mi ero promesso di cambiare totalmente vita. Evidentemente il college non era il mio futuro, non che io sia stupido, ma erano poche le cose che, all'epoca, attiravano davvero la mia attenzione. Mi guardai intorno in cerca di uno spunto, ma niente. Quel giorno c'era una calma assoluta per strada, non c'era anima viva nel parco. Niente bambini, cani, ragazzi o anziani. Mi chiesi cosa potesse essere successo. Poi guardai l'orologio e capii: "Ma certo! Oggi è il 4 Luglio! Ovvio che non c'è nessuno in giro! Si staranno tutti preparando per la parata!"

Era un giorno di festa eppure io mi sentivo completamente senza emozioni. Né rabbia o delusione. Non provavo niente. Ero vuoto. 

Decisi di andare dal mio migliore amico, Richard. Lui ha sempre saputo come aggiustare ogni situazione. Ha quella calma, quella freddezza mentale che io non ho mai avuto. Ma appena mi alzai dalla panchina, vidi qualcosa che attirò totalmente la mia attenzione.

La parata dei militari. 

Strano che in quel giorno mi sia soffermato a guardare quei soldati marciare, li ho sempre trovati abbastanza "buffi", a dire il vero. Quel loro passo di marcia così strano, ma soprattutto ho sempre pensato che fossero dei mercenari, non degli eroi. Ma quel giorno c'era qualcosa di diverso, lo si vedeva nei loro occhi. Avevano una luce particolare, erano.. orgogliosi. Sì, orgogliosi di essere al servizio del loro paese. Senza rendermene conto mi ritrovai a fissarli. Che sia questa la svolta che cercavo? 

Decisi di andare comunque da Richard, non potevo prendere una decisione del genere all'improvviso.

Ad accogliermi a casa sua fu sua madre, Theresa.

"Leo! che ci fai qui? Non aspettavamo una tua visita!" con me ha sempre avuto un tono cordiale, gentile, mi ha sempre trattato come se fossi un figlio.

"Ecco.. ehm.. brutte notizie dall'università. Ho bisogno di parlare con Ricky." le dissi senza troppi giri di parole.

"Ah.. mi dispiace che tu non sia stato preso." disse sinceramente, non l'ho mai vista mentire.

"Già.."

"Ti fermi a pranzo? Dopo puoi venire anche ad accompagnare Charles alla parata! E' così emozionato di interpretare lo zio Sam!"

Sorrisi, un sorriso sincero, spontaneo. Quella casa ha sempre avuto un buon effetto su di me.

"Certo" risposi "ne sarei molto felice."

Neanche il tempo di finire la frase che Theresa mi abbracciò: un abbraccio caldo che mi fece stare meglio. Non so come questa famiglia possa sprigionare tanta serenità. Eppure le cose non sono mai state facili per loro. Il padre di famiglia, Josh, è morto quando Richard aveva 15 anni, un infarto, una morte tanto devastante proprio perché improvvisa. Ma tutti hanno trovato la forza di rialzarsi e se si chiede loro come abbiano fatto, come siano riusciti a superare un momento che destabilizza così tanto l'armonia di una famiglia, rispondono semplicemente: "L'abbiamo fatto per lui, affinché non si preoccupi da lassù."

Bussai alla porta di Richard ed entrai in quella stanza, così familiare, che tante volte mi aveva ospitato.

"Amico mio! Mi era sembrato di sentire la tua voce!" mi sorrise e mi abbracciò. E' sempre stato un fratello per me.

"Ricky! Tutto bene?" gli chiesi. 

"A me sì" rispose con tutta tranquillità "tu, invece, non hai proprio una bella faccia."

Richard è così, mette il bene degli altri davanti al suo. Gli piace essere un punto di riferimento, una persona sulla quale contare. Molti gli chiedono consigli e lui non ha problemi ad aiutare tutti. E' raro, però, che si lasci andare del tutto. Nonostante sia il mio migliore amico, molte volte preferisce chiudersi in se stesso e risolvere i suoi problemi da solo. "Non voglio che gli altri si preoccupino per un problema che posso risolvere con due tiri a canestro." Quante volte avrò sentito questa frase. 

"Avresti la mia stessa faccia anche tu se fossi stato rifiutato da ben quattro università. Ma tu hai la tua bella borsa di studio che ti porterà dritto alla Brown." Non so perché me la presi con lui, ma in quel momento buttai fuori tutto quello che avevo dentro.

"Ehi.. non te la prendere con me! Sei tu che da due anni sei spento! A volte mi sembra di non riconoscerti più!"

Sapeva perfettamente che con quelle parole mi avrebbe colpito nel profondo. Nel 2009 la mia ragazza era morta tra le mie braccia in seguito ad un incidente stradale. Guidavo io. E da allora ho passato dei momenti bruttissimi, avevo perso la mia identità, la mia voglia di vivere. Non oso immaginare che fine avrei potuto fare se non ci fosse stato Richard.

"Scusa.." gli dissi "ma questa è stata l'ennesima batosta! L'ennesima riconferma che sognare, sperare fa solo male, maledettamente male! Avevo dei progetti, cazzo!" urlai e senza sapere nemmeno io il perché.

"Dai, Leo. Devi calmarti, non mi piace vederti così." mi abbracciò.

Non avrebbe dovuto farlo, quell'abbraccio mi toccò così tanto l'anima che non riuscii più a resistere. Cacciai fuori tutto quello che avevo represso. Lui non si scompose minimamente ed è per questo che gli ho sempre voluto bene. E' capace di essere appropriato in ogni circostanza. Io non sono mai stato così, per niente.

"Sono diventato troppo sensibile." dissi abbozzando un sorriso.

"Ma dai, su! Fa bene sfogarsi! Ognuno lo fa a modo suo." mi diede una pacca sulla spalla "Andiamo a mangiare, sennò mia madre inizia a fare storie."

Lo seguii, ma mentre stava per aprire la porta, gli confidai la mia decisione: "Ho deciso di arruolarmi."

Non ricordo nemmeno per quanto tempo Richard sia rimasto impalato con la mano sulla maniglia. Continuava solo a guardarmi con i suoi occhi verdi e con la bocca mezza aperta.

"Tu.. cosa?!" iniziò a balbettare

"Mi arruolo! Ho deciso di entrare nell'esercito."

"Ma tu lo odi l'esercito! Ti ho sempre sentito parlar male dei soldati, della guerra e del resto!"

"Ho bisogno di qualcosa che mi svegli da questo torpore, Richard." capì che il momento era davvero serio perché sono rare le volte in cui l'ho chiamato col suo nome per intero. "Devo trovare qualcosa per cui vale la pena continuare a combattere. E' l'emozione che muove il mondo, ma io non riesco più a provarla. Mi guardo allo specchio e i miei occhi sono spenti."

"Ma non puoi decidere così su due piedi. Almeno ne hai parlato ai tuoi o hai deciso di partire senza nemmeno salutarli?"

"Richard, ancora non sono andato all'ufficio di reclutamento! Pensi che sia una cosa facile?! Ho subito l'ennesima umiliazione e voglio prendere in mano la mia vita, di nuovo!" 

"Io ti sosterrò sempre, lo sai!"

"..lo so, grazie." riuscii a dire solo questo, nient'altro. Sapevo perfettamente che la mia era una decisione azzardata. I miei non la avrebbero presa affatto bene, proprio come Richard. Ma avevo davvero bisogno di sentire di nuovo la vita scorrere nelle mie vene.

Scendemmo in sala da pranzo e trovammo la tavola apparecchiata di tutto punto: bandierine degli Stati Uniti d'America qua e là e tantissima roba da mangiare. 

Charles, appena mi vide, mi corse incontro e mi saltò addosso.

"Leo! Ti piace il mio costume?"

Lo guardai e sorrisi: era vestito da perfetto zio Sam, con il cappello e tutto il resto. "E' fantastico, farai un figurone!"

Il pranzo continuò in allegria. Richard ebbe la sensata idea di non tirar fuori la storia del mio prossimo reclutamento.

Uscimmo di casa per le 5 del pomeriggio e ci dirigemmo alla parata.

C'era un sacco di gente: militari, civili. Tutti uniti in questo giorno che significa così tanto per questo Paese: il giorno dell'indipendenza.

I miei occhi si posarono sui militari. Un po' mi faceva paura l'idea di partire, ma, per la prima volta dopo anni, ebbi il desiderio di fare qualcosa e quando un desiderio è così presente nella mente di un essere umano non c'è paura o altro che tenga, c'è solo la voglia di farlo avverare e basta.

Venni riportato alla realtà da un colpetto sulla spalla. Era Lucy, una ragazza che mi faceva il filo da un po'. Richard più volte, in gioventù, mi consigliò di uscirci, ma io la trovavo troppo frivola. Come la maggior parte delle ragazze di 18 anni, d'altronde. Vestiti, scarpe, trucco. Belle fuori, ma vuote dentro.

"Ehi, tu! Potresti anche salutarmi!" disse quasi offesa. 

"Bhe.. ciao" le diedi un bacio sulla guancia.

"A che pensavi?"

"Perché?"

"Sembravi sognare ad occhi aperti."

Sorrisi. "Guardavo i militari."

"Sono così affascinanti gli uomini in divisa."

"Ecco, ora sì che potrei ripensarci alla storia del reclutamento." pensai.

"Devo andare." non cercai neanche una scusa per congedarla, a volte riesco ad essere proprio stronzo, se mi ci metto di impegno. E questa caratteristica, devo ammettere, non è mutata negli anni.

"Quando ti deciderai ad uscirci?" mi chiese Richard.

"Quando riuscirà a dire almeno una frase sensata."

"Amico, hai 18 anni.. non te la devi mica sposare! Divertiti un po'!"

"Escici tu, se tanto ti piace!" sbottai. Odio quando vuole farmi le prediche sul mio modo di comportarmi con le ragazze.

"Forse lo farò, caro mio, ho un certo fascino." 

La mia attenzione, intanto, venne catturata da altro: l'ufficio reclutamento. Mi aspettavo che fosse chiuso in un giorno di festa, ma vidi una figura al suo interno. "Dare un'occhiata non mi farà male." pensai.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Effettivamente c'era qualcuno. Una ragazza di colore che, appena mi vide appostato alla finestra dell'ufficio, mi venne incontro.

"Ragazzo, mi dispiace ma siamo chiusi."

"Nessun problema, non sono neanche tanto sicuro di volerlo fare." cercai di andarmene ma la ragazza mi bloccò trattenendomi il braccio.

"Non così in fretta, ragazzo." la sua voce era sicura, autoritaria e trasmetteva calma. "Sono il Sergente Charlotte Shire e posso esserti d'aiuto. Perché vorresti arruolarti?"

"Non lo so" dissi sincero "voglio cambiare vita."

"Hai scelto un bel modo per farlo." 

"Già.."

"Passa domani alle 10 in punto e ne riparliamo."

"Va bene.."

"Ci conto."

La salutai e tornai in mezzo alla folla anche se la mia mente era totalmente assente. La sua sicurezza, la luce dei suoi occhi, la voglia di vivere. Lei aveva tutto ciò che io cercavo quasi disperatamente da un paio d'anni.

Decisi di tornare a casa, dovevo parlarne con i miei.

Per andare in camera mia passai davanti alla camera di mia sorella, Catherine.

Mi mancava così tanto: all'epoca era in giro per l' Europa per uno dei suoi soliti viaggi. In quel giorno avrei tanto voluto che fosse con me.

Andai in camera mia e accesi il pc, iniziai a documentarmi sulle basi militari nei dintorni del Maryland. Scoprii che ce n'era una proprio qui, a Frederick: Fort Detrick. C'erano le foto dei Soldati Semplici, dei Sotto-ufficiali, degli Ufficiali. Se devo essere sincero, in quel momento non avevo la minima idea nemmeno di quali fossero i gradi dell'esercito. 

"Per entrare bisogna sottoporsi ad un test attitudinale e a delle prove fisiche."

"Perfetto" pensai "un test attitudinale! Altra batosta in arrivo! No, Leo.. devi avere più fiducia in te stesso!"

Dopo un'oretta sentii la porta al piano di sotto aprirsi e le voci dei miei genitori.

"Bene, ci siamo!" ma avevo paura della loro reazione "Ehi" era la voce della mia coscienza "nella migliore delle ipotesi sarai un soldato! Andrai in guerra, non puoi aver paura dei tuoi genitori."

Ma in quel momento avrei preferito di gran lunga andare in guerra.

"Vi devo parlare." il mio tono fu uno dei peggiori che abbia mai usato in vita mia.

"Amore, tutto bene?" mi domandò mia madre.

"Bhe.. sì, o no. Dipende dai punti di vista." respirai a fondo "ho deciso di arruolarmi."

Non potevo aspettarmi risposta peggiore da loro, avrei preferito se si fossero messi ad urlare, a piangere, ma il loro silenzio mi spiazzò completamente.

"Dite qualcosa!"

"Figliolo.." fu mio padre a prendere per primo parola, ma la sua voce tremava "ne sei assolutamente sicuro?"

"No!" urlò mia madre "Peter! Non mettergli strane idee in testa! Non può arruolarsi! Non può abbandonare gli studi per andare in chissà quale parte del mondo a farsi ammazzare!"

"E' grande abbastanza e può prendere le sue decisioni."

Quanto sono stato grato a mio padre in quel momento. Vedere mia madre disperarsi è una cosa che mi prende le viscere, mi atterra e non riesco più a dire o fare niente.

"Domani vado all'ufficio reclutamento." dissi alla fine. Mi voltai e mi diressi verso camera mia.

"Leonardo!" mi chiamò mio padre.

"Dimmi."

"Te lo chiedo un'ultima volta: ne sei sicuro?"

"Sì.." la sicurezza della mia risposta mi stupì.

"Servirai ed onorerai la tua famiglia e il tuo Paese?"

"Ci proverò."

"Se tutto ciò ti rende felice, hai la mia benedizione. Ma ricordati sempre chi sei. Il ragazzo che è cresciuto con tanti valori e non abusare mai della tua posizione e non dimenticare le tue origini." sospirò "Sono orgoglioso di te."

Mi si avvicinò e mi abbracciò. Erano anni che non lo faceva, tutto ciò mi fece sentire meglio. 

"Forse davvero sono sulla strada giusta, era questo il cambiamento che aspettavo? Probabile." pensai.

"Caro Leo" dissi tra me e me "ora si che la situazione si fa interessante."

Entrai in camera mia. Chiusi la porta e respirai profondamente. 

"Sarò un militare. Imparerò anche la loro buffa marcetta." sorrisi.

Guardai l'orologio: erano le 7 di sera. Decisi di uscire: c'era ancora un'altra persona che dovevo mettere al corrente della mia decisione.

Erano mesi che non mettevo piede in quel posto. Pensavo che non venirci più avrebbe chiuso definitamente la cosa. Ma non è stato così. Ero lì, per l'ultima volta, col sorriso sulle labbra. Conscio che dal giorno successivo la mia vita avrebbe preso quella piega tanto agognata da tempo.

Ero al cimitero davanti a quella lapide, la sua.

"Samantha Walsh 1993 - 2009"

Mi rivolsi direttamente a lei, come ho sempre fatto:

"Eccomi qui, Samantha. Due anni dopo quella maledetta notte. Te ne sei andata a 16 anni, lasciandomi qui, da solo, nel buio più totale. Ci conoscevamo da poco, ma avevamo tanti progetti, tante ambizioni e tu sei morta ingiustamente per colpa mia." sospirai "Sono venuto a salutarti un' ultima volta. Da oggi chiudo col passato. Ho deciso di andare avanti, sai. Ma tu resterai sempre dentro di me. Da domani inizierò una nuova vita, sarà come rinascere e, sinceramente, non vedo l'ora. Spero solo di fare del bene con la mia decisione. Di sicuro mi avresti dato del matto, lo so. Ma com'era quel detto? Chi vive senza follia non è poi così saggio come crede."

Baciai per l'ultima volta la sua foto e voltai le spalle a tutto ciò che era successo due anni prima.

"Dopo questo mi ci vuole una bella uscita in compagnia. E so benissimo a chi rivolgermi." dissi.

"Ricky! Su scendi! Ci andiamo a bere qualcosa!"

"Amico, ci siamo salutati qualche ora fa, mica ti starai innamorando di me?"

"Con il tuo fascino, nessuno saprebbe resisterti! Cretino, ci vediamo tra mezz'ora al solito bar?"

"Arrivo."

Mi incamminai verso il nostro bar e da lontano vidi una figura familiare, ma non riuscii a metterla a fuoco subito. Così mi avvicinai e scoprii che era il Sergente Shire. E devo ammettere che, senza divisa, mi colpii. Era proprio una bella ragazza. Avrà avuto, all'epoca, sì e no una 30ina d'anni, se non di meno.

"Ragazzo!" mi salutò cordialmente come se mi conoscesse da una vita. "Non fare tardi che domani ti aspetto!"

"Sissignora."

"Quindi hai deciso di provarci sul serio? Bene perché oggi non mi sembravi molto convinto."

"Ora lo sono." lo ero davvero e lei lo capì.

"Bene, a domani!"

Mi sedetti al bar e aspettai Richard ordinando una birra. Arrivò poco dopo con un sorriso smagliante.

"Una birra anche per me." chiese al cameriere "Ehi, amico.. chi era quella bella signora?" mi fece l'occhiolino.

"Addirittura signora?! Avrà all'incirca 30 anni." 

"Troppo grande per te, bello."

"Comunque è un Sergente dell'Esercito."

"Allora hai deciso?" mi chiese e sentii in lui una punta di tristezza

"Sì, ho deciso. Sono andato anche a dirlo a Samantha."

"Allora brindiamo! Offro io!" disse, poco convinto, però. Sentivo che la sua voce era triste, come se sperasse in tutti i modi che cambiassi idea. 

"Va tutto bene, Ricky?"

"Alla grande! Tu andrai al fronte! Amico, diventerai un eroe!" lo disse quasi con una vena sarcastica che mi infastidì. Ma decisi di lasciar correre. Eravamo amici da quasi 10 anni, ormai e l'idea di separarci faceva male anche a me. Ma lui sarebbe andato alla Brown, a Providence e ci saremmo separati comunque. Il problema era che io, molto probabilmente, sarei andato dall'altra parte del mondo.

Arrivai all'ufficio reclutamento alle 9.30. Ero emozionato, teso, felice e tutte le altre belle emozioni che mi annebbiavano il cervello.

Alle 10 in punto arrivò il Sergente.

"Ragazzo, sei puntuale. Iniziamo bene" mi sorrise e mi invitò ad entrare.

L'ufficio era abbastanza semplice. C'erano varie foto di soldati in azione e una grande bandiera degli USA sulla parete. Stelle e strisce. Bianco, rosso e blu.     

"E' per lei che combatterò? Per quello che rappresenta da secoli? Tanta gente ha dato la vita per questa bandiera, per questo popolo. Io sarò solo un altro tassello di questo incredibile ed enorme puzzle." pensai

Il Sergente mi richiamò dai miei pensieri con un colpo di tosse.

"Bene, prima domanda: come ti chiami?"

"Leonardo Locket."

"Spero tu sia all'altezza del nome che porti."

"In che senso, signora?"

"Leonardo da Vinci, ti dice qualcosa?"

"Sì, certo." prima bella figura. 

"Mi sembri in età da college."

"Sissignora. Ho 18 anni. Però sono stato rifiutato da quattro college diversi." l'ultima frase la dissi a bassa voce vergognandomi.

"Credi che l'esercito sia un rimpiazzo?"

"Mi ha sentito dire questo?!" sbottai, ma ripresi subito il controllo di me stesso. Nell'esercito conta molto la disciplina.

"Bel caratterino, ragazzo." mi sembrò quasi divertita.

"Scusi."

"Non ti scusare. Allora, devi essere sincero con me. Io voglio che si arruolino solo persone valide. Tu mi sembri tanto un bravo ragazzo, ma ti manca qualcosa. Ti manca la luce. Fammi vedere la tua luce e dimmi perché sei qui."

Feci un respiro profondo e decisi di mettere a nudo tutte le mie emozioni e sensazioni: "O la va o la spacca." pensai.

"Avevo la luce di cui lei parla, fino a qualche anno fa. C'è stato un incidente, la mia ragazza morì e io non potetti fare niente per salvarla. Con lei se n'è andata la mia luce. Ho continuato a sopravvivere, non a vivere. E c'è una bella differenza. Tutte le cose che facevo, le facevo per mantenermi in vita in attesa che qualcosa mi desse un colpetto e mi svegliasse. Sono stato rifiutato da quattro college nel giro di poche settimane. Stavo per ricadere nel baratro dal quale credevo di poter finalmente uscire. Ma proprio ieri ho visto la parata dei militari e ne ho capito appieno la bellezza. Lo sguardo di quei ragazzi e ragazze pieno di consapevolezza e di voglia di diventare qualcuno di importante. E io voglio diventare qualcuno. Voglio che la gente si ricordi di me, che i miei figli siano orgogliosi di avere un padre ben visto dalla gente." detto questo mi vennero gli occhi lucidi, ma riuscii a ricacciarle dentro. Non volevo assolutamente piangere davanti ad una donna Sergente.

"Ragazzo, devo dire che mi hai convinta." sorrise e mi passò un modulo. "Compilalo." 

Aveva un tono così autoritario che credo che riuscirebbe a far smuovere anche le montagne.

Le riconsegnai il modulo e aspettai che finisse di leggerlo.

"Bene, presentati alle pre-selezioni che si terranno il 1° di settembre. Inizieremo con un test attitudinale, quindi studia. Poi ci saranno delle prove fisiche. Tieniti pronto. E' tutto, per ora."

"Signora.." chiesi incerto "dov'è che dovrei presentarmi?"

"Ragazzo, ma a Fort Detrick, è ovvio."

"Sì, certo." seconda bella figura, perfetto. "Arrivederci, allora.. signora."

"Arrivederci Locket."

Uscii da quell'ufficio e respirai a pieni polmoni l'aria calda di Luglio.

"Ho quasi due mesi per prepararmi, ma questa volta non fallirò. Lo devo ai miei genitori, a Richard, a Catherine, al Sergente.. ma soprattutto lo devo a me, un po' di serenità la merito anche io." 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


"Non ce la farò mai! Questa roba non mi entrerà mai in testa!"

"La vuoi smettere di essere così ottimista?!"

Richard mi stava aiutando con le simulazioni del test attitudinale.

Ormai eravamo giunti a fine Agosto. Mancava davvero poco.

"E' inutile, Ricky!"

"No che non lo è! Ora ti concentri e fai tutto da capo."

Se non ci fosse stato lui a sostenermi in quei due mesi penso che avrei mollato il primo giorno. Devo essere sincero: pensavo che entrare nell'esercito fosse più facile. Ma mi sbagliavo, e di grosso. Almeno non ho avuto problemi con le prove fisiche.

"E muoviti che dopo ho un appuntamento."

"E me lo dici così? Chi è questa povera vittima?"

"Ah-ah sei proprio simpatico, Leo. Comunque è una di Baltimora. L'ho incontrata qualche giorno fa."

"Wow.. e non me ne hai parlato, sono offeso."

"Bhe.. da quando c'è in ballo la storia dell'esercito non pensi a nient'altro."

Non risposi, ma sapevo che aveva ragione, come al solito.

"Idea!" disse all'improvviso "perché non vieni anche tu? Di sicuro ci sarà qualche sua amica! E, ti assicuro, non sono per niente frivole: studiano alla Johns Hopkins."

"Mi piacerebbe Ricky, ma sono tutto preso dallo studio! Ma ti prometto che appena entro nell'esercito ci andiamo a fare una sana bevuta."

Mi sorrise. "Ci conto! Ora devo andare, non divertirti troppo." mi diede una pacca sulla spalla e uscì.

"Bene, test attitudinale: a noi due."

Studiai per un'altra oretta e i risultati si fecero vedere, migliorai il mio punteggio di 10 punti. Decisi di prendermi una pausa. Scesi in cucina per mangiare qualcosa, ma mi ritrovai davanti mia sorella Catherine che mi guardava come una furia.

"Eccoti! Mi dici che diavolo ti è preso?!" sono poche le volte che ho visto mia sorella così arrabbiata, soprattutto con me.

"Che intendi dire?" ma io un'idea già la avevo, eccome.

"Tra 4 giorni affronterai un test attitudinale per entrare nell'esercito! Nell'esercito, idiota! Cosa ti passa per la testa e perché non me l'hai detto?"

"Calmati Katie, mamma e papà non ti hanno detto nulla?"

"Certo che me l'hanno detto, ma io aspettavo una tua telefonata!"

"Scusa.."

"E, tra l'altro, mi rivedi dopo quasi tre mesi e nemmeno mi abbracci, sei incredibile Leonardo."

Sorrisi e andai verso di lei, la abbracciai e le stampai un bacio sulla fronte. E' più grande d'età, ma più piccola di me in altezza e adoro farla sentire protetta.

"Allora.." mi disse, più tranquilla "parlami di questa tua follia."

"Ho deciso all'improvviso, ma sono felice della mia scelta Katie.. sono sicuro che questa sia la cosa giusta per me!"

"Allora vedi di diventare Generale al più presto." ridemmo insieme come non facevamo da tanto. Devo ammettere che tutto ciò mi è mancato. Certo, tra noi i litigi non mancano, come è normale che sia tra fratello e sorella, ma entrambi sappiamo che ci saremo sempre l'uno per l'altra e questo pensiero riesce a farmi star meglio in qualsiasi occasione.

"Stasera ti porto a cena fuori, come ai vecchi tempi, ti va?" le chiesi.

"Ma certo, Leo." mi sorrise e salì di sopra in camera sua.

E' strano come le donne possano cambiare umore in così poco tempo. Sono come dei bambini: hanno un mondo tutto loro e sono le uniche a conoscerlo e a comprenderlo. E guai a varcare il confine del loro universo, non ci capiresti niente e ritorneresti nella realtà solo più confuso. Eppure sono l'invenzione più bella sulla faccia della terra.

C'è una cosa che ho sempre desiderato: innamorarmi. Tutti pensano che io sia stato innamorato di Samantha, ma non è così. A 16 anni non si ha la concezione dell'amore. Le volevo bene, ma l'amore è tutt'altro: è passione, complicità, voglia di addormentarsi insieme ad una persona e svegliarsi al mattino successivo con lei, e tante altre sensazioni che non vedo l'ora di provare. Spesso mi ritrovo a pensare: arriverà mai quella giusta?

La cena con Catherine non sarebbe potuta andare meglio. Mi ha raccontato delle sue follie in giro per l'Europa e devo dire che sono stato un po' invidioso mentre la ascoltavo: girare il mondo senza preoccupazioni è una cosa che tutti vorrebbero fare.

Tornato a casa mi stesi sul letto. Solo con i miei pensieri.

Sono un tipo a cui piace stare in compagnia, scherzare con la gente. Ma sono anche uno di quelli che ama stare da solo. C'è chi ha paura di ciò: paura di confrontarsi con se stesso e con i propri pensieri. Io, invece, anche nelle occasioni peggiori desidero rinchiudermi da qualche parte a pensare e a mettere a fuoco la situazione. 

Tra tre giorni affronterò uno dei test più importanti della mia vita.

Emozionato? Teso? Cazzo, sì. Ancora oggi non riesco a spiegarmi quel turbinio di emozioni. Iniziavo seriamente ad amare qualcosa.

Mi documentai persino sulla guerra. Molti soldati aiutano davvero le famiglie del Medio Oriente: non portano solo orrore e distruzione.

C'è chi si lascia trasportare dalla situazione e perde la testa. Ma io non sono così. No, non lo sono affatto. Mi è stato talmente tanto insegnato il rispetto per il prossimo che, senza motivo, non potrei far del male nemmeno ad una mosca.

Mi addormentai e sognai di essere al fronte e di combattere. Nel sogno una pallottola mi centrò in pieno petto e mi svegliai di soprassalto impregnato di sudore freddo.

Guardai l'ora: le 8 del mattino. Mi feci una doccia per tranquillizzarmi e scesi a fare colazione. Non so come facciano i miei, ma riescono a svegliarsi alle 7 del mattino anche in piena estate.

"Buon giorno" mia madre si avvicinò e mi diede un bacio.

" 'Giorno.."

"Figliolo.." disse mio padre "oggi a pranzo verranno tutti i parenti."

"Cosa?" erano anni che non facevamo una riunione di famiglia al completo.

"Vogliono farti personalmente gli auguri per il test."

All'improvviso mi si chiuse lo stomaco. Ero emozionato all'idea che tutto ciò sarebbe diventato, tra poco, davvero ufficiale. Mi sarei dovuto preparare sia alle critiche che alle ovazioni, ne ero sicuro: i miei parenti avrebbero iniziato una discussione riguardo la mia decisione.

"Stai tranquillo.." mi disse mia madre passandomi il caffè "è solo la famiglia."

"Appunto.." pensai, ma non diedi voce a questo mio pensiero. Non volevo deludere  mia madre, dato che sapevo perfettamente quanto tenesse all'unione e alla serenità familiare.

Mi diressi verso la mia camera, ma sul letto trovai mia sorella con un sorrisone stampato sulla faccia.

"Allora, sembra proprio che ci sia aria di un pranzo ufficiale." iniziò a ridere.

"Lo sai com'è fatta nostra madre. Non ha mezze misure. Mi sorprende che non ci siano una schiera di camerieri in giardino."

"Io non canterei vittoria troppo presto." sorrise.

"Dovresti iniziare a prepararti, comunque. Ti consiglierei la giacca prima che nostra madre ti venga a preparare i vestiti come quando avevi 6 anni." disse continuando a sghignazzare.

Si alzò dal letto e mentre stava uscendo mi diede un bacio sulla guancia.

Iniziai a prepararmi. Jeans e camicia per me sarebbero andati benissimo, ma decisi di seguire il consiglio di mia sorella e ripescai una giacca dall'armadio. Niente di troppo impegnativo o elegante: non ho mai dato troppo peso ai vestiti.

La gente che si fissa sulla roba da indossare ha una grande insicurezza di base. Ok il vestirsi bene e tutto il resto, ma certa gente ne fa una vera e propria ossessione. Griffe dalla testa ai piedi, ma dentro il nulla assoluto. Sono solo degli involucri di anime aride che puntano esclusivamente sull'aspetto esteriore.

Non che non mi curi, sia chiaro, ma se mi si spezza un'unghietta non ne faccio un dramma. 

Il risultato che vedevo allo specchio mi sembrava accettabile. In fin dei conti non ero male come ragazzo. Alto, bel fisico, capelli castano chiaro, ma la cosa che ho sempre amato del mio aspetto fisico sono gli occhi. Azzurri con delle sottili linee dorate. Sono così espressivi che, ancora oggi, mi è difficile nascondere qualcosa a chicchessia.

I miei pensieri vennero interrotti dal suonare del campanello.

Controvoglia scesi le scale. Dovevo essere presente e sembrare felice di essere lì con loro. Era la mia "festa", dopotutto.

Alla fine, nel giro di mezz'ora, la famiglia si era sistemata al gran completo in giardino. I bambini giocavano e mia madre serviva da bere a tutti.

Io ero in attesa della miriade di domande che di lì a poco tutti avrebbero iniziato a pormi: da mio nonno a mio cugino di 5 anni.

La prima domanda non tardò ad arrivare, fu mia zia ad iniziare: "Allora, giovanotto.. la vita militare, eh? Sei pronto?"

"Bhe.. ecco.. diciamo che sto imparando a convivere con questa decisione. Ma ancora non è detto: devo superare una serie di test prima di ritenermi ufficialmente un componente dell'esercito."

"Ce la farai sicuro!" si affrettò a dire mio zio "Noi Locket siamo dei duri! Senza offesa per la famiglia di tua madre, ma tu hai preso tutto da noi, ragazzo!"

"Ad eccezione degli gli occhi!" intervenne mia nonna "I vostri sono neri come la pece, i suoi azzurri come il cielo."

"Ecco, ci mancava solo mia nonna che mi fa arrossire per i troppi complimenti." pensai.

Continuammo a scambiarci battute fino a che mia madre non annunciò che il pranzo era pronto.

A tavola, accanto a me, prese posto il mio cuginetto di 8 anni che non faceva altro che fissarmi da quando aveva messo piede in casa.

"C'è qualcosa che vuoi chiedermi, Jack?" gli domandai.

"Sì.. i soldati muoiono. Tu morirai?" mi chiese all'improvviso.

E poi: silenzio.

La tavola si ammutolì all'improvviso al suono di quelle parole. Nessuno sapeva come rispondere. L'innocenza dei bambini li porta sempre a dire tutto quello che pensano senza importarsene delle conseguenze: forse loro hanno davvero capito tutto del mondo. Quella domanda era così scontata, così banale eppure non mi sono mai soffermato tanto su di essa. Forse per paura, per vigliaccheria. Non so. Fatto sta che, non so come, sono riuscito a trovare le parole giuste per spiegare ad un bambino di 8 anni quanto sia strana e bizzarra la vita.

"Jack, non posso dire che non morirò, perché non è così. Ma la vita è fatta di questo. Senza la morte non c'è vita. La morte, che ci fa tanto paura anche solo a nominarla, è una cosa indispensabile. Vivere per sempre sarebbe magnifico, no?! Però a lungo andare io, sinceramente, direi: che palle, ho già visto, fatto, sentito, odorato tutto. I soldati hanno più possibilità di morire prima del dovuto, è vero. Ma muoiono per una cosa in cui loro credono fortemente e credo che questa sia la più dolce delle morti, oltre a morire per chi si ama. Ed è questo che io andrò a fare: combatterò per ciò in cui credo e per chi amo. Che ne dici: è passabile come risposta?"

"Può andare! Ma appena ti danno una pistola me la devi far vedere!" sorrise e incominciò a mangiare con più gusto.

"Certo.." risposi "ma non la usare contro il gatto".

I familiari risero e il clima iniziò a stemperarsi. Siamo stati bene e nessuno ha fatto più domande imbarazzanti o serie.

Quando tutti, ormai, se ne erano andati salii in camera e mi gettai sul letto tra le braccia di Morfeo.

Il sonno arrivò senza farsi attendere troppo e, per fortuna, i miei sogni furono tranquilli. Niente guerra. Niente morti. Ma solo il mare e la sua tranquillità. Sognai di essere steso su un lettino a prendere il sole in riva a quell'acqua salata che mi cullava con il suono delle sue onde, insomma: la pace dei sensi.

I giorni successivi trascorsero senza particolari difficoltà o problemi; tutto sembrava volermi portare direttamente a quel 1° Settembre 2011. 

Quella mattina mi svegliai di buon ora: era arrivato il giorno più atteso, più temuto, più emozionante.. insomma "più" di tutta la mia vita da 18 anni a questa parte.

Mi sono sorpreso di me stesso quando sono riuscito a prendere sonno ad un'ora indefinita nel cuore della notte alla vigilia di quell'esame che avrebbe cambiato radicalmente la mia esistenza. Alla fine, però, la stanchezza prese il sopravvento su tutto e sprofondai in un sonno senza sogni.

L'esame avrebbe dovuto iniziare alle 15 quel pomeriggio.

Tentai mi mangiare qualcosa, ma tutto ciò che masticavo mi sembrava gomma. Avevo lo stomaco chiuso, la bocca secca, ma mi sentivo così vivo che non mi importava.

Richard passò a prendermi per accompagnarmi alla sede dell'esame, ho voluto che mi accompagnasse lui perché è sempre riuscito a trasmettermi serenità e in quel momento ne avevo assolutamente bisogno.

"Eccoci arrivati." mi disse.

"Senti.. devo dirti una cosa.."

"No, aspetta. Lascia parlare prima me. So che questo è un momento importantissimo per te ed è per questo che ho accettato subito quando mi hai chiesto di accompagnarti. Voglio esserti vicino e sappi che, qualunque sia l'esito di questo benedettissimo test, io ci sarò sempre. Detto questo: va lì dentro e spacca tutto.. In senso buono ovviamente." mi fece l'occhiolino.

Riuscì a strapparmi un sorriso e l'unica cosa che riuscii a mormorare fu un "grazie" non a gran voce, ma assolutamente sentito con tutto il cuore.

Entrai nell'aula.

Ci saranno stati più o meno 50 ragazzi, tesi come me, ansiosi come me.

Notai che le ragazze erano in netta minoranza: nemmeno un terzo.

Presi posto in IV fila e qualcuno mi poggiò una mano sulla spalla.

"In bocca al lupo, ragazzo." era il Sergente Shire. Finalmente un volto amico. Mi sorrise e prese posto davanti ad una cattedra insieme ad altri suoi colleghi.

Un colpo di tosse.

"Benvenuti ragazzi e ragazze. Tra poco inizierà il test. Avete 90 minuti di tempo per completarlo. Ma prima volevo presentarvi alcuni dei miei colleghi che hanno deciso di presenziare a questo primo step della vostra formazione militare.

A partire dalla vostra sinistra: il Tenente Colonnello John Travis, il Generale Alexander Gallagher e lo Specialista Kevin Price."

Partì un modesto applauso e fu il Generale Gallagher a continuare:

"Grazie per la presentazione, Sergente. Ma l'ora dei convenevoli è finita. Prendete posizione, futuri soldati e buona fortuna."

I fogli ci vennero consegnati, le matite iniziarono le loro armoniose danze su quei pezzi di carta. A distanza di anni ricordo solo la prima domanda, la ricordo per la sua facilità e perché lì per lì mi fece sorridere:

"Cosa festeggiano gli Americani il 4 Luglio di ogni anno?"

Sorrido perché è proprio il 4 Luglio che ho preso questa matta decisione di intraprendere la carriera nell'esercito ed ecco che il destino decide ancora di giocare con me, mi punzecchia e mi dà il tormento. Ma sono lieto che lo faccia, è così divertente.

Il test giunse al termine. I risultati ci sarebbero stati comunicati il giorno successivo.

"Veloci questi dell'esercito. Meglio.. l'attesa sarà già abbastanza snervante." pensai.

Uscii all'aria aperta e respirai l'aria di settembre. Un'arietta fresca che mi mise subito di buon umore. Trovai Richard in macchina a leggere.

"Sei restato qui tutto questo tempo?" gli chiesi.

"Dove altro sarei dovuto andare?! Com'è andata?"

"Credo bene."

"Bhe.. io, invece, credo che dovremmo andare a bere e mangiare qualcosa."

"Sono d'accordo." sorrisi.

Un sospiro mi partì spontaneo: i giochi erano stati fatti. Alea iacta est.

 "Ho fatto del mio meglio. Almeno non avrò rimpianti o rimorsi." 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. ***


Dopo aver mangiato qualcosa ci recammo al nostro solito bar. Appena ci sistemammo al bancone e ordinammo due birre, delle ragazze ci si avvicinarono.

"Ricky!" urlò una ragazza "non si usa salutare?"

"Sarah! Che ci fai da queste parti?" si alzò e le stampò un bacio sulla guancia.

"A Baltimora non c'era molto da fare stasera e, in realtà, speravo di incontrarti." sorrise.

"Dev'essere la ragazza con la quale Richard è uscito quasi una settimana fa." pensai. 

Effettivamente era una bella ragazza: capelli castano chiaro, occhi marroni, alta, naso leggermente alla francese e sembrava anche abbastanza intelligente.

"Leo, lei è Sarah e la sua amica è Alice." 

Alice, invece, fisicamente era quasi l'esatto opposto rispetto a Sarah. Capelli neri, occhi scuri, ma altrettanto affascinante.

Fatte le presentazioni le invitammo bere qualcosa in nostra compagnia. 

"L'altra che completa il trio l'avete lasciata a casa?" disse Richard scherzando.

"Sophia? Doveva studiare. Che noia!" sbuffò Sarah.

"Cosa studiate?" intervenni io.

"Studiamo tutte alla Johns Hopkins: io e Alice stiamo al II anno di Economia." rispose Sarah.

"E questa misteriosa Sophia?" continuai.

"Anche lei sta alla Johns Hopkins, al II anno di medicina. Però lei ha ancora 18 anni: ha fatto due anni in uno al liceo. Non vedeva l'ora di andare all'università. E tu, Leo?" mi chiese Alice.

"Oggi ho sostenuto il primo test per entrare nell'esercito. Domani saprò il risultato, ma sono abbastanza speranzoso." sorrisi.

"Un futuro soldato, quindi! Forte!" esclamò Sarah.

Ho subito avuto una buona impressione di Sarah. Solare, simpatica, intelligente e perfetta per Richard. Tra loro due c'è davvero una bella chimica. 

Alice, invece, sembrava provarci con me. Mi piaceva anche lei, ma non è mai scattata la famosa scintilla tra di noi. 

Erano passate un paio d'ore da quando eravamo in compagnia delle ragazze. 

"Ragazzi, si è fatto tardi e devo andare. Domani voglio svegliarmi presto per andare a vedere i risultati il prima possibile. Richard, se vuoi puoi restare. Mi faccio una passeggiata." dissi.

Salutai i miei amici ed uscii dal locale. Ma mi ritrovai quasi subito affiancato da Alice.

"Ti dispiace se mi unisco alla tua passeggiatina al chiaro di Luna? Non vorrei essere d'intralcio a quei due."

Sorrisi. "Nessun problema."

Camminammo e parlammo di tante cose. Le nostre vite, le nostre famiglie, i nostri sogni. Ma evitai di toccare il tasto più doloroso della mia vita. Era una bella serata e non valeva la pena rovinarla con dei tristi pensieri.

Eravamo appena arrivati a casa mia quando esclamai: "Ehi, non ti ho nemmeno chiesto dove dormi."

"Non ti preoccupare. Abbiamo fittato una stanza in un Motel qua vicino." rispose.

"Allora ti accompagno." 

"Sei gentile." mi sorrise.

In sua compagnia mi trovavo bene.

Già sapevo che sarebbe potuta essere l'inizio di una bella amicizia, ma, all'epoca, avevo paura di ferirla. 

Io le piacevo, e anche tanto, mi confessò in seguito, ma per me è sempre stata solo un'amica e Dio solo sa quanto una ragazza possa prenderla male quando un ragazzo che le interessa le dice "Restiamo solo amici."

"Eccoci arrivati." disse all'improvviso richiamandomi dai miei pensieri.

"Sono stata bene stasera, Leo." continuò

"Anche io. Bhe.. buona notte."

Mi avvicinai per darle un bacio sulla guancia, ma lei spostò improvvisamente la testa e diede un bacio all'angolo della bocca.

"Buona notte." sorrise e si diresse verso la stanza che condivideva con Sarah.

Sì.. quella fu proprio una bella serata.

 

 

 

"Prima o poi riuscirai ad avvicinarti  quel foglio?"

Sentii una voce alle mie spalle che mi fece sussultare. 

"Ci conosciamo?"

"Piacere, Benjamin Cross."

"Leonardo Locket."

"Paura, eh?"

"Un pochino.. a te come è andata?"

"Lo saprai tra 15 secondi." mi fece l'occhiolino e si avvicinò a quella bacheca.

E' incredibile quanto tutto il mio futuro sia stato scritto su quel foglio di carta al di là di un sottile strato di vetro. La differenza tra la vittoria e la sconfitta stava nel leggere o meno il tuo nome tra quello dei 25 fortunati.

"Vorrei presentarmi di nuovo, se non ti dispiace." era Benjamin che parlava.

"Come, scusa?" ero abbastanza confuso. "Chi è questo tizio che è piombato così all'improvviso nella mia vita?!" mi chiesi.

"Piacere, Soldato Semplice Benjamin Cross!" il suo sorriso esprimeva una felicità rara e pura.

"Complimenti." il mio sorriso, d'altro canto, era un pochino più amaro.

"Ora tocca a te, Leonardo! Coraggio!" mi spinse davanti a quella bacheca.

Mi ritrovai faccia a faccia con il foglio. Ma avevo ancora gli occhi chiusi.

Li aprii piano, con timore.

"I nomi sono in ordine alfabetico." mi disse Benjamin.

Donovan.

Encode.

Force.

Giuliani.

Hawkes.

Locket.

"Soldato Semplice Locket!" urlò Benjamin dandomi una pacca sulla spalla.

Io restai senza parole. Il tempo si era fermato, il mio cuore perse un paio di battiti, il respiro era irregolare. Finalmente qualcosa nella mia vita aveva preso la piega desiderata.

Dopo non so quanto tempo iniziai a ridere. Ridevo come un pazzo, ridevo di gioia. E abbracciai Benjamin.

"Leonardo, sono felice per te." 

"Chiamami Leo." gli sorrisi.

"E tu chiamami Ben."

"Ben, ti va di andare a festeggiare?"

"Certo. Stasera, però. Ora devo andare in giro ad avvertire un po' di persone."

"Ci vediamo al parco alle 9 questa sera. Porta chi vuoi, offro io."

Rise. "Facciamo che offriamo io e te a tutti. Anche io ho qualcosina da festeggiare." mi fece l'occhiolino e se ne andò.

Restai per un po' a fissarlo. Strano tipo, ma mi piacque da subito. Ed è importante avere amici nell'esercito: devi essere sicuro di poterti fidare incondizionatamente di tutti.

Iniziai a correre verso casa di Richard rischiando sia di essere investito da un paio di macchine sia di rompermi qualche osso.

Mi aprì proprio lui. Presi fiato e gli urlai in faccia: "Ce l'ho fatta!"

"E non mi abbracci?!"

Ci abbracciammo.

"Stasera si festeggia! Alice e Sarah sono ancora in città, giusto?"

"Sì."

"Allora sono invitate anche loro. Ora corro a casa, devo avvertire i miei!"

"Certo. Ah.. non prendere impegni per il week end prossimo."

"Perché?"

"Andiamo a Baltimora."

Quella sera abbiamo festeggiato tanto. Abbiamo mangiato, bevuto, riso, scherzato. Ero in pace col mondo ma, soprattutto, ero in pace con me stesso.

 

 

Era ormai passato un mese da quando Fort Detrick era diventata la mia nuova casa, il destino ha voluto che stessi in camera proprio con Ben.

Le giornate passavano in fretta, non c'era mai un'ora libera. Noi novellini eravamo messi sotto torchio costantemente.

Era un sabato mattina, il primo giorno libero da quando ero entrato di diritto nella vita militare, quando uscii dalla Base per andare con Richard e Ben a Baltimora. Continuavamo a sentirci con Sarah e Alice, ma ancora non avevamo incontrato questa misteriosa Sophia. 

Dopo la nostra piccola apparizione a Baltimora, di circa un mese prima, erano sempre le due ragazze a raggiungerci. Per loro l'università ancora non era iniziata e potevano amministrare i loro impegni con molta più facilità rispetto a me o a Ben.

Arrivammo di fronte a casa di Richard e lo trovammo già fuori ad attenderci.

"Non vi insegnano la puntualità dalle vostre parti?!"

"Fa poco lo spiritoso!" rispose Ben, ridendo a sua volta.

Eravamo in macchina da un'oretta quando si incominciò ad intravedere il paesaggio della città.

"Dove dobbiamo incontrarci con le ragazze?" chiesi.

"Alla Johns Hopkins." rispose Richard "Hanno fatto un piccolo sopralluogo per controllare che tutto fosse in ordine. Eccole lì!"

Scendemmo dalla macchina e ci vennero incontro. Salutai Sarah e Alice e notai una ragazza girata di spalle che parlava animatamente a telefono.

"Non mi interessa! Ho richiesto quel libro mesi fa! Mi serve! Veda di risolvere questa situazione. Arrivederci!"

"Però.." pensai "esuberante."

"Ragazzi," intervenne Sarah "la pazza esaurita che avete di fronte è Sophia."

E accadde tutto in un attimo. 

I nostri sguardi si incatenarono. Non riuscii ad interrompere questo collegamento. Avendo gli occhi azzurri, ho sempre pensato che i colori scuri fossero abbastanza normali e scontati. Ma i suoi occhi erano tutto tranne che "normali". Erano color ambra con delle sfumature dorate messe in risalto, ancor di più, dalla luce del Sole. Ma era quello che trasmettevano che li rendevano così meravigliosi. 

Sicurezza.

Intelligenza. 

Bellezza.

Ci presentammo e al tocco della sua mano un brivido percorse la mia schiena: pura elettricità.

"Coraggio! Basta convenevoli! Andiamo a mostrare ai ragazzi la città." 

"Sarah, lo sai che devo ancora sistemare delle cose in camera mia!"

"Dai, Sophia! L'università inizia tra 10 giorni!"

"Mi conosci." rispose facendole l'occhiolino e abbracciò l'amica "Dai, ci vediamo stasera!" sorrise.

Guardandola bene, notai che era proprio una bella ragazza. Capelli castani con riflessi ramati. Bel fisico. Splendido sorriso. Ma non riuscivo a staccare lo sguardo da quei suoi occhi magnetici.

"Boys! Andiamo!" esclamò Alice.

"Ehm.. se non vi dispiace io resto qui. Ho sempre desiderato visitare questa università. Sempre che a Sophia non dispiaccia farmi da Cicerone." non so nemmeno oggi da dove riuscii a prendere tutto quel coraggio.

"No. Nessuno problema." rispose Sophia.

"Ci vediamo stasera, ragazzi. Divertitevi." Richard sorrise malizioso. Sicuramente aveva intuito qualcosa sin da subito.

Guardammo la macchina allontanarsi e poi lei prese parola.

"Allora, tu sei il famoso soldato che ha fatto battere il cuore di Alice?!"

"Il tuo tono è strano." sorrisi "Mi aspettavi diverso?"

"A dire il vero, sì. Pensavo che fossi un pochino più alto."

"Mi dispiace averti delusa."

"Affatto." rispose e sorrise a sua volta.

Parlammo per quasi un'ora camminando all'interno del campus.

Sophia Johannes, 18 anni. Studentessa di medicina. Originaria di New York.

"Cosa ti ha spinto a scegliere proprio medicina?" le chiesi.

"Amo aiutare il prossimo."

"Ci sono tantissimi altri modi per essere d'aiuto alle persone."

"Certo, ma vuoi competere con l'emozione di scrutare dentro il cervello di qualcuno o di mantenere un cuore in mano?! Credo che poche cose siano altrettanto emozionanti. E poi la possibilità di avere il potere di decidere il destino delle persone mi esalta."

"Ti credi Dio?!" sorrisi.

"Una sua fedele aiutante."

Camminammo ancora un po' dirigendoci verso i dormitori.

"E tu, soldato? Come mai hai scelto la vita militare?" mi chiese.

"Devo essere sincero: è stata una scelta del tutto improvvisa. Sai, ti invidio. Fino a qualche mese fa non avevo la minima ambizione o passione. Tu, invece, sembri avere proprio nel sangue questa faccenda della medicina. Dovresti esserne felice. Non hai mai avuto il minimo dubbio sul tuo futuro?"

"Ti sembrerà strano, ma.. no. Ho sempre saputo quale sarebbe stata la mia strada. E non vedevo l'ora di intraprenderla. E il fatto che io abbia saltato un anno di liceo ne è la prova."

"Hai già scelto la specializzazione?"

"Mi interessa molto neurochirurgia. O chirurgia d'urgenza. Mi piacerebbe fare il medico dell'esercito."

"Chissà, magari un giorno potresti salvarmi la vita."

"Allora comportati bene, soldato." disse ridendo.

Era tanto che non provavo qualcosa di simile per una ragazza. Mi bastava guardarla negli occhi per stare bene, per sentirmi a mio agio.

Arrivammo ai dormitori e mi mostrò la stanza che divideva con Sarah e Alice. La sua scrivania era piena di libri. Non solo di medicina.

"Il ritratto di Dorian Gray." dissi notando un libro posto in netta evidenza rispetto agli altri.

"E' il mio libro preferito." rispose sorridendo "e mi piace molto Oscar Wilde."

"Meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio." recitai.

"Piace anche a te?"

"Un po'. Ma adoro questa frase."

"Soldato, mi stupisci sempre di più. E devo farti una confessione."

Iniziò ad avvicinarsi pericolosamente a me.

"Io.."

Si avvicinava sempre di più.

"amo.."

Il mio cuore aumentò i suoi battiti.

"il tuo nome." me lo sussurrò ad un orecchio. 

"Vuole farmi impazzire." pensai.

 Aveva un buonissimo profumo che per un attimo mi inebriò totalmente, annebbiandomi il cervello.

"Ehm.. grazie! Piace molto anche a me." imbarazzato mi allontanai da lei e finsi di curiosare ancora un po' tra i suoi libri.

"Leo, Leo" dissi a me stesso "ti stai prendendo una bella cotta."

"Però non mi piace una cosa." disse all'improvviso.

"Cosa?"

"Il fatto che abbia parlato quasi interamente io della mia vita, dei miei sogni e di tutto il resto. Insomma: non conosco nemmeno il tuo cognome."

"A dire il vero non ho una vita molto interessante o particolare." risposi quasi sottovoce, ma si vedeva lontano un miglio che stavo mentendo.

"Non ci credo. Tutte le storie sono interessanti. Dipende da chi le racconta."

Sospirai. "D'accordo. Sei pronta a subirti il racconto della mia triste vita?"

"Accomodati." mi invitò a sedermi sul letto affianco a lei.

"Ok.."

"Non risparmiarti su nulla."

"Perché ci tieni tanto?"

Mi sorrise.

"Voglio conoscerti, soldato. Non riesco a capire i tuoi occhi e voglio sapere cosa si cela dietro a questa maschera del duro combattente pronto alla battaglia."

"Cos'hanno i miei occhi?"

"A volte sei assente. Ma non del tipo 'mi piace qualcuno e penso solo a questa persona'. No. Tu pensi al tuo passato."

"Come fai?"

"A fare cosa?"

"A leggermi così bene dentro."

"Ho un dono. Ma non cambiare discorso. Su, confidati con la dottoressa Johannes."

Nel giro di un'ora ho buttato tutto fuori, tutto quello che avevo serbato dentro di me per due lunghi anni. Emozioni. Sensazioni. Pensieri. Gioie. Paure. Con Sophia non riuscivo ad avere freni, e lei sembrava davvero interessata ad ogni cosa che usciva dalla mia bocca.

"Hai sofferto tanto.." disse alla fine, con un accenno di occhi lucidi.

"Alla fine basta sapersi rialzare. E io sto iniziando a farlo." le sorrisi cercando di tranquillizzarla.

"Dopo tutto questo hai paura di innamorarti?" mi chiese all'improvviso, spiazzandomi.

"Se devo essere sincero, non vedo l'ora."

I nostri sguardi si incrociarono di nuovo per non so quanto tempo. Nessuno dei due riuscì a spezzare questa unione. Alla fine è lei che prese parola. 

"Ti va se andiamo a mangiare qualcosa?"

"Certo." sorrisi.

Ci alzammo dal letto contemporaneamente e, prendendomi alla sprovvista, mi abbracciò. Un gesto sincero, rassicurante. Poggiò la sua testa sul mio petto e restammo in questa posizione per un po' e ricordo che pensai che sarei potuto restare così per sempre. 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. ***


Trascorremmo tutta la giornata insieme e, senza nemmeno rendercene conto, la sera ci aveva raggiunti. 

Al campus trovammo gli altri che ci stavano aspettando.

"Eccovi, finalmente!" esclamò Richard "Dobbiamo andare! Vi ricordo che domani avete le esercitazioni sul campo!"

"Cavolo, me ne ero totalmente dimenticato!" dissi.

"L'avevamo notato." rispose Sarah, sorridendo.

Era giunta l'ora dei saluti, ma avrei voluto tanto restare lì con lei.

Sarah e Richard si diedero un veloce bacio a stampo. Alice e Ben si abbracciarono. 

Ed io rimasi imbambolato davanti a lei senza sapere cosa fare, come comportarmi.

All'improvviso mi prese per la mano e mi strinse a sé in un abbraccio.

"Ci rivedremo, soldato?"

"Lo spero tanto." riuscii solo a dire questo.

Lei, di tutta risposta, mi diede un bacio sulla guancia e mi sorrise.

"A presto, allora."

Salii in macchina con i miei due amici.

"Ora devi raccontarci tutto, Leo!" disse Ben.

"Tutto cosa?!" ero in totale imbarazzo.

"Non mentirci. Si vede lontano un miglio che ti interessa. La guardi con un'intensità assurda."

Sospirai. "Sì, mi piace. E anche tanto!"

"Il mio piccolo ometto sta crescendo! Sono commosso."

"Ricky, sei il solito idiota."

Continuammo a scherzare fino a che non mi persi nei miei pensieri e mi estraniai da ciò che mi circondava.

"Chi sei Sophia? Cosa mi hai fatto?" pensavo. 

Richard ci lasciò davanti alla base e noi ci dirigemmo verso i nostri dormitori.

"E tu e Alice?" chiesi all'improvviso.

"C'è una bella complicità tra di noi."

"Tutto qui?"

"Per ora sì. Ma sono fiducioso."

Sorrisi. Perché lo ero anche io. Quella ragazza mi aveva folgorato. Mi buttai sul letto e mi addormentai mentre la mia mente pensava ancora intensamente a lei.

Sembrava non essere passata nemmeno un'ora quando la luce del Sole e le urla di Ben mi svegliarono.

"Cazzo, Leo! E' tardissimo! Dobbiamo muoverci!"

"Che ore sono?"

"Le 8! La simulazione inizia alle 8.30! Sbrigati!"

La simulazione sul campo: erano giorni che la gente non pensava ad altro. Noi novellini avremmo dovuto essere testati per vedere se gli insegnamenti di quel primo mese avevano dato gli effetti desiderati.

Alle 8.25 uscimmo dai dormitori correndo come dei pazzi.

Arrivammo giusto in tempo.

"Cross, Locket. Che piacere vedere che vi siete uniti a noi. In riga, subito." era lo Specialista Kevin Price che parlava. Un ragazzo di colore dallo sguardo fiero e sicuro che aveva ottenuto da qualche mese la promozione.

"Bene. Oggi vedremo se siete tagliati per questa vita. Sarà una vera e propria simulazione di guerra. Non voglio che la prendiate sotto gamba, intesi?"

Nessuno batté ciglio. Eravamo tutti troppo intimoriti dalla sua figura per parlare.

"Iniziamo."

Ero in squadra con Ben e altri cinque ragazzi e una ragazza: James, Alex, Ryan, Tony, Michael e Pamela.

La simulazione proseguiva abbastanza bene. Ero a capo della mia unità e ancora non avevamo perso alcun elemento.

Era quasi un'ora che eravamo appostati. Nessun movimento. Nessun segnale. Nulla.

"Cosa facciamo, Leo?" mi chiese James.

"Non lo so.. improvvisiamo. Seguitemi."

"Non possiamo esporci al fuoco nemico!" urlò Michael.

"La situazione è questa: siamo gli unici con la squadra al completo. Ho saputo via radio che è rimasta solo un'unità avversaria formata da due uomini. E loro stessi sanno che noi siamo, a differenza loro, ancora in sette. Non muoveranno un passo. E non ho intenzione di stare fermo qui ad aspettare. Quindi, muoviamoci."

La nostra era una perfetta missione suicida, lo sapevo benissimo. Nella realtà non avrei mai usato quella soluzione. Ma in quel momento non vedevo altre possibilità.

Avanzammo compatti, James e Pamela vengono colpiti. Ma io e Ben riuscimmo ad atterrare i nostri nemici. Avevamo vinto. E quello che provai fu indescrivibile. Ero lì, con un mitra laser in mano, ma mi sentivo invincibile. Quella vita iniziava davvero a piacermi. Mi congratulai con tutti e vidi Price che si avvicina con uno sguardo furioso.

"Cosa credevi di fare, Locket? Ti rendi conto che nel contesto reale avresti mandato a morire non solo te, ma anche i tuoi uomini?"

"Era solo una simulazione, signore. E non c'erano altre alternative."

Il suo sguardo divenne meno severo e iniziò a parlarmi con voce più controllata.

"Alla tua età ero come te: esuberante ed entusiasta. Ciò mi portò ad uno degli errori più grandi della mia vita. Non dimenticare che in guerra la vita dei tuoi compagni dipende da ogni tua minima azione. Oggi sei stato fortunato, ma là fuori è un terno al lotto. Chiaro?"

"Sì, signore." 

"Ora andate tutti a farvi una doccia. Il Sergente Shire vi vuole al poligono alle 18 in punto."

Aveva ragione, maledettamente ragione. Ero stato uno stupido. E di lì a qualche anno l'insegnamento di quel giorno mi sarebbe servito per uscire da una bruttissima situazione. Ma in quell'istante non riuscivo a togliermi di dosso l'adrenalina che continuava a scorrermi nel sangue. Respirai a fondo e mi diressi verso i dormitori.

"Per quel che vale," mi disse Pamela "per me sei stato un grande."

Le esercitazioni, comunque, si intensificarono: al fronte avevano bisogno di nuove forze.

Ma in quei giorni di metà Ottobre i miei pensieri erano concentrati sull'incombente partenza di Richard per la Brown che sarebbe avvenuta di lì a poco.

Sarah, Alice, Ben, Sophia ed io decidemmo di accompagnarlo per tutta la durata del viaggio e di fermarci lì, a Providence, per il week end.

Ero in camera mia, al calar della sera, quando sul mio cellulare arrivò un messaggio.

Sophia: "Finalmente domani ci rivedremo, soldato. Sai, ne sono molto felice."

Risposi che anche io ero felice di vederla.

Ma la parola "felice" non era minimamente in grado di descrivere ciò che provavo all'idea di rivederla. A volte il linguaggio umano è una limitazione alle sensazioni e alle emozioni che, spesso e volentieri, non posso essere racchiuse in nessuna espressione.

"Stai pensando a lei, vero?" mi chiese Ben.

"Cosa?!"

"Fai sempre un sorrisino ebete quando pensi a Sophia." mi sorrise e mi diede una pacca sulla spalla "C'est l'amour."

"Non sono innamorato.." era vero, verissimo. Provavo tante cose, di certo l'infatuazione c'era, ma era ancora presto per poter parlare di amore.

"Sei comunque sulla buona strada." rispose Ben.

"Già."

Il giorno della partenza di Richard ci svegliammo di buon ora perché l'aereo per Providence sarebbe partito da Baltimora.

Arrivammo di fronte casa sua e trovammo l'intera famiglia Lake al completo.

La madre Theresa aveva le lacrime agli occhi e, appena mi vide, mi corse incontro per abbracciarmi.

"Ricky parte per Providence e tu molto probabilmente andrai oltre oceano." mi disse.

"Fino a che resterò qui verrò a trovarvi ogni fine settimana." le risposi cercando di rassicurarla.

"E' una promessa?" intervenne all'improvviso Charles.

"Sì piccolo, sta tranquillo." e abbracciai anche lui.

Devo ammettere che vedere il mio migliore amico con la valigia pronta per partire alla volta dell'università mi fece uno strano effetto. Ero quasi triste. Mi chiedevo quando l'avrei visto di nuovo. Ma cercai di scacciare subito questo pensiero dalla mia testa. Richard aveva bisogno di me. 

"Agitato?" gli chiesi.

"Il giusto." mi rispose con lo sguardo un po' assente.

"Sai che puoi dirmi tutto."

"Ho paura a lasciare mia madre da sola, ho paura che mio fratello cresca male senza di me. Ho paura." mi disse con voce tremante.

"La tua famiglia se la caverà, come ha sempre fatto. E sicuramente nessuno di loro vorrebbe che tu ti facessi problemi del genere prima di iniziare il college. Nemmeno tuo padre l'avrebbe accettato, e lo sai. Quindi affronta questa nuova avventura pensando a te, solo ed esclusivamente a te. E' il tuo sogno: devi viverlo, possederlo, tenerlo stretto tra le tue mani. Devi spaccare tutto e lo devi fare per te, ma anche un pochino per noi che ti amiamo."

"L'esercito ti ha reso poetico." disse scherzando.

"Direi di sì."

Completammo i saluti e partimmo in direzione di Baltimora.

Il viaggio in macchina fu abbastanza piacevole.

Arrivammo dopo un'oretta in aeroporto e trovammo le ragazze all'ingresso che ci aspettavano.

Sarah e Alice vennero subito a salutarci. Sophia, invece, era impiegata in un'accesa discussione telefonica.

Salutai le ragazze e mi avvicinai a lei con il cuore a mille.

"Sempre a discutere a quanto vedo." le dissi.

"Già. Sono circondata da incapaci. Ma mi fa piacere vederti." mi sorrise e mi accarezzò il viso.

Ed ecco che ritornavo nel solito stato di trance. Non sono mai riuscito a spiegarmi come mai ad ogni suo minimo tocco io riuscissi a perdere completamente la testa. 

"Anche io sono contento di vederti." dissi imbarazzato.

Mentre gli altri si sistemarono nei pressi del gate, io decisi di fare una passeggiata.

Camminavo per le varie boutique dell'aeroporto quando notai un negozio poco affollato che vendeva libri di poesie. Decisi di entrare.

La commessa mi salutò con un sorriso a trentadue denti.

"Benvenuto, giovanotto." mi disse "Cerchi qualcosa in particolare?"

"Salve. No, in realtà no. Sono entrato solo per dare un'occhiata." risposi.

"E' strano che un ragazzo come te si interessi alla poesia."

Sentivo il suo sguardo fisso su di me mentre mi aggiravo tra gli scaffali quando all'improvviso mi chiese: "Sei innamorato?"

"..No."

"Ma il tuo sguardo si è illuminato quando hai sentito la mia domanda."

"Sono in cerca dell'amore."

"L'amore non va cercato. E' lui che trova te; e ti trova quando meno te l'aspetti, quando sei più impreparato ad accoglierlo. Ed è questo il bello. Che sfizio ci sarebbe se arrivasse proprio nel momento più opportuno?"

Lasciai che le parole di quella signora aleggiassero leggere nell'aria e nella mia testa.

L'amore ti trova quando meno te l'aspetti. E' vero. Tutte le cose belle accadono senza una motivazione precisa. E più stai lì ad aspettarle e a piangerti addosso e più tardi arrivano. Forse i latini avevano davvero capito tutto: Carpe Diem; cogli l'attimo, vivi pensando al presente.

La mia attenzione venne attirata da una frase incorniciata e appesa ad un muro del negozio:

"Il bacio è un apostrofo rosa tra le parole t'amo. - Cyrano de Bergerac"

La porta del negozio si aprì ed entrò Sophia. Mi sfuggì un sorriso. La mia cosa bella era arrivata proprio nel momento in cui meno me l'aspettavo.

E pensare che credevo che l'esercito mi avrebbe rafforzato. E invece mi ritrovavo in un negozio di libri di poesie a pensare all'amore davanti alla ragazza che mi aveva travolto come un ciclone.

"Non sapevo che ti interessasse la poesia." mi disse sorridendo leggermente.

"Ci sono tante cose che non sai di me.." risposi.

"E che non vedo l'ora di scoprire." disse, con un filo di voce, a completare la mia frase. Per la prima volta la vidi imbarazzata. Il suo sguardo vagava sugli scaffali senza mai soffermarsi su di me.

"Ti serve una mano, cara?" chiese la signora, padrona del negozio.

"No, grazie. Sono entrata solo per dare un'occhiata." rispose.

"Non è la prima volta che sento questa frase oggi." disse la signora facendomi l'occhiolino.

Sorrisi senza rendermene conto.

"Prendo questo." disse Sophia avvicinandosi alla cassa.

"Poesie di Paulo Coelho. Ottima scelta. Dove te ne vai di bello, cara?"

"A Providence. Accompagno un amico alla Brown."

"Buon viaggio, allora." la congedò sorridendo.

"Arrivederci."

Mentre usciva restai a guardarla per un po'. I miei occhi seguirono i suoi movimenti fino a quando girò l'angolo e uno schiaffo dietro alla nuca da parte della signora mi riportò alla realtà.

"Vai a prenderti la tua felicità o preferisci restare qui a far compagnia ad una vecchia zitella?!"

"Vado a prendermi la mia felicità." risposi e uscii dal negozio.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. ***


Ho sempre amato viaggiare in aereo. 

Quando le ruote si staccano dal suolo ti senti padrone del mondo. 

L'uomo ha sempre rivolto uno sguardo particolare al cielo, esso rappresenta il nostro limite più grande e si sa che alla razza umana i limiti imposti non piacciono molto.

Leonardo da Vinci ci provò nel '400, diede all'uomo la speranza di poter librarsi in volo come un uccello.

I fratelli Wright, invece, nell'800 ne hanno fatto una realtà.

E da lì l'uomo ha cercato sempre di fare di più. Dall'aereo, ai viaggi nello spazio. Senza restrizioni. Senza barriere. Liberi di tendere verso l'infinito. 

Se poi alle emozioni del viaggio in aereo si aggiunge la compagnia di una splendida ragazza che ti fa battere il cuore all'impazzata, allora sì che inizi a sperare che quel viaggio non possa finire mai.

Eppure lei non sembrava tanto entusiasta del viaggio.

"Va tutto bene?" le chiesi.

"In effetti no.. non mi piace molto viaggiare in aereo." mi rispose.

"Coraggio. E' il mezzo di trasporto più sicuro di tutti."

Le sorrisi cercando di infonderle un po' di coraggio.

"Posso chiederti un favore?"

"Certo." come avrei potuto dirle di no?

"Potresti tenermi la mano?"

Non me lo feci ripetere due volte. Presi la sua mano e la strinsi.

Trascorremmo una buona parte del viaggio così: mano nella mano parlando. Fino a quando lei si addormentò profondamente appoggiando la sua testa sulla mia spalla.

Come al solito il contatto con il suo corpo mi procurava delle palpitazioni e perdita della ragione. Non avevo più consapevolezza di me e a stento riuscii a rispondere quando Richard mi chiese se volessi qualcosa da bere.

"Siamo arrivati?" mi sussurrò Sophia all'orecchio.

"Ben svegliata" sorrisi "atterriamo tra 10 minuti. Vedo che ti è passata la paura dell'aereo."

"Tutto grazie a te." mi disse.

Ci guardammo negli occhi per un po'. 

Atterrammo a Providence e prendemmo tre taxi diversi per dirigerci verso la Brown. Ogni taxi ospitava una "coppia", anche se in realtà gli unici che erano fidanzati quasi seriamente erano Richard e Sarah.

Arrivammo alla Brown e accompagnammo Richard nella sua stanza che avrebbe diviso con altri due ragazzi: Francis e Harry; il primo proveniva da Los Angeles, mentre il secondo da Orlando.

Decidemmo di passare la giornata tutti insieme nel campus accompagnando Richard nel giro d'orientamento insieme alle altre matricole.

Dopo un po' decisi di staccarmi dal gruppo con una scusa e rifugiarmi nei miei pensieri che all'improvviso avevano preso la piega che più avevo temuto.

La tristezza si era impossessata di me. Sebbene la svolta che la mia vita aveva preso mi avesse donato una nuova luce agli occhi, c'era ancora il pallino dell'università che incombeva nella mia mente. 

Cosa sarebbe successo se fossi entrato anche io al college? 

Tutto sarebbe stato diverso. Non so se in positivo o in negativo. Di certo non avrei conosciuto Ben e non so se avrei comunque avuto la possibilità di instaurare un rapporto con Sophia.

A dirla così sembrerebbe che la mia vita sarebbe stata triste senza l'esercito. Ma all'epoca, in quel giorno di ottobre, mi sentivo strano, incompleto.

Ero seduto sotto ad un albero quando mi si avvicinò una ragazza alta, bionda, con degli occhi marrone scuro e con in mano dei libri di testo.

"Come mai qui tutto solo?" mi chiese.

"Pensavo."

"Sei una nuova matricola?"

"No, in realtà ho accompagnato il mio migliore amico. Io faccio tutt'altro."

"Cosa? Se non sono indiscreta."

"Sono nell'esercito."

"Anche mio fratello era militare." mi disse con un tono di voce che non riuscii a decifrare.

"Era?" le chiesi, forse con poco tatto.

"E' morto l'anno scorso al fronte. Ma non voglio spaventarti." si affrettò a dire.

"Figurati. Anzi, scusami, non mi sono neanche presentato. Piacere, io sono Leonardo." le dissi tendendole la mano.

"Rose, piacere."

Restammo sotto quell'albero a parlare per un po' quando vidi una figura familiare avvicinarsi.

"Ecco dov'eri finito! Ti stiamo cercando da un'ora!" mi disse Sophia.

"Scusa, ho conosciuto Rose e ci siamo intrattenuti a parlare."

"Ah.. capisco. Piacere, io sono Sophia."

Anche oggi sono sicuro nell'affermare di aver visto della gelosia negli occhi di Sophia quel giorno e, se devo essere sincero, tutto ciò mi fece molto piacere.

"Gli altri ci stanno aspettando per mangiare qualcosa." disse Sophia.

"Ti unisci a noi, Rose?" chiesi all'improvviso e sentii addosso lo sguardo glaciale di Sophia.

"Ti ringrazio, Leo. Ma ho lezione. Per quanto ti fermi?"

"Per tutto il week end." risposi.

"Allora ci vedremo sicuramente." mi si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia.

"A presto, Sophia." aggiunse.

Ci incamminammo verso la mensa. In realtà Sophia quasi correva, come se non volesse starmi minimamente vicino.

In un corridoio la bloccai per un braccio. "Che ti succede?" le chiesi.

"Nulla. Siamo in ritardo e gli altri ci stanno aspettando."

"Non hai bisogno di mentirmi."

"Certo che a volte se così stupido." mi disse.

"A cosa devo questo compimento?"

"Davvero non capisci?!" mi chiese quasi spazientita.

"Cosa dovrei capire?"

Mi prese quasi con forza spingendomi contro un muro e mi baciò.

Non risposi subito al bacio, mi prese completamente alla sprovvista, ma quando realizzai ciò che stava accadendo ormai lei già si era staccata e fissava un punto sul pavimento totalmente rossa in viso.

"Io.. oddio.. scusa, non volevo.. nel senso: sì, lo volevo.. ma.." disse balbettando.

Io restai interdetto per qualche secondo e vedendola ancora in difficoltà decisi di fare l'unica cosa sensata in quel momento: la baciai.

Restò a sua volta sorpresa di questa mia iniziativa, ma poi l'attrazione che aleggiava su di noi prese il sopravvento.

La mia mente era sgombra; pensavo a quelle labbra che per tante notti avevano occupato i miei sogni.

Ci staccammo dopo un tempo indecifrabile. L'imbarazzo aveva ormai preso il posto della passione.

"Direi di aver capito qualcosa in fondo, non credi?!" dissi cercando di alleggerire la tensione.

Mi sorrise. "Sì, mi sa che qualcosina l'hai capita."

Restammo abbracciati per un po'; i nostri cuori battevano all'unisono. Non avrei mai voluto interrompere quel momento speciale, ma il mio telefono squillò proprio in quell'istante.

"Ricky!" dissi "Sì, sono con Sophia. Sì, stiamo bene.."

Entrambi ci guardammo negli occhi e sorridemmo. Stavamo molto bene. 

"Stiamo arrivando. A tra poco." 

"Erano preoccupati per noi?" mi chiese Sophia.

"Altri 5 minuti e ci avrebbero dato per dispersi. A proposito, hai il cellulare spento." le dissi.

"In realtà l'ho spento di proposito." rispose.

"Come mai?"

"Non volevo che qualcuno ci disturbasse." disse con una punta di imbarazzo.

"Eri così tanto sicura che avrei ricambiato questo tuo gesto improvviso?!"

"Sì, soldato. Ne ero assolutamente sicura."

La strinsi a me e la baciai.

"Mi sa che è giunta l'ora di andare dai nostri amici." mi disse dopo un po'.

"Dobbiamo proprio?!"

"Avremmo tutto il tempo per stare insieme." mi disse con una tenerezza negli occhi indescrivibile.

"Suona quasi come una minaccia."

Ridemmo entrambi e ci dirigemmo verso la mensa.

Mangiammo tutti insieme con sottofondo i racconti di Richard su quanto fosse bello il campus e tutto il resto.

Ogni tanto la mia mano stringeva quella di Sophia sotto al tavolo.

Evidentemente Sarah notò uno dei nostri gesti d'affetto perché guardò Sophia con un sorrisino di compiacimento stampato in faccia.

Uscimmo dalla mensa e decidemmo di andare in albergo per preparaci per la serata: ci sarebbe stata una festa in onore delle matricole ed eravamo stati invitati anche noi.

Prima che entrassi in camera mia, però, Sarah mi bloccò per un braccio e mi chiese se potevamo parlare un po'.

La portai nel giardino dell'albergo. Restammo per un po' in silenzio a goderci il contatto con la natura, il tramonto su Providence e una leggera brezza che sarebbe stata capace di trascinare con sé qualsiasi brutto pensiero. Per fortuna, in quel momento, non avevo alcun minimo pensiero da scacciare.

"Allora" iniziò a parlare Sarah "tu e Sophia, eh?"

"Si nota così tanto?"

"Sarà che io la conosco da una vita, ormai. Sai, Leo, tu mi sembri tanto un bravo ragazzo, ma Sophia non si è mai innamorata. Non sa che vuol dire, non sa cosa si prova. Per lei è tutto nuovo. Ti prego di avere pazienza con lei e di aspettare i suoi ritmi. Non sarà facile, però devi pensare questo: lei si sta interessando seriamente a te."

Tacqui; non sapevo davvero cosa dirle, ma lei accettò il mio silenzio di buon grado. "Ora vado dentro" disse "pensaci su. Se la fai soffrire, ti spezzo le gambe: è una promessa, Locket."

La vidi andarsene ed io incominciai a pensare.

Aspettare i suoi ritmi.. all'epoca non mi sembrava una cosa difficile. Ma ho imparato a mie spese, in più occasioni, che non bisogna mai giudicare niente dall'esterno; finché non vivi una determinata realtà, non puoi parlarne, perché non sai cosa si prova ed ogni tua parola risulterebbe solo superficiale.

Decisi di tornare in camera per prepararmi: la festa per le matricole avrebbe avuto inizio di lì a poco.

Entrai nella camera che dividevo con Ben, ma all'interno vi trovai anche Sarah e Alice.

"Che ci fate qui?" chiesi.

"Conosciamo il tuo anticonformismo nei confronti dei vestiti." rispose Sarah.

"Ma quella di stasera è un'occasione speciale." continuò Alice "E, quindi, abbiamo deciso di darti una mano."

Entrambe sorridevano in maniera quasi inquietante.

"Vedo che non ho scelta." dissi infine.

"No, infatti!" esclamò Sarah "Vatti a fare una doccia, noi ti aspettiamo qui."

Cercai con lo sguardo l'aiuto di Ben che mi diede una pacca sulla spalla e sussurrò: "Hanno preparato un completo anche per me e Ricky, non abbiamo vie di fuga."

Sembrava proprio che quella sera sarei entrato di soppiatto nel mondo della moda che avevo cercato di evitare per circa 18 anni.

"Eppure dicono che i maschi non siano minimamente vanitosi come noi donne. E' quasi un'ora che sei chiuso in quel bagno! Muoviti che Ben è già vestito e ci sta aspettando fuori con Sophia!" urlò Sarah.

"Sto uscendo!" gridai in risposta. 

"Finalmente!" disse Alice.

Appena mi videro restarono a fissarmi per un pochino.

"C'è qualcosa che non va?" chiesi.

"Bhe.. penso di parlare anche a nome di Alice, bel fisico soldato!" disse Sarah sorridendo.

"Ma ora pensiamo al tuo look." disse Alice con entusiasmo.

"Sul letto ci sono i tuoi vestiti." esclamò Sarah.

Mi avvicinai al letto e subito pensai che quei vestiti fossero fin troppo eleganti per me, per il mio modo di essere.

"Ehm.. ecco.. non so se.." iniziai a balbettare.

"Noi usciamo! Andiamo a prepararci. Ci vediamo fuori e non metterci troppo." disse Alice.

Sarah mi si avvicinò e mi diede un abbraccio di incoraggiamento. Si diressero verso la porta e se ne andarono lasciandomi solo con i miei "nuovi" vestiti.

"Forza e coraggio! Mica sto andando a morire." pensai.

Finito di vestirmi mi voltai verso lo specchio per ammirare il risultato finale:

abito con taglio elegante/moderno, camicia bianca, cravatta nera di raso, scarpe nere lucide e sciarpa appoggiata sulle spalle.

Ero pronto per uscire dalla stanza quando notai un pacchetto sulla poltrona con un biglietto:

"Questo è il tocco finale per il tuo nuovo look! Indossalo, guardati allo specchio e sorridi! Starai sicuramente benissimo.

Sarah e Alice."

Aprii il pacchetto e all'interno trovai uno di quei cappotti da uomo chiamati trench.

Lo indossai e feci come mi avevano consigliato le ragazze: mi posizionai di fronte allo specchio.

Il risultato non era male, affatto. 

"Forse dovrei iniziare a vestirmi così più spesso." mi ritrovai a pensare.

Presi le chiavi della macchina che avevamo affittato per il week-end e uscii dalla camera.

Trovai gli altri che mi aspettavano seduti nel giardinetto dell'albergo.

"Eccoti, finalmente!" disse Ben venendomi incontro. Notai che anche lui era vestito molto bene: merito di quelle due, senza dubbio.

Jeans chiari molto aderenti, mocassini blu di camoscio, camicia blu, giacca blu, papillon argento e cappotto antracite. Anche lui era pronto per la festa.

Salutai Ben e rivolsi uno sguardo alle ragazze. Non le avevo mai viste vestite così.

Sarah indossava un abito bianco, lungo che le ricadeva morbido lungo i fianchi e sopra uno scialle sempre bianco con dei disegni argentati.

Alice, invece, indossava un abitino nero, scarpe alte nere con la suola rossa e sopra un cappotto lungo rosso. Entrambe avevano i capelli sciolti e un trucco leggero, non troppo marcato.

La mia attenzione, però, venne totalmente catturata dalla figura dietro di loro: Sophia.

Di una bellezza disarmante. Restai imbambolato per molti secondi mentre i miei occhi vagavano senza freni sul suo corpo.

Avrei mai potuto distogliere lo sguardo da tanta bellezza? 

Questa era la domanda che mi balenava nella mente in quei pochi secondi che sembrarono eterni.

Ricordo ancora perfettamente ciò che indossò quella sera: vestitino in raso, che le arrivava sopra al ginocchio, color lavanda, ai piedi dei décolleté color cipria vernice, stola di chiffon e i capelli raccolti in una coda con il codino nascosto dai suoi stessi capelli. Non avrei mai pensato di poter ricordare così bene, a distanza di anni, i vestiti indossati da una ragazza.

In quell'istante capii che Sophia sarebbe stata in grado di farmi innamorare.

Mi avvicinai a lei quasi senza degnare le altre di uno sguardo.

"Stai benissimo." riuscii a dirle solo questo.

"Anche tu non stai male." rispose e mi diede un leggero bacio sulle labbra. Il suo profumo iniziò subito ad entrarmi in circolo portandomi in un mondo parallelo dove esistevamo solo io e lei.

Dopo un po' mi ricomposi, emotivamente parlando e, dopo uno scambio di battute, ci dirigemmo verso la macchina. Direzione: Brown.

Guidava Ben con di fianco Alice, dietro, invece, eravamo sistemati Sarah, Sophia ed io. Ogni tanto le nostri mani si sfioravano, i nostri profumi si mischiavano e la mia voglia di lei cresceva sempre più. 

In 10 minuti arrivammo a destinazione. Pronti per goderci la festa. All'entrata del campo trovammo Ricky ad attenderci in compagnia di un'inaspettata Rose.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. ***


Scendemmo dalla macchina per salutare Ricky ed io trovai occasione per presentare Rose agli altri che sembravano ben predisposti nell'accoglierla nel nostro piccolo gruppo. Tutti eccetto Sophia.

Anche Ricky e Rose erano vestiti in maniera elegante: il primo indossava un completo grigio chiaro con una camicia azzurra a righe bianche, una cravatta blu e dei mocassini ai piedi. Rose, invece indossava un abitino color cipria che metteva in risalto l'abbronzatura che ancora non era scomparsa dall'estate finita da poco.

Mi avvicinai a Rose per salutarla, lei mi baciò sulla guancia e disse: "Stai benissimo." 

Credo di essere arrossito in quel momento, non sono mai stato troppo abituato ai complimenti.

"Le feste della Brown sembrano noiose all'inizio, ma il bello viene nel post serata." disse Rose facendomi l'occhiolino. "Leo ti va qualcosa da bere?"

Non ci trovai nulla di male e così la seguii al tavolo del buffet.

"Dimmi soldato, sei impegnato in qualche relazione?"

Per poco non mi andava tutto lo champagne di traverso. Tossii anche un po' per schiarirmi le idee e trovare le parole adatte.

"Diciamo che non è una relazione ufficiale, ma ci tengo molto."

"C'entra per caso quella bella brunetta che non fai altro che fissare?"

Sorrisi. "Sì.."

"Mi fa piacere sapere, però, che non è nulla di ufficiale. Vuol dire che qualche chance ce l'ho ancora."

Sorvolai su questa battutina.

La serata proseguii tranquilla, anche se Rose faceva di tutto per tenermi lontano da Sophia.

Decisi di prendere io l'iniziativa: presi per mano Sophia e la trascinai fuori al freddo in quella serata di Ottobre. Avevo la necessità di stare con lei.

"Ti stai divertendo?" le chiesi.

"Mmm.."

"Hai freddo?" mi tolsi la giacca e gliela porsi.

"Cavolo, Leo! Questo è troppo! Sembra che stiamo in uno di quei telefilm adolescenziali e questo sembra il ballo di fine anno!" esclamò prendendomi alla sprovvista.

Le appoggiai comunque la mia giacca sulle spalle.

"Non ti seguo." dissi.

"Stai tutta la serata con quella Rose, poi all'improvviso ti ricordi di me. Mi porti fuori al freddo e al gelo e credi che tutto vada alla grande dandomi la tua giacca?!"

Stava per andarsene quando la bloccai per un braccio e la strinsi a me.

"Pensavo fossi più intelligente. O, semplicemente, certe cose non le noti. Ma io ho occhi solo per te da quando ti ho incontrata. Non ti parlo di amore perché sarebbe troppo presto, ma mi hai davvero preso la testa e il cuore. Suona come una dichiarazione, lo so. Se non sei pronta per qualcosa di serio non fa niente. So aspettare."

La allontanai da me quanto bastava per guardarla dritta negli occhi e notai che erano lucidi. Non persi tempo e la baciai. Se possibile, fu un bacio ancor più bello del primo che ci eravamo dati. Sapeva di consapevolezza e di voglia di stare insieme. All'epoca non sapevo per quanto tempo tutto questo sarebbe durato. Un giorno.. una settimana.. un mese.. un anno.. E se invece fosse per tutta la vita ed oltre?

La festa andò avanti senza interruzioni improvvise o spiacevoli. Di certo non mancarono gli sguardi d'odio che correvano tra Sophia e Rose, ma nulla poteva rovinare la mia armonia interiore che si era recentemente creata.

Il week end a Providence lasciò il posto al freddo di fine Novembre, all'Università per le ragazze e all'intensificazione dei programmi di allenamento nell'esercito per Ben e me. 

La guerra avanzava. L'ansia cresceva. Il tempo per vedere Sophia, invece, sembrava quasi divertirsi nel diminuire. 

Il tempo: una costante che ci prende perennemente in giro con i suoi sbalzi e le sue stranezze. L'essere umano è in grado di capire molte cose, ma non riesce ad andare al di là di altre.. ed il tempo fa parte del gruppo delle "altre".

Ero steso sul mio letto nel dormitorio della Base e leggevo un libro di Paulo Coelho, che mi aveva regalato Sophia, quando qualcuno bussò alla porta.

Sapevo che qualcosa stava per accadere, ancora una volta il mio corpo reagiva di impulso mandando segnali d'avvertimento al mio cervello.

Andai ad aprire e mi ritrovai di fronte un ragazzo più o meno della mia età, alto come me, di colore.

Non disse nulla, nemmeno una parola. Mi tese una lettera, aspettò che la prendessi e se ne andò. Un breve incontro che ha segnato la mia vita: ricorderò per sempre la faccia di quel ragazzo, di quel messaggero del mio destino. I suoi occhi così scuri e seri, il suo naso un po' pronunciato, la sua bocca carnosa, tipica della gente di colore.

Capita, a volte, che le persone che ci restano più impresse nel cuore, o nella mente, siano proprio quelle più distanti da noi. Quante volte, fermandoci per strada a guardare le persone passare davanti a noi, abbiamo adocchiato, per così dire, una situazione che ci ha scossi nel profondo?

Un senzatetto, un prete, una madre di famiglia. Capita. Non si può spiegare, non si può prevedere, come qualsiasi cosa in questo mondo.

Stavo quasi per dimenticarmi della lettera, perso tra i miei pensieri.

La misi sulla scrivania ed incominciai ad osservarla. Busta bianca, candida senza nemmeno una scritta.

"Tagliamo la testa al toro." mi dissi. Presi coraggio, ma mi fermai, anzi, mi paralizzai al pensiero dell'ultima volta che avevo aperto una busta di una lettera. Il mio destino era stato segnato e lo sarebbe stato ancora una volta a causa del contenuto di quel pezzo di carta. Di nuovo il mio futuro era racchiuso tra le parole scritte da un altro.

La aprii e la lessi, come se fosse un flashback di quella calda giornata di luglio.

E continuo a chiedermi: "Cosa sarebbe successo se.. ?"

 

… 

 

Respirai con calma riprendendo consapevolezza del mio corpo e dello spazio attorno a me.

Il contenuto della lettera era di quanto più lontano fosse possibile dalla mia immaginazione: era una semplice convocazione, nell'ufficio del Tenente Colonnello Travis per il giorno successivo alle 10 del mattino.

Un'altra domanda incominciò a tartassarmi la mente: "Cosa voleva una figura di così tanto prestigio da me, un soldato semplice da poco in questo mondo?"

Non trovai una risposta e non la trovò nemmeno Ben al quale confidai i miei dubbi e le mie paure, perché sì, avevo paura. Paura che mi richiedessero qualcosa più grande di me, paura che lasciava il posto al puro terrore al solo pensiero di dover partire per andare a combattere al fronte.

"Non ci pensare troppo, amico!" disse infine Ben "E' inutile che stai qui a bombardarti il cervello. Fino a domani non potrai sapere nulla. Quindi rilassati e aspetta. Io ora devo andare perché Alice mi aspetta, mi dispiace che tu e Sophia non possiate vedervi più spesso come prima. Buona notte." completò la frase e uscì dandomi una pacca sulla spalla ricca di solidarietà e affetto.

Ma per quanto Ben mi volesse bene, aveva toccato uno dei punti più deboli della mia esistenza da un paio di mesi a questa parte: Sophia.

Mi addormentai quando ormai il pensiero di Travis era stato soppiantato dalla persona che più avrei desiderato avere accanto in quel momento.

Il giorno successivo mi svegliai presto. Avevo un unico pensiero: la riunione con il Tenente Colonnello.

Bussai al suo ufficio alle 10 in punto ed entrai.

Davanti mi ritrovai persino il Generale Gallagher, la cosa si stava facendo sempre più seria.

Fu il Tenente Colonnello a prendere parola per primo:

"Leonardo, che piacere vederti. Accomodati. Vuoi qualcosa da bere?" disse indicando del caffè e del succo sulla sua scrivania.

"No, grazie. Ho già fatto colazione." mentii spudoratamente, il mio stomaco non avrebbe minimamente sopportato anche solo il pensiero di poter accogliere del cibo o dell'altro.

"Ti abbiamo convocato qui per un motivo ben preciso. Ormai sono quasi tre mesi che sei qui a Fort Detrick, tre mesi che ti osserviamo. Ci sei piaciuto fin da subito, forse sei un po' troppo impulsivo per i più anziani di noi" aggiunse facendo l'occhiolino al Generale di fianco a lui "ma hai tutte le carte in regola per diventare qualcuno. Per questo, abbiamo deciso di promuoverti a Specialista: così ha inizio la carriera di tutti."

Il mio cuore accelerò.

"Ma c'è il rovescio della medaglia in questa promozione." disse il Generale prendendo parola. 

Il mio cuore continuava a battere all'impazzata.

"Dovrai partire per il fronte tra una settimana esatta. Lunedì prossimo alle ore 17.00"

Il mio cuore si fermo definitivamente, non avrebbe retto nessun'altra notizia.

Non sapevo cosa dire. Ero muto, fermo, immobile, non credo di aver dato un grande spettacolo di me.

Il Generale mi guardò negli occhi. I suoi occhi scuri e vecchi scrutarono i miei azzurri e giovani. Mi fece un'ultima domanda: "Accetti?"

Non potetti fare altro che dire sì.

Il mio destino era stato segnato. Ma questa volta avevo avuto voce in capitolo. Avevo scelto, non mi ero limitato ad osservare la vita passarmi affianco. Avevo preso in mano le redini della mia vita senza essere per l'ennesima volta un inetto.

"Ognuno è artefice del proprio destino." è proprio vero.

Le parole che vennero dopo attraversarono la mia testa da parte a parte, il mio pensiero correva verso le persone a me care: i miei genitori, mia sorella, Ricky, Ben, Sarah, Alice e Sophia.

Mi congedarono e appena mi ritrovai fuori dal loro ufficio iniziai a correre verso la mia camera per avvertire Ben.

Lo trovai disteso sul letto mentre parlava a telefono.

"Devo dirti una cosa." dissi.

Mi fissò per un secondo e capì che la cosa era seria.

"Devo andare Alice, ti richiamo dopo."

Attaccò e iniziammo a guardarci negli occhi.

"Parto per il fronte." 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. ***


"Come hai detto, scusa?" mi chiese Ben.

"Sono stato promosso a Specialista e tra una settimana esatta partirò." risposi più calmo rispetto a quanto mi aspettassi.

Tra di noi calò un silenzio assordante. Sì, perché a volte il silenzio fa molto più rumore di una folla chiassosa. Il silenzio fa rumore perché solo nel silenzio puoi ascoltare i tuoi pensieri, che a volte sono pesanti e rumorosi come macigni.

"Hai avvisato la tua famiglia?"

"Sei il primo a cui lo dico."

E di nuovo: silenzio.

"Sai, questo vuol dire che probabilmente partirò anche io."

"Lo so."

"Spero di essere nel tuo battaglione, Specialista Locket." disse Ben e mi sorrise.

"Lo spero anche io."

Uscii dalla stanza con l'intenzione di andare a casa dei miei per comunicare loro quest'ultima novità, ma il telefono squillò.

Il display si illuminò mostrando il nome di Sophia.

"Pronto..?"

"Soldato, come stai?"

"Bene.."

"Non sembra." mi disse.

"Sto bene.."

"Faccio finta di crederti.. comunque volevo chiederti una cosa: hai intenzione di fare qualcosa di particolare per il tuo compleanno?"

"Cosa?"

"Mi chiedo dove tu abbia la testa.. tra tre giorni compirai 19 anni.. farai una festa, una cena, qualcosa?"

Il mio compleanno. 

Preso dagli avvenimenti dell'ultima ora avevo totalmente accantonato che di lì a pochi giorni avrei dovuto festeggiare i miei 19 anni.

"Farò una cena, credo. Ci saranno tutti. Devo dirvi una cosa importante." risposi.

"Posso avere un'anticipazione?" mi chiese Sophia.

"No, dovrai aspettare il 2 dicembre."

I tre giorni successivi passarono come una folata di vento.

Ben era stato reclutato nel mio battaglione, i preparativi per la partenza incombevano e io non sapevo dove sbattere la testa.

Il giorno prima del mio compleanno il Tenente Colonnello Travis, con il quale sarei partito alla volta dell'Oriente, mi consegnò un plico con le ultime informazioni dal fronte.

La nostra meta era l'Afghanistan, la nostra base era posizionata alla periferia di Kabul. Fui attratto dalle foto presenti in quel fascicolo: non promettevano niente di buono.

La sera del mio compleanno io e Ben uscimmo dalla Base per dirigerci a casa mia, dove, ad attenderci, trovammo non solo la famiglia Locket al gran completo, ma anche Sophia, Alice, Sarah e Richard, accompagnato da sua madre e suo fratello.

Tutti aspettavano il mio grande annuncio.

Salutai Richard con un grande abbraccio. Il suo contatto mi era mancato tantissimo in questo mese. 

Salutai il resto dei presenti lasciando per ultima Sophia. La presi in disparte per parlarle un po', per capire come stava. A quanto sembrava, alla grande: era la migliore del suo corso e all'Università già fantasticavano riguardo la sua brillante carriera.

Aveva un viso così disteso e felice, quanto avrei voluto non essere io la causa di quell'ombra oscura che, di lì a poco, si sarebbe impossessata di lei e della sua serenità.

I festeggiamenti andarono avanti fino al brindisi finale.

Ben mi si avvicinò e mi sussurrò all'orecchio: "Forza, è ora."

Presi coraggio, mi alzai in piedi e richiamai l'attenzione dei presenti su di me.

"Ho voluto che questa sera tutti voi foste qui per un motivo ben preciso, che va al di là del mio compleanno. Tre giorni fa sono stato convocato da dei miei superiori che mi hanno conferito la carica di Specialista, in poche parole: sono stato promosso."

Respirai a fondo prima di continuare.

"Ma non è tutto. Tra 4 giorni esatti io e Ben partiremo per l'Afganistan. Non so quanto tempo staremo lì e quando torneremo."

I presenti restarono interdetti, solo Sophia si alzò dalla tavola e disse:

"Sono contenta per voi."

Poi corse via.

Io non persi tempo e la rincorsi, quando la raggiunsi era ormai arrivata nel giardino di casa mia, la presi per un braccio e la costrinsi al voltarsi.

"Ehi, fermati!"

"No, Leonardo! Non mi dire di fermarmi! Anzi, non mi dire niente!"

"Questa è la mia vita. Lo sapevi! Sapevi che prima o poi sarei partito."

"Ma non sapevo che mi sarei legata tanto a te!" mi urlò in faccia.

Rimasi interdetto. Non sapendo che fare, la strinsi a me in un abbraccio.

Lei scoppiò in lacrime. Iniziai ad accarezzarle la testa ripentendo sia a lei che a me stesso che sarebbe andato tutto bene.

Quando le acque si furono placate, rientrammo in casa, ma la situazione era comunque altrettanto tesa. Mia madre, mia sorella, Sarah, Alice e la madre di Richard avevano gli occhi lucidi. Ricky era immobile al suo posto e mi fissava.

"Andrà tutto bene, credetemi." riuscii a dire solo questo.

Fu Ben a salvare la situazione.

"Ora noi dobbiamo andare. In questi giorni alla Base è tutto un casino. Vi aspettiamo all'aeroporto di Fort Detrick il 6 dicembre alle 15 in punto. Buona notte a tutti."

Mi prese per un braccio e mi scortò fuori all'aria fredda di dicembre.

 

… 

 

Sophia non si fece sentire per il resto dei giorni che mancavano alla partenza. Ormai avevo perso le speranze, credevo, perfino, che non si sarebbe presentata all'aeroporto per l'ultimo saluto.

Ma le mie supposizioni si rivelarono errate. Era lì ad aspettarmi insieme alla mia famiglia e alle altre persone a cui dovevo dire "arrivederci".

Salutai prima la mia famiglia: mia madre, mio padre, Catherine e il resto.

Erano presenti anche il piccolo Charles e Theresa, la madre di Richard. Entrambi mi strinsero in un abbraccio caloroso: "Ci mancherai." riuscirono a dire solo questo.

Mi diressi verso i miei amici che, intanto, stavano salutando Ben.

"Forza e coraggio." mi disse Sarah abbracciandomi, aveva anche lei gli occhi lucidi.

"Non farti ammazzare, ti voglio presente alla mia laurea." disse Richard.

"Sta attento." aggiunse Alice.

Io non risposi a nessuno con le parole, mi limitai a ricambiare il loro abbraccio.

Sophia mi si avvicinò. Non piangeva, dal suo viso non trapelava alcuna emozione.

"Torna presto." mi disse.

Ci baciammo.

Io voltai le spalle al mio presente e mi diressi verso quell'aereo che rappresentava il mio futuro.

"Pronto, Specialista?" mi chiese Ben.

"Prontissimo."

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. ***


Le ore di volo passarono in fretta, facemmo scalo a Berlino dove sostammo per una notte fino ad arrivare al mattino dell'8 dicembre all'aeroporto di Kabul. All'esterno ci aspettava un pullman dal classico colore mimetico. Io ero alla guida della fila dei miei commilitoni insieme al Tenente Colonnello John Travis e all'altro Specialista, Kevin Price.

Salimmo sul pullman e ci dirigemmo verso l'accampamento amico. Nel tragitto non parlai molto, nemmeno con Ben, mi concentrai sullo spettacolo macabro che Kabul aveva da offrirmi. Case distrutte, famiglie in lacrime. Tutto questo era stato il frutto di una guerra senza senso. 

"Ma allora perché sono qui in questo pullman diretto ad un accampamento militare?" mi chiesi.

La risposta arrivò da sola cinque minuti dopo: il mio sguardo si posò su un gruppo di soldati che stavano scortando dei bambini all'interno di una scuola. Spesso chi pensa alla guerra prova soprattutto pietà per coloro che abitano nelle terre colpite dal conflitto, ed è assolutamente giusto. Ma pochi si concentrano sull'altra faccia della moneta: i soldati, parlo di coloro che partono verso il fronte col desiderio di poter cambiare qualcosa e di poter migliorare il tenore di vita di quelle povere persone.

Arrivammo alla base e si avvicinò a noi il Generale che comandava tutte le operazioni.

"Vi stavamo aspettando." disse "Io sono il Generale Luke Busher. Benvenuti in questa terra dimenticata da Dio. Qui si cerca di fare del bene, chi abuserà del suo potere verrà spedito a calci nel sedere davanti alla corte marziale. Ci siamo intesi? Bene. Ora vorrei parlare in privato con il Tenente Colonnello Travis e i suoi due Specialisti." il Generale guardò in modo interrogativo nella nostra direzione, così io e Kevin facemmo un passo avanti.

"Seguitemi."

Ci dirigemmo verso la tenda del Generale.

Camminando la mia attenzione venne catturata dall'infermeria. Lo spettacolo che c'era all'interno era tremendo: sangue dappertutto, agitazione generale e sulla barella un ragazzo poco più grande di me con un braccio mozzato. Per un attimo il respiro mi si bloccò. Poi la mia mente iniziò a viaggiare fino ad arrivare nel Maryland e, per la prima volta da quando ero arrivato a Kabul, pensai a lei.

Arrivammo alla tenda del Generale e ad attenderci all'interno c'era l'ultima persona che avrei pensato di trovare: il Sergente Charlotte Shire.

"Ci rivediamo, ragazzo." mi disse sorridendo.

"Vedo che le presentazioni non sono necessarie." disse il Generale.

"Diciamo che è grazie a me se Leonardo si trova qui davanti a noi ora."

Sorrisi e pensai a quanta strada avevo fatto da quel caldo giorno di luglio: la mia vita aveva preso un'accelerata improvvisa. In 5 mesi ero passato dall'inettitudine all'azione.

"Sergente, dato conosce già il Tenente Colonnello Travis e lo Specialista Price direi che possiamo cominciare quest'incontro informativo per i nuovi arrivati." intervenne il Generale.

Il Sergente Shire assentì con un cenno del capo e Busher prese di nuovo parola.

"Credo che nel tragitto dall'aeroporto a qui voi abbiate avuto la possibilità di avere un'idea generale della situazione che il paese sta affrontando. Le cose stanno messe male, molto male. Ormai riceviamo un attacco da parte dei talebani a giorni alterni, dobbiamo essere sempre attenti. Vigilanza costante è la nostra nuova frase di rito. Proprio oggi un gruppo di soldati sono passati in una zona piena zeppa di mine anti-uomo e hanno avuto la peggio. In questi giorni voi seguirete delle lezioni di strategia e di attacco e tra una settimana esatta affronterete la prima missione. Non abbiate paura, ma siate prudenti. Per ora è tutto, fate un giro e iniziate a famigliarizzare con la base."

Uscimmo dalla tenda e respirammo l'aria calda e secca dell'Afghanistan.

"La cosa si fa interessante." disse Kevin.

"Già." risposi.

"Ragazzi, io vado a tenere d'occhio i vostri compagni, voi fate pure un giro di ricognizione come vi ha suggerito il Generale. Ci vediamo tra un'ora esatta alle nostre tende che si trovano all'estremità ovest della base." disse il Tenente Colonnello.

Io e Kevin iniziammo a camminare senza una meta ben precisa quando proposi di far visita all'infermeria.

La situazione all'interno della tenda/ospedale era certamente più calma. Una calma quasi surreale e inquietante.

Entrammo nella tenda e trovammo tre giovani medici seduti intorno ad un tavolo che bevevano da una bottiglietta d'acqua ciascuno.

"Disturbiamo?" chiesi.

"No, affatto." mi rispose una ragazza dai capelli lunghi e castani. Mi colpì subito per la spontaneità che trasmetteva attraverso i suoi occhi velati dal vetro di un paio di occhiali. Mi sorrise e ci invitò ad unirci a lei e ai suoi colleghi. Presi una sedia e mi sedetti al suo fianco e osservai gli altri due medici: erano due ragazzi entrambi dagli occhi scuri e dallo sguardo fiero.

"Non mi sono neanche presentato, scusate." dissi "Leonardo Locket."

"Piacere, io mi chiamo Francesca, ma gli amici di solito mi chiamano Frankie." rispose.

"Kevin Price." intervenne il mio amico.

"E loro due che non hanno molta voglia di parlare sono Michael e Stephan." intervenne Frankie.

"Piacere. Giornata dura, eh? Prima non ho potuto fare a meno di notare una certa agitazione.." 

"Già.." rispose Frankie con una punta di tristezza.

"Il ragazzo come sta?" chiesi.

"Morto." disse Stephan.

"Scusate, non volevo essere troppo indiscreto."

"Nessun problema. Vuoi qualcosa da bere?"

"Un po' d'acqua andrà benissimo." risposi.

Frankie si alzò e noi ragazzi restammo al tavolo, su di noi calò un silenzio assurdo. Qualcosa nello sguardo di Stephan mi fece capire che la morte di quel ragazzo l'aveva toccato nel profondo, doveva esserci qualcosa che andava oltre il normale rapporto tra medico e paziente. Le mie osservazioni vennero interrotte dal ritorno di Frankie. Continuammo a parlare per un po', Michael iniziò ad aprirsi e ad essere meno diffidente nei confronti miei e di Kevin. Dopo quasi un'ora decidemmo di dirigerci verso il nostro accampamento. Francesca ci scortò fino alla porta, prima che mi allontanassi mi trattenne per un braccio e disse: "Si chiamava George. Il ragazzo che è morto, intendo. Era il fidanzato di Stephan."

"Capisco." dissi.

"Scusa, non volevo turbarti con questo pensiero alquanto deprimente. Comunque se ti va di fare una chiacchierata, io sono qui." rispose Frankie.

 

 

Le settimane passarono in fretta, senza nemmeno rendercene conto era arrivato Natale, un nuovo anno, l'Epifania e ormai ci stavamo apprestando a festeggiare la Pasqua che in quel anno sarebbe caduta ad inizio Aprile.

Era l'ultima domenica di Marzo quando mi diressi verso l'infermeria, come facevo ogni volta che avevo un po' di tempo libero.

La vita nell'esercito era terribile e quei pochi momenti passati con Frankie, Stephan e Michael rappresentavamo per Ben, Kevin e me un vero e proprio spiraglio di luce, l'unico in quei mesi bui.

Quel giorno, però, andai da solo a trovare i nostri amici medici: Ben e Kevin preferirono riposarsi un po' in vista della missione che ci avrebbe aspettato l'indomani mattina.

La tenda/ospedale era tranquilla, all'interno c'erano solo Stephan e Frankie.

Li salutai e, come al solito, iniziammo a parlare; mi riusciva facile discutere con loro di qualsiasi argomento e nel giro di 4 mesi ci confidammo molto a vicenda. Quei momenti erano davvero delle valvole di sfogo.

Stephan aveva deciso di arruolarsi come medico nell'esercito dopo aver preso la specializzazione in chirurgia pediatrica. Il motivo di questa folle decisione? A detta sua l'esercito è uno dei migliori allenamenti per un chirurgo: ti tiene sveglio e attivo, sempre. A 17 anni ha preso consapevolezza della sua omosessualità, ma ciò non ha intaccato minimamente la sua vita. Anzi, si può dire che abbia scoperto un "nuovo mondo" e un nuovo modo di vedere le cose. All'inizio della nostra conoscenza era un po' restio a parlare di sé, a causa della perdita della persona che amava, questo e la sua forte timidezza l'hanno portato a chiudersi a riccio per un po'. Poi si è lasciato andare, ma nei suoi occhi così scuri vedo ancora tanta sofferenza, la stessa sofferenza che vedevo nei miei fino a qualche mese prima.

Frankie, d'altro canto, rappresenta la gioia di vivere fatta persona, è così bello stare in una stanza in sua compagnia: non ci si annoia mai. 25 anni e un carattere che farebbe invidia ad alcuni dei più importanti generali dell'esercito statunitense. Devo ammettere che ho sempre avuto un po' di imbarazzo a trovarmi a stretto contatto con lei. Non volevo cadere in tentazione, non volevo deludere Sophia. 

La radio della tenda/ospedale iniziò a gracchiare, sintomo che qualcuno aveva bisogno del lavoro di Stephan e Frankie.

Fu il ragazzo 27enne a rispondere: "Qui Stephan Charter."

"Sta arrivando un carro carico di 4 feriti. Ragazzi. 24 anni ciascuno. Sono stati colti da un agguato. Ferite da arma da fuoco. Tenetevi pronti." disse la voce dall'altro capo della radio.

"Sissignore." rispose Stephan.

"Bhe.. sarà meglio che vada, avrete da fare qui." come al solito tentennai sul modo migliore per salutare Frankie, ma lei fu più rapida di me e mi congedò con un bacio sulla guancia.

In quel momento avrei tanto desiderato spostare la faccia giusto di un paio di centimetri.. ma quel pensiero morì prima ancora di prendere forma nella mia mente.

Tornai dritto alla mia tenda e mi misi alla scrivania. Decisi di scrivere una lettera per Sophia..

"Cara Sophia, è da tanto che non ci sentiamo. Come procede a Baltimora? Sai, mi manchi tanto. Domani partirò per una missione e non potremmo sentirci per un po', nemmeno per telefono o su Skype. Mi manca sentire la tua voce dal vivo, mi manca cogliere ogni sfumatura di colore nei tuoi occhi, mi manca il tuo odore. Mi manchi tu. Ti confesso che sono in uno stato di confusione. Ho conosciuto una ragazza.. mi ricorda così tanto te. Ma non ti allarmare: non è successo e non succederà nulla, ma la mia coscienza mi dice che è giusto che tu ne sia al corrente. Prendi atto di questa cosa e fa ciò che vuoi, ciò che ti fa star bene. Non posso nemmeno immaginare che tu stia male per colpa mia. Rispondi al più presto, possibilmente mandandomi una lettera scritta a mano, sai.. mi fa sentire in qualche modo più vicino a te.

Con amore, Leonardo.

P.S.

Non vedo l'ora di avere la licenza, ho una cosa da dirti, ma voglio farlo guardandoti negli occhi."

Impiegai un sacco di ore per scrivere queste poche righe, ormai la Luna era già alta nel cielo. Mi stesi sul letto e ammirai il profilo del nostro satellite che trapelava attraverso uno spiraglio aperto nella tenda.

"Buona notte anche a te Luna.. ma che dico? Tu non riposi mai. Sono così tanti i pensieri rivolti a te, soprattutto da parte di noi giovani innamorati, che non hai un attimo di riposo. Anche se sei la Regina della Notte presti ascolto ai pensieri più contorti, nascosti e celati di noi tuoi sudditi. Sei la confidente di quei pensieri che non possono esistere alla luce del giorno. Pensieri dei quali abbiamo timore di parlare, che vorremmo proteggere a tutti i costi. Perché quando un brutto pensiero si insinua nella tua testa, dirlo ad alta voce lo rende reale; e solo di notte si ha il coraggio di fare determinate cose. Di notte siamo tutti così coraggiosi e spavaldi.. peccato che anche il più feroce dei draghi, alla luce del giorno, si trasformi in un tenero cucciolo indifeso." E con questo pensiero mi addormentai con gli occhi ancora pieni del bagliore della Luna e mi lasciai cullare dal sonno tra le braccia di Morfeo.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. ***


Era la mattina del 31 marzo quando ci svegliammo con un unico pensiero: andare in missione. Il mio battaglione sarebbe finalmente sceso in campo per dimostrare il suo valore. L'ansia che era presente nell'aria era così densa da poter essere tagliata con un coltello. Nessuno parlava, alcuni, i più giovani, a stento respiravano. 

Io come stavo? 

Bene, davvero bene. La mia mente era vuota, sgombra da ogni emozione che avrebbe potuto intaccare il mio percorso. 

Uscimmo tutti insieme dalla tenda e ci dirigemmo verso i carri armati che sostavano all'esterno della base.

Il Generale Busher era lì ad attenderci.

"Buon giorno, ragazzi." esordì "Questa è la vostra prima missione, dovrete dimostrare quanto siete in grado di occupare questo posto. Ad accompagnarvi ci saranno il Tenente Colonnello Travis e il Sergente Shire. Buona fortuna."

Finito il discorso, girò i tacchi e se ne andò. Non ebbi nemmeno il tempo di sbattere le palpebre che il Sergente mi chiamò a rapporto.

"Specialisti Locket e Price: seguiteci. Saremo a capo della manovra."

Io e Kevin ci posizionammo alle sue spalle e iniziammo a camminare.

Eravamo affiancati da dei carri di vigilanza, uno dei quali era l'ambulanza, all'interno vi scorsi Frankie, ma nessuna traccia di Stephan.

Passò un'ora, due, tre, ma non accadde nulla. 

Ci fermammo per una sosta nel bel mezzo del deserto, colsi l'occasione per andare a parlare con Frankie.

"Giornata tranquilla." dissi.

"Mai dire una cosa del genere, porta male." rispose sorridendo.

"Non credo a queste cose. La fortuna ce la creiamo da soli."

"L'hai sentita in qualche film?"

"Titanic." risposi.

"Non credevo fossi tipo da Titanic. Vuoi un po' d'acqua?" disse porgendomi la sua borraccia.

"No, grazie." le sorrisi e per un po' non trovai argomentazioni valide per continuare a parlare, poi fu lei a fare la prima mossa.

"Tutto bene?" mi chiese "È solo la tua terza missione, giusto?"

"Sì. Ma ora come ora la mia mente è così tanto occupata da altro che non ho tempo nemmeno per agitarmi."

"Problemi a casa?"

"Diciamo."

"Vuoi parlarne? Sai che non devi avere problemi con…"

Ma Francesca non terminò mai quella frase, in quello stesso momento a circa 15 metri da noi scoppiò una mina anti-uomo. Ci buttammo a terra di riflesso, misi un braccio sulla sua testa per proteggerla.

Ci rialzammo circa 5 minuti dopo l'esplosione. Frankie corse subito verso l'ambulanza.

"Devi aiutarmi!" gridò poco dopo "La radio è rotta! Dobbiamo fare il possibile qui!"

Non me lo feci ripetere due volte: corsi verso di lei e iniziammo a salvare il salvabile.

Sangue. 

Sangue. 

Sangue. 

Fin troppo sangue per i miei gusti scorreva su quel terreno dell'Asia Minore. Alcuni feriti erano irrecuperabili, altri hanno dovuto soffrire a lungo prima di spirare.

Corsero in nostro aiuto anche Ben e Kevin e altri soldati semplici, che, per fortuna, avevano rimediato solo qualche graffio.

Passò più di un'ora quando finimmo il giro di ricognizione per cercare di intervenire per salvare qualcun'altro.

Il panico si impossessò di noi quando ci rendemmo conto che all'appello mancava il Sergente Shire. Chiunque riuscisse a reggersi sulle proprie gambe partecipò a quella disperata ricerca.

Poi la trovammo. La parte inferiore del suo corpo era schiacciata dal peso di un camion. L'arteria femorale era recisa, non avremmo potuto fare nulla.

Piansi per la rabbia, per la frustrazione. Eravamo nel bel mezzo del deserto afghano senza una guida, senza radio, senza munizioni e con scarse riserve di cibo e acqua.

"Mi dispiace." disse Ben abbracciandomi "So che eravate abbastanza legati."

"È grazie a lei che sono qui." dissi.

Con le ultime forse che mi restavano riuscii a spostare il camion, e, a mani nude, scavai nella sabbia e seppellii il Sergente che con le sue parole era riuscita a convincermi a dare una svolta alla mia vita. 

Non mi sembrava vero.

Uscii da quello stato di trance quando sentii un leggero tocco sulla spalla.

Mi voltai. 

"Ehi.." disse Frankie.

La guardai e i miei occhi si riempirono di lacrime.

"Se solo l'avessi trovata prima."

"Non incolparti, Leo. Non avremmo potuto comunque fare nulla. Ora devi solo ricomporti, gli altri vogliono parlarti."

"Cosa?"

"Travis non è in condizioni di andare avanti, è ridotto male. Anche se spero di tenerlo in vita almeno fino a che non torneremo alla base. Ci serve qualcuno che prenda in mano le redini, che eviti che tutti impazziscano." mi disse.

"Non so se sono adatto a questo ruolo.."

"Lo sei." rispose Frankie fermamente accarezzandomi la guancia.

Io le presi la mano e mormorai "Grazie.."

Ci dirigemmo insieme dagli altri: le loro facce esprimevano tutti i sentimenti che provavo io in prima persona. Tristezza. Rabbia. Paura. Ansia.

"Abbiamo votato e abbiamo deciso di affidare a te il comando della situazione." disse Ben.

"Va bene. Ora però, riposatevi, domani sarà una lunga giornata." risposi.

La notte arrivò e ci accolse tra le sue braccia, ma non eravamo in vena di dormire. 

Tutti erano in una sorta di dormi-veglia, con i nervi a fior di pelle.

All'alba ci rimettemmo in marcia, nella speranza di poter arrivare in fretta al nostro accampamento.

Frankie ogni tanto mi aggiornava sulla condizione dei feriti più gravi: Travis, ad esempio, aveva perso molto sangue, ma sembrava stabile al momento.

Le ore passarono inesorabilmente, non ricordo nemmeno il loro numero esatto.

Era ormai giunto il crepuscolo quando in lontananza vidi le nostre tende, la speranza si riaccese in me e chiesi al mio corpo di compiere quel piccolo, ultimo sforzo. 

Quando entrammo nell'area amica, stremai al suolo tra i sospiri e gli applausi dei miei compagni.

Mi risvegliai ben 12 ore dopo, esausto e malandato. Al mio capezzale trovai Stephan che mi guardava con quei suoi occhi profondi, la barba incolta e i capelli leggermente arruffati.

"Ben svegliato." mi disse "Come stai?"

"Non malissimo." risposi.

Avevo la gola secca e arida, così decisi di bere delle lunghe sorsate d'acqua fresca mentre il mio amico mi aggiornava sulle condizioni degli altri.

"Il Tenente Travis si rimetterà nel giro di qualche settimana. Purtroppo 3 uomini sono morti all'arrivo alla base, non abbiamo potuto fare altro. Sei stato bravo, comunque."

"Bravo?! Hai saputo del Sergente Shire?" dissi quasi urlando.

"Ho saputo anche che non avresti potuto fare niente. Comunque, ieri mattina è arrivata questa lettera per te, arriva da Providence. Ti lascio un po' di intimità."

Posò la lettera sul letto, girò i tacchi e andò ad assistere gli altri pazienti.

Solo nel sentire il nome Providence, il mio cuore era sussultato, perché quella città voleva dire solo una cosa: Richard.

Non mi aveva mai scritto da quando ero partito, circa quattro mesi, ormai. Aprii la busta e lessi lentamente:

"Caro Leo, mi dispiace molto se non mi sono fatto sentire in questi mesi. In realtà temevo che mantenendo dei contatti con te, avrei sentito maggiormente la tua mancanza. Perdonami se sono stato così stupido. Ti prometto che mi connetterò su Skype al più presto possibile, ho bisogno di sentirti.

Comunque, qui tutto bene: le lezioni vanno avanti e sono felice. 

Stiamo tutti bene e ti aspettiamo, ti voglio bene, fratello."

Quelle poche righe significarono tanto per me, soprattutto dopo i recenti avvenimenti.

Lessi quella lettera e sospirai. La rilessi una, due, tre, quattro volte cercando di imprimere ogni parola, ogni lettera, nella mia mente. Il potere di una parola scritta è qualcosa di incredibile, lascia davvero un segno, positivo o negativo che sia. Ho sempre amato soffermarmi sulle singole parole prelevandone il loro valore a sé stante, un valore quasi etereo, puro. Ma poi basta alzare gli occhi da quel mondo di lettere e guardare la realtà per capire che l'universo non può basarsi solo su delle parole, perché ci sono delle cose che, semplicemente, vanno al di là, che, come si dice, valgono più di 1000 parole: le azioni. Delle belle parole la gente si dimentica, dei fatti no.

"Mai giudicare un uomo prima di averlo visto morire." diceva il mio professore di filosofia al liceo.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11. ***


Da quella mia prima missione passarono ben 5 anni e io ancora non avevo fatto ritorno a casa: la guerra incombeva sulle nostre vite come un falco che attende che la sua preda faccia un passo falso.

Continuavo a mantenere i contatti con i miei affetti solo grazie alla tecnologia e a qualche rara lettera.

Nei 5 anni che erano trascorsi ero stato promosso sul campo al grado di Sergente, ero nella mia tenda quando entrò Ben con in mano una busta.

"Leo, credo che questa sia per te. E' di Sophia." disse.

Sophia. Un nome che aleggiava nell'aria da sempre, la sentivo vicina costantemente seppur lontana migliaia di chilometri e nonostante il fatto che avessi al mio fianco una meravigliosa tentazione rappresentata da Francesca. 

Mantenere un rapporto a distanza senza vedersi per 5 lunghi anni è impossibile, la mia mente lo sapeva, ma il mio cuore non riusciva ad accettarlo, forse avrei dovuto semplicemente lasciarla andare prima di partire per il fronte.

Congedai Ben, mi stesi sul letto e mi dedicai alla lettura di quel foglio candido.

"Caro, Leo

ti scrivo una lettera perché so che questo ti fa sentire un pochino meno lontano da casa e più vicino a me. Ho preso una decisione, molto importante. Sono passati 5 anni da quando sei partito e da quel giorno non ti ho più rivisto: so che non è colpa tua, ma le mie notti sono infestate dagli incubi, sono 5 anni che non riesco a vivere una vita serena perché penso costantemente a te, se ti hanno ucciso, ferito, rapito o Dio solo sa cosa.

Una settimana fa ho scelto la mia specializzazione, ho coronato il mio sogno ed è giusto che tu continui ad inseguire il tuo..

Non so a cosa ti porterà, ma io ti auguro solo il meglio.

Ti lascio affinché la distanza non corroda entrambi.

Non temere, presto riavrò ciò che è mio.

Sophia." 

Lasciai la lettera sul tavolo della mia tenda e uscii al caldo sole del Medio Oriente.

Mi diressi verso la tenda/ospedale e dentro vi trovai, con mio grande sollievo, solo Frankie.

"Leo, tutto bene?" mi chiese.

Non ci pensai due volte, feci ciò che ho desiderato fare per tanto tempo, ciò che il ricordo e il rispetto per Sophia mi avevano impedito di fare, ma stesso lei aveva gettato tutto al vento con quattro righe insignificanti, senza nemmeno una spiegazione plausibile.

"Non temere, presto riavrò ciò che è mio." così aveva concluso la lettera. Cosa significava? Cosa voleva dirmi?

"Al diavolo!" pensai.

Presi Frankie e la baciai.

Le mie mani passarono tra i suoi capelli, il bacio durò degli istanti che sembravano un'eternità. Quando ci staccammo lei mi guardò, sorpresa.

"Ce ne hai messo di tempo." disse sorridendo.

"Ho preso la mia decisione."

Passammo il pomeriggio insieme, poi tornai alla mia tenda per preparare la missione del giorno seguente: un sopralluogo in una scuola elementare devastata per metà da una mina anti-uomo.

Quando entrai nella mia tenda, però, il mio sguardo si posò su quella lettera.

Trattieni, trattieni e trattieni. Ma alla fine è inevitabile che scoppi. Ed io, in quella calda sera nel cuore dell'Afghanistan, sono scoppiato. Per tutto il giorno avevo provato a distrarmi a resistere alla tentazione di liberare le mie emozioni. Ma non ci sono riuscito. Hanno preso il sopravvento proprio mentre rileggevo per la seconda volta quelle parole che mi avevano penetrato il cuore e l'anima. 

La parte finale della lettera era così enigmatica che non riuscivo a venirne a capo, così mi addormentai stremato sulla scrivania, in attesa di un nuovo giorno.

L'alba arrivò più in fretta di quanto avessi desiderato. I miei uomini ed io ci mettemmo subito in marcia in direzione della scuola, che si trovava alla periferia Est di Kabul.

Lo spettacolo che ci attendeva al nostro arrivo era disarmante: la scuola era per metà distrutta e i bambini erano costretti a fare lezione sotto il sole cocente di quella terra.

Mi avvicinai al professore e gli chiesi se parlava inglese.

Riuscimmo a comunicare in qualche modo.

Si chiamava El Shatamy, 32 anni, originario dell'Egitto. Mi raccontò che la mina era esplosa durante il momento della ricreazione e, che, per fortuna, non aveva procurato danni a nessun essere umano. Inoltre mi comunicò che i bambini sapevano parlare in inglese e che sarebbero stati felici di dare una mano per ricostruire la loro "casa".

Mi incamminai verso le rovine della costruzione e lì vicino vi trovai un ragazzino seduto, con le guance rigate dalle lacrime.

"Dovresti spostarti." dissi "potrebbe essere pericoloso."

Non si mosse. Non mi degnò neppure di uno sguardo.

"E va bene, vorrà dire che starò qui seduto insieme a te, per proteggerti."

"Non ho bisogno di protezione." rispose.

"Allora sai parlare." dissi sorridendo. "Come ti chiami?"

"Salim."

"Piacere, io sono Leonardo, ma puoi chiamarmi Leo."

"Cosa siete venuti a fare qui?"

"Siamo venuti ad aiutarvi a ricostruire la vostra scuola."

"Certo, come gli tutti gli altri. Alla fine ce l'avete fatta a distruggerla." disse in balia dei singhiozzi.

"Ehi, noi non siamo come tutti gli altri, davvero. Noi vogliamo aiutarvi. Domani arriveranno i mattoni e tutto il resto e ricostruiremo ciò che è andato distrutto."

"Lo prometti?" mi chiese tirando sù con il naso.

"Certo." e ci stringemmo la mano.

L'operazione per la ricostruzione della scuola ci tenne impegnati in quel luogo per ben due settimane, ma il risultato finale non poteva essere migliore.

In quei 15 giorni conobbi altri bambini e le loro storie, che, il più delle volte, mi portarono alle lacrime.

Quella scuola significava tutto per loro, spesso i ragazzi occidentali non si rendono conto della loro immensa fortuna: la scuola è come una seconda famiglia e il tempo passato tra quella quattro mura non è sprecato, affatto.

Per quei bambini, invece, la scuola è un momento di evasione da un mondo devastato dalla guerra, una guerra provocata da noi "grandi" e che deve essere risolta da noi "grandi", i bambini devono restare nel loro mondo, dove sono liberi di esercitare la loro fantasia, dove sono liberi di credere di poter volare o viaggiare nel tempo. La purezza e l'innocenza dei bambini sono due delle pochissime cose ancora meravigliose nell'universo e vanno preservate.

Con questi pensieri salutai i miei giovani amici e mi diressi, con i miei colleghi, verso il nostro accampamento.

Appena rientrato, andai subito verso la tenda di Frankie, ma dentro vi trovai l'unica persona che mi sarei mai immaginato di poter trovare lì: Sophia.

"Non temere, presto riavrò ciò che è mio." in quel momento capii.

"Pazza." pensai.

"Non mi vedi da ben 5 anni e non mi saluti nemmeno?" disse.

In quel momento mi ricordò così tanto mia sorella Catherine.

"Mi hai lasciato due settimane fa. Cosa ci fai qui?"

"Forse non hai letto attentamente la mia lettera." disse avvicinandosi.

"L'ho letta benissimo, fidati."

"E io ho letto benissimo le tue, in una mi hai scritto che avevi qualcosa da dirmi di persona, eccomi. Coraggio."

"Coraggio?! Non sono io quello a dover dimostrare un po' di coraggio.."

"Ascolta, Leonardo.." iniziò a parlare con gli occhi lucidi "so che ti saresti aspettato di più da me, ho sbagliato molte cose in questi anni, ma ora sono qui. Ho raffreddato i nostri rapporti da quando mi hai detto che avevi incontrato un'altra ragazza."

"Ti ho anche scritto che.." provai a dire.

"Non mi interrompere. All'inizio l'ho presa male, per anni attendevo con la paura nel cuore la lettera nella quale mi avresti lasciata. Non è successo e così ho preso in mano le redini del gioco. Sono venuta qui per riprenderti perché, ora ne sono sicura al 100%, io voglio te. Questa è la mia decisione e farò di tutto per riaverti."

"Ho baciato quella ragazza." dissi.

"C-cosa?!"

"Ero distrutto.. io.."

Ma in quel momento la tenda si aprì ed entrò Francesca.

"Cosa succede qui?" chiese spostando lo sguardo su Sophia.

"Piacere, Sophia. Sono la nuova tirocinante."

"Francesca."

Si guardarono per un attimo ed io guardai loro: due persone così diverse, ma che scatenavano le stesse emozioni in me.

"Credo che sia il caso che vada." dissi dopo un po'.

Uscii dalla tenda e mi ritrovai subito affiancato da Sophia, sospirai.

"Vorrei restare da solo." dissi.

"Io non voglio lasciarti solo."

"Devo dire che mi è piaciuta questa risposta." sorrisi.

"Avanti, soldato. Rispondi: è Francesca la ragazza che ha preso il mio posto?"

"Nessuna ha mai preso il tuo posto, però ammetto che Francesca mi piace davvero tanto."

"Mi dispiace. Non smetterò mai di dirtelo, anche se so che non servirà a molto."

Mi girai e la guardai negli occhi, tutte le preoccupazioni di questi ultimi 5 anni sembrarono dissolversi, il tempo e la distanza vennero annullati e ci abbracciammo.

"Dio, quanto mi sei mancata." mi uscì spontaneo.

"Anche tu." rispose Sophia.

"Però tutto non può tornare come prima subito, lo sai, vero?"

"Sì." disse accarezzandomi la guancia.

Poi udimmo una voce alle nostre spalle che diceva:

"Anche perché dovrai fare i conti anche con me, Sophia." disse Francesca.

"Se fossi in te non mi intrometterei, tu non sai quello che c'è tra di noi." rispose Sophia.

"E tu non sai cos'ha dovuto affrontare Leonardo in questi anni! Non ci sei stata, mai! Credi che venire qui abbia risolto tutto?!"

"È grande abbastanza da scegliere ciò che vuole." disse Sophia spostando il suo sguardo su di me.

"Non litigate" dissi "non porterà a nulla. Sapete entrambe cosa significate per me, voglio solo del tempo per riflettere. Entrambe rappresentate quella luce che nel mio universo è mancata per troppo tempo, siete arrivate nei momenti più importanti della mia vita. Non posso buttare all'aria l'uno o l'altro rapporto così, su due piedi. Scusate."

Voltai le spalle alle ragazza e di corsa andai verso la mia tenda.

Vi trovai Ben.

"Volevo avvertirti che Sophia è stata inviata qui come tirocinante." mi disse.

"Lo so e lo sa anche Frankie."

"Si sono incontrate?"

"Sono arrivato al punto che devo scegliere: Sophia o Frankie."

"In cuor tuo già sai chi ti rende più felice." disse Ben andandosene.

Felicità. Le nostre scelte hanno quasi sempre come metro di misura questo parametro. Ma che cos'è la vera felicità? Tutti cercano di raggiungerla, in qualche modo, di afferrarla, ma spesso non sappiamo nemmeno noi ciò che ci rende felici oppure, purtroppo, lo sappiamo fin troppo bene.

La felicità. Si tratta "solo" di questo. Essere felici e null'altro.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. ***


Passarono circa 15 giorni dall'arrivo di Sophia nel campo, con lei arrivarono anche tanti altri sentimenti che non avevo preventivato: indecisione, rimorsi, dubbi.

Quella mattina, il mio battaglione ed io, ci preparammo per una missione abbastanza rischiosa: io ero stato messo a capo delle operazioni, e Ben, come al solito, mi avrebbe accompagnato.

Prima di partire, però, decisi di andare a fare visita a quelle che, ormai, erano diventate "le mie donne". Ma il mio cuore già sapeva che la mia unica donna, tra le due, poteva essere solo una.

"C'è nessuno?" dissi entrando.

"Solo io." rispose Frankie alle mie spalle. 

"Ciao. Volevo sapere chi di voi ci avrebbe accompagnati oggi."

"Ci saremo sia io che Sophia." rispose, con una vena di disappunto.

Stava per andarsene quando la bloccai prendendola per mano.

"Ehi, ti va di parlare un po'? Sono due settimane che mi eviti."

"Hai provato a chiederti il perché? Cavolo Leo! A volte sembra che tu viva in un mondo a parte!"

"Mi dispiace. Però voglio solo dirti che io non c'entro nulla: non sapevo che sarebbe arrivata così all'improvviso, non l'ho voluto io."

"Ma ora la vuoi, giusto?"

"Non è l'unica che voglio."

"Hai 23 anni, dovresti essere in grado di prendere una decisione."

"Francesca, non posso dirti che Sophia è una storia vecchia e archiviata, perché non è affatto così, ma posso dirti che tu mi piaci, mi piaci davvero. Non sto qui a farti una dichiarazione perché sarebbe troppo melenso per i miei gusti, però credimi. Non lo dico solo per sistemare in qualche modo la situazione."

"Ti ci vorrà molto di più per sistemare la situazione, Leonardo."

"Lo so." dissi e per un po' il silenzio calò tra di noi.

Preso da un lampo di coraggio, mi avvicinai a lei per abbracciarla, ma lei mi scansò e disse: "Credo che sia ora di andare."

"Già."

Uscimmo entrambi dalla tenda e ci dirigemmo al punto di incontro: tutti gli altri erano pronti per partire e aspettavano proprio noi. C'era persino il Generale Gallagher, che era stato mandato al fronte qualche mese prima per dare una mano al più giovane e meno esperto James Busher.

"Locket." disse "possiamo scambiare due parole?"

"Sissignore." risposi.

Andammo in un posto appartato, lontani da orecchie indiscrete.

"Leonardo, sembra ieri che ho assistito al tuo esame per entrare nell'esercito. Ed ora eccoti qui, a capo di una delle più importanti missioni dell'ultimo anno. Non voglio metterti sotto pressione, voglio solo chiederti di stare attento e di non essere troppo avventato. Ora va, i tuoi uomini ti stanno aspettando."

Le parole del Generale ebbero un duplice effetto su di me: se da un lato mi resero pieno di orgoglio, dall'altro mi spaventarono a morte. Ma il mio cervello ormai era stato addestrato a situazioni del genere: la mia mente era fredda, imperturbabile.

"Andiamo?" chiese Ben.

"Coraggio." risposi.

E così iniziammo a camminare per ore, giorni, fino a che ci imbattemmo nell'accampamento nemico: erano totalmente scoperti e privi di difese, non si aspettavano che arrivassimo da Nord.

Disposi i miei uomini migliori e ci preparammo ad attaccare il mattino seguente.

Durante la notte, come facevo di solito prima di ogni missione, mi concessi una passeggiata al chiaro di Luna. Sotto a delle palme, in una piccola oasi, scorsi la figura di Sophia e decisi di andarle a parlare.

"Bella serata, no?" sorrisi e mi sedetti al suo fianco.

"Quasi come nelle favole."

Restammo così in totale silenzio ad ammirare la Luna. Mi erano mancati dei momenti del genere: lei ed io soli, null'altro a disturbare la nostra armonia.

"Mi sei mancata." sospirai.

"Anche tu. Mi dispiace." disse guardandomi negli occhi.

Credo che i suoi occhi siano una delle visioni migliori in questo mondo, in quel momento sarei potuto morire felice.

"How wonderful life is, now you're in the world." mi venne da pensare, ma non dissi mai questa frase di uno dei suoi film preferiti ad alta voce, forse per non scoprirmi troppo, per non soffrire.

La vita spesso è fatta di maschere, di corazze e di muri che erigiamo attorno a noi per "difenderci". Difenderci da cosa, poi?

Dalla vita? 

Sì, dalla vita, perché è lei che ti fa soffrire più di tutto, ma la vita è anche saper accogliere il dolore, sopportarlo, affrontarlo e, infine, superarlo. Ci sentiamo vivi quando proviamo dolore. Ci sentiamo vivi quando soffriamo. Siamo vivi quando proviamo tutto questo, perché il dolore non è solo qualcosa di negativo: il dolore "purifica", spinge al cambiamento, il dolore è vita, appunto.

"Vedo che non hai perso questa tua bellissima abitudine." disse all'improvviso Sophia.

"Quale?" le chiesi.

"Quella di estraniarti dal mondo e metterti a pensare. Mi è sempre piaciuta questa cosa." sorrise.

"Piace anche a me."

Il tempo scorreva inesorabile, la Luna era ormai alta nel cielo quando Sophia si alzò e disse: "È tardi, domani sarà una giornata importante."

"Per entrambi, è la tua prima missione, giusto?"

"Giusto."

Mi alzai anche io e ci trovammo occhi dentro gli occhi, le nostre mani si sfioravano.

"Buona notte, allora." disse.

"Buona notte." 

 

 

La mattina dopo verso le 7.00 era già tutto pronto per l'attacco.

"Buona fortuna, ragazzi." dissi.

I nostri cecchini furono impareggiabili e annientarono le vedette dei nemici, solo che scoprimmo la nostra posizione.

Nelle ore che seguirono i meno esperti vennero colpiti e io mi ritrovai con un gruppo di soli 7 uomini capaci di andare avanti.

Mi sembrava un deja-vù, una delle mie prime esercitazioni aveva avuto gli stessi connotati.

"Stai pensando a quello che sto pensando io?" chiese Ben.

"Credo di sì, ma non posso agire come un ragazzino di 18 anni."

"Perché no?! La situazione è questa, da qui non si scappa. A te la scelta, comunque."

Restai a riflettere sulla situazione per 15 minuti buoni.

"Attacchiamo." dissi alla fine.

"Cosa?!" esclamò un soldato di nome Dean "Tu sei pazzo! Vuoi farci uccidere tutti!"

"Soldato" replicai "sei stato addestrato all'obbedienza, questi sono gli ordini: attacchiamo. Non faremo la figura dei conigli impauriti."

Nessuno ebbe il coraggio di controbattere.

E così attaccammo. Quel che successe non è affatto limpido nella mia mente, i ricordi sono offuscati. Era una vera e propria bolgia. La sabbia si alzava, le urla aumentavano. E il dolore anche. 

Dolore. 

Vita. 

Sangue. 

Urla. 

Confusione. 

Caddi a terra dopo aver ucciso l'ultimo dei nemici, intorno a me c'era chi festeggiava, ma io non ne avevo le forze. Guardai la gamba destra e vidi che era interamente coperta di sangue.

"Ce l'abbiamo fatta, Leo!" sentii Ben urlare.

"Chiamate Sophia e Frankie, credo sia la femorale!" urlò qualcun'altra.

E poi svenni.

Bianco. 

Ricordo solo questo: bianco. Attorno a me non c'era nient'altro. Non sapevo cosa volesse significare, potevo essere benissimo morto, per quanto ne sapevo. Provai a muovere qualche muscolo, ma non ci riuscii, ero soltanto mente, il mio corpo era decisamente altrove.

"Leonardo." sentii una voce che mi chiamava.

"Leonardo, sono io." e poi, finalmente, vidi chi era la persona che stava pronunciando il mio nome.

"Sergente Shire.." mormorai sbalordito.

"Puoi chiamarmi Charlotte, qui non c'è posto per i gradi dell'esercito, ci siamo solo noi con la nostra essenza, Leonardo e Charlotte e basta."

"Sono morto?" chiesi.

"Diciamo che non hai molto tempo." mi disse.

"È tutto così strano, non sento il mio corpo, non sento nulla."

"Si chiama esperienza extracorporea. Probabilmente, al tuo risveglio, non ricorderai nulla. Comunque sono qui per parlarti un po'. Ho visto un paio di cosette da parte tua che non mi sono piaciute affatto."

"Mi dispiace."

"Devi dispiacerti per te, Leonardo. Sei un uomo, ormai. E io non ti ho addestrato così, devi prendere una decisione, non puoi camminare sul filo dell'indecisione a vita."

"Credi che non ci abbia pensato a questo? Credo che non sia il primo che voglia scegliere? Non ci riesco." dissi quasi urlando.

"Quando ti ho conosciuto mi dicesti una cosa semplicissima: di essere alla ricerca della luce. Non ho altro da dirti. Tutto ciò ti farà stare male. Comunque, complimenti per la missione. Ora va, Leo."

"Aspetta! Mi dispiace che tu sia morta."

"Devi smetterla di dire che ti dispiace. Io sto bene qui, tu da vivo sembri stare molto peggio. Coraggio."

Il viso del Sergente si dissolse e piano piano mi svegliai, aprii gli occhi e la prima cosa che vidi fu il volto di Sophia.

"Ti sei svegliato." disse con le lacrime agli occhi.

"A quanto pare." sorrisi.

In quello stesso istante entrò Frankie che, appena mi vide, mi gettò le braccia al collo.

"Temevamo il peggio." disse.

"Sono più forte di quanto sembri." risposi.

Con la cosa dell'occhio vidi Sophia voltare lo sguardo al nostro abbraccio.

"Ho sentito delle urla." disse Ben entrando "Cosa succede?"

"Si è svegliato." disse Sophia.

"Scusa, Frankie, potresti scostarti? Vorrei abbracciare il mio amico."

Sophia sorrise vedendo la faccia sbalordita di Frankie.

"Vi lasciamo soli." disse, infine Sophia.

"Cavolo, Leo, ci hai fatto prendere un bello spavento! Comunque, complimenti! Ho una bellissima notizia per te!" disse.

"Quale?"

"Torni a casa! Hai ottenuto un congedo. Il Generale Gallagher vuole assolutamente che ti sia dedicata al più presto una celebrazione per la nomina a Sergente. Ci sarò anche io alla cerimonia. Che ne dici?"

"Torno a casa.." riuscii a pensare solo a questo: dopo 5 lunghi anni sarei tornato a casa. Avrei rivisto le persone più importanti della mia vita, sarei ritornato nel posto che mi aveva visto crescere.

"Il Generale ti ha detto anche per quanto tempo potrò stare via?" chiesi.

"Ci siamo meritati ben tre mesi, amico. E sai la cosa migliore? Con noi partirà anche Sophia. Quando le dirai finalmente che è lei che vuoi?"

"Quando ne sarò sicuro al 100%."

"Puoi pure mentire a te stesso quanto ti pare, ma nei tuoi occhi si legge tutto."

"Sei diventato romantico per la prospettiva di rivedere Alice?"

"Diciamo che la cosa ha influito."

"Quando torneremo a casa?" chiesi.

"Partiamo tra una settimana esatta, giusto il tempo di rimetterti in piedi."

E come al solito la vita si era divertita a giocare con me. Aveva fatto sì che Sophia venisse a "riprendermi" e ora ci aveva uniti in questo viaggio di ritorno a casa. Un segno del destino? Forse. Il mio cuore intanto sobbalzava al solo pensiero di poter stare solo con lei lontano dalla guerra, dal dolore e dalla morte. Il mio cuore rideva, mentre il mio cervello andava in fumo.

Preso tra mille pensieri, mi addormentai e mi lasciai cullare dal pensiero confortante di poter tornare a casa.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. ***


Una settimana dopo tutto era pronto per il ritorno a casa, avevo avvertito tutte le persone a me care e Richard mi aveva avvisato di una novità che avrei saputo non appena avrei messo piede nel territorio americano.

"Pronto per partire?" sentii una voce alle mie spalle.

"Francesca, sì.. mancano le ultime cose."

"Volevo solo dirti una cosa prima che partissi."

"Ti ascolto."

Si sedette su di una sedia e cominciò a parlare con gli occhi lucidi.

"Non sono una che si arrende, affatto. Ma so quando una causa è persa.. e la mia lo è di sicuro. Continuerai a piacermi per un po', ma non voglio immischiarmi nella tua vita e nella tua serenità. Sophia è ciò che vuoi, si vede lontano un miglio. Dal canto mio, ti auguro tutta la felicità di questo mondo."

"Grazie." riuscii a dire e la abbracciai. "Resteremo comunque amici?" le chiesi.

"Questo è da vedere." disse facendomi l'occhiolino.

"Prenditi cura degli altri."

"Lo farò."

"Leo, stiamo aspettando solo te." disse Sophia entrando nella tenda.

Nel vedere Frankie, si irrigidì all'istante.

"Arrivo. A presto, Francesca." dissi lanciandole un'ultima occhiata.

"Ciao, Leo."

Sophia ed io uscimmo dalla tenda e venimmo accecati dall'abbagliante Sole di settembre.

"Vedo che ti dispiace molto tornare a casa e lasciare Francesca da sola." disse.

"Ho sempre amato la tua gelosia."

Lei arrossì e disse: "Faremmo bene a muoverci."

Il viaggio in pullman fino all'aeroporto fu tranquillo, ma quando ci sedemmo in attesa del nostro volo, venni sommerso da una sfilza di ricordi che riguardavano la donna al mio fianco.

Decisi, così, di andare a fare una passeggiata giusto per non restare il balia del passato. È inquietante, quasi, come il passato possa far capolino nei momenti meno opportuni, dal passato è difficile scappare, il passato è difficile che sia davvero "passato". Il suo tocco leggero si sente anche a distanza di anni, è un alone che resta impresso nel nostro presente e futuro, non sarà mai passato, ed è giusto che sia così.

Salimmo sull'aereo, passarono un bel po' di ore prima che potessi rivedere quella che, fino a 5 anni prima, era la mia casa.

Quando uscimmo dall'aeroporto trovammo tutto il nostro gruppo al gran completo: i miei genitori, Catherine, Richard, Theresa, il fratellino di Richard, Alice, Sarah e due coppie di signori di mezza età che probabilmente erano i genitori di Ben e di Sophia.

I saluti furono un insieme di urla che non aveva né capo e né coda, sentivo solo abbracci, pacche sulle spalle, strette di mano e il mio nome, Leonardo, ripetuto più e più volte con tonalità differenti di voci.

"Fate largo! Vorrei salutare come si deve mio fratello!" urlò Catherine.

Mi saltò quasi in braccio e restammo in quella posizione per un paio di minuti. Dopo aver salutato tutti, Sophia e Ben mi presentarono i loro genitori. Notai che la madre di Sophia, Valerie, aveva gli stessi occhi della figlia.

Poco dopo ci dirigemmo tutti verso casa Locket, dove i miei avevano preparato il pranzo per tutti noi.

Arrivati a casa, Richard mi prese con sé e mi portò sotto all'albero dov'eravamo soliti affrontare i nostri più svariati discorsi.

"Dio, quanto mi sei mancato!" mi disse abbracciandomi. "Ho un paio di novità da dirti! Farò l'annuncio ufficiale tra poco, ma volevo che tu fossi il primo a saperlo, in ogni caso."

"Dimmi, ora sono qui." sorrisi.

"Prima di tutto: tra due settimane mi laureo!"

"È grandioso!"

"Secondo: all'oscuro di tutti, questa non è altro che la festa di fidanzamento mia e di Sarah. Ci sposiamo tra due mesi."

"Non ci credo! Richard Lake che si sposa! Ora sì che credo nei miracoli! Io e te dobbiamo parlare."

"Quando vuoi, tanto starai un po' di tempo con noi, no?"

"Tre mesi."

"Speravo in qualcosa di più." disse rivolgendo lo sguardo verso la casa alle mie spalle.

"Anche io. Comunque domani sei tutto mio, abbiamo un sacco di cose di cui parlare."

"Che ne dici se ce ne andassimo tutti a Baltimora come ai vecchi tempi?" propose Richard.

"Ci sto." ci abbracciammo di nuovo e poi Richard si incamminò verso la tavola imbandita.

Com'era quel detto? Non apprezzi il valore di qualcosa finché non la perdi? È vero: ho sempre ritenuto Richard fondamentale per la mia vita, ma dopo 5 anni di lontananza, stare di nuovo a contatto con lui, è come tornare a respirare. Aria pulita nei polmoni, ormai, atrofizzati.

Decisi di starmene un po' per conto mio, mi sedetti sotto ad un albero e mi incantai a fissare tutte quelle persone attorno a me.

Sarah, che ormai era diventata una donna. Alice, che non perdeva occasione per stare con Ben. Richard, che stava per sposarsi. E poi lei, Sophia, che non usciva mai dai miei pensieri, nemmeno a farlo apposta. Accadde in un attimo: i nostri sguardi si incrociarono e il mio cuore iniziò a battere all'impazzata. Lei sorrise e si voltò dall'altra parte.

"È strano: ancora non ho visto la minima effusione tra voi due." disse improvvisamente una voce al mio fianco.

"Kate, ecco.. diciamo che non è che ci sia proprio un 'noi due' di cui parlare."

"Non dire idiozie! Posso sedermi?" mi chiese.

"E se ti dicessi di no?"

"Mi sederei lo stesso."

"Non cambi mai, per fortuna." sorrisi.

"Allora, fratellone, non voglio parlare della guerra perché è una argomento troppo triste e a me basta che tu riesca ancora a respirare e a camminare sulle tue gambe. Mi interessa di te e Sophia."

"Ecco, diciamo che 5 anni lontani sono difficili da sostenere."

"A quanto vedo, Ben ce l'ha fatta."

"Sono stato distratto da altro."

"Da un'altra, direi. Come si chiama?"

"Francesca Joy."

"Mmm meglio Sophia."

E si alzò senza aggiungere altro, ma aveva colpito nel segno: meglio Sophia.

Così decisi di alzarmi per affrontare, finalmente, ciò che avevo lasciato in sospeso da 5 anni.

"Ti va di parlare?" chiesi a Sophia.

"Certo." rispose. La presi per mano e la condussi dentro casa, in camera mia.

"Come mai proprio in camera tua?" mi chiese trattenendo una risata.

"Non essere maliziosa, è solo che voglio parlare lontano dagli occhi indiscreti di Sarah, Catherine e Richard."

Entrammo in camera mia e ci sedemmo sul letto. Restammo per un attimo in silenzio, durante il quale mi soffermai a guardare gli oggetti di quella stanza, oggetti che avevano segnato la mia esistenza.

"Di cosa vuoi parlare?" chiese Sophia prendendo parola.

"Di noi."

"Voglio stare con te, te lo dico chiaro e tondo." disse.

"Anche io."

"Allora che si fa?"

"Ci riproviamo, se vuoi."

"Lo voglio." rispose.

Ci guardammo negli occhi per qualche istante prima di avvicinarci e baciarci. Avevo aspettato, sognato e desiderato per 5 anni questo contatto, l'avevo voluto e, finalmente, ottenuto. Non poteva esserci alcuna Francesca capace di competere, nessun'altra emozione capace di eguagliare quest'unione.

Restammo lì, in camera mia, per un altro po' con quel sentimento represso per così tanto tempo che, come un leone, era balzato fuori mostrando tutta la sua essenza.

I minuti trascorsero come se fossero interi giorni, capitava sempre così: quando ero in compagnia di Sophia perdevo totalmente la cognizione dello spazio e del tempo, la mia mente era troppo occupata da altro.

Decisi di uscire da quella stanza solo per cercare qualcosa da mangiare dato che il pranzo era ormai saltato. Ma appena misi il piede fuori dalla porta, trovai un sacchettino di plastica con un biglietto sopra. Aprii il biglietto e lessi:

"Ero sicura che tra te e Sophia ci fosse ancora qualcosa. Questi panini sono per voi, sarete stanchi. Buon proseguimento. 

Kate."

Sorrisi e rientrai in camera.

"Hai trovato qualcosa di buono?" mi chiese Sophia mentre si stava rivestendo.

"Kate ci manda questi." le dissi porgendole un panino e il biglietto scritto da mia sorella.

Mentre leggeva quelle poche righe sorrideva.

Ma non era affatto un sorriso normale, era uno di quei sorrisi che ferma il tempo, il vento, la natura, tutto. Uno di quei sorrisi che ti ferma il cuore per poi farlo ricominciare a battere all'impazzata, facendoti capire che anche lui è felice di poter percepire così tanta bellezza e purezza in un semplicissimo gesto. Mi ritrovai a sorridere anch'io come un ebete di fronte a quella scena.

"Tutto bene?" chiese Sophia.

"Sì, pensavo.."

"A cosa?"

"A te, in realtà." dissi con una punta di imbarazzo.

"Ah si?" disse avvicinandosi e mettendomi le braccia al collo "E cosa pensavi di preciso riguardo la mia persona?"

"Che mi piaci.."

"Questo l'avevo intuito." disse sorridendo.

"Mi piaci davvero.. potrei stare qui ad elencarti i motivi per cui mi piaci, ma perderemmo troppo tempo che potremmo impiegare in altro." dissi baciandola.

"Io li vorrei sapere, invece."

"Va bene.." la guardai negli occhi e cominciai a parlare "Non partirò col dire che sei bella, perché è scontato e banale, è semplicemente un dato di fatto, tu sei bella anche dentro perché sei di una tenerezza disarmante, quando vuoi, ma allo stesso tempo sei forte e riesci ad affrontare situazioni dove altri cadrebbero. Ogni volta che dici qualcosa mi fai sorridere, ma non solo esternamente, sorrido proprio con il cuore. Quando tu sei felice, lo sono anche io. Riesci ad essere uno spettacolo anche con la tuta e i capelli legati. Sono tanti piccoli fattori che oggi mi portano a dire che mi piaci follemente e che ti amo."

"Come?" mi chiese sbigottita.

"Devo ripeterti tutto?"

Sorrise.

"No, solo l'ultima frase. Mi piacerebbe sentirla di nuovo per assaporarla al meglio."

"Ti amo." le dissi sorridendo.

"Anche io." rispose.

E quelle semplici parole mi resero la persona più felice del mondo. In quel momento avrei potuto dipingere il quadro più bello del mondo, avrei potuto comporre la melodia migliore mai ascoltata, avrei potuto scrivere la più grande poesia mai scritta, ogni azione sarebbe diventata meravigliosa perché intrinseca di una felicità della miglior specie: pura, semplice e sincera.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14. ***


I giorni successivi trascorsero in totale serenità, una serenità che da tanti anni non riuscivo a provare. 

Quella mattina mi svegliai di buon ora perché avevo un appuntamento con Richard, che doveva parlarmi di una cosa importante, scesi le scale per salutare la mia famiglia, ma in cucina vi trovai solo Catherine.

"Buon giorno." dissi dandole un bacio sulla testa.

"Buon giorno a te soldato, come mai già sveglio?" mi chiese.

"Devo vedermi con Ricky."

"Capisco. Mangi qualcosa?"

"No, grazie. Esco subito, sono curioso di sapere cosa deve dirmi."

Salutai mia sorella e uscii di casa.

Il caldo tepore del Sole mi avvolse e mi sentii più vivo e felice. Decisi di fare la strada che separava casa mia da quella di Richard a piedi. Ero tornato a casa da soli tre giorni e ancora non mi ero abituato alla "normalità".

Normalità. A discapito del suo significato questa parola è molto più complicata di altre. Chi può dire cos'è normale e cosa non lo è? Per 5 anni la mia normalità era stata la guerra, ora la vita di tutti i giorni mi sembrava bizzarra.

Mi persi tra i miei pensieri e mi ritrovai dopo circa 10 minuti di fronte casa di Richard.

Lo trovai seduto nel giardino ad aspettarmi con una sigaretta tra le dita.

"Eccoti, finalmente!" mi disse.

"Da quand'è che fumi?"

"Da quando sei partito più o meno." disse con lo stesso tono e con la stessa espressione che usava da piccolo quando la madre lo riprendeva per qualcosa.

"Sai benissimo che fa male."

"Ci sono tante cose che ci fanno male, Leo. Eppure noi continuiamo imperterriti a farle. In fondo ci piace soffrire. Ora, finiamola qui con la filosofia spicciola e veniamo a noi due: ti porto a Baltimora."

"Ora?" chiesi sbalordito.

"Sì, ora. Sali in macchina."

"Non potevi parlarmi in un bar?"

"Ti porto al mare. Davvero, Leo.. è una cosa importante. Fidati di me."

Gli diedi una pacca sulla spalla e salii in macchina.

Il tragitto fu davvero piacevole, parlare con il mio migliore amico del più e del meno mi era davvero mancato.

"Non vuoi darmi nemmeno un'anticipazione?" gli chiesi.

"No." sorrise "Dovrai aspettare ancora un po'." disse accendendosi una sigaretta.

"Non mi piace questa cosa." gli dissi.

"Sai che io odiavo il fumo. Però poi sei partito, ogni giorno temevo che tua madre mi chiamasse per dirmi che eri morto. Poi accendo la tv e ai telegiornali si parla solo di gente che muore, gente innocente e sana che muore. Una sigaretta ogni tanto è una mia scelta, non farne un dramma e raccontami un po' di questi 5 anni al fronte."

"Perché quando c'è qualcosa da raccontare devo iniziare sempre io?!"

"Perché il mio racconto lo sentirai appena arrivati."

"Mmm ok. Diciamo che sono stati 5 anni interessanti. Tra 5 giorni ci sarà la cerimonia per la nomina a Sergente, ma questo lo sai già. Ho reagito a tutto seguendo il mio istinto."

"Anche per quella Frankie?"

"Sì."

"Sai, Sophia ha sofferto abbastanza."

"Lo so."

"È venuta fino in Afghanistan per riprenderti."

"Già."

"Dì qualcosa, non rispondere a monosillabi."

"Ieri le ho detto che la amo. Le ho detto che non ce ne è per nessuno. Francesca è stata solo una parentesi. Non ho mai tradito Sophia, comunque. È stato tutto molto platonico. Mi piaceva davvero Francesca, lo ammetto. Ma Sophia è.. Sophia."

"Mi fa piacere sentire queste parole. Sarah già si era ripromessa che ti avrebbe picchiato se avessi fatto un'altra cazzata."

"Sempre gentile." dissi sorridendo.

La mezz'ora successiva la trascorremmo ascoltando musica, prettamente musica rock. 

Quando arrivammo sulla spiaggia di Baltimora, scendemmo dalla macchina e ci avviammo verso delle panchine poste sul lungo mare.

"Pronto a parlare?" chiesi "Tutto questo silenzio mi snerva."

Richard prese un profondo respiro e poi disse tutto d'un fiato:

"Ho preso una decisione: ho spostato la data delle nozze, mi sposo tra 6 giorni esatti."

"Ma tra 10 giorni ti laurei!" risposi.

"Mi sposo il giorno dopo la tua nomina a Sergente." disse accendendosi una sigaretta.

"Devo dire che mi hai spiazzato. Come mai questa scelta improvvisa?"

"Leonardo, io ti ho detto qualcosa quando hai avuto la brillante idea di arruolarti nell'esercito a soli 18 anni? No, ti sono stato vicino, ti ho aiutato a studiare. Credevo che avresti fatto lo stesso per me."

"Io ti sono vicino." dissi avvicinandomi "Solo che non capisco. Stai solo affrettando le cose."

"La vita è troppo breve, Leo. Giorno dopo giorno mi sto rendendo sempre più conto di questo. Non vale la pena perdere tempo."

"Come mai hai aspettato tanto per dirmelo?" chiesi dopo un po'.

"È stata una decisione improvvisa, giuro." rispose sorridendo.

Ci abbracciammo.

"Saranno dei giorni impegnativi per noi." gli dissi.

Restammo per un po' lì ad ammirare le onde del mare che si infrangevano lungo la costa. Non mi sarei mai aspettato una simile novità al mio ritorno a casa. È proprio vero che la vita è imprevedibile.

"Come mio testimone" disse improvvisamente Richard "devi organizzare il mio addio al celibato."

Sorrisi. "Ci divertiremo. Chi vuoi invitare?"

"Andate bene anche solamente tu e Ben, davvero."

"Ok, ti porto in qualche locale di spogliarelliste. Tra sei giorni diventerai un uomo sposato." gli dissi.

"Ancora non ci credo.."

"Se non ci credi tu, figurati io." e iniziammo a ridere.

"Non ti ho chiesto una cosa" dissi "come le hai fatto la proposta di matrimonio?"

"L'ho portata proprio qui" rispose "insomma, Baltimora è stata così importante per tutti noi in questi anni.. ho preparato un tavolo con sopra delle nostre foto, di questi 5 anni insieme, sulla spiaggia e poi le ho dato l'anello."

"Sei proprio un romanticone." dissi scherzando.

"Ogni tanto." rispose.

Dopo poco squillò il cellulare, era Sophia.

"Ehi.." risposi.

"Allora, Richard ti ha parlato?"

"Sì, e ho capito che devo sbrigarmi ad organizzare l'addio al celibato."

"Ecco, a tal proposito: noi ragazze vi teniamo d'occhio. Ora devo andare, ci vediamo quando torni a casa, ti amo."

"Anche io."

Chiusi la conversazione e mi diressi verso Richard che si era avvicinato al mare.

"Sophia?"

"Sì.."

"Si vede dal sorrisino ebete che hai stampato in faccia." disse ridendo.

"Mangiamo qualcosa e poi torniamo a casa?" proposi.

"Ci sto."

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Capitolo 15
*** Capitolo 15. ***


È strano come il tempo scorra più velocemente in vista di una data che aspettiamo con ansia, trepidazione o altro.

Quei pochi giorni che mi separavano dalla cerimonia per la nomina a Sergente trascorsero in un batter d'occhio.

Mi risvegliai quel sabato mattina pieno di energie: stavo per coronare 5 anni di sforzi e di sofferenze, stavo per muovere il primo passo all'interno della carriera militare.

La cerimonia era prevista per le 17 di quel pomeriggio, quindi avevo tutto il tempo per prepararmi.

Mi feci una doccia e indossai una tuta, avevo preso la decisione di andare a correre un po' per scaricare la tensione e far fruttare l'adrenalina che mi scorreva nelle vene. 

In cucina trovai i miei genitori e Catherine, dopo qualche scambio di saluti e parole, uscii di casa con l'iPod nelle orecchie.

Quella mattina c'era un leggero venticello che muoveva le foglie degli alberi e spazzava via i miei pensieri.

Sergente. Matrimonio di Richard. Laurea di Richard.

Avvenimenti fondamentali racchiusi nell'arco di pochi giorni.

Il mio cervello correva e le mie gambe pure, decisi di mettere da parte il resto e concentrarmi solo su di me.

Corsi per circa un'ora quando mi sedetti esausto su di una panchina, mi ero fermato di fronte ad un campetto da basket e notati un bambino che giocava da solo esercitandosi a tirare a canestro.

Decisi di avvicinarmi.

"Posso giocare anche io?" gli chiesi.

"Certo, signore." rispose con un tono intimidito.

"Non chiamarmi signore, ho solo 23 anni. Piacere, io sono Leo." gli dissi sorridendo.

"Mark."

Mi passò la palla ed incominciai a palleggiare. Notai che Mark mi fissava.

"Vuoi dirmi qualcosa?"

"No, notavo solo che sei molto alto, quasi quanto mio padre." disse con tono innocente.

Iniziammo a giocare e a parlare, gli dissi che ero un militare, ma evitai i dettagli tristi della mia vita. Gli raccontai persino del mio amore per Sophia.

"Amore.." disse quasi sussurrando.

"Già."

"Il mio papà dice sempre di amare la mamma."

"È una cosa bella, fidati. Un giorno la proverai anche tu."

"Per ora sto bene così."

Scoppiai a ridere: i bambini verso i 10 anni non sono soliti evitare il contatto con l'amore e i sentimenti, non ne hanno bisogno, provano così tante cose anche senza l'ausilio di un'altra persona.

"Mark!" disse una voce lontana "Basta infastidire le persone."

Notai una ragazza che si avvicinava, quasi stentai a riconoscerla.

"Rose.." sussurrai.

"Come fai a conoscere mia cugina?" mi chiese Mark.

"Lunga storia." risposi.

"Mark, su andiam.." la parola le morì in gola e incominciò a fissarmi.

"Leonardo?" chiese sbalordita "sei davvero tu?"

"A quanto pare.." sorrisi.

Mi corse incontro e mi gettò le braccia al collo. 

"Sono anni che non ci vediamo!" disse "Voglio sapere cos'hai fatto in tutto questo tempo."

"Bhe.. ne ho passate di cose."

Ci sedemmo su una panchina e iniziammo a parlare mentre Mark continuava a giocare a pallacanestro.

Avevo quasi dimenticato di quanto mi trovassi bene a parlare con quella ragazza e mi resi conto che mi era mancata davvero. Il suo sguardo sicuro e la sua voce calma facilitarono il mio racconto, le parole uscivano in maniera spontanea mentre il tempo scorreva. Il Sole era ormai alto nel cielo e i suoi raggi ci avvolgevano nel loro tepore, era una bellissima giornata di marzo e tutto sembrava andare bene.

"E così eccoci qui." dissi concludendo il mio racconto.

"Wow.. devo ammettere, soldato, che ti sei divertito più di me in questi anni." rispose Rose.

"A te come va l'università?" chiesi.

"Bene, mi sono laureata un annetto fa ed ora lavoro in un piccolo giornale di NY."

"Rose, voglio tornare a casa." disse Mark.

"Certo, piccolo." rispose la cugina.

"Ehi, questa sera mi nominano Sergente.. ti va di venire alla cerimonia?" le chiesi.

"Certo. Segna qui l'ora e l'indirizzo."

Mi porse un foglietto di carta e una penna ripescati dalla sua borsa, le scrissi le informazioni e ci salutammo.

Decisi di tornare a casa e, nel tragitto, mi ritrovai a pensare a Rose.

Aveva lo stesso fascino di 5 anni fa: occhi marrone scuro, capelli biondi e quella luce nello sguardo che non l'abbandonava mai.

Guardai l'orologio e notai che, ormai, erano le 13.30, tornato a casa, mangiai qualcosa e iniziai a prepararmi.

Per l'occasione indossai la divisa per le occasioni formali dell'Esercito Americano.

Giacca e pantaloni blu, camicia bianca e scarpe lucide e, mentre mi guardavo allo specchio, entrò mia madre nella stanza.

"Emozionato?" mi chiese.

"Il giusto."

Mi abbracciò ed incominciò a piangere.

"Mamma, è un'occasione felice, non piangere."

"Sono così orgogliosa di te. Ci stai rendendo dei genitori davvero fieri."

Sciogliemmo l'abbraccio e scendemmo nell'ingresso. Trovai i miei amici e i miei parenti tirati a lucido per l'occasione.

"Non indovinerai mai chi ho incontrato stamattina." dissi a Richard.

"Chi?"

"Rose!"

Appena nominai quella ragazza, sentii lo sguardo di Sophia su di me, evidentemente la rivalità nel confronti di Rose non era affatto scemata col tempo.

"L'ho invitata alla cerimonia." dissi e sentii uno sbuffo alle mie spalle.

Richard mi si avvicinò e mi disse nell'orecchio: "Mi sa che Sophia non l'ha presa tanto bene.."

Sorrisi.

"Adoro quando è gelosa." dissi.

La cerimonia si sarebbe svolta a Fort Detrick, proprio la base che mi aveva visto muovere i primi passi in quel nuovo mondo. All'entrata vidi Ben che parlava con Alice ed una figura poco distante da loro, Rose.

Ci salutammo, felici di aver riunito quel gruppo che ben 5 anni prima di era ritrovato nel campus della Brown.

Le ragazze, persino Sophia, iniziarono a parlare con Rose e quest'ultima continuava a fissarmi. Un soldato di colore mi salvò da quel momento di imbarazzo rivolgendomi la parola:

"Specialista Locket, il Generale Gallagher la aspetta nel suo studio." mi disse.

"Vado subito."

Mi incamminai da solo in quei viali che avevano rappresentato il mio mondo pochi anni prima. I ricordi mi affollarono la mente e la commozione sembrava voler uscire fuori. Il leggero vento mi aiutò a ricacciare dentro le lacrime quando passai vicino ad una piazzola che avevano dedicato al Sergente Shire. Decisi di fermarmi un minuto in commemorazione di quella targa, rivolgendo un pensiero alla persona che aveva reso possibile tutto questo.

"Sarebbe stata fiera di me, Signora." mormorai e ripresi a camminare.

Bussai alla porta dello studio del Generale che mi accolse con il suo solito sorriso benevolo e rassicurante.

"Specialista."

"Generale."

"Sono felice di rivederti. Sono tornato ieri sera dal fronte, si sente la tua mancanza."

"Come procede la manovra, Signore?" chiesi.

"Purtroppo ieri abbiamo subito alcune perdite. I due medici di turno sono stati feriti e non hanno potuto fare molto per i miei uomini." a queste parole un velo oscurò gli occhi brillanti del Generale e anche i miei.

In quel preciso istante bussarono alla porta.

"Avanti." disse il Generale.

Nello studio entrò un ragazzo, perché sicuramente non avrà avuto più di 30 anni, con dei capelli castano scuro e due occhi di un verde intenso.

"Capitano, la stavamo aspettando. Leonardo, volevo presentarti il Capitano Sean Gallagher, mio figlio. Sarà presente alla cerimonia e partirà con te per il fronte. Io sarò bloccato qui per un po'. Sarà un tuo fratello maggiore sul campo."

Sean ed io ci guardammo per un po' e subito trovai una piacevole connessione con lui, sprizzava allegria dallo sguardo in un modo sconvolgente.

Dopo il padre, prese parola: "Generale, ancora non ci ha detto quando partiremo."

"Giusto, la data della vostra partenza è stata anticipata." disse.

"A quando?!" dissi non curante della disciplina. Notai uno sguardo divertito da parte di Sean.

"Calma, Leonardo. Partirete tra un mese esatto. Il 15 di Aprile."

"Così presto?" chiesi con un misto di rabbia e delusione.

"Leonardo, basta così." intervenne Sean. "Vieni con me, devi calmarti prima della cerimonia."

Uscimmo di nuovo all'aria aperta e diedi sfogo ai miei pensieri:

"Sono stato 5 anni in quell'inferno! Merito un po' di riposto. Mi avevano promesso almeno tre mesi."

Sean si bloccò all'improvviso e mi guardò negli occhi:

"Nessuno ti ha obbligato a fare questa scelta anni fa. Ora sei salito su questa giostra e devi giocare. Non prendere tutto male, cogli questa come un'altra grande ed importante occasione per dimostrare quanto vali. Mio padre mi ha raccontato un po' di cose di te: sei bravo, ma altrettanto impulsivo. Devi imparare a reagire con più freddezza alle cose, ti fai troppi problemi. Sii più semplice.."

"Semplice?!" dissi sbalordito.

"Esatto! Non credere che sia l'unico a cui tutto vada storto. Io, ad esempio, sono gay. Il mondo lo sa, mio padre fa finta di niente. Per lui sarebbe un disonore. Ma non me ne importa, gli ho dato così tante soddisfazioni sul campo che la mia sessualità non ha mai rappresentato un problema. Ora sorridi che stai per diventare Sergente. So che hai conosciuto Charlotte Shire, una gran donna e una grande perdita."

"È stata il mio mentore.." dissi con una vena di tristezza.

"Coraggio, è la vita. Andiamo che ci staranno aspettando. Ah, comunque.. puoi darmi benissimo del 'tu', sono o non sono il tuo fratello maggiore sul campo?!"

Sorrisi, quella nuova presenza nella mia vita aveva portato un'aria di vitalità che non fa mai male, sarebbe stato di grande aiuto in quella terra nel bel mezzo del nulla.

Il destino aveva ancora deciso quali carte scoprire, la partita era nel suo pieno e io ancora non sapevo chi l'avrebbe avuta vinta. Ma, in quella giornata di marzo, avevo appena pescato un jolly.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16. ***


"Per me è un onore e un piacere essere qui con tutti voi per premiare un ragazzo che in soli 5 anni ha fatto dei passi immensi." il Generale Gallagher aprii il suo discorso con queste parole. Girai la testa e guardai in direzione dei miei familiari e dei miei amici: tutti mi guardavano con uno sguardo ricco di orgoglio e soddisfazione. Erano anni che rincorrevo questa sensazione che riempie così tanto il cuore: felicità. 

Sì, ero felice. Felice di aver ripreso a vivere. Felice di vedere le persone a me care riunite per applaudirmi. Felice perché mi sentivo utile. 

Semplicemente felice. Non avrei potuto desiderare altro in quel giorno.

Il mio sguardo si posò su Sophia, in quel preciso istante lei alzò gli occhi e incrociò i miei: l'azzurro incontrò il color miele e si fusero in un unica cosa. Ricordo di aver mantenuto quella connessione per molto tempo, mi staccai solo quando il Generale pronunciò il mio nome e mi invitò al salire sul palco al suo fianco.

"Leonardo Locket, in nome dell'Esercito Americano e del nostro Presidente, ti promuovo a Sergente nella speranza che tu possa continuare a portare onore al tuo Paese, così come hai fatto finora."

Un fiume di applausi iniziò a scrosciare ed io mi feci leggermente rosso. Guardai di nuovo verso il pubblico, ma questa volta incrociai il sorriso di Rose, ricambiai senza pensarci troppo.

"Dovresti dire qualcosa." disse il Generale con un sorriso affabile.

Mi avvicinai al microfono ed incominciai a parlare:

"Innanzi tutto volevo ringraziare tutti voi per essere qui, perché, in fondo, è per voi che sto, giorno dopo giorno, diventando qualcuno. Qualche anno fa non avrei mai immaginato di poter arrivare a pensare di essere davvero felice come lo sono ora. Ero avvolto nell'apatia più assoluta. Poi incontrai una donna: Charlotte Shire. Ha cambiato nettamente la mia vita e Dio solo sa quanto vorrei che fosse qui ora ad applaudirmi o semplicemente a dirmi che sto andando bene. Non voglio rattristarvi tutti con pensieri del genere. Ad oggi la vita mi sorride, domani il mio migliore amico si sposerà e tra pochi giorni sarà un laureato. Volteremo pagina, Richard. Inizierà la nostra vita da persone davvero adulte. A tal proposito, volevo avvisare i presenti che tra un mese esatto ripartirò per il fronte, ma non so quando sarò di ritorno. Non voglio trattenervi ulteriormente, il buffet ci aspetta." 

Tra le risate e gli applausi generali, mi allontanai dal palco e mi diressi verso Richard che mi abbracciò.

"Mi è piaciuto un sacco il tuo discorso." disse Sarah, abbracciandomi anche lei, a sua volta.

"Posso parlare un secondo con te in privato?" mi chiese Sophia.

Senza farmelo chiedere due volte, la presi per mano e la portai all'ombra di una grande quercia che era solita accogliere i cadetti nelle giornate di Sole.

Ci sedemmo sull'erba fresca ed io mi incantai ad osservarla.

Capitava sempre così: in sua presenza perdevo la concezione dello spazio e del tempo, c'era solo lei, c'ero solo io. Un sinolo che mi sembrava inscindibile.

Lei, d'altro canto, arrossì e disse: "Mi imbarazzi sempre quando mi guardi in questo modo."

Sorrisi. 

"Allora basta guardarci." dissi. Mi sporsi verso di lei e la baciai.

Il suo sapore mi invase come un'onda del mare che si infrange sulla costa. Da quella mattina non avevamo ancora avuto modo di poter stare da soli, di poter godere l'uno della compagnia dell'altra.

Lasciammo che la passione potesse uscire fuori senza alcun ostacolo, chi eravamo noi, semplici mortali, per bloccare una forza così potente come l'amore?

Il tempo, di solito nemico dell'uomo, continuò a scorrere inesorabile ignaro del fatto che per noi non rappresentava una minaccia. Il bello di stare con Sophia era quest'alone di temporalità che si veniva sempre a creare. 

"Quindi tra un mese ripartirai." disse dopo un po'.

"Così sembra, tu verrai con me?" chiesi.

"Non so, Leo."

"Il Generale mi ha detto che due medici sono stati feriti, credo che ci sia bisogno del tuo aiuto."

"Tu sei contento di ripartire?"

"Dipende dai punti di vista. Certo, la vita quotidiana mi mancherà, ma lì hanno bisogno di me.."

Mi accarezzò il viso, dopo poco ci alzammo e ci dirigemmo verso gli altri. 

Notai Rose da sola seduta ad un tavolo, così mi avvicinai.

"Ehi.. ti stai divertendo?" le chiesi sedendomi al suo fianco.

"Sì, abbastanza." rispose sorridendo. "È strano rivedervi tutti dopo così tanto tempo.."

"Già.."

"C'è una cosa che vorrei confessarti, Leo."

"Dimmi tutto."

"È difficile.. è una cosa di cui mi sono resa conto stamattina, ma forse era una cosa che già c'era, non so."

"Coraggio, confidati.." le dissi prendendole la mano.

Lei volse lo sguardo verso la folla che rumoreggiava a pochi metri da noi e poi disse:

"Mi piace una persona."

"Ma non è una cosa brutta. Non è colpa tua."

"Leo, non capisci.."

"Aiutami a capire, no? Chi è questa persona?" chiesi.

"Non voglio che cambi qualcosa.."

"Cosa dovrebbe cambiare? Avanti, dai? Non essere stupida.."

"Mi piaci tu, cazzo!" disse improvvisamente.

Restai per un po' immobile, senza sapere come reagire, poi dissi semplicemente: "Avresti potuto dirmelo subito senza troppi giri di parole."

"Oddio, sono così in preda all'imbarazzo."

"Non ti preoccupare. È solo che è strano tutto ciò." dissi ridendo.

"Lo so." ed incominciò a ridere a sua volta. "Ti prego, non voglio perdere la tua amicizia."

"Davvero credi che non ti parlerei più dopo questa tua rivelazione?" chiesi sbalordito.

"Bhe.. sì."

"E hai ragione, non farti più vedere in giro." dissi scherzando. Poi la presi per mano, invitandola ad alzarsi dalla sedia, e la abbracciai.

Restammo così per un po', poi si staccò e disse: "Grazie Leo, Sophia è molto fortunata."

"Lo sono anche io." risposi.

"Ehm.. scusate l'interruzione." mi voltai e vedi Sarah che ci fissava. "Posso parlarti un attimo, Leo?"

"Certo.."

"In privato.." disse Sarah rivolgendosi verso Rose.

"Sì, certo, tolgo il disturbo. Anzi, Leo, ti saluto. Torno a casa, devo dare un'occhiata a Mark. Ci sentiamo."

"Domani c'è il matrimonio, ci sarai?" chiesi.

"Certo e anche alla laurea. Ci vediamo in questi giorni, allora. Ciao." mi salutò con un dolce bacio sulla guancia. Mi soffermai ad osservarla mentre si allontanava quando un colpo di tosse di Sarah mi riportò alla realtà.

"A che gioco stai giocando? Ti sbava dietro da quando vi conoscete, Leo." disse con una punta di rabbia.

"Calma, Sarah. Non ho fatto assolutamente nulla."

"Non mi piace il tuo atteggiamento quando Sophia non c'è. Devo ricordarti di una certa Francesca?"

"Era una cosa totalmente diversa."

"Ascoltami, io ti reputo un bravissimo ragazzo, ma alcuni tuoi comportamenti mi lasciano perplessa. Sai benissimo che Sophia è gelosa marcia di tutte quelle che ti girano intorno."

"Sarah, stai scherzando?! Per un abbraccio tra amici? Tra l'altro tu non c'entri niente, Sophia non si è lamentata." dissi iniziandomi a scaldare.

"Solo perché è scappata in bagno appena vi ha visti."

"Non ha senso.."

"Per lei ha senso, Leo. È fatta così.." rispose "Ora va da lei.."

"Devo un attimo calmarmi. Vado a bere qualcosa."

Lasciai lì Sarah e mi avvicinai al tavolo dei drink. Presi un bicchiere a caso e sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla.

"Va tutto bene?" mi chiese Ben "Ho visto una piccola discussione tra te e Sarah."

"Va tutto bene.. Sophia è gelosa, nulla di nuovo."

"Per Rose?"

"Già."

"Va da lei.. è inutile discutere con terzi." mi disse.

"Hai ragione, vado a cercarla."

Mi diressi verso il bagno delle femmine, fuori alla porta trovai Alice.

"Sophia è lì dentro?"

"Sì, ma non credo che si sia ancora calmata.."

"Era solo un abbraccio.."

"Lo so, Leo." disse accarezzandomi il braccio.

"Puoi farla uscire?"

"Entra tu."

"È il bagno delle femmine!" dissi.

"Farò da palo, forza!"

Presi coraggio ed entrai. Il bagno delle signore aveva delle mattonelle rosa che ricoprivano tutte le pareti, avanzai piano, poi sentii dei singhiozzi.

"Sophia.." dissi.

"Cosa ci fai qui?!"

"Tu cosa ci fai qui? Non puoi fare sempre così."

La porta alla mia destra si aprii di scatto e mi ritrovai una Sophia infuriata.

"Posso eccome, Leonardo! Tu non sai cosa mi ha detto Rose! Sono stufa di dover gareggiare sempre con le tue pretendenti!"

"Cosa ti ha detto Rose?"

"Che le piaci.. che tra di voi c'è una bella sintonia.. poi vi ho visti abbracciati.."

"Ti fai troppi film. Sì, le piaccio.. ma quando capirai che a me piace solo una persona?"

"Scusa, ho reagito come un'adolescente."

"Non ti preoccupare. Posso abbracciarti o rischio uno schiaffo in piena faccia?"

Mi sorrise e mi venne incontro abbracciandomi.

"Sei una pazza psicotica."

"Dì la verità: è questo che ti piace di me."

Ci baciammo lì, in quel bagno femminile senza rifletterci un attimo facendoci travolgere da quella bellissima sensazione di atemporalità che, ormai, era di routine tra di noi.

 

 

Quella sera stessa io, Ben, Richard e, persino, Sean ci recammo in un locale di spogliarelliste per far trascorrere in maniera spensierata a Richard la sua ultima serata da uomo non impegnato.

"Hai fantasia, Leo. Spogliarelliste: non me l'aspettavo proprio." disse ridendo.

"Almeno vado sul sicuro." risposi.

"Non credo che mi divertirò tanto." intervenne Sean.

"Avanti, non hai mai avuto una vena di eterosessualità?" chiese Ben.

"Forse, da ragazzo.. ho sempre amato una particolare parte anatomica delle donne." rispose con un sorriso malizioso.

Entrammo nel locale e venimmo avvolti dalla musica assordante. 

Sophia e le altre non avrebbero mai dovuto sapere di quella serata.

Il racconto dettagliato delle nostre avventure resterà per sempre in quel locale, resterà sepolto nei meandri nel mio cervello.

Ricordo solo che bevemmo tutti tanto, davvero tanto. Forse avevo tradito Sophia, forse persino Sean era finito a letto con qualche ragazza.

Esagerammo talmente tanto che la mattina dopo ci svegliammo con un'ora di ritardo sulla tabella di marcia.

"Cazzo! Cazzo!" sentii Richard urlare. "È tardissimo! Muovetevi! Fatevi una doccia! Siamo impresentabili!"

"Amico" disse Sean "è inutile che urli, siamo proprio qui davanti a te."

Aprii gli occhi e mi guardai intorno: eravamo a casa di Richard.

"Dove sono tua madre e tuo fratello?" chiesi.

"Da Sarah.. preventivamente ho chiesto di lasciarmi casa libera. Forza, è ora di muoversi."

Nel giro di un'ora eravamo tutti pronti, solo le occhiaie restavano imperterrite sotto i nostri occhi come segno della serata precedente.

Entrammo in macchina, io mi misi al volante dato che ero il più lucido rispetto agli altri.

"Dove si va?" 

"A casa tua a dire ai tuoi che siamo pronti. Poi si va a Baltimora. Hai preso tutto?" disse Richard in preda all'ansia.

"Calmati, Ricky!" intervenne Ben "è tutto sotto controllo, i vestiti per la cerimonia sono nel bagagliaio, siamo in orario."

In quel momento squillò il mio cellulare:

"Sophia? Sì, stiamo passando dai miei. Sì, ci siamo divertiti. A tra poco."

Arrivati nel viaggetto di casa mia, ci accolse Catherine:

"Cavolo, ragazzi.. siete osceni." disse guardandoci.

"Grazie Kate." risposi.

"Arrivati a Baltimora vi do una sistemata con un po' di trucco. Deduco che vi siate divertiti.." disse sorridendo.

"Mettiamoci in marcia." disse Sean, cambiando discorso.

Salimmo di nuovo in macchina, ma una strana sensazione iniziò ad insinuarsi nella mia mente.

"Sean, devi dirmi cosa ho fatto ieri notte."

"Niente Leo, eri ubriaco.. lascia perdere."

"Ho tradito Sophia?" chiesi.

"Sì.."

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Capitolo 17
*** Capitolo 17. ***


Il mondo intorno a me si dissolse. Chiusi gli occhi e cercai di fare mente locale riguardo la serata trascorsa da sole poche ore.

"Perché non mi avete fermato?" chiesi con gli occhi ancora serrati.

"Stavamo maluccio anche noi e, sinceramente, ho preferito salvaguardare la fedeltà del tuo amico Richard." rispose Sean.

"Non so come potrò guardare di nuovo Sophia negli occhi." dissi e appoggiai la testa al finestrino.

"Tutti noi commettiamo degli errori, Leo." disse Ben osservandomi dallo specchietto retrovisore "ieri sera non eri in te, nessuno di noi era in sé. Pensa che ho trovato Sean che si sbaciucchiava con una bella biondina."

"Che schifo.." rispose Sean strappandomi un sorriso.

"Hai intenzione di dirglielo?" mi chiese Richard dopo un po'.

"Non ne ho la più pallida idea."

Tutti e quattro, come se avessimo preso un accordo, restammo in silenzio per il resto del viaggio, nessuno aveva voglia di parlare o di commentare ciò che era accaduto.

Su di me rimase quella sensazione di sporco che sarebbe stata difficile da mandare via.

Arrivati a Baltimora ci dirigemmo verso l'albergo che i genitori di Sarah avevano riservato per gli ospiti e per la cerimonia. 

Il matrimonio avrebbe avuto inizio di lì a poche ore e nell'aria si respirava un clima di totale agitazione.

Ben, Richard, Sean ed io ci sistemammo nella camera a noi assegnata per fare il punto della situazione.

"Leo, sei distrutto." disse Ben.

"Lo sono."

"Lo sappiamo tutti, ma c'è un matrimonio in vista, non puoi avere quest'aria da funerale!" intervenne Sean.

"Tu non capisci! Ho mandato a puttane la cosa migliore della mia vita!"

"Sophia non deve saperlo per forza.." suggerì Ben.

"Scherzi, vero?! L'ultima cosa che voglio fare è continuare a mentirle."

"Non fare niente oggi, ti prego.." disse Richard all'improvviso.

"Dammi una buona ragione per aspettare anche solo un giorno."

"Rovinerai il giorno più bello della mia vita.."

Non risposi a quell'affermazione, aveva dannatamente ragione.

"Vado a farmi una doccia."

Entrai in bagno e mi fermai ad osservare il mio riflesso allo specchio, ma ciò che vidi era solo l'ombra del ragazzo che ero fino a 24 ore prima.

Mi buttai sotto la doccia per cercare di sentirmi più pulito, ma non funzionò. Tutto sommato, però, avevo riacquistato un aspetto esteriore leggermente decoroso. Uscii dal bagno con indosso solo l'accappatoio e, invece dei miei amici, sul letto vi trovai Catherine che continuava a fissarmi con sguardo indecifrabile.

"Cosa ti è successo?" mi chiese.

"In che senso?"

"Sei strano.."

"Non mi va di parlarne ora."

"Oh, caro.. io credo proprio che tu debba parlarne."

"Dobbiamo prepararci per il matrimonio."

"Credo che 10 minuti di ritardo per dare ascolto ai problemi di mio fratello siano più che accettabili."

Mi sedetti sul letto affianco a lei, respirai e dissi tutto d'un fiato:

"Ho tradito Sophia. Ieri. Con una spogliarellista all'addio al celibato di Richard."

Di tutta risposta mi arrivò uno schiaffo in piena faccia.

"Tu.. cosa?! Sei impazzito?! Sei un emerito idiota Leonardo!"

Si alzò di scatto e iniziò a camminare avanti e indietro da un capo all'altro della stanza.

"Ti prego, calmati! L'ultima cosa di cui ho bisogno è che tu mi dia addosso come una psicopatica." dissi.

"Forse non ti rendi conto della gravità della cosa!"

"È stato solo sesso."

"Solo sesso?!" esclamò calmandosi leggermente "Quindi hai intenzione di parlargliene?"

"Certo, ma non oggi.. non voglio rovinare il matrimonio. Ho intenzione di anticipare la mia partenza per il fronte e togliermi dai piedi per un po', così lei avrà tutto il tempo per metabolizzare la cosa."

"Non credo sia la scelta giusta."

"Io credo di sì. Si è fatto tardi, dobbiamo prepararci. Continueremo questa conversazione, te lo prometto." mi voltai e aspettai che uscisse dalla stanza.

"Leo, scusa se sono stata così impulsiva.. tutti noi commettiamo errori, questa volta è toccato a te, non odiarti per questo, si risolverà tutto." disse abbracciandomi da dietro.

Quando la porta si chiuse, diedi sfogo a tutti i miei sentimenti e incominciai a piangere. 

Mi ero ripromesso di non piangere, di essere forte, ma nel corso della mia vita mi sono ripromesso tante cose, forse troppe. Il "non piangere" sono sempre riuscito a gestirlo.

"Ce la farai, Leo! Sii forte e non piangere."

Non piangere. Non piangere. Non piangere. Solo questo, solo queste parole e solo la voce della mia coscienza che le ripeteva come una misichetta assordante dentro di me, come una di quelle canzoni che ti entrano nella testa e da lì non escono più. 

Non piangere. Non piangere. Sii forte.. ma forte non sono stato e ho pianto. 

Ho pianto tanto per buttare fuori tutte le emozioni.

Ho pianto forte per far sentire a qualcuno che piangevo.

Ho pianto per tornare un po' bambino e dimenticarmi di tutti i problemi da "grandi". 

Ho pianto per non dover essere sempre io quello "forte". 

Ho pianto.

Quel pianto fu totalmente liberatorio: per le prossime ore avrei avuto una maschera di cera da mostrare al mondo in attesa di mostrare a Sophia la mia vera natura.

Indossato lo smoking per la cerimonia, scesi nella hall dell'albergo e ad aspettarmi, all'entrata, trovai proprio Sophia in compagnia di Ben, Alice e Sean.

"Eccoti finalmente!" disse volgendo nella mia direzione uno dei suoi migliori sorrisi.

Mi avvicinai e, vedendola, mi sentii ancora peggio. Era dannatamente bella, i suoi occhi brillarono appena incontrarono i miei, ormai, spenti.

"Leo, tutto bene?" mi chiese avvicinandosi e stampandomi un bacio sulle labbra.

Cacciai dalla mia mente la voglia di scansarmi a quel contatto.

"Sì" risposi "sono solo stanco."

"Bando ai convenevoli!" disse Sean "C'è un matrimonio che ci aspetta!"

Ci dirigemmo verso il giardino posto sul retro dell'albergo che avrebbe accolto la cerimonia. Feci sedere gli altri ai loro posti, salutai tutti i conoscenti e i familiari e presi posto al fianco di Richard, da bravo testimone.

"Come stai?" mi chiese.

"Non vedo l'ora di togliermi questo peso." risposi assente.

"Andrà tutto bene.. sono sicuro che.."

Ma le parole gli morirono in gola, proprio in quel momento fece il suo ingresso Sarah.

Vidi il mio amico, alla mia destra, che guardava quella ragazza con gli occhi di un amore puro e semplice, ma altrettanto indistruttibile.

La cerimonia andò avanti senza problemi, finita ci dirigemmo tutti verso la sala da pranzo che avrebbe accolto i festeggiamenti.

Ero riuscito ad accantonare i brutti pensieri ed ero riuscito a portare serenità alle persone intorno a me.

Ad un certo punto della serata, Alice si schiarì la voce e prese parola:

"La festa sta per giungere al termine, prima del taglio della torta vorrei invitare Leonardo e Sophia a tenere un discorso in quanto testimone e damigella d'onore degli sposi."

Dagli invitati partì un caloroso applauso. Sophia sorrise imbarazzata, si alzò dalla sedia e, prendendomi per mano, mi incitò a fare lo stesso.

Incrociai lo sguardo di Ben che cercava di infondermi coraggio.

"Vorrei iniziare io." disse Sophia rivolgendosi a me.

"Prego."

"Conosco Sarah da una vita e semplicemente volevo dirle che mi sorride il cuore vederla così felice al fianco di un ragazzo che da cinque anni a questa parte le ha portato solo cose belle. L'amore, quello vero, è difficile da trovare, credo che in questa stanza pochissimi ci siano riusciti.." spostò il suo sguardo da Sarah a me "l'amore è quella forza che fa muovere l'universo, è come la gravità: ti permette di respirare, di camminare, di esistere e non semplicemente di sopravvivere. L'amore è.. meraviglioso, non trovo altre parole per descrivere una cosa tanto grande, cadrei nel banale e nello scontato. Per concludere, auguro ai neo-sposi, Sarah e Richard, il meglio per il loro futuro: ragazzi, da oggi iniziate un nuovo capitolo della vostra vita.. insieme!" concluse il discorso riprendendo alcune parole che avevo pronunciato in occasione della nomina a Sergente.

Le persone presenti in sala levarono i calici e bevvero alla salute degli sposi e si girarono verso di me in attesa di un sermone altrettanto coinvolgente.

"Sophia ha detto delle parole stupende e totalmente vere" iniziai a dire "la vita è piena di intrighi e sofferenze, di ostali appostati dietro l'angolo pronti a balzare fuori per prendere il sopravvento. Sentimenti puri come l'amore, o l'amicizia, aiutano a sconfiggere questi mostri. Chiamatemi 'sentimentale', ma io credo ancora nell'amore, in quello vero, in quel legame indissolubile che due anime riescono a creare."

Anche il mio discorso fu accolto dagli applausi della gente, mentre Sophia beveva dal suo bicchiere di champagne, mi avvicinai al suo orecchio e le sussurrai: "Devo parlarti, ora."

Lei mi guardò negli occhi e disse soltanto: "Lo sospettavo. Usciamo di qui."

La presi per mano e la condussi in un piccolo giardino nel lato est dell'albergo, era un posto intimo con dei roseti ai lati ed un salice piangente al centro, al di sotto del quale vi era posta una panca. Ci sedemmo lì e Sophia si perse nel guardare il cielo, io mi persi nell'ammirare lei.

"Leo, coraggio.. tagliamo la testa al toro." disse all'improvviso.

Sospirai. 

"Ti ho tradita."

Restammo per un po' in silenzio, solo il vento cercava di intromettersi in quel momento tutto nostro.

Poi udii un singhiozzo, mi voltai e vidi una lacrima scintillante che correva lungo la guancia di Sophia. Un po' titubante, tesi la mano e asciugai quella manifestazione di dolore, come avrei voluto che un gesto così semplice avesse potuto cancellare tutto il male che le avevo fatto.

Le lacrime sono gli elementi più intimi del nostro essere, quasi quanto un sorriso sincero. Si mostrano nelle occasioni più importanti, accompagnano gli istanti belli e quelli brutti, accompagnano la nostra crescita, il nostro percorso, le nostre cadute e il nostro rialzarci. Non sono una persona che piange spesso, eppure ogni tanto c'è bisogno di buttare fuori tutto, anche uno forte come me ha bisogno delle lacrime. Il loro sapore salato, forse, è dato proprio dalle cose brutte che vorremmo cacciare dal nostro corpo e dalla nostra mente. 

"Leonardo.." riuscì a dire in un sussurro.

"Mi dispiace." dissi.

"Anche a me dispiace. Vorrei solo sapere l'intera storia."

"È successo ieri notte. All'addio al celibato di Richard: siamo andati in un locale di spogliarelliste, abbiamo bevuto tanto, soprattutto io e Ricky.. ed è successo.. non ricordo nulla. So solo che mi sento uno schifo, che sono un bastardo e che non ti merito. Per questo ho deciso di ripartire prima per il fronte, per lasciarti tutto il tempo che vorrai per prendere una decisione. Se vorrai lasciarmi io non te lo impedirò e.."

"Quindi hai intenzione di lasciarmi sola, di nuovo?"

"Voglio lasciarti libera."

"Cazzo, Leonardo. Dopo tutti questi anni ancora non hai capito che rappresenti la mia felicità, non voglio essere nulla se non ci sei tu accanto a me, perché la tua presenza è ragione del mio essere. In questo momento ti odio per quello che mi hai fatto, ma so che è stato solo sesso, so che sei distrutto e so che senza di te non potrei andare avanti."

Dette queste parole, scoppiò a piangere.

Io, d'altro canto, feci la parte del forte. Sophia aveva bisogno di uno scoglio a cui aggrapparsi, così la abbracciai e la lasciai sfogare.

"Ti prego, non partire prima del dovuto."

"Non devi pregarmi di nulla, Sophia. Io ci sono, non ti preoccupare."

"Per sempre?"

"Assolutamente."

Si asciugò le lacrime e si ricompose.

"Mi permetti solo una cosa?" mi chiese.

"Certo, non sono nella posizione adatta per dettare legge."

Respirò a fondo, mi guardò negli occhi e.. iniziò a prendermi a schiaffi e a pugni.

"Così mi fai male però!" dissi.

"Te lo meriti bastardo!" rispose.

Dopo qualche secondo, però, la tortura finì e Sophia tornò a sorridere.

"Un altro passo falso e non sarò così buona." disse.

"Un altro passo falso e ti do il permesso di uccidermi." risposi.

"Ti amo."

"Anche io, tanto. Perdonami."

"L'ho già fatto. Però devi ancora concedermi una cosa."

"Tutto quello che vuoi."

Mi prese per il colletto della camicia e mi baciò. Improvvisamente sotto quel salice che aveva assistito a tutta la scena. La carica erotica prese il sopravvento su di noi e ci dichiarammo amore eterno sotto le stelle, di fianco ad un cespuglio di rose bianche. 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18. ***


La laurea di Richard fu l'ultimo avvenimento importante che segnò il mio rientro a casa. La cerimonia si svolse alla Brown, a Providence.

Restammo per un po' in quella città ed io ne approfittai per trascorrere del tempo da solo con Sophia dato che di lì a tre giorni sarei ripartito per Kabul.

Purtroppo il destino aveva voluto che, volente o nolente, anticipassi comunque la mia partenza. Sophia non la prese affatto bene, ma alla fine capì.

Eravamo seduti su di una panchina a bere del caffè quando le squillò il telefono.

"Pronto? Sì, sono io. Certo, aspetti un attimo." volse lo sguardo verso di me "È una telefonata di lavoro, torno subito." disse allontanandosi.

Sophia non sarebbe ripartita con me o, almeno, non subito. Aveva bisogno di recuperare un po' di normalità che in quel posto aveva quasi perso del tutto. Io, d'altro canto, sentivo la mancanza dell'esercito e dell'adrenalina.

Con il Sole che mi scaldava il viso, mi incantai ad osservare la figura di Sophia: era bella da far invidia ad una di quelle dee dell'antica Grecia.

E mi fermai a riflettere: cosa sarebbe successo se non l'avessi conosciuta? Cosa sarebbe successo se avessi scelto di affrontare un'altra vita? Cosa sarebbe successo se la sua presenza non fosse diventata una costanza della mia esistenza? Cosa sarebbe successo se..

I miei pensieri vennero interrotti dal suo ritorno alla panchina. Aveva un'aria compiaciuta.

"Cosa ti hanno detto?" le chiesi.

"Mi hanno proposto un internato a NY per completare la mia specializzazione.. Sai.. ho perso un po' di tempo andando in Afghanistan."

"Già." dissi con una vena di colpa.

"Ehi.. tu non c'entri nulla. Ho scelto io di andare a Kabul."

"Per riconquistarmi."

"E non me ne pento." disse guardandomi negli occhi.

Sorrisi.

"Parlami di quest'ospedale." dissi.

"Allora, ha uno dei programmi migliori degli USA per quanto riguarda la neurochirurgia…"

Restammo lì, su quella panchina di Providence, a parlare per ore, sperando che il tempo non passasse mai, che il Sole non tramontasse e non facesse scendere la notte su di noi e sulla nostra unione.

Ma il Sole deve compiere il suo percorso e deve tramontare per lasciar posto alla Luna, così quei giorni passarono in fretta ed io mi ritrovai, senza che me ne rendessi troppo conto, in aeroporto nel pieno dei saluti con le persone a me care.

Presi da parte Sophia: avevo bisogno di un ultimo, isolato contatto con lei.

"Questa volta sarà diverso." le promisi.

"Nessuna Francesca?"

"Nessuna."

"Mi mancherai." disse abbracciandomi.

"Ti amo."

"Anche io ti amo."

E ci baciammo dimenticandoci di quello che avveniva intorno a noi: nessuna partenza, nessun aereo, nessun "addio", nessuna guerra, solo Leonardo e Sophia, solo due anime unite da un purissimo gesto come quello di un bacio.

Salutai anche gli altri e salii a bordo dell'aereo con Sean e Ben.

Il viaggio fu abbastanza piacevole: imparai nuove cose su Sean e mi affezionai sempre di più a lui.

Un ragazzo di 35 anni nato e cresciuto nell'esercito. Il suo orientamento sessuale non gli aveva causato alcun problema o esitazione, anche se gli dispiaceva che il Generale Gallagher cercasse, in qualche modo, di "evitare il problema", non parlavano molto, Sean aveva sempre risposto sul campo.

Arrivati alla base di Kabul, respirai l'arida aria di quella terra e, in qualche modo, mi sentii a casa.

"Mi hanno detto che un certo Locket è diventato ufficialmente Sergente!" disse una voce alle mie spalle. Mi voltai e vidi la figura di Stephan.

"Così sembra." risposi andandogli incontro.

"Come stai?" mi chiese.

"Bene! E voi? Ho sentito che alcuni medici sono stati feriti."

"Già.. due erano dell'esercito francese, sono stati rispediti a casa. L'altra era Frankie."

"Come sta?" chiesi preoccupato.

"Bene, ma è ancora sotto osservazione all'ospedale di Kabul, spero che ritorni in fretta. Il lavoro per me è raddoppiato e.."

Si fermò all'istante.

"Stephan.." dissi "tutto bene?"

"Sì, scusa. Stavo solo guardando una cosa."

Mi voltai e vidi Sean che parlava con Kevin Price.

"Qualcosa.. o qualcuno." dissi.

"Chi è?" chiese Stephan.

"Sean Gallagher, il figlio del Generale."

"Capisco."

"Conosco quello sguardo, Stephan. Lo avevo stampato in faccia quando vidi per la prima volta Sophia."

"Bhe.. è oggettivamente un bel ragazzo.." ma prima che potesse finire la frase, la radio gracchiò.

"Charter! Charter! Rispondi!" disse una voce femminile.

"Qui Charter. Cosa abbiamo?"

"Preparati! Non ho tempo per dirti altro."

In lontananza vedemmo un autocarro che si avvicinava alla base ad alta velocità. Quando si fermò di fronte alla tenda/ospedale, scesero due ragazzi che portavano una barella, l'uomo al di sopra di essa aveva un pezzo di addome mozzato ed era ricoperto di sangue.

"Sarà una lunga giornata." commentò Stephan "ben tornato all'inferno!"

Vidi altri del commilitone che si avvicinavano di corsa al mio amico medico.

"Seve una mano?" intervenne Sean.

"In effetti sì. Sono solo e ho bisogno di qualcuno che blocchi l'emorragia con le mani mentre vado a prendere le garze e il resto."

"Ci pensiamo noi. Ben, Leo, datemi una mano. Carter, Oliver, aiutate il dottore."

Tutti si attivarono per aiutare Stephan nella folle impresa di salvare quell'uomo.

La perdita di sangue fu fermata, ma Jonhatan Leez, così si chiamava, era ancora a rischio di vita. Decisero di portarlo nella capitale per tentare un ultimo assalto per la sua vita.

Mentre Ben, Sean, Stephan ed io eravamo intenti a ripulirci da tutto quel sangue, Sean tese la mano verso il medico e disse: "Sono il Capitano Sean Gallagher, comunque."

"Piacere, Stephan Charter."

"Leo mi ha parlato di te. Sembri un tipo in gamba."

"Grazie." disse Stephan che nel frattempo era arrossito vistosamente.

Sean tese la mano verso di lui e gliela strinse. "È un piacere aver fatto la tua conoscenza. Leo, puoi venire con me, per favore?"

"Certo." risposi, diedi una pacca sulla spalla di Stephan ed uscii dalla tenda/ospedale insieme al mio amico.

"Allora.." disse Sean "raccontami tutto di questo tuo amico Stephan. Insomma, sembra proprio un tipo interessante."

"Ha 32 anni ed è gay. Credo che volessi sapere principalmente questo." dissi sorridendo.

"In effetti sì." rispose.

Andammo a letto presto quella sera, nessuno dei ragazzi aveva voglia di parlare o fare altro, eravamo tutti stanchissimi.

Passarono circa 6 mesi dal mio ritorno al fronte, era il 18 settembre quando alla base fece il suo ritorno Francesca.

Quella mattina mi svegliai prima degli altri, come se avessi una specie di presentimento.

"Tutto bene?" disse una voce alle mie spalle, Ben.

"Sì.. solo che sento qualcosa nell'aria."

"È per il ritorno di Francesca?"

"Non credo. Ho superato quella fase e non cerco altre donne nella mia vita oltre Sophia."

"Bravo soldato! Andiamo a fare colazione!"

Ci dirigemmo verso la tenda/mensa quando venimmo attirati da degli strani rumori che provenivano proprio dalla tenda/ospedale.

"Ma che diavolo succede?!" esclamò Ben.

"Andiamo a controllare." dissi.

Ci avvicinammo ed entrammo di soppiatto nell' "edificio". 

La scena che si prospettò davanti ai nostri occhi era di quanto più lontano ci fosse dalla nostra fantasia.

"Oh, cazzo!" disse Ben.

"Credo che questa espressione sia assolutamente appropriata.." mormorai.

Sean e Stephan erano all'impresa in una fantastica contorsione d'amore su uno dei lettini che, di solito, venivano usati per far riposare i pazienti. Evidentemente, il mio amico dottore, conosceva qualche trucchetto a me oscuro.

Non si accorsero di noi, presi com'erano dalla loro situazione.

Così, in un tacito accordo, io e Ben uscimmo dalla tenda e ci ritrovammo di fronte Kevin Price che, nell'arco di quei mesi, era stato promosso anche lui al ruolo di Sergente.

"Leonardo, Benjamin." ci salutò "Potreste spostarvi? Dovrei chiedere al dottor Charter di controllarmi questa ferita." disse indicando un brutto taglio sul suo braccio destro che si stava cicatrizzando.

"Ehm.. Sergente." disse Ben "non credo che questo sia il momento più appropriato."

"E come mai, se posso sapere?"

Sentimmo un gemito provenire dalla tenda.

"Credo che il dottor Charter in questo momento sia alquanto impegnato." disse trattenendo una risata.

"Non voglio sapere chi c'è con lui in questo momento, ma ditegli che è un tantino al di fuori del protocollo avere certi atteggiamenti in un luogo pubblico."

Altro gemito.

"Credo che dovremmo andarcene da qui." intervenni.

"Concordo." concluse Ben.

Kevin, Ben ed io facemmo colazione insieme e sorvolammo sulle simpatiche avventure di Stephan, usciti di nuovo al caldo sole di settembre, la nostra attenzione venne attirata da una Jeep che si avvicinava alla nostra base.

"Frankie.." mormorai.

"Sì, dovrebbe essere proprio la dottoressa Joy di ritorno dalla riabilitazione." disse Kevin.

Ci dirigemmo verso la macchina per accoglierla.

Quando scese, quasi mi si mozzò il fiato: era più bella di quanto ricordassi. Ma deglutii i vecchi ricordi e sorrisi, quando mi venne incontro le dissi semplicemente: "Sono felice di rivederti."

Fu tutto molto strano, l'intera azione si svolse nel giro di pochi secondi, ma a me sembrò un'eternità. Non ero più abituato alla sua presenza, al suo profumo così diverso, ma altrettanto allettante, rispetto a quello di Sophia.

"Leonardo?" disse Frankie all'improvviso.

"Dimmi."

"Ti ho chiesto se vorresti farti una passeggiata con me.. per parlare un po'."

"Certo, perché no?" risposi.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19. ***


Quel giorno di settembre Frankie ed io parlammo per molto, moltissimo tempo.

Mi era mancata, a dire il vero, con lei riuscivo a parlare di tutto ciò che desideravo, riuscivo ad essere sincero e spensierato, riuscivo a star bene anche in mezzo alla morte e alla desolazione.

"Con Sophia tutto bene, quindi?" mi chiese.

"A quanto pare, sì. Ha perdonato una mia cazzata, non potrei fare nient'altro per ferirla."

"A me dispiace.." disse.

"Cosa?"

"Mi dispiace che noi due non abbiamo potuto avere una possibilità."

"Se me lo permetterai, potremmo essere comunque amici."

"Ci sto." disse sorridendo e abbracciandomi.

Accompagnai Francesca fino alla tenda/ospedale, all'esterno della quale c'era Stephan alle prese con un libro.

"Dottore." lo salutai.

"Leo, Francesca." rispose.

"Pensavo di trovarti con Sean." dissi nascondendo un sorriso malizioso, notai che anche Frankie sorrideva alla mia destra.

"Ehm.. è in riunione con Kevin Price e il Generale. Si prospetta una missione."

"Cavolo, non se sapevo nulla." commentai.

"Credo che sarai informato al più presto."

Proprio in quell'istante, il mio cerca-persone vibrò segnalando l'arrivo di un messaggio proprio da Sean: "Dirigiti nella parte nord della base, ti stiamo aspettando."

"Parli del diavolo.." dissi.

"Novità?" chiese Frankie.

"Dice che mi stanno aspettando. Devo andare, ci vediamo dopo." dissi salutando i miei amici.

Mi incamminai da solo verso il luogo indicatomi da Sean, al mio arrivo trovai il Capitano Gallagher, Kevin Price e il Generale Busher in compagnia di una donna dai capelli biondi raccolti in una coda alta e molto tirata.

"Leonardo! Eccoti." mi accolse Sean.

"Signori.." dissi.

"Volevamo presentarti il nostro nuovo 'acquisto' " disse il generale "Capitano Virginia McCampbell."

La bionda mi tese la mano: "Piacere." disse sorridendo.

"Ci sarà molto d'aiuto per la missione di domani." continuò Sean.

"Devi studiare questi documenti entro questa sera stessa." disse Kevin porgendomi una cartellina rossa.

"Mi raccomando, contiamo su di te." disse il Generale "E fa fare un giro al Capitano, le abbiamo raccontato un sacco di cose positive sul tuo conto."

"Certo" risposi "mi segua."

Mentre camminavamo, parlavamo delle nostre vite e di ciò che avevamo lasciato a casa, in America.

Il Capitano McCampbell aveva lasciato due figli di 5 e 8 anni in Texas, aveva soli 37 anni e aveva già visto cose che, probabilmente, nemmeno il Generale Gallagher aveva mai affrontato. 

"Domani sarà una missione rischiosa." disse alla fine della nostra passeggiata "Mi sembri un ragazzo in gamba, ma credo che il Generale abbia riposto troppa fiducia in te. Sii giudizioso, mi raccomando."

Mi lasciò con questa frase e si ritirò nella sua tenda.

Il resto del tempo lo passai a studiare i fogli che Price mi aveva dato.

La missione sarebbe stata abbastanza difficile: spie ci avevano informato che un gruppo di terroristi si erano stanziati all'interno di un collegio nella periferia orientale di Kabul, ma nessuno aveva il coraggio di farli smuovere, nonostante tentassero alla serenità e alla sicurezza dei bambini. Avremmo dovuto fare irruzione e costringerli ad abbandonare il covo, con le buone o con le cattive.

Andai a dormire con un mal di testa allucinante e mi svegliai la mattina dopo ancora più intontito.

"Leo, coraggio. È ora di andare!" disse Ben.

"Arrivo.."

"Tutto bene?" mi chiese.

"Ho.. ho solo un brutto presentimento."

"Bhe.. di certo non stiamo andando a fare un'allegra scampagnata." rispose sorridendo.

Ci preparammo e attendemmo il resto del gruppo all'uccisa sud della base, da lì avremmo impiegato circa 6 ore per raggiungere il punto stabilito.

Ci fermammo e allestimmo le tende per la notte, quella sera stessa mi incamminai in una passeggiata solitaria prima di alienarmi da ciò che mi circondava e concentrarmi solo sullo scontro imminente.

Intorno a me c'era il silenzio più assoluto, nessun rumore sfiorava le mie orecchie, se non il battito del mio cuore.

Iniziai a pensare alla mia vita: di lì a pochi mesi avrei compiuto 24 anni, ero cambiato tanto, l'esercito mi aveva cambiato. Era iniziato un nuovo capitolo della mia vita, se avesse avuto un nome, l'avrei chiamato "Il Combattente". Sì, perché quegli ultimi anni erano stati una costante battaglia: in amore, nella vita, in tutto. Una lotta dove solo il più forte poteva sopravvivere, una guerra senza esclusione di colpi, ma sembrava che io l'avessi avuta vinta. Avevo tutto ciò che desideravo, certo, in quel momento l'apice della felicità sarebbe stato avere Sophia al mio fianco. Si dice che la felicità sia fatta di piccole cose: è proprio vero. È un sorriso, una parola, un abbraccio, una presenza. Quando trovi la vera felicità vorresti solo afferrala, non fartela scappare, stringerla tra le tue mani e accoglierla senza freni. 

Io ho trovato la felicità nella maniera più inaspettata possibile, non l'avevo minimamente previsto, ma non posso viverla come vorrei, non posso averla. Capita a tante persone: a volte le cose più vicine a noi ci sembrano lontane anni luce e fa male perché possiamo solo assaggiarne il sapore, senza gustarle del tutto. E fa male perché l'unica cosa che possiamo fare è accontentarci di poter sfiorare con la punta delle dita l'unica cosa che ci renderebbe davvero felici. 

Nonostante fossi perso dai miei pensieri, sentii una presenza alle mie spalle, e mi voltai di scatto.

"Sean!" esclamai.

"Leo, cosa ci fai tutto solo al chiaro di Luna?" mi chiese.

"Mi stavo preparando mentalmente per domani."

"Sarà una giornata lunga. Abbiamo chiamato i rinforzi, domani, in mattinata, dovrebbe raggiungerci anche il Tenente Colonnello Travis con alcuni suoi uomini selezionati."

"Stiamo messi così male?"

"Più di quanto mio padre ed io credessimo."

Restammo per un po' in silenzio a scrutare l'orizzonte.

"Allora, dimmi: come va con Stephan?" chiesi.

"Ci stiamo vivendo il tutto senza troppi problemi, non abbiamo posto paletti, non abbiamo parlato della nostra relazione, sta succedendo tutto per caso, senza alcuna programmazione. E mi piace da morire tutto questo! È così naturale e sereno il nostro rapporto. Sto bene, Leonardo." disse sorridendo.

"Caro mio, credo che tu ti stia prendendo una bella cotta per il nostro dottore."

"Probabile. Mentre arrivavamo qui, Price mi ha fatto qualche domanda strana.."

"Ehm.. ecco, vi abbiamo sentiti l'altro giorno nella tenda/ospedale." confessai.

"E come facevate a sapere che ero proprio io con Stephan?"

"In realtà Ben ed io vi abbiamo visti direttamente, riguardo Price, sai che le notizie corrono in fretta in un ambiente ristretto."

"Già." commentò "a proposito di Ben, credo che a breve otterrà una promozione. È un bravo ragazzo e se la merita appieno."

"Sono assolutamente d'accordo." dissi.

"Bene, credo che sia ora di andare a dormire, per entrambi. Sogni d'oro, fratello." disse dandomi una pacca sulla spalla.

Confrontarmi con Sean, parlare con lui, rendeva le mie giornate migliori, avevo riposto piena fiducia in lui ed ero stato sempre ricambiato con un affetto sincero e per nulla forzato. Decisi di seguire il suo consiglio e andai a dormire.

La mattina dopo fui svegliato da Stephan.

"Devo parlarti." mi disse.

"Certo, fammi vestire e sono da te."

"Ti aspetto nei pressi dell'ambulanza."

Dopo circa 15 minuti arrivai nel punto prestabilito dove c'era Stephan ad aspettarmi.

"Stephan, sei nervoso?" dissi notando che camminava avanti e indietro muovendo un sacco di sabbia.

"Un po'. Voglio che tu mi prometta una cosa."

"Dimmi."

"Cerca di tenere al sicuro Sean. Non dico di fare da scudo umano se dovesse essere trivellato di colpi, però.. ecco.. tienilo d'occhio.. non potrei sopportare un'altra perdita del genere." disse con gli occhi lucidi.

"Ti ricordo che Sean è un soldato molto più preparato di me, però cercherò di non fargli fare alcuna stronzata, te lo prometto."

"Grazie." disse abbracciandomi.

Ci mettemmo in marcia, eravamo stati raggiunti anche da Travis ed i suoi uomini.

Appostati a circa 600 mt dalla scuola, notammo che la situazione era davvero tragica: i bambini erano terrorizzati, le maestre erano immobili e i terroristi si aggiravano su quel suolo con le armi pronte a sparare e ad uccidere.

Il sangue mi ribolliva nelle vene.

"Capitano" dissi in direzione di Sean "cosa facciamo?"

"Per ora aspettiamo, non conosciamo il nemico, non sappiamo come potrebbero reagire." rispose.

"Io non sono fatto per l'attesa." dissi.

"Non vi manderò a morire, Sergente. Fidati di me."

Mi fidai e lasciai che il tempo trascorse senza sfiorarci minimamente: eravamo immobili, con i nervi a fior di pelle in attesa di un qualcosa.

Ma cosa?

Nessuno lo sapeva.

In quel preciso istante, un riflesso mi abbagliò la vista e sentii uno sparo.

Il proiettile aveva perfettamente centrato il suo bersaglio.

Tutti noi ci apprestammo a vedere chi fosse la vittima di quella dichiarazione di guerra nemica.

La vista di quel corpo mi gelò il sangue nelle vene.

Ben.

"Che il gioco abbia inizio." disse Sean mentre Price ordinava ai dottori di soccorrere il nostro caduto.

Il gioco aveva avuto inizio, ma io ero in tribuna, ero un mero osservatore, tutto intorno a me ruotava e avveniva senza un senso.

"Leonardo Locket!" mi sentii chiamare, mi voltai e notai che a pronunciare il mio nome era stato il Capitano McCampbell.

"Tira fuori gli attributi." disse.

Mi svegliai dal torpore ed iniziai a giocare anche io.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20. ***


Non so per quanto tempo andò avanti il combattimento: minuti che non scorrevano mai. Il caldo e il Sole accecante erano i nostri peggiori nemici, i nostri avversari effettivi erano abituati a quel clima.

In un secondo di pace, quando tutto intorno a me era avvolto nel silenzio, decisi di addentrarmi da solo all'interno dell'edificio. Era rischioso, era imprudente, era da folli. Ma volevo smuovere la situazione.

Mi passai la mano sulla guancia e notai che sanguinavo, qualcosa mi aveva ferito e il sangue scorreva ancora, sperai con tutto il cuore che la ferita non si infettasse.

Entrai all'interno della scuola, sentivo solo il rumore dei miei passi sul marmo e il martellante suono del mio cuore che sembrava voler uscire dal mio petto.

Avevo i nervi a fior di pelle.

Sentii un rumore. Mi voltai, ma non vidi nulla. Continuai a camminare quando una mano dalla presa forte, sbucata dal nulla, mi afferrò il braccio e mi trascinò in una stanza posta sulla mia sinistra. Qualcosa mi colpì forte sulla tempia e poi nulla.

Mi svegliai dopo un po', misi a fuoco quello che c'era attorno a me e notai che tre figure mi fissavano mentre parlottavano tra di loro. Due ragazzi e una ragazza, sicuramente tra i 18 e i 20 anni dalla carnagione scusa e dall'aria piuttosto spaventata.

Deglutii, avevo la gola secca.

"D-dove mi trovo?" provai a chiedere.

"Sei ancora nella scuola." disse il ragazzo.

"Ci dispiace per le maniere brusche, pensavamo rappresentassi una minaccia." intervenne la ragazza.

"Non abbiamo ancora appurato se è o meno una minaccia." rispose un ragazzo.

Cercai di muovermi, ma notai che ero legato ad una sedia.

"Potete spiegarmi cosa sta succedendo?" chiesi, un po' impaziente.

"Calmo, soldato! Qui quelli arrabbiati dovremmo essere noi! Hai un'idea di quello che avete fatto?! Se non ucciderete tutti i terroristi, per noi sarà la fine! Penseranno che siamo immischiati con voi, per noi sarà l'inferno." disse il ragazzo.

"Noi volevamo solo aiutarvi, pensavamo di poter essere d'aiuto." dissi.

"Voi americani e la vostra supposizione di essere Dio." commentò la ragazza.

"Se mi liberaste, potremmo parlare civilmente." risposi.

"La bocca puoi usarla anche da legato." disse il ragazzo alla mia destra.

"Con questo tono non risolveremo niente. Allora, soldato, come ti chiami?" mi chiese la ragazza.

"Leonardo Locket. Posso avere l'onore di sapere, almeno, i vostri nomi?"

"Io sono Farida, il più alto si chiama Akram e il piccoletto Imad."

"Scusate se non vi tendo la mano, ma sono un tantino impossibilitato." dissi.

Un sorriso spuntò sulle labbra di Farida.

"Che dite? Lo liberiamo?" disse.

"Per me va bene." rispose Imad.

"A vostro rischio." commentò Akram.

Mi liberarono e mi diedero da bere dell'acqua.

"Allora, per quanto tempo vorreste tenermi qui?" chiesi.

"Per poco, Leonardo. Anzi, sarai l'artefice del nostro piano." disse Farida con un sorriso indecifrabile.

"Spiegati meglio."

"Questa situazione ci sta stretta." cominciò a spiegare Imad "Dovete aiutarci. In fondo la vostra missione è questa, no? Fate il vostro dovere!"

"Una volta uscito da questa sala, dovrai dirigerti nel cuore del covo dei terroristi, da quello che abbiamo visto ne rimangono in vita solo altri due. Dovrai farli fuori, Leonardo. Ti aiuteremo a trovare il covo, ma, una volta lì, dovrai cavartela da solo. Ci stai?" disse Farida guardandomi negli occhi.

Notai un luccichio nelle sue iridi color marrone scuro, forse fu proprio quel bagliore a farmi prendere la decisione giusta.

"Vi aiuterò. Datemi tutte le indicazioni necessarie."

Restammo lì, in quell'aula abbandonata, per un'oretta circa. I tre mi istruirono riguardo la struttura dell'edificio: il covo si trovava all'estremità opposta, oltre il cortile centrale dove giocavano i bambini.

"Sei pronto per tutto questo?" mi chiese Akram.

"Certo." risposi.

"Le nostre strade si dividono qui. Ti saremo grati per sempre. Spero di rivederci quando quest'inferno sarà finito." disse Farida stringendomi la mano.

"Farò il possibile."

Mi incamminai da solo in quei corridoi semi bui. 

Quando sentii un colpo di tosse, mi voltai di scatto.

"Sean! Cazzo, mi hai fatto prendere un colpo! Sei ferito?" chiesi.

"Sto bene, ho preso solo una brutta botta alla caviglia. Tu, piuttosto, hai un taglio orrendo in faccia. Dove stai andando?"

"Nel covo dei terroristi." dissi con freddezza.

"Tu sei pazzo! Un pazzo da manicomio!"

"Non urlare o ci farai scoprire entrambi."

"Non sei nessuno per darmi ordini. Ti obbligo alla ritirata, Leonardo."

"Non puoi costringermi."

"Posso, eccome!" disse indicando i suoi gradi di Capitano.

"Sean, ascoltami.. Non possiamo lasciare a metà il lavoro. Pensa a quanto abbiamo rischiato fino ad ora. Ho incontrato tre arabi, mi hanno dato delle informazioni, mi hanno implorato di aiutarli."

"Non hai pensato che potesse essere una trappola?"

"Sono stato quasi tutto il tempo legato, avrebbero potuto fare di me quello che volevano."

Mi fissò per un attimo.

"Sean.." implorai.

"Ok, mi hai convinto! Spera solo che vada tutto bene."

Arrivammo alla porta del covo senza altre interruzioni.

"Cosa facciamo, ora?" chiesi sussurrando.

"Entriamo, un'occhiata veloce e spariamo. Al mio tre: uno.. due.. tre!"

Diedi un calcio al centro della porta, la quale si spalancò senza problemi.

Vidi due terroristi intenti nel ricaricare le armi.

Né Sean né io perdemmo tempo: li uccidemmo a mente fredda.

Una volta al sicuro, esplorammo il covo. Portammo all'esterno tutto ciò che era pericoloso. La scarica di adrenalina stava per esaurirsi, così cademmo entrambi stremati al suolo, al centro del cortile con attorno delle casse di puro esplosivo.

"Sergente, Capitano!" furono le ultime due parole che sentii prima di crollare, svenuto.

Al mio risveglio, probabilmente un paio di giorni dopo gli avvenimenti della scuola, mi svegliai alla base: avevo un braccio contuso e fasciato e un enorme cerotto sulla guancia sinistra. Mi guardai attorno: la tenda/ospedale era vuota.

La mia mente fu assalita da vari pensieri: Ben, Farida, la scuola.

Uscii di corsa e trovai Frankie che parlava con Kevin.

"Leonardo, ti sei svegliato." disse Frankie sorridendo.

"Dov'è Ben?"

"A Kabul." rispose Kevin "Non sappiamo se sarà in grado di continuare o se dovrà tornare a casa."

"Tu stai bene?" mi chiese Frankie.

"Sì. Un'altra cosa: quando ero lì, sono stato aiutato da tre giovani arabi tra i 18 e i 20 anni, li avete visti?" chiesi.

"Quando siamo arrivati" disse Frankie "c'erano solo bambini. E voi eravate privi di sensi sdraiati nel cortile."

"Capisco."

"Non ti crucciare troppo per loro, Leo. Staranno al sicuro, vedrai. Tu e Sean avete salvato la situazione." disse Kevin.

"Ti va di fare una passeggiata?" mi propose Frankie improvvisamente.

"Certo."

Camminammo per qualche minuto senza parlare, ascoltando solo il rumore del vento.

"Ieri è arrivata una lettera per te." disse mettendo una mano in tasta. "È abbastanza voluminosa." commentò.

Me la porse.

"Grazie." dissi.

"Va a leggerla, credo sia di Sophia."

Seguii il suo consiglio e mi ritirai nella mia tenda. Da quando ero diventato Sergente, avevo a disposizione una postazione solo per me.

Aprii la lettera e fui inondato dal profumo di Sophia.

Ho sempre pensato che il cervello umano fosse un qualcosa di misterioso. È proprio vero: riesce a registrare qualsiasi cosa senza che noi possiamo rendercene conto. Sensazioni, pensieri.. tutto viene archiviato e tirato fuori nei momenti meno opportuni. Persino un odore, sì.. un semplice profumo può riportare alla mente ricordi ed emozioni. 

Quel profumo non lo dimenticherò mai, è come se si fosse creato uno spazio tutto suo nella mia mente, e sta lì, anche ora, in attesa che il mio olfatto lo percepisca nell'aria, portato dal vento, per esplodere nel mio cuore come una bomba ad orologeria.. per poi svanire subito, sempre nel vento, così com'era arrivato lasciando solo una scia di dolci ricordi che non posso far altro che assaporare.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21. ***


" Caro Leonardo, ti scrivo questa lettera per raccontarti della mia vita da specializzando di neurochirurgia.

Qui è dura: vedo così tante situazioni dolorose che, a volte, vorrei scappare via. Ma resisto, resisto perché queste persone contano sul nostro lavoro, queste persone ripongono la loro intera vita nelle nostre mani.

Vorrei raccontarti un aneddoto di uno dei primi giorni.

Ero totalmente eccitata dall'avere un primo vero caso tra le mani: una signora, di 40 anni circa, era caduta dalle scale. Tutti pensavano che fosse inciampata, ma qualcosa non mi tornava. Ne ho parlato subito con il primario del mio reparto: Dylan Light, una donna terribile, capelli neri ed occhi di ghiaccio.

Le ho manifestato le mie perplessità, ma non mi ha dato affatto ascolto.

La signora è stata dimessa, ma dopo soli tre giorni è tornata in ospedale al seguito di un'altra caduta.

'Forse dovrei ascoltare quello che hai da dirmi.' affermò con uno sguardo inespressivo la dottoressa Light.

Ero felice di poterla aiutare, di essere d'aiuto. Sebbene sia una stronza totale, è un genio della materia, una maga dei bisturi.

Abbiamo fatto alcune analisi, ma niente, i sintomi non sembravano portare a nulla. Eravamo ferme in un vicolo cieco.

La dottoressa Light ha così deciso di estendere il campo ad altri specializzandi, esattamente ad altri tre miei compagni di corso, il caso ha voluto che fossero proprio i miei coinquilini: Efron Toy, Claudia Mitchel e Valerie Williams.

Tutti dei ragazzi davvero in gamba, interessati rispettivamente in chirurgia plastica, chirurgia cardio-toracica e chirurgia neonatale.

Ma nemmeno con il loro aiuto siamo riusciti a trovare una soluzione, il caso è andato avanti per giorni.

Sono stata chiusa in biblioteca per ore, a volte da sola, a volte in compagnia.

Spesso Efron mi portava il pranzo e mangiavamo insieme tra i vari scaffali.

Alla fine, però, proprio durante uno di quei pasti immersi tra i libri, ci è venuto un colpo di genio. Non sto qui a scriverti le cose tecniche: ti annoierei solamente.

Non ho mai corso così tanto in vita mia, Efron ed io ci siamo precipitati alla ricerca della dottoressa Light.

'Abbiamo la soluzione!' ha esclamato Efron, attirando l'attenzione di tutto l'ospedale. La nostra supposizione si è rivelata assolutamente esatta.

Abbiamo operato, Leo. Otto ore piene di camera operatoria! L'intervento è riuscito con estremo successo, siamo stati grandi, la sera abbiamo festeggiato, avevamo un brindisi da fare per ogni motivo, anche il più futile. 

Efron ed io formiamo davvero una bella squadra. Sono contenta di averlo come spalla, ognuno ha bisogno di uno che sia capace di sorreggerti, lui ne è capace.

Ora devo concludere, ho un turno di notte da fare. Ti ho scritto questa lettera perché, sai, non ho dimenticato di quanto ti piaccia riceverne una.

Ci sentiamo su Skype al più presto.

Ti amo,

Sophia."

Per la prima volta nella mia vita provai la morsa inarrestabile della gelosia. 

Efron Toy.

Questo nome stava minando alla mia serenità: solo in quel momento riuscii a capire fino in fondo quanto avesse sofferto Sophia.

Poi mi fermai a pensare: la mia gelosia era del tutto infantile e, soprattutto, infondata. Non avevo motivi per non fidarmi.

Per non farmi corrodere troppo dai pensieri, decisi di andare a fare una passeggiata.. da solo.

Mi allontanai fino ai confini della Base.

Nessuno aveva mai superato quel confine se non per andare in missione.

Diedi una rapida occhiata in giro: nessun occhio indiscreto.

Così voltai le spalle all'accampamento e mi incamminai in quella piccola avventura.

Camminai per un po', ormai era arrivato anche il tramonto, quando notai una piccola oasi ad un centinaio di metri da me. Mi diressi in quella direzione, più mi avvicinavo, più notavo che all'ombra delle palme vi erano alcuni beduini. Mi avvicinai con cautela, volevo presentarmi al meglio, non sapevo minimamente come avrebbero potuto reagire.

Ma più mettevo a fuoco quelle tre figure, più mi sembravano familiari.

"Farida.." sussurrai a pochi metri da loro.

Il vento raccolse le mie parole e le portò alle loro orecchie, i tre si girarono di scatto.

Erano proprio Farida, Akram e Imad.

"Leonardo" disse Farida "non pensavo di rivederti così presto."

"Cosa ci fai qui?" disse Imad con un tono nervoso che mi insospettì, e non poco.

"Sono venuto in pace. Mi andava di fare una passeggiata. Voi, piuttosto.. siete molto vicini al nostro accampamento. È solo una coincidenza, giusto?" chiesi.

"Ma certo, Americano." disse Akram.

"Ci reputi tanto stupidi dal voler affrontare un esercito armato di tutto punto in tre?! No, caro. In realtà stavamo cercando proprio te. E tu, come se lo sapessi, sei venuto da noi." disse Farida, il suo tono fece aumentare la mia ansia, tanto che portai una mano in vicinanza della pistola che avevo alla mia destra.

"Niente armi, soldato. Non vogliamo farti del male." intervenne Imad.

"Ci servi di nuovo, Leonardo Locket. Forse di chiediamo troppo, ma ti sarai reso conto da solo che questo è un vero e proprio inferno." disse Farida.

"Ho passato 5 anni e 6 mesi qui." risposi secco "Conosco la difficoltà del vivere in mezzo alla guerra."

"Conosci solo una faccia della medaglia. Non ti chiediamo di fidarti a scatola chiusa. Domani vieni con noi al nostro villaggio, ti faremo vedere l'orrore contro il quale dovrai combattere, ti faremo vedere dal vivo quel mostro oscuro che ci assilla da decenni." intervenne Imad.

"So per cosa combatto." dissi.

"No, non lo sai." disse Farida dolcemente. 

"Fidati di noi ancora una volta, la prima ti è andata bene." disse Akram.

"Non mi reputo una persona fortunata." risposi.

"Va bene" disse, quasi rassegnata Farida, "non ti cercheremo più, se è questo che vuoi. Continua a fare la marionetta, non oltrepassare mai più quel confine del campo, non avere iniziative."

Si girò di scatto ed iniziò a raccogliere la sua roba, e quella dei due compagni di viaggio, da terra.

"Aspetta, non ho detto che non vi aiuterò." dissi quasi senza rendermene conto.

A volte il nostro cervello prende l'iniziativa, reagisce agli stimoli senza preavviso, senza essersi confrontato con nessun altro.

"Ci vediamo domani, stesso posto, al crepuscolo." concluse Farida.

"Non mi dici nient'altro?" chiesi.

"Per ora basta questo."

I tre salirono in groppa ai loro cammelli e mi lasciarono sotto quella palma da solo, di nuovo solo, con l'unica compagnia dei miei pensieri.

Tornai subito all'accampamento per riordinare le idee. La sera a cena ero molto taciturno, non avevo molto voglia di parlare. Avrei voluto confrontarmi con Ben, ma lui era a chilometri di distanza.

"Se vuoi, puoi parlare con me." disse Frankie.

"Cosa?!" dissi ritornando alla realtà.

"Hai lo sguardo perso nel vuoto, Leo. Riguarda la lettera di Sophia? Sei sparito per tutto il pomeriggio."

"Non è per Sophia."

"Sai che puoi dirmi tutto. Oggi sei distante, in un altro mondo."

"Grazie per la preoccupazione, ma sto bene. Davvero."

Si alzò, mi accarezzò la testa e disse: "Volevo solo ricordarti che io ci sono."

Quel tocco leggero mi tranquillizzò e non poco, era un gesto così spontaneo che diede temporaneamente pace alle mie turbe mentali.

Mi ritirai in tenda senza affrontare alcuna discussione con nessun altro.

Accesi il computer ed avviai Skype.

Persone in linea: 

Ricky.

Sophia.

Rose.

Così recitava il monitor del computer.

Contattai Sophia.

Rispose dopo un paio di squilli.

"Leo!" disse con voce allegra.

"Ti ho disturbata?" chiesi, sicuramente non con altrettanta enfasi.

"No, sono tornata da poco a casa. Ho fatto il turno di notte."

"Capisco.."

"Tu vuoi raccontarmi qualcosa?"

"Sì.. però.. che ne dici di mettere la web? Ne ho bisogno."

"Certo."

Aspettai qualche secondo prima di poter ammirare l'immagine di Sophia attraverso quel marchingegno tecnologico.

L'effetto che quella persona aveva su di me, ogni singola volta, era qualcosa di incredibile. Una di quelle tante cose alle quali non si può dare una spiegazione razionale, logica. Sensazioni, emozioni, si parla di questo. Non è niente di catalogabile, non si può analizzare, non si può controllare. Mi bastava guardare il profilo della sua figura per entrare in pace col mondo circostante. Non ho mai provato niente di simile, non lo proverò mai ad un livello tale per un altro individuo. È amore, amore vero. 

"Sembri stanco." mi disse.

"Un po'.."

"Racconta, dai."

"Ho incontrato tre arabi. Mi hanno aiutato nell'ultima missione. Oggi sono andato a fare un giro all'esterno della Base, li ho rivisti e mi hanno offerto di seguirli nel loro villaggio. Vogliono rendermi partecipe di una cosa."

"Di cosa si tratta?" mi chiese con un tono leggermente allarmato.

"Non ne ho idea. Me ne parleranno domani al villaggio."

"Lo hai detto a qualcuno? A Sean? Al Generale?"

"Nessuno di loro mi darebbe l'approvazione per fare tutto questo."

"Io ti ammiro, Leo. Non stai fermo al tuo posto, ti dai da fare. Vuoi davvero cambiare le cose. Ma parlane con qualcuno.. è comunque una situazione rischiosa."

"Domani proverò a parlarne con Sean, lui è l'unica mia ancora di salvezza in questo posto dato che non si sa tra quanto tempo ritornerà Ben."

"Bhe.." commentò "c'è sempre quella Francesca."

"Grazie per avermelo ricordato. Credo proprio che questa notte andrò a trovarla." risposi con un tono scherzoso.

"Io convivo con un baldo giovanotto, ricorda anche questo." rispose.

Efron. Certo, come avrei potuto dimenticarlo?! Quel mostro nero, la gelosia, ritornò a galla. Si era placata solo per l'adrenalina di una nuova, pericolosa missione in vista.

"Da come ne parli sembra un tipo interessante." dissi cercando di mantenere un tono neutro.

"Non essere geloso. Amo solo te, lo sai."

In quel momento capii che l'unica cosa di cui avevo bisogno, dopo le emozioni della giornata, era sentire quelle parole pronunciate da Sophia.

"Amo te." due parole che, forse, al giorno d'oggi vengono dette troppo presto, troppo spesso.

Seppur provassi fin da subito delle forti emozioni per Sophia, ho aspettato prima di dichiarare il mio amore, e sono contento di averlo fatto, di non aver sciupato e sprecato le parole più belle di questo mondo.

"Anche io ti amo." risposi.

"Ora devo andare, Leo. Sta attento."

"Non preoccuparti."

Chiusi la conversazione ed andai a dormire.

Sognai Sophia, sognai di avere dei figli con lei e di vivere una vita lontana dall'orrore della guerra e della distanza.

La mattina dopo, mi svegliai di buon'ora.

La voglia di poter aiutare delle persone aveva preso il sopravvento su qualsiasi paura.

Al crepuscolo mi diressi verso la recinzione.

"Dove stai andando?"

Mi bloccai un attimo prima di voltarmi.

Quando mi girai, vidi che a fermarmi era stato Sean.

"A farmi un giro." mentii spudoratamente.

"Non essere idiota, non c'è bisogno di uscire da solo, armato solo di una misera pistola. Il giro puoi fartelo anche all'interno. Vieni con me."

"Non posso."

"Non puoi?"

"No." dissi con, forse troppa, arroganza.

"Non usare questo tono con me, Sergente." disse Sean.

"Scusi, Capitano. Ma devo uscire dall'accampamento."

"Dimmi cosa sta succedendo."

"Devo incontrarmi con quei tre arabi che mi hanno aiutato a trovare il covo dei terroristi nella scuola."

"Perché?"

"Hanno bisogno di aiuto. Ti prego, Sean, non tentare di fermarmi. Non vorrei essere maleducato."

"Se non torni entro domani sera, partiranno le ricerche. Ti avverto, Sergente Locket. Poi dovrai spiegarmi tante cose."

Mi avvicinai a Sean e lo abbracciai.

"Grazie Capitano Gallagher." dissi.

"Ora va, non farti scoprire da altri. Non tutti sono clementi come me."

Voltai le spalle al mio amico e mi diressi verso il posto indicato il giorno prima da Farida.

Trovai solo lei ad aspettarmi.

"Eccoti." disse.

"Dove sono Akram e Imad?" chiesi.

"Sempre questo tono sospettoso. Sono al villaggio, comunque."

Mi squadrò da capo a piedi.

"Credo che dovresti modificare il tuo abbigliamento." disse.

"Non mi hai detto di portare altri vestiti." risposi.

Sorrise e tirò fuori dalla borsa un perfetto travestimento da talebano.

"Puoi cambiarti qui, io mi volterò. Non aver timore del cammello." disse scoppiando a ridere.

Mi cambiai nel bel mezzo del deserto.

L'abito era nero, con tanto di copricapo.

"Hai degli occhi bellissimi." disse Farida avvicinandosi a me sistemandomi il turbante in testa e il velo che copriva la mia bocca.

Io mantenni il contatto con i suoi.

"Me lo dicono spesso." risposi sorridendo.

Sorrise anche lei, poi, prendendomi per mano, mi aiutò a salire sul cammello, la nave del deserto che mi avrebbe condotto nel mondo della mia compagna di avventura, Farida.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22. ***


Il piccolo villaggio, devastato dalle bombe e dall'uomo, si chiamava Maltair, un nome che gli era stato dato da coloro che si erano messi subito in moto per riabilitarlo, non ho mai conosciuto il nome vero.

"Benvenuto all'inferno." disse Farida, forse notando il mio sguardo sconcertato.

La desolazione faceva da padrone, l'unico segno di una qualche vita erano i bambini che giocavano a rincorrersi, i grandi avevano gli occhi ricolmi d'odio e di lacrime.

Farida mi condusse all'interno di una tenda, dove trovai Imad e.. Salim, il ragazzino che consolai quando la sua scuola venne distrutta.

"Leo? Ricordo bene?" mi chiese Salim.

"Ricordi bene." dissi sorridendo.

"Sei venuto per aiutarci, vero?"

"Te l'avevo promesso."

Salim mi corse incontro e mi abbracciò.

"Avete finito con i convenevoli?" ci interruppe Imad "Salim, esci fuori. Noi grandi dobbiamo parlare."

"Non siete molto più grandi di me. Voglio restare."

"Tra qualche anno sarai davvero grande." gli disse Farida dolcemente.

Il ragazzino uscì dalla tenda e ci lasciò soli.

"Posso farvi una domanda?" chiesi.

"Ne hai appena fatta una." disse sorridendo Farida.

"Un'altra.. intendo."

"Certo."

"Quanti anni avete?"

"Io 18, Imad 21." rispose la ragazza.

"E tu?" chiese Imad.

"23. Non siete un po' troppo giovani per caricarvi di tante responsabilità?"

"Il più anziano tra di noi, attualmente, è Akram. Ha 29 anni. Il resto degli adulti è stato fatto fuori l'anno scorso in un attacco a fuoco. Abbiamo ricostruito tutto al meglio delle nostre possibilità in 9 mesi." disse Farida.

"Non lo sapevo, mi dispiace." risposi abbassando lo sguardo.

"Ma è storia vecchia. Ora dobbiamo pensare al presente e al futuro. Leo, quello che stiamo per chiederti non è per niente facile e saremo comprensivi se tu dovessi rifiutarti."

"Qual è il piano?"

"Dovresti convincere il tuo Generale ad aiutarci in un assalto a fuoco aperto con alcuni talebani che minano ai nostri bambini, a tutto ciò che rimane delle nostre vite." disse Imad.

"Spiegatevi meglio."

"Qualche settimana fa" iniziò a raccontare Farida "al villaggio sono arrivati sette talebani armati di tutto punto e hanno preso con loro i più giovani per addestrali a combattere e a diventare kamikaze.. per combattere questa stupida guerra contro gli Americani. Abbiamo fatto delle ricerche: quegli uomini fanno parte di un'associazione più grande che ha intenzione di attaccare direttamente gli Stati Uniti."

L'importanza della notizia mi sconvolse, ma non ebbi tempo di controbattere che nella tenda entrò una bambina.

"Farida.." disse con dei tristi occhi grigi.

"Sherazade, sai che non devi entrare quando ci sono le riunioni." rispose la ragazza al mio fianco.

"Pensavo fossi andata via, come l'ultima volta."

"Sono qui, vedi. Scusate un attimo, la tranquillizzo.. torno subito."

Farida uscì dalla tenda prendendo per mano la bambina.

"Sherazade è la sorella di Farida. È per questo che combattiamo. Cosa farebbero senza di noi?" disse Imad notando il mio sguardo interrogatorio.

"Bene, credo che la riunione sia finita." continuò il ragazzo "Puoi dormire tranquillamente qui, ti sveglieremo noi domani mattina."

Salutai Imad e mi diressi verso la brandina.

Notai che mi avevano lasciato dei vestiti puliti sia per la notte che per il giorno dopo. Sorrisi al quel gesto d'affetto per un totale sconosciuto, mi sistemai sul mio letto e mi addormentai quasi subito.

La mattina dopo fui svegliato da una voce che proveniva dall'esterno della tenda.

"Leo, vieni fuori. Voglio farti fare un giro." 

Mi preparai in poco tempo ed uscii dalla mia tenda.

Farida ed Imad erano lì ad aspettarmi.

"Buon giorno." dissero entrambi.

"Dormito bene?" intervenne Imad.

"Benissimo" risposi "e grazie per i vestiti."

"Trattiamo bene gli ospiti." aggiunse Farida.

"Leonardo!" disse una voce alle nostre spalle "allora sei venuto davvero."

Era Akram con un sorriso a 32 denti stampato in faccia.

Io gli tesi una mano per salutarlo, ma lui mi attirò a sé e mi abbracciò.

Farida ed Imad sorrisero.

"Vieni con noi. Ti faremo vedere il nostro mondo." disse la ragazza.

Parlammo poco, le immagini di quel posto sostituivano ogni parola.

Mangiai ad un tavolo enorme circondato da bambini che non smettevano di pormi domande. Nonostante la devastazione, che avrebbe abbattuto qualsiasi essere vivente, quella gente aveva ancora qualcosa di gioioso nello sguardo: era la luce della speranza.

Il Sole stava per tramontare quando Farida prese parola e disse: "Hai visto gli orrori che attanagliano il mio popolo. Ma ora voglio mostrarti il risvolto della medaglia: una delle poche cose belle di questo posto."

Mi prese per mano e mi condusse in cima ad una duna.

"Guarda.." disse.

"Cosa?"

"Aspetta un po' e capirai."

Passarono alcuni minuti e poi capii.

Da quel punto si poteva ammirare uno spettacolo senza precedenti: i colori del tramonto si mischiavano a quelli del deserto.

Mi sedetti sulla sabbia e mi fermai a contemplare quella meraviglia, che avrei conservato nella mia mente per tutta la vita.

"È magnifico." riuscii semplicemente a dire.

"Già.. ti sembra giusto che tutto ciò venga distrutto dall'ira dell'uomo?"

Farida mi lasciò con quella domanda che aleggiava nella mia testa.

Conoscevo la storia, sapevo a quali livelli poteva arrivare la brama di potere e la follia dell'uomo, ma lì tutto quello che avevo letto sulle pagine dei libri si trasformava in un'orribile, assurda realtà.

Restammo per un po' ad ammirare l'orizzonte e a parlare delle nostre vite.

Più parlavo con Farida, più ne restavo affascinato. 

Più la guardavo negli occhi e più mi sentivo influenzato dalla sua forza. 

Più stavo con lei e più il nostro legame cresceva.

"Tutto bene, Leonardo? Sembri distante.."

"Pensavo.. ogni tanto mi capita di estraniarmi."

"Fa bene stare da soli."

"Ma serve anche la compagnia." risposi sorridendo.

"Credo sia ora di andare. Dovresti tornare alla base."

"Alla base.. oh cazzo, hai ragione! Sono in ritardo! Sean mi ucciderà!"

Corsi verso la mia tenda con Farida al seguito che non la smetteva di ridere, presi la mia roba, salutai i miei nuovi amici velocemente, con la promessa che ci saremmo rivisti presto, e mi diressi verso il mio accampamento.

"Leonardo, aspetta." disse Farida "Mi farebbe piacere accompagnarti. Il deserto di notte sa essere pieno di intrighi per chi non lo conosce."

Accettai volentieri la sua offerta e, insieme, ci incamminammo verso la base.

Dopo una mezz'oretta circa, si iniziavano ad intravedere le luci di quel barlume di civiltà nel bel mezzo del nulla.

"Le nostre strade si dividono qui." disse Farida.

"Per ora." risposi.

"Per ora.. Voglio regalarti una cosa." la ragazza frugò nel suo zaino e cacciò una collana. La catenina era d'argento e aveva come ornamento una placchetta dello stesso materiale con un'iscrizione in arabo sopra.

"Cosa c'è scritto?" chiesi.

"Che la saggezza possa essere sempre dalla tua parte." recitò Farida.

"Mi è stata regalata da mio padre." continuò la ragazza "E ora voglio che sia tua."

"Non posso accettarla, davvero."

"Pendila come patto di rivederci al più presto."

Sorrisi e accettai il suo regalo, Farida mi passò la catena attorno al collo e la allacciò. In quei pochi istanti di contatto, le sue mani sfiorarono il mio viso e sfiorarono la cicatrice che mi ero procurato nel giorno del nostro primo incontro.

"Abbi sempre cura di te. A presto." disse dandomi un leggero bacio sulla guancia.

Io mi voltai e percorsi gli ultimi metri che mi separavano dalla mia "casa".

Alla recinzione trovai Sean ad aspettarmi, aveva un'aria preoccupata.

"Fratello." dissi.

"Fratello un corno! Sei in ritardo Locket!"

"Scusa, ho perso la concezione del tempo."

"Stai bene?"

"Sì, dobbiamo parlare, però. Anche con il Generale."

"Come mai?"

"Voglio rendervi partecipi di una missione extra alla quale prenderò parte."

"Riguarda quei ragazzi arabi, vero? Ti stai ficcando in cose più grandi di te."

"Sean, tu non hai idea di cosa c'è realmente là fuori."

"Va a dormire, Leo. Ne parleremo domani."

Leggermente in collera, mi avviai verso la mia tenda. Al suo interno vi trovai Francesca seduta sul mio letto, in mia attesa.

"Eccoti, Gallagher diceva di averti mandato in avanscoperta. Qualcosa mi dice che le cose non stanno esattamente così."

Da giorno del suo ritorno ci eravamo nettamente riavvicinati: la sua presenza, da amica, era ormai una costanza alla quale avrei difficilmente rifiutato.

"Se hai tempo per sentire il mio racconto." le dissi.

"Vieni qui."

Mi sedetti al suo fianco e iniziai a raccontarle tutto, da quando i tre mi avevano "rapito" fino a ciò che era avvenuto solo un'oretta fa. Lei restò ad ascoltante, in silenzio, per tutto il tempo.

"Cosa ne pensi?" le chiesi alla fine.

"Che tu ti lasci condizionare troppo facilmente."

"In che senso?"

"Non dare subito tutto per scontato, Leonardo. Sono persone che non conosci: devi avere pazienza. Aspetta che si rifacciano loro vivi, non andarli a cercare, potrebbe essere pericoloso."

"Sei troppo pessimista.."

"Sono realista, invece. Viviamo in un mondo dove niente è come sembra: chi ti dice che questa Farida non faccia il doppio gioco? Ti chiedo solo di aspettare che gli eventi si evolvono."

"Ci penserò."

"Ora devo andare. Buona notte, Leo."

"Buona notte."

 

 

Da quella conversazione passarono i giorni, le settimane, i mesi e mi ritrovai alla fine di Novembre senza aver ricevuto alcuna nuova notizia da Farida o da chiunque altro.

"Pensi ancora a quei ragazzi?" mi chiese un giorno Sean durante il pranzo, Ben era stato rimandato a casa in congedo temporaneo, nessuno sapeva se avrebbe avuto l'opportunità di continuare la sua carriera.

"Già. Avrei voluto avere delle notizie, qualsiasi cosa: un segno, un messaggio. Nulla. Sto iniziando a preoccuparmi. Anche se fosse stata tutta una tattica, che senso avrebbe fermare tutto all'improvviso?"

"Non lo so." rispose Sean "È tutto così strano."

"Locket." disse Kevin Price poggiandomi una mano sulla spalla "Busher vuole vederti." 

Sean si alzò e fece per seguirmi quando Price lo bloccò: "Vuole parlare da solo con Leonardo."

Sean annuì e si diresse nella direzione opposta a quella che stavo per prendere io.

Entrai nella tenda del Generale e lo trovai alla scrivania immerso tra i fogli e le mappe.

"Generale." dissi.

"Leonardo, vieni, accomodati. Mi dispiace aver interrotto il tuo pasto."

"Nessun problema, avevo finito, ormai."

"Volevo parlarti di Ben."

"Mi dica."

"Mi hanno detto che il ritorno a casa non ha avuto un risultato positivo, per fartela breve: Cross è caduto in depressione. Avevamo pensato di nominarlo Sergente per risollevargli il morale, ha avuto la sua medaglia e le varie onorificenze, ma niente. La situazione qui è stabile e avremmo pensato di mandarti a casa per un mese esatto."

"Così presto? Sono qui da soli 9 mesi." dissi.

"Ben ha bisogno di te."

Mi fermai a riflettere: tornare a casa non avrebbe rappresentato alcuna esitazione qualche mese prima, ma la nuova situazione, della quale Busher era all'oscuro, aveva scombussolato tutti i miei piani.

"Va bene." dissi alla fine "Quando parto?"

"Domani pomeriggio."

Il Generale mi congedò ed io decisi di fare una passeggiata in solitudine.

Arrivai quasi alla recinzione all'estremità Est della Base quando sentii degli spari e dei rumori di passi in avvicinamento.

Presi il mitra, posizionato alla mia destra, e lo caricai: pronto a colpire.

Una figura correva verso di me sollevando sabbia e polvere, ma visuale non mi era per niente chiara.

Un altro sparo.

La figura cadde a terra.

"Leonardo.." sentii pronunciare il mio nome e mi avvicinai all'uomo ferito.

"Akram!" esclamai.

"L'hanno rapita! Hanno scoperto tutto.."

Non ebbe tempo di finire la frase che esalò l'ultimo respiro guardandomi negli occhi.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23. ***


"Leo! Mettiti al riparo!" urlò Sean alle mie spalle.

Giusto in tempo, appena mi nascosi dietro una Jeep, una raffica di proiettili colpì l'esatto punto dove mi trovavo solo pochi secondi prima.

Ancora spari, ancora urla.

Uccisi un paio di uomini prima di respirare a fondo.

"Stai bene?" disse Kevin Price poggiandomi una mano sulla spalla.

"Credo di avere una piccola contusione alla caviglia per la caduta di prima, niente di grave." risposi.

"Mi dispiace per quel ragazzo." disse Sean avvicinandosi.

"Era uno di qui tre arabi che incontrai nella scuola. Si chiamava Akram."

"Credo che meriti una giusta sepoltura, sai di che religione fosse?" chiese Sean.

"No.." mormorai "Ma credo che un ultimo saluto gli sia dovuto."

Con l'aiuto di altri soldati, Sean, Kevin ed io, seppellimmo Akram. 

Nel sollevare il suo corpo, dalla tasca gli fuoriuscì un pezzo di carta. Lo raccolsi da terra, lo spiegai e lo osservai.

"Cos'è?" chiese Kevin alle mie spalle.

"Sembra una mappa." disse Sean.

"Ecco perché gli hanno assaliti: sono riusciti a trovare il covo dei talebani. Cosa credi che rappresenti?" chiesi rivolgendomi a Sean.

"Credo che sia il caso di portarla all'attenzione del Generale." rispose "Ma prima, Locket, voglio che qualcuno ti controlli quella caviglia. Nel frattempo, ci daremo tutti una sistemata. Appuntamento alla tenda di Busher tra un'ora esatta."

"D'accordo, Capitano."

Mi diressi zoppicando verso la tenda/ospedale stringendo ancora nel pugno la mappa lasciata da Akram.

Di nuovo ero entrato in un circolo senza precedenti. Ero entrato in una partita della quale non conoscevo le regole. Ancora una volta mi ritrovavo da solo con i miei pensieri e con il desiderio di fuggire da tutto per rintanarmi nelle braccia di Sophia.

Mi fermai un secondo e lasciai che le lacrime uscissero dai miei occhi, le lasciai scorrere sulle mie guance senza fermarle.

Cosa sarebbe successo se avessi accettato subito di unirmi alla loro missione?

Farida sarebbe salva? Akram ancora vivo? Io sarei morto?

Purtroppo fa parte del gioco: nessuno può assicurarti alcuna risposta definitiva, le uniche certezze le hai quando vivi le cose in prima persona, poi, però, è troppo tardi per tornare indietro ed agire al meglio.

Mi ricomposi e dopo pochi minuti arrivai a destinazione.

Stephan corse verso di me abbracciandomi: "Abbiamo sentito degli spari! Sono felice che tu sia ancora vivo! Sean come sta?" mi sussurrò all'orecchio.

"Tranquillo, stiamo tutti bene. Sono venuto solo per farmi controllare la caviglia."

Stephan si scansò e lasciò il posto ad altri che, avendo udito dell'assalto, si erano preoccupati per me. Molte braccia mi avvolsero e venni imprigionato da un abbraccio collettivo.

Quando la massa si dissolse, notai che Francesca era rimasta in un angolo, osservando la scena sorridendo.

"Ti diverte questa cosa?" chiesi iniziando a ridere anche io.

"Notavo solo quanto tu sia popolare tra i soldati."

"Visto?! Tutti mi abbracciano."

"È un invito implicito ad abbracciarti?"

"Se ti va.."

Entrambi allargammo le braccia e lasciammo che quel gesto semplice, ma altrettanto bello, parlasse per noi. Stephan si unì all'abbraccio e disse: "Che bello vederci tutti amici."

Francesca sorrise e rispose: "Bene, troppi sentimentalismi. Forza, Locket: mettiti sul lettino e facci vedere questa caviglia."

Obbedii agli ordini e mi sistemai in modo tale da farmi visitare.

"È una brutta contusione, ma nel giro di un paio di giorni tornerai in forma come prima." fu la diagnosi di Stephan.

"Grazie. Ora devo proprio andare, ho un appuntamento con Sean, Kevin e il Generale." dissi.

"Saluta Sean da parte mia." rispose Stephan.

"Credo di non essere adatto per dargli quel tipo di saluto." commentai sorridendo.

Salutai i miei amici dottori e mi incamminai verso la tenda del Generale, nel tragitto incontrai il Capitano McCampbell.

"Leonardo, è un piacere vederti ancora vivo."

"Capitano." la salutai.

"Ti dirigi dal Generale?"

"Sissignora, dobbiamo discutere di un cambio di programma rispetto alle nostre missioni future."

"Già, il Sergente Price mi ha accennato qualcosa. Mi unisco alla tua passeggiata, se non ti dispiace."

"Affatto." risposi.

Dopo pochi passi, il Capitano disse: "Zoppichi un po'. È dovuto allo scontro di oggi?"

"Sì, e mi ritengo fortunato."

"Sei un ragazzo saggio. Comunque, volevo farti sapere che sono a conoscenza della situazione del tuo amico Cross, ne ho visti di soldati cadere in depressione e ho un consiglio per te: stagli il più vicino possibile."

"Sarei dovuto partire domani, ma credo che posticiperò."

"Ne sei sicuro?"

"Assolutamente. Devo concludere questa faccenda."

Finimmo il discorso proprio nel momento in cui arrivammo all'esterno della tenda del Generale.

Entrammo e all'interno vi trovammo i nostri compagni seduti ad un tavolo già immersi in un'accesa discussione.

"Locket." disse il Generale "Stavamo giusto aspettando te, e il Capitano McCampbell, ovviamente. Abbiamo bisogno di quella mappa."

Presi il foglio di carta dalla tasca e lo poggiai sul tavolo, sotto gli occhi attenti di tutti i presenti.

Studiammo per un po' il documento quando arrivammo alla conclusione che si trattava della mappatura sotterranea del città di Kabul.

"Ne è sicuro, Capitano Gallagher?" chiese il Generale.

"No, non ne sono sicuro, ma credo che potrebbe essere una valida opzione."

"Non cresco sia saggio muovere i nostri uomini senza avere una sicurezza." sostenne Price.

"Chi le ha detto che sarà un folto gruppo a muoversi?" disse McCampbell.

"Virginia, non crederai che manderei pochi soldati in questa folle impresa?" disse Busher.

"Credo che tu abbia davanti ai tuoi occhi tre prontissimi volontari. O forse mi sbaglio?" rispose rivolgendo uno sguardo a Sean e me.

"Non sbaglia, Capitano." disse Sean.

Io annuii alla risposta del mio amico.

"Busher, credo che tu non abbia motivi per impedirci questa cosa." sentenziò la McCampbell.

"Posso, eccome. Nemmeno il Generale Gallagher sarebbe d'accordo."

"Ma lui non è qui." intervenni io.

"Sei sempre così sfacciato, Locket." sussurrò Price.

"Non credo che questa sia la sede esatta per litigare." disse Sean.

"Busher, non puoi pensare di mandare un intero battaglione nei sotterranei di una città. Condanneresti tutti a morte certa." commentò McCampbell.

"Domani vi darò una risposta. Ora andate a riposarvi." ci congedò il Generale.

Usciti dalla tenda, Price si diresse subito verso la sua tenda, lasciando noi altri da soli.

"Spero di non essere stata troppo avventata." disse il Capitano McCampbell.

"No, affatto." risposi.

Senza dire altro, la donna si allontanò e lasciò Sean e me, ancora scossi, fuori alla tenda di Busher.

"Non dire a nessuno che te l'ho detto: ma domani arriverà mio padre." disse Sean iniziando a camminare.

"Come mai l'hanno richiamato?"

"Busher ha bisogno di aiuto."

"Credi che tuo padre sia d'accordo con questo nuovo piano?"

"Peggio: temo che lui si offra volontario per venire insieme a noi."

Dopo un po' ci separammo.

Decisi di lasciar scorrere la giornata senza altri problemi, evitando il resto dei miei compagni.

La sera, a cena, al mio fianco si sedette Francesca.

"Ho un regalino per te, credo ti serva. Raggiungimi dopo sul retro della tenda/ospedale." disse semplicemente, per poi allontanarsi.

Mangiai con calma e poi mi diressi dove mi era stato indicato, cercando di non destare alcun sospetto negli altri soldati.

Trovai Stephan, Sean e Francesca seduti per terra, a gambe incrociate.

"Cosa ci fate tutti qui?" chiesi.

"Abbiamo organizzato una festicciola." disse Sean.

"E se qualcuno ci scopre?" 

"Leo, calmati. Ti ricordo che questo è uno dei posti più defilati." rispose Stephan.

"Siediti qui." disse Francesca indicando un punto per terra al suo fianco.

Mi sedetti e commentai: "Abbastanza noiosa come festa."

"Sergente, non si giudica un libro dalla copertina." commentò Stephan.

Francesca mise al centro del piccolo cerchio che avevamo creato una cassa di legno.

"Dottoressa Joy, spero che tu sia consapevole che quello che stiamo facendo è contro ogni sorta di regole." dissi.

"Allora" incominciò a parlare come se non mi avesse ascoltato nemmeno "abbiamo delle carte da gioco, delle birre, qualcosa di più pesante come Martini e Vodka e delle sigarette molto particolari."

"Hai portato delle canne nella Base?! Come hai fatto?!" esclamai.

"Conosco dei trucchetti, Leo." rispose sorridendo.

"Ragazzi, diamo inizio alla festa." sancì Sean.

Iniziammo a bere, a ridere, a fumare.

Non pensavo a nulla, le mie preoccupazioni erano state bloccate dal torpore dovuto all'alcool.

Non ricordo tutto ciò che avvenne quella sera, probabilmente giocammo anche a strip poker perché in breve mi ritrovai in mutande e Frankie stava per togliersi la maglietta quando sentimmo dei rumori.

Tacemmo improvvisamente e, quando il rumore dei passi scomparve, scoppiammo tutti in una fragorosa risata.

Il tempo passava senza che noi ce ne rendessimo conto. Eravamo dei semplici ragazzi: né medici dell'esercito, né soldati, solo un gruppo di amici che voleva divertirsi.

Si vedeva come tutto questo era mancato ad ognuno di noi. Il profumo di quella canna sapeva di normalità, odorava di assenza di problemi.

Francesca ed io ci addormentammo qualche ora dopo l'uno sulle spalle dell'altra, mentre Stephan e Sean optarono per continuare il loro divertimento lontano da noi.

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 24. ***


Il Sole ci svegliò dal sonno dovuto all'ebrezza della serata appena trascorsa. Aprii gli occhi e notai che Frankie era già in piedi intenta a raccogliere le sue cose.

"Buon giorno." dissi con la voce impastata.

"Ciao, Leo. Dobbiamo muoverci."

"Perché?" dissi alzandomi e recuperando la mia maglietta.

"Il Generale Gallagher arriverà alla Base alle 11 in punto. Sono le 10.45!"

"Cazzo!" esclamai.

Presi tutto ciò che avevo sparso al suolo e mi diressi verso la mia tenda privata. Presi dalla cassa, nella quale ponevo i vestiti, il completo formale e mi diressi verso le docce.

Durante il tragitto incontrai Price.

"Sei in ritardo." mi disse scrutandomi da capo a piedi "E non sei l'unico. Il Capitano Gallagher è appena entrato in doccia. Ho sentito alcuni rumori strani questa notte. La dottoressa Joy e il dottor Charter sono stanchi almeno quanto voi."

"Abbiamo passato la notte a parlare." tentai di giustificarmi.

"Non mi interessano i dettagli, muoviti."

Feci il più in fretta possibile, mi vestii e mi preparai ad accogliere il Generale insieme agli altri commilitoni all'ingresso della Base.

"Sergente Locket" disse Sean "vieni in prima linea."

Seguii i suoi ordini e mi posizionai tra lui e Kevin Price.

Il Generale arrivò con 10 minuti di ritardo, sceso dalla Jeep lo accogliemmo con il tipico saluto militare.

Aveva un'aria stanca, forse Busher l'aveva informato della situazione.

"Busher, Gallagher, McCampbell, Locket, Price, venite con me." disse semplicemente.

Busher lo guidò verso la tenda che avrebbe ospitato la nostra riunione.

Appena entrati, il Generale Gallagher tirò a sé Sean e lo abbracciò.

In quel momento mi venne da pensare a ciò che avevo lasciato nel Maryland, a quell'ora sarei dovuto essere in viaggio verso casa. Verso la mia famiglia, verso Richard, verso Ben, verso Sophia.

Invece ero rimasto lì, nell'inferno terreno. Per cosa?

Avevo messo da parte gli affetti di sempre per andare in contro ad una missione suicida. Stavo diventando una macchina da guerra senza sentimenti?

"Allora" disse, rompendo il silenzio, il Generale Gallagher "Busher mi ha detto qualcosa, ma voglio sentire il piano completo da uno di voi. Virginia, ti dispiace?"

"No, Generale." rispose il Capitano McCampbell "Il ragazzo di nome Akram che è stato ucciso aveva con sé una mappa che indica, molto probabilmente, il covo del gruppo di talebani che stanno portando terrore e distruzione nel paese. La mappa indica, secondo il Capitano Gallagher, il reticolo sotterraneo della città di Kabul. Il piano sarebbe quello di introdurci all'interno della rete fognaria della città per arrivare al punto indicato sulla mappa."

"Quando dici 'introdurci', chi intendi?" intervenne Gallagher, il Generale.

"Leonardo, Sean ed io." rispose il Capitano.

"Mi offro anche io volontario." sentenziò il Generale.

"Alexander, credo sia un salto nel vuoto." disse Busher.

"Non discutere la mia decisione." rispose Gallagher.

"Nessun altro si unisce a questa allegra scampagnata?" intervenne Sean.

"Ho tempo per pensarci?" chiese Price.

"No, Sergente. Dentro o fuori." rispose McCampbell.

"Dentro."

"Perfetto" disse il Generale Gallagher "Busher, tu seguirai l'operazione da qui."

"Certo, Generale." rispose.

Le ore successive trascorsero velocemente tra piani, mappe, programmazioni.

La testa iniziava a farmi male quando Sean riassunse per l'ultima volta quelle che sarebbero state le nostre mosse.

Intorno alle 21 saremmo partiti dalla Base alla volta di Kabul.

Ai confini della città ci saremmo introdotti nelle fognature, da lì avremmo dovuto seguire la mappa nella speranza di arrivare indenni al covo. Una volta nel cuore del rifugio del talebani, il sangue freddo avrebbe soppiantato ogni sorta di piano.

Tutti noi uscimmo dalla tenda a notte inoltrata, quando Busher mi bloccò per un braccio.

"Leonardo, due parole?"

"Certo."

"Sai, apprezzo molto che tu sia rimasto qui, nonostante la situazione di Ben."

"Ho fatto la mia scelta."

"Ma non voglio che questa scelta danneggi la tua vita. Sei stato molto coraggioso, hai affrontato la situazione con coraggio, forse con un pizzico di strafottenza rispetto alle regole, ma amo i giovani con iniziativa."

"Grazie."

"Vorrei che tu stessi attento. È già pronta la tua licenza per quando la missione sarà finita."

"Ne sono onorato. Spero di essere in grado di sfruttare quest'opportunità."

"Hai detto a qualcuno della missione di domani?"

"No."

"Comprendo. Bene, ora va. Ti consiglierei di fare un salto da Joy e Charter, ti serviranno le basi del primo soccorso."

Il Generale mi congedò e mi lasciò da solo.

Mi diressi direttamente verso la tenda/ospedale.

"Leo!" mi salutò Stephan "Non abbiamo avuto tuo notizie dall'arrivo del Generale. Ci stavamo preoccupando."

"Cos'è successo?" chiese Francesca.

"Domani andiamo in missione. Sean, il Capitano McCampbell, Kevin Price, il Generale Gallagher ed io."

"Puoi parlarcene?"

"Non so. Non voglio farvi preoccupare. Busher, però, mi ha detto di venire da voi per istruirmi sulle regole del primo soccorso."

"Bene, hai qui due maestri eccezionali." disse Stephan sorridendo.

Passò un'oretta e mezza nella quale i due mi istruirono riguardo le norme mediche basilari.

"Credo che questo possa bastare." concluse Francesca.

"A che ora partite domani?" chiese Stephan.

"La sera, alle 21."

"Vieni qui verso le 20." disse Frankie.

Sorrisi, salutai i miei amici e mi ritirai nella mia tenda, dove mi addormentai.

I miei sogni furono tormentati da apparizioni non sempre idilliache.

Akram. Farida. Ben. Sophia. Catherine.

Si dice che i sogni siano le proiezioni delle nostre paure, dei nostri desideri, della nostra vita, insomma. È vero, quando chiudiamo gli occhi, e lasciamo il mondo fuori, entriamo nel nostro piccolo universo nel quale nessuno può entrare. Nessuno può valicare quel muro di mattoni che erigiamo, nessuno può irrompere nella nostra mente e interferire con i nostri sogni. Nessuno ne sarà mai capace. Ecco perché siamo così legati a ciò che sogniamo, perché è privato, è intimo, è intenso e ci permette di provare tutte le emozioni che, da svegli, sono filtrate dalla razionalità del cervello. Possiamo provare la vera gioia, la paura, la rabbia, la tristezza, per poi svegliarci con addosso solo l'alone di ciò che abbiamo vissuto.

 

… 

 

I miei superiori mi lasciarono dormire fino alle 12 inoltrate. 

Mi svegliai sereno, nonostante ciò che sarebbe accaduto di lì a poche ore. Portai a termine tutte le azioni di routine in maniera automatica, senza pensarci troppo. Ero concentrato, focalizzato, pronto.

La sera, verso le 20, mi diressi verso la tenda/ospedale per salutare Stephan e Francesca.

Entrai e vi trovai solo Frankie.

"Dov'è Stephan?" chiesi.

"Sta salutando Sean."

"Capisco."

"Leo, sta attento."

Mi avvicinai a lei e la abbracciai per rassicurarla.

"Andrà tutto bene." le sussurrai all'orecchio

Sciogliemmo l'abbraccio e mi sedetti al suo fianco: entrambi cercammo di non pensare alla missione imminente parlando di altro.

Poco dopo entrò Stephan seguito da Sean.

"Dobbiamo andare." disse il Capitano.

Stephan mi si avvicinò e mi abbracciò.

"Ricorda la promessa che mi hai fatto." disse.

"Non l'ho mai dimenticata." risposi.

Diedi un ultimo bacio sulla guancia a Francesca per poi uscire dalla tenda. 

L'aria fresca del mese di Dicembre, ormai alle porte, temprava non solo il nostro fisico, ma anche la nostra mente.

"Tra poco è il tuo compleanno, giusto?" disse Sean rompendo il silenzio.

"Già. Il 2 dicembre, tra tre giorni."

"24 anni. Ricordo benissimo il giorno in cui li ho compiuti."

"Cos'è successo?"

"Ho detto a mio padre di essere gay, portando a casa il mio fidanzato."

"Sono curioso di sapere la reazione del Generale."

"Gli ha chiesto cosa facesse nella vita." rispose Sean sorridendo.

"Non si smentisce mai."

Arrivati al punto di incontro salutammo i nostri compagni e salimmo a bordo delle Jeep che ci avrebbero portato a destinazione. Il Generale Busher ci guardava da lontano, come se volesse vegliare su di noi.

"Quanto ci vuole per arrivare a Kabul?" chiesi all'autista.

"Circa 40 minuti." rispose.

Mi sistemai meglio sul sedile ed iniziai a perdermi nel cielo stellato che faceva da sfondo alla nostra missione. Fui tentato dal contare le stelle che erano lì, all'apparenza ferme, che scrutavano noi miseri uomini che cercavamo di fare qualcosa di grande, di molto più grande di noi.

Dopo poco, iniziai a giocherellare con la collanina che mi aveva regalato Farida.

"Cos'è?" mi chiese Sean.

"Un regalo. Di Farida."

"Starà bene, Leo."

"Lo spero." dissi guardando l'incisione sulla placca argentata.

Arrivammo a destinazione, congedammo gli autisti e ci inoltrammo nella notte buia e fredda. Dopo una decina di minuti di percorso a piedi, individuammo il punto in cui iniziava la rete fognaria.

"Siete pronti?" disse il Generale Gallagher.

Tutti noi annuimmo, sicuri.

Ci addentrammo all'interno delle fogne. L'odore era a malapena sopportabile, non avremmo resistito a lungo senza un cambio d'aria.

Dopo poco, Sean prese la cartina ed iniziò a consultarla. Era concentrato e già incominciava a sudare.

"Sta calmo." gli dissi.

"Sono calmo."

"Non sembra proprio."

"È che ho una brutta sensazione."

"Stiamo sbagliando strada?"

"No, stiamo andando fin troppo bene."

E poi sentimmo delle grida. Urla atroci che perforavano le pareti e arrivavano fino alle nostre orecchie. Una voce di donna.

"Farida." pensai preso dalla paura.

Iniziai a correre, ma qualcuno mi fermò.

"Non essere stupido, Leonardo." disse Price.

"La stanno torturando." sbraitai.

"Locket, se non ti calmi, saremmo costretti a lasciarti qui." intervenne il Generale.

Tentai di calmarmi, mi appoggiai ad una parete e mi lasciai scivolare a terra con la testa tra le mani. L'aria soffocante peggiorava l'intera situazione.

"Virginia, come pensi di procedere?" chiese il Generale.

"Propongo di continuare, almeno sappiamo che c'è qualcuno. Saranno loro ad essere colti di sorpresa. Alzati, Leonardo."

Mi alzai e mi ricomposi.

"Andiamo." disse Sean.

Camminammo per un altra mezz'ora quando, dietro ad un angolo notammo una fievole luce. Sembrava quasi un miraggio.

"Credete che..?" chiese Price.

"Ci siamo." sussurrò il Generale Gallagher.

Ci avvicinammo a quella luce, cercando di capirne la fonte.

Quando svoltammo l'angolo, la scena che comparve ai nostri occhi era sconvolgente.

Farida era legata ad una sedia, svenuta, con del sangue che le colava dalla bocca.

Gli altri mi coprirono le spalle quando corsi verso di lei.

"Farida." dissi slegandola con le lacrime agli occhi "Ti prego.."

Sean mi passò il kit di pronto soccorso.

Il respiro, anche se molto debole, era presente. Le disinfettai le ferite e le fasciai i polsi che erano corrosi dalle corde che la tenevano legata.

"Non mi piace questo posto." intervenne Virginia "È tutto così calmo. Troppo calmo."

Accadde in un attimo: le luci si spensero e una raffica di proiettili invase la sala.

Mi buttai su Farida, tentando di tenerla al sicuro.  Ma agivo alla cieca.

Le raffiche cessarono, non si sentiva più alcun rumore. Le luci si accesero, io rimasi per terra, proteggendo Farida.

Con la coda dell'occhio notai il Generale Gallagher che perdeva copiosamente sangue. Gli altri erano fuori dal mio campo visivo.

Frasi in arabo. 

Non capivo. 

Ma una voce mi era famigliare.

"No, non può essere." pensai.

I miei sospetti poco dopo vennero accreditati. Degli uomini mi si avvicinarono, mi tirarono su con forza, io ero ancora scosso, mi lasciai sollevare. Mi guardai intorno: Gallagher continuava a perdere sangue, Price era immobile con una brutta ferita da arma da fuoco alla testa, Sean era ferito ad una gamba, il Capitano McCampbell era nella mia stessa situazione, incolume e scossa, Farida era ancora per terra, ma viva.

"Leonardo, sono così felice di rivederti." disse una voce.

Sollevai la testa, misi a fuoco quella figura.

Il cuore mi si fermò.

Imad.

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Capitolo 25
*** Capitolo 25. ***


"Ero sicuro che saresti venuto fin qui per salvarla." disse Imad con un ghigno malefico.

Le sue parole mi arrivarono alle orecchie con anni luce di ritardo, la sua voce era ovattata, non riuscivo a pensare.

Cacciai tutta l'aria che avevo nei polmoni per riprendere il controllo su me stesso, ma un dolore lancinante scaturì dal fianco sinistro.

Guardai verso il basso e notai un rivolo di sangue che sgorgava lentamente.

Risollevai lo sguardo ed incontrai gli occhi scuri di Imad.

"Mi devi delle spiegazioni." dissi in un soffio.

"Spiegazioni, Leonardo?!" rise beffardo "Ho fatto il doppio gioco fin dall'inizio, sapevo che qualche buon samaritano dell'esercito Americano sarebbe caduto nella mia rete. Ho scelto in che squadra giocare fin dall'inizio. La mia gente, il mio popolo non ha bisogno di voi Occidentali."

"Ha bisogno di voi, allora?!" urlai.

La McCampbell al mio fianco sorrise, come se fosse fiera della mia reazione.

"Tu non capisci." disse l'arabo avvicinandosi a me "Non capisci il dolore che avete provocato alla mia gente."

"Certo, perché voi avete appena portato gioia e pace. Quella a terra è cresciuta insieme a te."

"Farida ha portato tanto disonore nella nostra gente. Ma non sto qui a raccontarti ciò che lei non ti ha detto."

Posai gli occhi sul corpo della giovane ragazza che giaceva ancora al suolo. Respirava ancora.

Mi soffermai a controllare le situazioni degli altri: Sean aveva, in qualche modo, bloccato l'emorragia alla gamba; il Generale Gallagher, con le lacrime agli occhi e con una mano a bloccare il sangue che gli usciva dal braccio, guardavo fisso davanti a sé.

Kevin Price ci aveva lasciati da un pezzo.

La salivazione mi si era azzerata, avevo la gola secca e Imad sembrava alquanto divertito.

I due arabi che mi bloccavano, ad un suo cenno, mi spostarono sulla sedia che fino a poco fa aveva ospitato Farida, mi lasciarono lì dolorante alla mercé di Imad, mentre loro si occupavano degli altri miei compagni.

"Sai, Leonardo, io ti apprezzo molto: hai coraggio da vendere e combatti per il tuo paese. Mi dispiacerà molto ucciderti, ma devo farlo. Voglio risparmiarti la vista di vedere altri tuoi compagni cadere, quindi inizierò da te. Sarà come addormentarsi."

prese la sua pistola e me la puntò alla testa, io chiusi gli occhi pregando che tutto finisse in fretta. Rivolsi il mio ultimo pensiero a Sophia.

Il colpo di pistola arrivò, ma io non sentii niente, nessun dolore, nessuna sensazione.

Dopo qualche secondo, aprii gli occhi e il cadavere di Imad giaceva ai miei piedi. Dall'altra parte della stanza, il Generale Gallagher si stava rialzando ancora con la pistola fumante stretta nella mano.

Il mio cervello reagì da solo, raccolsi l'arma dell'arabo e mi scagliai contro i suoi compagni che ancora non avevano capito ciò che stava avvenendo attorno a loro: erano totalmente spaesati.

In pochi minuti i quattro arabi erano al suolo e perdevano copiosamente sangue.

Avrei potuto benissimo lasciarmi lì, abbandonandoli ad una morte lente e dolorosa, ma decisi di bloccare le loro ferite, di disinfettarle, per consegnarli poi alla giustizia.

"Non devi avere pietà per loro." disse il Generale avvicinandosi a me, non riusciva a muovere il braccio sinistro.

"Sono comunque esseri umani." risposi.

"Leonardo.." mi sentii chiamare.

"Sean!" corsi verso il mio amico senza pensarci due volte.

Era pallido e debole: aveva perso molto sangue.

"Siete stati fantastici." mormorò.

"Shh, devi conservare le forze. Alla Base mi dirai tutto quello che vuoi."

"Ho perso fin troppo sangue.. io.."

"Non ti azzardare! Starai benissimo."

"Voglio parlare con mio padre.."

Mi alzai, andai verso il Generale e presi il suo posto nel controllare alcune piccole ferite riportate dal Capitano McCampbell.

"Cose si sente, Capitano?" chiesi.

"Un po' scossa, ma bene, Sergente. Credo che tu ti sia guadagnato un'ulteriore medaglia per questa piccola missione."

"È stato tutto merito del Generale Gallagher." risposi.

"Non essere modesto, ho visto quello che hai fatto. Pochi avrebbero reagito con la tua stessa reattività. E ora occupati di Farida, io sto alla grande." disse rialzandosi.

Sorrisi e mi diressi verso Farida: era ancora svenuta, quello stato di incoscienza l'aveva protetta da tutto il casino che era avvenuto. Mi soffermai a guardarla e pensai a cosa avesse potuto fare per portare "disonore" alla sua gente.

Mi guardai intorno cercando una radio o una qualsiasi cosa che avremmo potuto usare per entrare in comunicazione con l'esterno. Uscire da lì in quelle condizioni sembrava davvero impossibile. La mia radio era andata distrutta nello scontro iniziale.

"Generale" dissi a voce medio-alta "la sua radio funziona?"

"Credo di sì. Prova tu, Sean ha bisogno di me."

Presi la radio e tentai di mettermi in comunicazione con la Base, dopo qualche minuto riuscii nell'impresa.

Ma avremmo dovuto aspettare ore prima dei rinforzi, così mi sedetti a terra, affianco al corpo di Farida vegliando su di lei.

Poco dopo la stanchezza prese il sopravvento, la scarica di adrenalina ormai si era esaurita ed io mi addormentai.

Mi svegliai con la voce di Busher nell'orecchio: "Sei stato davvero incredibile."

Mormorai un grazie e lasciai che alcuni compagni potessero adagiarmi su di una barella per portarmi via dal quel luogo infernale.

Ripresi sonno senza troppe difficoltà.

 

 

Mi svegliai il pomeriggio dopo, ancora un po' dolorante al fianco e alla testa e con la gola secca. Mi sollevai piano per non fare troppa leva sul fianco ferito, mi guardai intorno e notai Stephan e Francesca affaccendati nei pressi di un lettino poco distante dal mio.

Avevano i voti concentrati, specialmente Stephan, evidentemente erano all'opera da ore.

Cercai di scendere dal lettino per andare a recuperare un po' d'acqua, ma delle mani delicate, e allo stesso tempo decise, mi fermarono.

"Locket, dove pensi di andare?" disse il Capitano McCampbell.

"Volevo semplicemente dell'acqua."

"Ci penso io."

Tornò pochi secondi dopo con un bicchiere d'acqua in mano e me lo porse.

Poche sorsate e mi sentii decisamente meglio.

"Grazie."

Passarono alcuni secondi di silenzio quando la nostra attenzione venne catturata da Stephan in lacrime che si lasciava cadere al suolo.

Non pensai al dolore, non pensai alla stanchezza: scesi dal lettino e mi precipitai verso il mio amico.

Ebbi un tuffo al cuore nel vedere Sean che respirava a fatica sul tavolo operatorio.

"Dimmi che non è.." dissi rivolgendomi a Frankie.

"È vivo, ma è stata un'operazione molto stressante. Il dottor Charter ha avuto una crisi di nervi." disse aiutando l'amico a risollevarsi, poi mi guardò dritto negli occhi "Torna a letto, Leonardo. Hai perso molto sangue anche tu."

Lanciai un'ultima occhiata a Sean e tornai a stendermi.

Francesca mi si avvicinò ed incominciò ad accarezzarmi i capelli.

"Temevamo il peggio." disse.

"Anche io."

Vidi delle lacrime riempirle gli occhi e le strinsi la mano.

"Stiamo bene.. però non posso credere che Kevin non ce l'abbia fatta." dissi.

"Si sentirà la sua mancanza."

"Farida dov'è?"

"Dietro quel séparé." rispose indicando con lo sguardo il lato opposto della tenda/ospedale.

"Sta bene?"

"Credo si sveglierà domani, ma sì, sta bene. Ora devo fare il giro per vedere come stanno gli altri."

Si allontanò ed io chiusi gli occhi, cercando di non piangere, cercando di regolare il respiro per buttare fuori la tensione dal mio corpo con un semplice soffio.

Ma le lacrime spingevano forte e le ritrovai sulle mie guance prima che potessi bloccarle.

Mi abbandonai a quel pianto silenzioso e mi riaddormentai.

Passai altri cinque giorni in infermeria prima di avere il via libera per uscire e camminare senza problemi.

Riacquistai vigore ed un aspetto migliore e poi andai da coloro che, ancora feriti, risiedevano nella tenda/ospedale.

"Fratello." disse Sean sorridendo quando mi vide avvicinarmi a lui.

Mi sedetti e sorrisi anche io.

"Stai molto meglio, a quanto sembra." dissi.

"Così sembra, le cure del dottor Charter funzionano alla grande."

"Non voglio sapere altri dettagli, Capitano."

"Ieri ho sentito mio padre che parlottava con il Capitano McCampbell riguardo il tuo futuro."

"Hai sentito qualcosa di interessante?" chiesi.

"Si parlava di West Point. Mi sa che vogliono che la tua formazione sia ultimata."

"West Point.. a 70 km da NY."

"70 km da Sophia."

"Già."

"Credo verrai convocato a breve e io credo di ottenere un congedo." disse spostando il suo sguardo su Stephan "Non voglio lasciarlo qui." 

"Non c'è possibilità che torni anche lui a a casa?"

"Una remota possibilità c'è, ma dovrebbe acconsentire anche Francesca. Ogni tanto si fa un cambio di medici."

"Potremmo tornare tutti a casa." dissi.

"Sarebbe.. strano e monotono."

"Concordo. Ora vado a far visita a Farida, ci vediamo dopo."

Mi alzai dalla sedia e mi incamminai verso la zona riservata a Farida.

Era ancora abbastanza scossa e debole, ma riusciva a parlare.

Il suo sguardo si illuminò vedendomi.

"Mi chiedevo quando saresti venuto." disse.

"Come ti senti?"

"Non mi lamento, senza di te sarebbe andata molto peggio."

"Volevo chiederti una cosa." dissi sedendomi sul bordo del suo letto.

"Dimmi tutto."

"Imad mi ha detto che hai portato disonore al tuo popolo, di cosa parlava?"

"Parlava di Najla." rispose.

"Chi?"

"Il suo nome significa 'dialogo segreto'. Com'era segreto il nostro amore. Almeno fino a che Imad stesso non ci scoprì insieme una notte. Ci trascinò al centro della piazza del paese mostrando a tutti la vergogna che stavamo procurando alle nostre famiglie. Lei non riuscì a sostenere il peso di tutto questo e la mattina dopo si suicidò." notai delle lacrime scorrere lente sul suo viso.

"Mi dispiace, non volevo essere indiscreto."

"Va tutto bene, Leonardo. È successo tre anni fa, ho superato la cosa."

"E io che credevo mi stessi facendo la corte." dissi sperando di stemperare l'atmosfera. Farida rise e si protese verso di me, abbracciandomi.

"Ho una proposta da farti." dissi dopo qualche secondo.

"Dimmi, soldato."

"Ti andrebbe di trasferirti negli U.S.A.?"

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 26. ***


"Leonardo.. non posso lasciare tutto qui: come faccio con mia sorella?" mi domandò con gli occhi lucidi.

"Lei potrebbe venire con te: voglio assicurarvi un futuro. Qui continueranno a combattere per stabilizzare la situazione e.. tu non hai la forza mentale per affrontare tutto di nuovo."

"Grazie.." disse semplicemente.

"Pensaci, tanto il mio congedo arriverà tra un po', devo ancora parlarne con i superiori." conclusi alzandomi e dandole un leggero bacio sulla fronte.

Uscii dalla tenda/ospedale e presi a camminare senza una meta precisa. 

Dopo un breve vagare per la Base, decisi di ritirarmi nella mia tenda per tentare di mettermi in contatto con casa attraverso Skype.

Accesi il computer e contattai Richard.

Rispose dopo un po'.

"Non mi aspettavo una tua telefonata." disse sorridendo "Di solito mi mandi un messaggio per avvisarmi."

"In effetti non era programmata la cosa."

"Come stai?"

"Diciamo che gli ultimi giorni sono stati alquanto movimentati." detto questo iniziai a raccontargli della missione sanguinaria che aveva avuto luogo solo pochi giorni prima.

"Caspita.." fu il suo commento finale "Sono felice che tu sia ancora vivo. Sophia non sa niente di tutto questo, vero?"

"No, voglio raccontarglielo dal vivo. Vorrei che vedesse con i suoi occhi che sto davvero bene." risposi.

"Quindi si vocifera che tu venga spedito direttamente a West Point. Stai facendo carriera, ragazzo." disse sorridendo.

Sorrisi anche io di rimando.

"E come va la tua vita da marito?" domandai.

"Il lavoro va bene, Sarah è fantastica. Ma ho in mente un nuovo progetto."

"Di che si tratta?"

"Ho intenzione di lasciare il mio lavoro per aprire un ranch." disse tranquillo.

Il ranch era il sogno nel cassetto del padre di Richard che, però, si era dovuto adattare a lavorare in un ufficio per mantenere la famiglia.

"È un salto nel buio, Ricky."

"Lo so, ma so anche che mi renderebbe felice. E penso che, proprio per questo, mi trasferirò nel Texas. Ho già visto degli appartamenti a Houston e ho rilevato un ambiente molto interessante. Ti porterò a vederlo appena tornerai in patria."

I suoi occhi trasmettevano una tale carica che non avrei potuto dire nulla per dissuaderlo; avrebbe portato a termine quel progetto con o senza l'appoggio degli altri.

"Ti brillano gli occhi, sai." dissi guardandolo.

"Mi manchi, Leonardo. Ora devo andare, però. Ci sentiamo presto. E quando tornerai, festeggeremo come si deve il tuo compleanno."

"Non voglio niente di maestoso. A presto, Ricky."

Chiusi la telefonata e andai a stendermi sul letto.

Le cose a casa stavano cambiando, ma come poteva essere altrimenti?

Mica potevo sperare che tutto rimanesse congelato in attesa del mio ritorno.

Era persino passato il mio 24° compleanno senza che me ne accorgessi.

Mi addormentai, ma poco dopo fui svegliato da una voce.

Aprii gli occhi e mi trovai davanti Francesca, Stephan, Farida e Sean con dei sorrisi a trentadue denti stampati sulla faccia.

"Ragazzi" dissi alzandomi "cosa ci fate qui?" 

"Credi che avremmo lasciato che il tuo compleanno passasse senza neanche festeggiarti?!" rispose Sean.

"Siamo stati molto occupati in questo giorni" continuò Stephan "ma niente ci vieta di festeggiare con qualche ora di ritardo."

"Alzati e vieni con noi." disse Frankie tendendomi la mano.

Ci dirigemmo verso la mensa, quando varcammo la soglia, fui accolto dagli applausi e dalle urla dei miei compagni.

Mi guardai intorno e sul tavolo notai una torta con tanto di candeline.

Non riuscivo a parlare, avevano fatto tutto quello per me.

Mi fermai a scambiare qualche battuta con ciascuna persona presente quella sera.

Dopo un paio d'ore Busher e il Generale Gallagher mi si avvicinarono porgendomi un bicchiere di champagne.

"Alla tua salute, Locket." disse Gallagher.

"Vorremmo approfittare del tuo tempo per scambiare qualche parola." intervenne Busher "Hai portato a termine un'altra missione con successo. Alexander ed io pensiamo che sia giunto il momento che la tua formazione sia ultimata. Così abbiamo già mandato una richiesta di ammissione all'Accademia di West Point. Se ti comporterai bene, potrai subito ottenere una promozione."

"Io.. ne sono onorato." risposi.

"Partirai tra una settimana esatta." concluse Gallagher "Solo che ora l'Accademia si appresta a chiudere per le vacanze natalizie: quindi la tua immatricolazione ufficiale avverrà a gennaio. Hai anche un po' di tempo per stare in famiglia."

"Sarò il solo a tornare a casa?" chiesi.

"No" disse Busher sorridendo "Faremo un cambio di medici per un po' e anche il Capitano Gallagher ha bisogno di una pausa."

"Volevo chiedervi un ultimo piacere." dissi.

"Quello che vuoi, Leonardo." rispose Gallagher.

"Potreste procurarmi dei visti per Farida e la sorella?"

"Faremo il possibile. Ora goditi la festa." 

"Grazie, Generale."

 

 

Quella settimana trascorse senza problemi. Tutti ci eravamo ristabiliti ed eravamo pronti a far rientro negli USA. Avevo avvisato tutti: la mia famiglia, i miei amici, Sophia.

Francesca e Stephan non avrebbero fatto subito ritorno a casa, ma si sarebbe fermati per un po' nel Maryland: facevano anche loro parte della mia famiglia allargata e li volevo con me.

I loro genitori li avrebbero raggiunti a Natale, avremmo festeggiato tutti insieme a Baltimora.

Durante il viaggio trascorsi la maggior parte del tempo a parlare con Farida e a cercare di tranquillizzare la sorella; aveva solo 8 anni e si apprestava a cambiare totalmente vita. Mi ricordava, in piccolo, me. Perso tra le baraonde del destino mi ero ritrovato a combattere in Medio Oriente. Qualche anno prima non avrei mai immaginato nulla di tutto questo.

"Vedo che porti ancora la collana che ti ho regalato." disse Farida, una volta che Sherazade si fu addormentata.

"La rivuoi?"chiesi sfiorando il regalo con le dita.

"No" rispose lei "sono felice che sia tu ad indossarla."

Il resto della tratta la passai dormendo, cercando di recuperare in toto le forze.

All'aeroporto trovammo Richard, Sarah, Alice, i miei genitori e mia sorella ad attenderci.

Dopo gli abbracci e qualche lacrima, presentai loro i miei amici che ancora non conoscevano.

Salii in macchina con Richard, Sarah, Francesca, Farida e la sorella e ci avviammo verso casa.

"Sophia?" chiesi con una punta di dispiacere.

"Arriverà domani." rispose Sarah.

"Quindi andrò io a prenderla all'aeroporto, i ruoli si sono invertiti." dissi sorridendo.

"Leo" intervenne Richard "Ben è a casa sua. Gli abbiamo detto che saresti tornato oggi. Il suo sguardo si è illuminato, ma poi è tornato nell'apatia totale."

"Andrò a trovarlo stasera stessa" 

"Ben è quel tuo amico che è rimasto ferito in uno scontro?" chiese Farida.

"Sì, proprio lui. Già al fronte mi avevano avvisato della sua condizione."

"Ha persino lasciato Alice." disse Sarah.

"Non posso crederci. Lei come sta?" 

"Va avanti.. in attesa che Ben riacquisti la ragione." rispose la ragazza.

Poco dopo arrivammo a casa: avevamo abbastanza spazio per ospitare i nostri amici. Solo che io avrei dovuto dormire nel salone insieme a Stephan e Sean, Farida e Sherazade avrebbero dormito nella stanza degli ospiti e Francesca in camera mia. Stavo sistemando le lenzuola per la notte quando mi si avvicinò Francesca.

"Mi dispiace aver occupato la tua camera. Ti ho detto che posso dormire benissimo sul divano." disse.

"Non se ne parla proprio. Guarda, a me dispiace più per la poca privacy che avranno Stephan e Sean." risposi sorridendo.

"Vuoi che ti accompagni da Ben?"

"No, grazie. Credo che questa sia una cosa che io debba affrontare da solo. Ho vietato anche a Richard di accompagnarmi."

"È giusto. Tu puoi capirlo meglio di chiunque altro."

Qualche minuto dopo, salutai tutti, presi la macchina di mio padre e guadi fino a casa Cross.

Distava solo 20 minuti da casa mia, ma il viaggio sembrava voler durare in eterno. 

Accesi la radio per cercare di rilassarmi, ma non funzionò. 

Scesi dalla macchina, attraversai il piccolo giardino che dava accoglienza all'abitazione e bussai alla porta. Mi aprì una signora di mezz'età con i capelli neri e gli occhi altrettanto scuri, aveva delle occhiaie spaventose.

"Buona sera. Sono Leonardo Locket, sono venuto a trovare Ben."

"Ciao Leonardo, i signori Cross non ci sono, io sono solo la governante, però Benjamin è in casa, prego."

Entrai e notai che la casa era caratterizzata da colori caldi e mobili in legno.

La donna mi condusse fino al piano di sopra e mi indicò una porta chiusa in fondo al corridoio.

"Quella è la camera di Benjamin. Ti fermi a cena, Leonardo?"

"Non so, dipende da Ben."

Si congedò e mi lasciò da solo in preda alla paura.

Non avevo la minima idea di cosa avrei potuto dire al mio amico; aveva visto in faccia la morte e questo l'aveva destabilizzato, come giusto che sia.

Presi coraggio e bussai alla sua porta.

"Non ho fame, Beth." sentii la sua voce rispondere con un tono che non era assolutamente da lui.

Respirai a fondo ed entrai nella stanza.

Ben era disteso sul letto che fissava il vuoto. I suoi occhi chiari erano totalmente spenti, i capelli in disordine e la barba non era stata fatta da giorni. Indossava un pantalone della tuta ed una maglietta bianca.

Non era più il Ben che conoscevo.

"Ehi.." dissi.

Si voltò di scattò ed incrociò i miei occhi.

"Ben tornato a casa. Com'era l'inferno dopo la mia partenza?"

"Al solito." risposi sedendomi sul letto affianco a lui.

"Cosa ci fai qui, Leo?"

"Sono qui per te."

"Non ho bisogno di nessuno."

"Hai persino lasciato Alice."

"E tu dovresti lasciare Sophia."

Mi lasciò spiazzato.

"Hai idea di come reagirebbe se ti dovesse succedere qualcosa?" continuò.

"Fin dall'inizio sapevamo a cosa andavamo incontro." risposi.

"Noi sì, loro non se ne capacitano fino a che non succede davvero qualcosa di grave."

"E così mandi tutto a puttane?!"

"È già andato tutto a puttane.. da un bel pezzo."

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Capitolo 27
*** Capitolo 27. ***


La sua risposta mi spiazzò.

"Ben, non puoi dire così. Hai solo 24 anni, la vita è ancora tutta da scoprire, da.. vivere."

"È morto qualcun'altra laggiù?"

Presi un profondo respiro.

"Rispondi."

"Kevin Price."

"L'ennesima vittima." disse sporgendosi verso il suo comodino da quale prese un pacchetto di sigarette.

"Ne vuoi una?" mi chiese.

"Fumare uccide."

"Sai quante cose uccidono piano piano ogni giorno." rispose semplicemente aspirando del fumo.

"Vestiti, ti porto fuori all'aria aperta."

"Non mi va, Leonardo."

"Non costringermi a portarti fuori a forza."

"Provaci."

Lo presi per un braccio e lo sollevai dal letto, la mia azione improvvisa fece sì che non ebbe nemmeno il tempo di opporre alcuna resistenza.

"Sai bene che sono testardo."

"Ok, fammi prendere una felpa."

Scendemmo le scale e trovammo all'ingresso Beth.

"Benjamin, è pronta la cena."

"Mangeremo al nostro ritorno."

Uscimmo da quella casa e respirammo l'aria fresca di dicembre.

"Non vedi che il mondo non è finito? Per quanto possa fare schifo, a volte, per quanto possa sembrare che tutto sia contro di noi, non dobbiamo arrenderci. Buttare tutti i sacrifici che hai fatto nella spazzatura non ha senso. Ben, io so quello che sei. Il Benjamin Cross di qualche anno fa avrebbe riso nel vedersi ridotto così. Sei apatico, hai lasciato una ragazza che ami per paura. Ma la paura fa parte del gioco, non esiste persona che non abbia paura: paura di uscire di casa, paura di guidare, di volare. Ma il mondo si fermerebbe se tutti si lasciassero bloccare da questa bestia nera."

"Sono bellissime parole, Leo. Ma ti ricordo che anche tu sei stato bloccato dall'apatia per ben due anni."

"Per questo non voglio che tu cada in questo baratro. E sai cosa mi ha aiutato ad uscire? Sophia. Sapere che una persona ti ama incondizionatamente non ha prezzo, guarisce qualsiasi cosa."

Camminammo per un po' in silenzio quando Ben si sedette su di una panchina, si prese la testa tra le mani ed incominciò a piangere. Mi sistemai affianco a lui e gli misi una mano sulla spalla lasciando che le lacrime uscissero, sperando che quelle lacrime, quello sfogo, potessero rappresentare una svolta.

"È la prima volta che piango." disse dopo qualche minuto.

"Piangere fa bene. Torniamo a casa, ora. Devi riposarti per domani."

"Domani?"

"C'è il funerale di Kevin e ti voglio presente. Verrò a prenderti a casa, se non ti troverò lì."

"Ci devo pensare, Leo."

 

 

La mattina dopo mi svegliai verso le 7; il funerale avrebbe avuto inizio alle 17, ma alle 9 sarei dovuto andare all'aeroporto per accogliere Sophia.

Mi alzai dal divano letto ed uscii fuori nel giardino di casa mia ancora in pigiama.

Mi fermai ad ammirare il Sole che, ormai, era già sorto e la mia mente iniziò a viaggiare, a riflettere.

Valeva la pena continuare a far parte dell'esercito nonostante il fantasma della morte in costante presenza alle nostre spalle?

È un dato di fatto: la vita dell'uomo è un perenne labirinto; non è una semplice linea retta, ma è una curva altalenante che si muove, quasi sempre, senza preavviso. Nessuno ha mai detto che vivere fosse facile, ma in questo risiede l'ebbrezza dell'esistenza. Non ci sarebbe gioia nel vivere in maniera monotona, non ci sarebbe gusto nel non sentire quel profumo che solo l'adrenalina sa dare, non ci sarebbe felicità nell'assaporare qualcosa che ha sempre lo stesso sapore.

E l'esercito riusciva a darmi quell'adrenalina fondamentale per continuare a vivere appieno.

Rientrai in casa e mi preparai per dirigermi all'aeroporto.

Mi vestii in maniera semplice: un jeans scuro e una felpa bianca con cappuccio.

Salii in macchina e un sorriso mi uscì spontaneo al pensiero di poter rivedere, dopo mesi, Sophia.

Il suo aereo atterrò alle 9.05, io ero lì, ad aspettarla, quando la vidi in mezzo alla folla mentre parlava con un ragazzo alto con i capelli scuri e gli occhi verdi.

Non persi tempo che corsi, letteralmente, verso di lei.

Sophia, come se sentisse la mia presenza, si girò ed incontrò il mio sguardo.

Sorrise e quel gesto mi uccise. Ero davvero innamorato del suo semplice e vitale sorriso.

La abbracciai e la sollevai da terra, il suo profumo mi riempì le narici. Dopo qualche secondo la feci ritornare con i piedi per terra, ci guardammo negli occhi, le scostai una ciocca di capelli che le copriva il volto e la baciai con passione, con desiderio, con amore.

Uno di quei baci che davvero toglie il fiato.

Ci staccammo dopo un po'. 

"Mi sei mancato." disse.

"Anche tu." risposi e la baciai di nuovo.

Poi la presi per mano e mi stavo apprestando a prendere la sua valigia quando notai che il ragazzo che stava parlando con lei era ancora lì, come se l'aspettasse.

"Oddio, mi sono dimenticata di fare le presentazioni." disse Sophia lasciando la mia mano e sfiorando il braccio del suo amico.

"Leonardo" continuò "Lui è Efron Toy, il mio collega di NY."

"Tanto piacere." disse Efron tendendomi la mano.

"Piacere mio." mentii spudoratamente. Quel ragazzo fin da subito non mi aveva ispirato simpatia. Ero geloso marcio, vedevo la complicità che c'era tra di loro e mi rammaricai di essere così assente nella vita di Sophia.

"Leo, andiamo a casa?" disse dopo aver salutato Efron.

"Lui dove abita?" chiesi.

"A Baltimora, i suoi genitori stanno venendo a recuperarlo. Voglio andare a casa, voglio stare con te."

"Perfetto." dissi sorridendo "Andiamo."

Nel viaggio di ritorno in macchina le raccontai tutto quello che era successo durante l'ultima missione: le raccontai di Farida, di Kevin, di Imad. Lei ascoltò impassibile tutto, quando alla fine notai una lacrima solcare la sua guancia. Immediatamente fermai la macchina, mi voltai verso di lei e le misi una mano sul volto per cancellare quel segno di sofferenza.

"Va tutto bene, Sophia. Sono qui ora."

"Ti prego, non morire. Non potrei mai sopportarlo."

"Starò attento." e sancii questa promessa con un bacio.

Arrivati a casa, Sophia venne accolta benissimo da tutti, persino da Francesca.

Richard mi si avvicinò per chiedermi di Ben.

"Non ho proprio avuto modo di chiedertelo." disse.

"Spero che oggi venga, devo continuare il mio discorsetto di persuasione."

La nostra discussione venne interrotta da Sophia che mi abbracciò da dietro e, sollevandosi sulle punte, mi sussurrò all'orecchio: "Mi aiuti a portare in camera tua la valigia?"

"Sai che in camera mia dorme Frankie, vero?"

"Cambieremo le lenzuola." disse con un sorriso malizioso.

Presi la sua valigia e la seguii fino in camera mia, quando entrammo entrambi, lei chiuse a chiave la porta.

"C'è così tanta gente di sotto.." provai a dire ma un suo bacio mi fece morire le parole in gola.

"Shh." disse togliendomi la felpa "Faremo piano, e poi.. non avevi la camera insonorizzata?"

"Beh.. sì."

La lontananza l'uno dall'altra non aveva minimamente agito sull'elettricità che intercorreva tra di noi. 

Ogni suo bacio, ogni suo tocco, lasciava su di me delle scie di fuoco.

Ci spostammo sul letto e continuammo a baciarci e a spogliarci piano.

"Soldato, devo dire che non hai perso colpi."

"Cerco di tenermi allenato." dissi ricevendo in risposta una sua occhiataccia.

"Vedo che fai anche il simpatico. Bene, sarai punito per questo."

Si sistemò sopra di me e ricominciò a baciarmi tenendomi le braccia bloccate. Quando il bacio stava per farsi ancora più intenso, lei si scostò ed iniziò a tormentarmi il collo.

"Vuoi farmi impazzire?" sussurrai.

"Sì, era quello il mio intento."

Non resistetti a lungo al suo gioco, ribaltai la situazione e notai che sorrideva.

Ancora una volta la mia camera fu testimone del nostro amore, di quel legame che sarebbe stato indissolubile fino alla fine.

"Credo che dovremmo andare di sotto per mangiare qualcosa, sono le 14.30 e tra un po' dovremmo prepararci per il funerale." dissi.

Ci rivestimmo e scendemmo in sala da pranzo, la casa era deserta: mandai un messaggio a Richard per sapere dove fossero andati tutti.

"Volevamo lasciarvi soli. Alle 15.30 torneremo tutti a casa tua, così gli altri potranno prepararsi." fu la risposta.

Sophia ed io mangiammo qualcosa e poi io mi diressi verso il bagno per farmi una doccia.

Notai che Sophia mi stava seguendo.

"Dove vai?" chiesi.

"A farmi la doccia."

Così ci facemmo la doccia insieme e per le 16 eravamo entrambi pronti per la cerimonia.

Notammo che anche gli altri erano ormai pronti, così pochi minuti dopo prendemmo le macchine per dirigerci al cimitero.

Arrivati, notai i genitori di Kevin devastati dal dolore.

Mi avvicinai a loro, cercando di trovare le parole giuste per una situazione del genere.

"Siamo contenti che voi siate tutti qui." disse il padre.

Durante la funzione, il prete stava elencando tutti i pregi e tutte gli avvenimenti importanti della vita di Kevin, quando una decina di minuti dopo, vidi una figura avvicinarsi al gruppo: Ben.

Mi staccai da Sophia e mi diressi verso di lui che, intanto, si era bloccato a qualche metro da tutti noi.

"Non ce la faccio ad andare oltre." disse con le lacrime agli occhi.

"Sono contento che tu sia qui."

"Alice c'è?"

"Certo."

"Credo che cercherò di rimettere a posto la situazione con lei. Ma Leo, io non sono sicuro di potercela fare. Sono bloccato dal terrore. Non sono più io."

"Certo che sei ancora tu, devi solo ritrovarti. So che non è facile, ma sono sicuro che ce la farai."

"Come mai tutta questa fiducia in me?"

"Perché ho imparato a conoscerti e so che puoi farcela, che non è andato tutto a puttane come dici tu."

"Kevin era un bravo ragazzo."

"Già."

"Poteva essere questa la mia sorte."

"Ma non è andata così. Qualcosa significa: la vita ha ancora qualcosa in serbo per te."

"Tu credi in queste cose, nel destino?"

"Secondo me la vita si diverte a giocare con noi come una mamma si diverte a giocare con i propri cuccioli. Però poi qualsiasi cucciolo cresce e la vita non può far altro che lasciare a noi prendere le nostre decisioni. Credo nel libero arbitrio dell'essere umano. Però tu ti sei salvato: per fortuna, per l'abilità dei medici. Fa tesoro di questo, non essere un vivo morto dentro, sarebbe ancora peggio della morte stessa."

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Capitolo 28
*** Capitolo 28. ***


Passarono i giorni e arrivò anche la vigilia di Natale. I preparativi per festeggiare tutti insieme si intensificarono sempre di più; ero in camera mia a leggere un libro che avevo trovato in un angolo remoto della libreria. Si chiamava "Il dolce domani."

Ero immerso nella lettura quando qualcuno aprì la porta.

"Leonardo."

"Ben! Cosa ci fai qui?" dissi sollevandomi.

"Volevo parlarti."

"Dimmi tutto."

"Ho intenzione di riconquistare Alice, ma non so come fare. Insomma, non posso ripiombare nella sua vita come se nulla fosse successo."

"Beh.. già il fatto che ti sei rasato e che tu sia uscito di casa è un passo in avanti. Stasera stai con noi?"

"Probabile. La mia famiglia è partita e io sono solo a casa."

"Allora è deciso. Ci sarà anche Alice, con la sua famiglia."

"Tu credi che riuscirò a farle capire che mi dispiace?"

"A te dispiace?"

"Con tutto il cuore.."

"Allora vedrai che le cose andranno per il verso giusto." conclusi sorridendo.

"E a te come vanno le cose?"

"Normale. Mi godo questi giorni di tranquillità."

"Già sai quando dovrai ripartire?"

"Il 9 gennaio, molto probabilmente. Verrai con me?"

"Non so.. io.. ecco.."

"Non ha importanza." lo interruppi sorridendo.

Restammo in camera mia a parlare per un altro po' quando mia madre chiamò entrambi per dare una mano nelle faccende di casa.

In un attimo di tranquillità dalla folla che casa mia ospitava, mi rifugiai nel salone.

Fin da piccolo ho sempre amato ammirare l'albero di Natale tutto illuminato in una stanza buia. Mi dava una sensazione di pace, serenità.. era sapore di casa.

Sul divano trovai Sophia, assorta nei suoi pensieri.

Mi avvicinai a lei piano e le diedi un bacio sulla testa; lei sobbalzò e poi, una volta riconosciutomi, sorrise.

"Sai, mi hai soffiato il posto." le dissi sedendomi al suo fianco e lasciando che si accoccolasse su di me.

"In che senso?" chiese sollevando la testa.

"Di solito ero io quello che si soffermava a contemplare l'albero."

"Mi piacciono le luci." disse semplicemente.

Sorrisi e la mia mente iniziò a viaggiare indietro nel tempo.

A come, solo pochi anni prima, il Natale mi sembrava tetro e cupo, senza scopo, senza calore.

In quel momento, invece, ringraziai con tutto il mio cuore Dio, Allah, qualunque fosse la mente superiore che orchestrava tutto, per quella situazione che mi era capitata tra i piedi senza preavviso.

Avevo trovato la mia strada nonostante le premesse non fossero delle migliori, avevo attorno a me degli amici leali e.. beh.. avevo anche l'amore.

Un uomo, un essere umano, senza l'amore non è nulla: è vuoto, senza scopo.

Non credevo che un semplice sentimento potesse gratificare tanto, e non solo a livello fisico; a livello psicologico è qualcosa che ti innalza al di sopra degli altri. L'amore, persino quello più doloroso, rende migliori, fa crescere, ti fa intraprendere un viaggio nel quale puoi scoprire te stesso. A volte non basta, certo, ma averlo provato ti fa guardare il mondo con occhi diversi, ti fa aprire gli occhi, ecco, semplicemente aguzzi la vista ed inizi a sentire, percepire cose che normalmente avresti lasciato passare inosservate.

La mia mente vagò ancora per un altro po' e il calore del camino e di Sophia favorirono il mio assopimento.

Fui svegliato dalla voce della ragazza al mio fianco che mi incitava ad andare a tavola: ormai il cenone era pronto per iniziare.

"Ci siamo tutti?" chiese mio padre, seduto a capotavola "Bene, volevo dire solo qualche parola per iniziare la serata: non vi appesantirò con discorsi complicati ed articolati, volevo solo farvi sapere che sono felice che voi tutti siate qui a casa mia. Sono felice che vi siano presenti persone che non avevamo preventivato: è bello quando la vita ci riserva delle sorprese, è bello scoprire persone nuove delle quali non conoscevamo neppure l'esistenza, è bello stare tutti insieme e condividere emozioni e sensazioni. Spero che la cena vi piaccia perché noi cuochi abbiamo lavorato tanto." concluse con un sorriso.

Tutti noi innalzammo i calici e brindammo a quel momento di unione e serenità che, alcuni di noi sapevano benissimo, sarebbe stato solo uno spiraglio di luce in un cielo pieno di nuvole.

 

 

Dopo la cena fu il momento dei regali, a mezzanotte precisa ci sistemammo tutti intorno all'albero ed iniziammo a scambiarci i doni.

"Leo.." sussurrò Sophia al mio orecchio "il tuo regalo vorrei dartelo in privato."

Sorrisi, forse troppo maliziosamente.

"Non fare quella faccia." disse Sophia prendendomi per mano, ma sorridendo a sua volta.

Mi alzai, con gli occhi di tutti i presenti puntati addosso, compresi quelli dei genitori di Sophia ed avrei preferito sprofondare.

Sean, d'altro canto, mi fece l'occhiolino quando gli passai affianco.

Vidi Sophia dirigersi verso l'esterno.

"Non credi faccia troppo freddo per una serata al chiaro di Luna?" le chiesi.

"Puoi stare semplicemente zitto?" rispose, voltandosi.

Mi portò all'interno del gazebo che faceva da padrone nel giardino, era una costruzione che mia madre aveva voluto fortemente: d'estate eravamo soliti mangiare lì, al fresco e al riparo dai rumori della strada.

Notai che quello spazio era illuminato da delle candele.

"Ti sei data da fare.." constatai prendendola per mano.

"Siediti." mi disse indicando una sedia che era stata disposta al centro del gazebo.

"E tu..?"

"Starò in piedi.. devo parlare e mi viene ansia a farlo da seduta."

"Devo preoccuparmi?"

La mia mente iniziò a correre pensando a cosa potesse dirmi di così grave, il mio cuore, accelerando, si stava preparando al peggio. Deglutii e la guardai dritta negli occhi.

"No, sta sereno." disse regalandomi un bacio a fior di labbra.

Mi sedetti ed iniziai a fissarla.

Era vestita in maniera semplice: un paio di jeans scuri, una camicia bianca, un maglioncino azzurro ed era coperta da un pesante cappotto, lei mi guardava di rimando ed iniziò a tormentarsi le mani in preda al panico.

"Ok.." disse prendendo un respiro profondo "Sai che mi ci vuole un po' per esprimere i sentimenti, paradossalmente sei sempre stato tu quello più sentimentale tra noi due. Solo che, recentemente ho capito sempre meglio che la vita è breve e che non posso sprecare tempo per tenere in serbo parole che non ho il coraggio di dire. Il coraggio mi manca, ma non per insicurezza in quello che vorrei dire, ma perché ho paura. Paura che queste parole possano semplicemente andarsene via col vento, paura che queste parole non possano difenderti dai proiettili e dalle bombe che andrai ad affrontare quando tornerai alla Base in Oriente. Non ho mai pianto per questa situazione, perché è stata una tua scelta, perché è ciò che volevi fare davvero.. e ce ne hai messo di tempo per capirlo. Leonardo, sei cresciuto tanto in questi anni, siamo cresciuti insieme. Prima eri un ragazzo distaccato, senza forza d'animo; ora sei totalmente l'opposto e.."

Si prese una breve pausa perché la commozione si stava facendo largo in lei: aveva gli occhi lucidi e calde lacrime stavano per solcarle le guance.

"Io ti amo. Forse l'ho capito da subito, forse l'ho capito dopo, ma è questo quello che provo per te. Amo il modo in cui sorridi, in cui mi guardi, il modo in cui mi fai tremare il cuore e affannare il respiro con piccoli gesti che la gente comune non prenderebbe minimamente in considerazione. Nessun regalo potrebbe essere abbastanza, però.. sono un po' anticonformista e lo sai. Di solito è l'uomo che regala l'anello alla donna. Volevo modificare un po' le cose." concluse cacciando un pacchetto dalla tasca dei suoi pantaloni. Si avvicinò a me e me lo porse, io la invitai a sistemarsi sulle mie gambe, per sentire la sua presenza ancora di più.

Aprii il pacchetto e vi trovai due fedine in oro bianco con all'interno un'incisione: "Always."

"Questo è per sempre.." mi sussurrò all'orecchio.

Non sapevo cosa rispondere, così lasciai che il mio corpo parlasse: la baciai con tutta la passione che avevo trattenuto dall'inizio della sua dichiarazione.

"Ti amo." le dissi in un attimo di respiro.

Lei sorrise sulle mie labbra, senza interrompere il contatto.

"E anche io ho un regalo per te." dissi dopo un po'.

"Dobbiamo tornare in casa?"

"No.. però dovrai aspettare qualche giorno."

"Non voglio aspettare. È ora Natale, mi spetta un regalo.. e non fare sempre doppi sensi!" disse sorridendo.

"Torniamo in casa."

 

 

Casa mia iniziò a svuotarsi verso le 2 di notte, stava per andarsene anche Alice quando Ben la trattenne per un braccio e la baciò sotto il vischio.

Lei all'inizio ricambiò il bacio, poi come se si fosse risvegliata da un torpore, si scansò ed uscì di corsa. Notai che il mio amico stava cercando di recuperare un pacchetto di sigarette dalla tasca di un cappotto con mani tremanti.

Stavo per seguirlo quando Sean, Richard e Stephan mi fermarono.

"Mi sa che un po' di alcool migliorerà la situazione." disse Sean mostrando una bottiglia di rum.

"Volete ubriacarvi senza di me?" disse una voce alle nostre spalle.

"Frankie.. è una cosa per soli uomini." intervenne Stephan.

"In realtà credo di essere più uomo io di voi due." disse sorridendo ed indicando il suo collega e il Capitano.

"Un po' di compagnia in più farà solo del bene a Ben, andiamo." concluse Richard.

In effetti il nostro amico aveva solo bisogno di persone attorno a lui che lo ascoltassero e lo facessero distrarre.

Ho ricordi offuscati di quella notte, ricordo che ridemmo tanto e dopo poco ci raggiunsero anche Farida, Sophia e Sarah.

Sfidando il freddo, mi stesi nell'erba e mi rilassai guardando il cielo stellato.

Cosa sarebbe successo se Ben fosse morto?

Cosa sarebbe successo se fossi morto io stesso?

Non seppi mai perché mi soffermai su pensieri così tristi, l'ho sempre detto: il cervello umano ti frega in continuazione, non fa nulla senza un motivo.

Cosa sarebbe successo se..?

Quella domanda ha sempre attanagliato la mia esistenza, una vita costruita su dei bivi che non sapevo come affrontare fino all'ultimo, fino all'estremo momento utile per poter decidere.

Cosa sarebbe successo se..?

E se Sophia non mi avesse mai amato..?

Ma questi pensieri vennero bloccati da un bacio che sancì l'inutilità dell'intristirmi per degli avvenimenti che per caso o per destino non erano accaduti.

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Capitolo 29
*** Capitolo 29. ***


"Non puoi ancora dormire! Forza Leo, abbiamo un sacco di cose da fare oggi!"

"Kate.. ma che.." risposi con voce assonnata.

"È l'ultimo dell'anno, non puoi sprecarlo dormendo!"

"Ma che ore sono?"

"Le 10 del mattino. Preparati, dobbiamo andare a Baltimora."

"Perché?"

"Ti spiego tutto in macchina." e sparì dalla mia vista.

Mi sollevai dal divano e mi guardai attorno: c'era una calma assurda, probabilmente tutti gli altri stavano ancora dormendo. Per non sentire le lamentele di mia sorella, mi alzai definitivamente e mi diressi verso il bagno.

Circa mezz'ora dopo, entrai in cucina e Catherine mi porse una tazza di caffè.

"Sei molto lento, ragazzo." mi disse sorridendo e ripiegando il giornale.

"Siamo gli unici svegli, vero?"

"Già." 

"Mi dai il tempo di fare colazione?"

"Ti ho preparato un pezzo di ciambellone, però lo mangerai mentre guiderai verso la nostra meta." concluse alzandosi e trascinandomi fuori al freddo. Fui percorso da un brivido.

"Hai freddo?"

"No, è solo un'impressione."

"Sei abbastanza acido la mattina."

"Se solo avessi la minima idea di dove stiamo andando."

"Te l'ho detto: a Baltimora."

"Per fare cosa?" le chiesi entrando in macchina.

"Lo saprai quando saremo arrivati."

"Io non metto in moto fino a che non mi dici cos'hai in mente." dissi fissandola, lei sorrise.

"Ok, ho un piano per stasera: vorrei fittare un locale molto carino a Baltimora per festeggiare come si deve questo nuovo anno che sta per arrivare. Sarà una cosa solo tra noi giovani, ci metteremo in macchina subito dopo il grande cenone."

"Potevi dirmelo subito." conclusi avviando la macchina.

Kate accese la radio e per un po' il nostro viaggio venne accompagnato solo dalle note di un cd a me sconosciuto.

"Chi è il cantante?" chiesi, interrompendo il silenzio.

"Un certo Ron Pope. Non è male. Ma parlami un po' di questo tuo soggiorno a casa, non abbiamo avuto proprio modo di parlare, non c'è un attimo di pace."

"Sta andando bene, molto bene." risposi e il mio sguardo si posò per un istante sulla fedina che portavo dalla notte di Natale.

"Sophia è stata davvero carina." sentenziò mia sorella "A quando le nozze?"

Quella domanda mi colpì come un fulmine a ciel sereno.

"Ecco.. io credo che siamo troppo giovani per pensare ad un passo del genere."

"A giudicare dall'anello che porti al dito, mi sa che la tua ragazza ci ha già pensato."

"Non credo.."

"Insomma, Leo.. sappiamo tutti che con il tuo lavoro non puoi stare al sicuro per due giorni di fila. Richard si è sposato proprio per non perdere tempo; hai trovato la persona giusta, non c'è bisogno di aspettare."

"È proprio per il mio lavoro che voglio aspettare."

"Credi che Sophia non abbia preso in considerazione tutti i pro ed i contro? Ti rendi conto che quella ragazza ti ha raggiunto in Afghanistan per riconquistarti?"

"Lo so benissimo, ma non voglio che soffra se io dovessi.."

"E così la lascerai appesa ad un filo per tutta la vita?"

"Kate, non voglio parlarne ora.. oggi voglio solo pensare a stare bene, dato che tra qualche giorno devo ritornare lì. Voglio solo divertirmi."

"Benissimo, parliamo del programma della serata."

Arrivammo a Baltimora un'oretta dopo e Catherine mi guidò fino ad un locale che era poco distante dal centro della città.

"Ho preso appuntamento con un tizio, spero non ritardi." disse guardandosi attorno.

Poco dopo un uomo bussò al mio finestrino e si presentò come Philip Dawn.

Mia sorella ed io scendemmo dalla macchina e lo seguimmo all'interno del locale.

"Quindi avete intenzione di fare una cosa privata? In quanti dovreste essere?" chiese.

"Oh.. non più di 15 persone." rispose prontamente Kate.

"Vi abbiamo riservato uno spazio. Siete stati fortunati ad aver trovato posto all'ultimo minuto."

Ci condusse al piano di sopra e ci mostrò quella che veniva chiamata la Saletta Golden; il nome era appropriato dato che le rifiniture della stanza erano di color oro, il resto era nero lucido, con dei divani in pelle ed una console per il DJ.

"Ecco, credo che questa soluzione possa andare bene." disse Dawn.

"Perfetta." rispose Catherine entusiasta.

"Kate, io vado fuori, ti aspetto vicino alla macchina." sussurrai a mia sorella, lasciandola sola per trattare con il proprietario riguardo il prezzo e tutto il resto.

Uscii all'aria fredda di fine dicembre, mi appoggiai alla macchina e, mettendomi le mani in tasca, notai che all'interno del mio cappotto vi era un pacchetto di sigarette, quasi vuoto con tanto di accendino; ne presi una e la accessi.

Poco dopo mi si avvicinò una ragazza dai capelli rossi.

"Ciao, hai da accendere?"

Senza rispondere le porsi l'accendino e sorrisi.

"Sei di Baltimora?" chiese, cercando di intavolare una discussione.

"No, sono di Frederick, ma molto probabilmente festeggeremo il Capodanno qui." risposi facendo cenno al locale che era alle mie spalle.

"Siete riusciti a trovare una sala?"

"La Golden, se ricordo bene."

"Fortunati, davvero fortunati. Io lavoro con il signor Dawn e quest'anno eravamo sommersi da richieste."

"Mia sorella ha talento per le soluzioni dell'ultimo minuto."

La ragazza mi sorrise ed aspirò del fumo dalla sua sigaretta.

"Piacere, comunque. Roxanne Stewart."

"Leonardo Locket."

"Questa sera farò un po' il giro del locale per vedere se tutto procede bene, ci rivedremo." disse andandosene.

Poco dopo arrivò Catherine.

"Bene, stasera ci divertiremo! Chi era quella?"

"Mi ha detto di lavorare con Dawn."

"Perché attiri sempre le ragazze dalla dubbia moralità?"

"Dai.."

"Eccetto Sophia, ovviamente. Leo, hai una capacità assurda di conquistare ragazze in men che non si dica."

"Lo considero un dono." risposi sorridendo e rientrando in macchina.

 

 

La sera, dopo il grande cenone e gli auguri generali, una parte di noi si mise in macchina in direzione Baltimora.

Io ero alla guida della vettura che trasportava Sophia, Sean, Stephan e Farida.

Avevamo fatto circa 100 metri quando Sean disse: "Bene, dobbiamo brindare!"

"Dove hai preso quella bottiglia?" chiesi guardando il suo riflesso nello specchietto retrovisore.

"Era tutta sola sul tavolo in sala da pranzo, non potevo lasciarla lì." rispose sorridendo.

"Io ho portato i bicchieri." aggiunse Stephan.

Tesi la mano destra nella loro direzione per avere un bicchiere di champagne.

"No" disse Sophia "devi essere lucido. Almeno fino a Baltimora."

La ragazza si sporse e mi lasciò un leggero bacio sulla guancia, quel piccolo gesto mi scombussolò per un secondo: venni inondato dal suo profumo buono e venni trascinato in quell'aura di sicurezza, amore, cardiopalmo che sono lei era in grado di donarmi.

L'ora di viaggio passò in fretta, parcheggiai nel retro del locale e notai molte altre macchina lì ferme: la serata sarebbe stata movimentata.

Entrammo nel locale e Sophia mi prese per mano; Catherine ci fece strada e ci condusse della sala che avevamo pagato.

Varcammo la soglia e ci ritrovammo Roxanne con uno splendido vestito da sera, intenta a stappare una bottiglia.

La rossa mi sorrise e corse verso di me e, senza rendermene conto, lasciai la mano di Sophia per salutarla.

Quel gesto non piacque affatto alla ragazza alla mia sinistra, ma lì, sul momento, non ci feci troppo caso.

La serata proseguì senza problemi, dopo un po' di alcool anche Sophia si era sciolta e sembrava più in armonia con l'ambiente.

Il ricordo dell'ultima volta che avevo esagerato con il bere si insinuò nella mia mente, così mi fasciai la testa prima del dovuto: presi Sophia e la portai all'esterno per goderci appieno quella prima notte dell'anno nuovo.

L'aria fresca sembrò rigenerarla.

"Credi che cambieranno molte cose?" mi chiese.

"Dipende da noi, solo da noi."

"Sono felice di questa serata, anche se sono un po' brilla, quindi avrò dei vuoti di memoria." disse scoppiando a ridere.

La attirai a me abbracciandola e le diedi un bacio all'angolo della bocca.

"Credo che coglierò quest'occasione.." le dissi all'orecchio.

"Vuoi approfittarti di me?" rispose, continuando a ridere.

"No, anche se mi piacerebbe, ma a questo penseremo dopo." risposi baciandola "Volevo dirti a cuore aperto tutto ciò che sto provando in questi giorni."

"Prego, soldato.. sono tutta orecchie."

La scortai verso una panchina e le posai la mia giacca sulle spalle, lei se la strinse addosso, appoggiando la testa sulla mia spalla e disse: "Sa di buono, odora di te."

Sorrisi disarmato di fronte alla dolcezza di quella visione, poi presi coraggio e lasciai parlare le emozioni.

"Non sono mai stato bravo con i discorsi, insomma: ho sempre lasciato che l'istinto parlasse al posto mio. A volte mi è andata bene, altre volte no. Con te non vi è stata alcuna eccezione: ha parlato l'impulso, hanno parlato le emozioni, non la ragione. Per questo dico di amarti, perché sei l'unica che letteralmente mi ha fatto perdere la testa, l'unica per la quale ho messo a tacere la ragione, una parte di me alla quale do molta importanza. Tu sei l'unica che riesce a far parlare senza freni quel cuore che ha sofferto così tanto, quel cuore che da anni non si emozionava per le cose da poco, quel cuore che, ora lo so, aspettava solo te. Io ti amo e le cose non cambieranno, mai. Ma.. non voglio rubarti la tua giovinezza; so che questo anello significa molto, ma io voglio aspettare, voglio essere sicuro di poterti dare un futuro, non voglio essere in pericolo di vita.. voglio.. Sophia?"

Ma le mie parole erano ormai volate via nella notte, così di soppiatto come erano arrivate: Sophia si era profondamente addormentata sulla mia spalla, le diedi un bacio a fior di labbra beandomi del suo profumo e sorrisi guardando le stelle.

 

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Capitolo 30
*** Capitolo 30. ***


"Caffè?" disse Roxanne avvicinandosi a me.

La serata era ormai terminata, molti del mio gruppo erano intenti a darsi una sistemata: avevamo deciso di trascorrere il primo giorno dell'anno nuovo a Baltimora.

"Grazie." risposi prendendo tra le mani la tazza ancora fumante e invitando la ragazza a sedersi vicino a me.

"Divertito?" mi chiese.

"Sono stato bene, sì. Credi che qui vicino ci sia qualche posto per fare colazione?"

"A due isolati di distanza c'è un bar gestito da un amico del signor Dawn. Sicuramente sarà aperto, non siete gli unici ad aver fatto le ore piccole." rispose sorridendo. "Quella ragazza così carina che ti guarda con sguardo perso è la tua fidanzata?"

"Si chiama Sophia e.. non mi guarda con sguardo perso."

"Andiamo, si vede lontano un miglio che è innamorata di te. Tu non mi sembri dello stesso avviso."

"Non mi conosci."

"Sono brava a capire le persone." rispose tranquillamente.

"La amo."

"Ma.."

"Sono un militare e ho paura di morire durante una missione e lasciarla da sola col peso della mia scomparsa." dissi con un filo di voce "Ha comprato degli anelli per noi."

"Leonardo, io non ti conosco, però conosco il cuore delle donne: è più forte di quello che sembri." concluse alzandosi e lasciandomi un bacio sulla guancia.

Sulla porta incrociò proprio Sophia che la guardò torva; la rossa sorrise affabile e ritornò all'interno della struttura.

"Vedo che hai fatto amicizia." disse Sophia.

"Solo una ragazza che mi ha consigliato dove fare colazione." dissi baciandola, ma lei voltò la testa e le mie labbra finirono sulla sua guancia.

"Ben ha bisogno di te. Mi ha mandato a chiamarti."

La lasciai lì e mi affrettai a cercare il mio amico, lo trovai poco dopo, solo, in un angolo del locale con la testa tra le mani.

"Ben.."

"Leo.. sono un idiota. Avanti, dimmi anche tu quanto io sia idiota."

"Beh.. ogni tanto non brilli di scaltrezza, però non sei tanto male. Che è successo?"

"Alice." rispose secco.

"Eh.. l'amore.." dissi sedendomi al suo fianco "Non sei ridotto bene, affatto. Sono gli effetti dell'amore. Quando qualcosa di così bello, fa così altrettanto male vuol dire che è qualcosa di davvero potente. Ed è questo l'amore, amico mio. È la più grande fonte di potenza che potrai mai trovare al mondo; è in grado di farti toccare in un secondo il cielo con un dito e di farti ritrovare, un attimo dopo, sotto terra sepolto dalle conseguenze. Non esiste un manuale che spiega come comportarsi, non esistono esperti o consiglieri, esiste soltanto il tuo cuore e la tua voglia di ascoltarlo. Quindi ora alzati, ricomponiti e riprenditi Alice."

Quel discorso sembrò rinvigorire il mio amico che si alzò di scatto e si catapultò alla ricerca della sua ragazza.

Mi guardai attorno e decisi che quello era il momento giusto per consegnare il mio regalo a Sophia.

Ritornai all'esterno del locale e la trovai seduta sulla panchina che poco prima era occupata da Roxanne e me.

"Tu pensi troppo." le dissi sorridendo e avvicinandomi a lei.

"E tu, invece, agisci troppo."

"Sai che non ti tradirei mai più, con nessun'altra. Come devo fartelo capire?"

"Smettendo di fare l'idiota con chiunque abbia un viso abbastanza carino." rispose alzandosi di scatto e cercando di fuggire da me. Io la trattenni per la mano e la avvolsi in un abbraccio.

"Devi fidarti. Se tu non ti fidi, io non posso fare molto. Ti amo, lo sai vero?"

Lei annuì e mi baciò. Le nostre labbra si incontrarono per la prima volta alla luce del Sole di un anno nuovo, quel contatto mi era decisamente mancato.

"È ora che tu abbia il tuo regalo." dissi cacciando una busta dal taschino interno della mia giacca, gliela porsi e lei aggrottò la fronte nel leggerne il contenuto.

"Quanto ti è costato?" chiese.

"Non importa."

"Ma è un viaggio costosissimo.. non puoi permettertelo, Leo.. davvero, apprezzo il pensiero.. ma le Maldive sono.."

Bloccai il suo flusso di parole con un semplice bacio.

"Partiamo tra tre giorni, Sophia. Staremo lì una settimana, staremo insieme, staremo bene e.. io dovrò partire di nuovo un giorno dopo il nostro ritorno."

 

 

"Pronto a partire?" mi chiese Richard.

"Sì. Ci accompagni tu in aeroporto?"

"Già, così mi è stato riferito." disse sedendosi sul mio letto mentre io mettevo le ultime cose in valigia.

"È il primo viaggio che fate da soli come coppia. Emozionato?"

"Un po', insomma.. sarà strano vivere la nostra quotidianità in un contesto totalmente diverso. Svegliarci insieme senza gente attorno, senza momenti imbarazzanti causati da mia sorella o dai miei genitori."

"E allora perché hai quella faccia da condannato a morte?"

"Ricky, cosa sto facendo? Dimmelo tu perché io non lo so più." gli dissi chiudendo con uno strattone la valigia.

"Dovresti spiegarti meglio."

"Porto quest'anello come se fosse una promessa. Un impegno per il futuro, un futuro che io non posso assicurarle."

"Smettila di preoccuparti!" mi interruppe quasi urlando "Hai scelto tu la vita da militare e non puoi precluderti altre felicità per questo!"

"Tra 10 giorni tornerò lì, saremo separati di nuovo. Lei andrà a Los Angeles con quel tipo e io ho paura di perderla, paura di non essere abbastanza per lei."

"E quindi cosa vorresti fare?"

"Lasciarl.."

In quel momento, però, la porta si spalancò ed entrò Sean.

"Dovreste assicurarvi che la porta sia chiusa meglio, la prossima volta." disse guardandomi dritto negli occhi "Volevo solo dirti che sarai di stanza in Egitto, però resterai lì solo per un mese. Ti aspettano a West Point per prepararti come si deve." completò la frase ed uscì dalla camera.

"Sean!" dissi correndogli dietro "Aspetta!"

"Ti rendi conto di quello che stai per fare? Stai preparando il maiale per portarlo al macello! Non ci si comporta così, Sergente Locket."

"Sean.."

"Chiamami Capitano. Dovrai avere a che fare con me anche ad El Cairo."

"Capitano Gallagher, non credo che queste cose debbano interferire con il nostro rapporto lavorativo." dissi con un tono di sfida che mi sarebbe costato una punizione se fossimo stati nel mondo militare.

"Ti rendi conto di quanto Sophia abbia sofferto per la tua bella testa di cazzo?"

"Me ne rendo conto perfettamente, ecco perché.."

"Vuoi spegnere il cervello una buona volta?!" detto questo, girò i tacchi e mi lasciò lì con le parole che mi morivano in gola.

 

 

"Leo" sussurrò Sophia "ti ricordo che io ho paura dell'aereo."

Sorrisi guardandola e strinsi la sua mano nella mia.

"So cos'hai intenzione di fare." disse dopo un po'.

"Di che cosa stai parlando?" chiesi con la voce tremante.

"Vuoi lasciarmi, vero?"

"Io.. no, certo che no.."

"Avanti, fai un sorriso triste ogni volta che mi guardi. Probabilmente questo sarà il nostro ultimo viaggio insieme. Cavalleresco da parte tua offrirmi la possibilità di poter visitare le Maldive."

Il silenzio calò su di noi, mi ridestai solo quando Sophia lasciò la mia mano.

"Guardami, per favore." disse.

"Sophia.. non è il momento.."

"Credo che il momento buono possa essere ovunque. So che hai paura di essere ucciso e lasciarmi sola, però.. credimi: preferirei stare con te con questo macigno, piuttosto che non stare con te affatto. Tu, che ti estranei dal mondo così tanto spesso per rintanarti nella tua mente contorta, ti sei mai chiesto cosa sarebbe successo se non ci fossimo incontrati? Saresti stato felice di avermi sollevato da un simile peso? No, perché non avresti affatto tenuto a me. Chieditelo, Leonardo: cosa sarebbe successo se non fossi stata presente quel giorno nel quale hai accompagnato Richard a Baltimora?"

"Il mio mondo avrebbe avuto un pezzo mancante." pensai, ma non diedi voce a quello che portavo dentro. Non diedi adito a tutti i dubbi, a tutte le incertezze; non lasciai spazio alle paure e ai timori. Per la prima volta nella mia vita zittii il mio cervello.

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Capitolo 31
*** Capitolo 31. ***


Atterrammo senza problemi all'Aeroporto Internazionale Ibrahim Nasir: le piste di atterraggio erano circondate da distese di oceano dal colore scuro. Una volta presi i bagagli, ci dirigemmo verso l'uscita.

"Dovrebbe esserci qualcuno pronto a portarci in albergo." dissi a bassa voce più a me stesso che a Sophia.

Poco dopo scorsi un ragazzo, di sì e no 24 anni, con un cartello in mano con su scritto "Locket - USA". Ci avvicinammo a lui e ci lasciammo scortare all'esterno; camminammo per un po' e lo sconosciuto ci disse, in un inglese perfetto, che saremmo arrivati in albergo a bordo di un motoscafo. Con qualche difficoltà riuscimmo a posizionare i bagagli e a salire noi stessi sul mezzo di trasporto senza cadere in acqua.

"Quanto tempo ci vuole per arrivare?" chiese Sophia.

"40 minuti, ma il mare è abbastanza calmo oggi, quindi anche di meno."

La ragazza sorrise e lasciò cadere la sua testa sulla mia spalla, ci lasciammo coccolare entrambi dal monotono cullare delle onde e del movimento della barca.

Il paesaggio era incredibile: l'Oceano Indiano si mostrava in tutta la sua magnificenza; il mare, a tratti più scuro e a tratti più chiaro, faceva dei giochi di colore con la luce del Sole impressionanti.

"Sai" dissi "credo che potrei morire qui."

"Guarda, se ti spostassero qui per qualche missione, ti verrei a trovare più spesso. Altro che New York." rispose Sophia sorridendo.

"A proposito: Sean mi ha dato delle notizie riguardo la mia partenza."

"Ne dobbiamo parlare proprio ora?"

"Non è una cosa molto negativa. Mi hanno spostato da Kabul ad El Cairo, starò lì solo un mese e poi dovrò frequentare West Point per sperare di diventare, nel giro di qualche anno, Tenente."

"West Point.." mormorò Sophia "L'ho già sentito nominare."

"È la più rinomata Accademia per ufficiali americani e.. non è molto lontana da NY."

"Ah sì, ora ricordo! Un ragazzo con una strana malattia venne da noi a farsi curare. Disse che frequentava West Point. Mi ricordava te, in un certo senso."

"Alto, atletico e di bell'aspetto?"

"No, un po' coglione." rispose ridendo.

 

 

L'albergo si trovava nell'atollo di Baa, il ragazzo che ci aveva condotto fin lì prese tutti i nostri bagagli e ci indirizzò verso l'edificio centrale che accoglieva la reception dell'intera struttura.

Entrammo e fummo accolti da delle ragazze vestite di bianco con dei vassoi in mano.

"Un piccolo cocktail di benvenuto." disse una di loro.

Sophia ed io prendemmo i calici che ci venivano offerti e ci dirigemmo verso il bancone dell'accoglienza.

"Buon giorno, signori. Voi dovreste essere Leonardo Locket e Sophia Johannes, giusto?" chiese un signore dalla pelle olivastra e in perfetto completo blu da ufficio.

"Esatto." risposi.

"Benissimo, Kamal vi accompagnerà alla vostra stanza." continuò indicando il ragazzo che attendeva ordini ancora con i bagagli in mano "Spero che il vostro soggiorno qui sia perfetto."

Il giovane di nome Kamal ci fece segno di seguirlo; con un ultimo sorso vuotai il bicchiere che ci era stato offerto dalle ragazze e seguì lui e Sophia all'esterno della hall.

Il Sole era accecante e il riflesso causato dalla sabbia bianca come il talco creava tutt'attorno al paesaggio una cornice extraterrenea.

"Sembra di essere in Paradiso." esclamò Sophia.

"Sono anni che vivo qui" disse Kamal poggiando le valigie su un pianerottolo color azzurro cielo "ma ancora devo farci completamente l'abitudine." concluse con un sorriso smagliante.

Mi avvicinai al ragazzo e gli diedi una mancia; lui, di rimando, mi lasciò le chiavi della stanza.

Aprii la porta e rimasi incantanti da ciò che vi era al suo interno: il bianco prevaricava su tutto l'ambiente, le mura erano ricoperte da disegni nei quali dominavano colori forti come il blu, il rosso e il giallo.

Sophia, alle mie spalle, chiuse la porta e mi abbracciò poggiando la sua fronte sulla mia schiena.

"Grazie." sussurrò lasciandomi un tenero bacio sulla spalla.

"Sai" dissi io girandomi nell'abbraccio per guardarla negli occhi "credo che dovremmo inaugurare questo posto. Insomma, il letto mi sembra così comodo."

Vidi il suo sguardo brillare e in un attimo ritrovai le sue labbra sulle mie.

 

 

Passarono un paio d'ore prima che un bussare alla porta interruppe la nostra armonia. 

"Ignoralo." dissi continuando a lasciare baci agli angoli della bocca di Sophia.

Il rumore, però, non cessava.

"Credo che dovresti andare ad aprire." disse lei sorridendo.

Mi alzai, leggermente controvoglia, e aprii la porta: una ragazza dalla pelle scura mi sorrise e si presentò come Taja.

"Spero di non aver interrotto nulla." disse guardando all'interno della stanza.

"Effettivamente qualcosa hai interrotto." dissi cercando di mantenere un tono affabile.

"Avrete tempo per recuperare. Volevo invitarvi a godere delle nostre spiagge, a quest'ora sono incantevoli e il mare ha la temperatura perfetta per un bagno. Ah, io sono la massaggiatrice, per qualsiasi cosa potete trovarmi al Beauty Center." concluse dandomi un opuscolo informativo.

Chiusi la porta e guardai Sophia che si stava preparando per trascorrere un pomeriggio di Sole e mare.

"Dai, restiamo qui ancora un altro po'. " dissi abbracciandola e dandole un bacio sul collo.

"Hai sentito Taja: il mare a quest'ora è stupendo." disse lasciandomi un bacio a stampo "Ti aspetto in spiaggia, muoviti."

La vidi uscire dalla stanza e, quando la porta fu chiusa, respirai profondamente. Mi concessi qualche secondo da solo con i miei pensieri, anche se mi ero ripromesso di lasciare il cervello e la ragione fuori da questa vacanza. Una cosa era certa, però, stare senza Sophia mi toglieva il fiato, mi rendeva impossibile respirare; non ce l'avrei mai fatta senza di lei, senza il suo sorriso, i suoi abbracci, i suoi baci, non sarei stato nessuno senza la sua presenza.

 

 

"Se ci avessi messo ancora un po', credo che avresti esaurito la settimana di vacanza." disse Sophia vedendomi arrivare nei pressi del lettino che aveva occupato.

"La massaggiatrice aveva ragione: si sta benissimo." dissi.

"Avanti, soldato. Il mare ci aspetta!" esclamò Sophia.

Mi prese per mano e mi condusse in prossimità dell'acqua, rabbrividì un secondo in seguito al contatto con la superficie del mare, ma dovetti abituarmi subito dato che Sophia mi trascinò a fondo con lei saltandomi sulle spalle.

Ripresi fiato e provai a guardarla con sguardo severo.

"Sei lento, Leo." disse ridendo.

Giocammo in acqua come due bambini e poi ci stendemmo a prendere il Sole in totale tranquillità, disturbati solo dalle richieste dei lavoratori dell'albergo che ci chiedevano se volevamo qualcosa da bere, da mangiare o preferenze per trascorrere la serata.

Era quasi il tramonto quando mi si avvicinò Taja.

"Signor Locket, vuole prestarsi ad un massaggio gratuito?" mi chiese.

Guardai Sophia che sembrava non aver sentito la richiesta della ragazza, io sapevo che, invece, era stata attentissima ad ogni parola pronunciata dalla massaggiatrice; era una buona occasione per farla ingelosire un po'.

"Perché no?" risposi. Mi alzai dal lettino e diedi un bacio a stampo a Sophia, che ricambiò guardando me con dolcezza e Taja con fare cagnesco, io sorrisi e seguii la ragazza.

"Avevo pensato di procedere col massaggio qui, in spiaggia." disse.

Mi accomodai sul lettino indicatomi e lasciai che il mio corpo su rilassasse.

"È la prima volta che fai un massaggio?" mi chiese Taja.

"Ad essere sincero, sì."

"Sei molto teso, infatti. Si sente."

Dopo una mezz'oretta mi alzai, salutai la ragazza e mi diressi verso Sophia, che era seduta in rima al mare con lo sguardo rivolto verso l'orizzonte.

Il clima stava incominciando a diventare meno caldo, così le poggiai un pareo sulle spalle e mi sedetti dietro di lei, lasciando che appoggiasse la sua schiena sul mio petto.

"Divertito con Taja?" mi chiese.

"Non sai quanto." dissi sorridendo.

Sophia voltò poco la testa cercando contatto con le mie labbra. Ci baciammo in quel posto magico dove la guerra, il dolore, la paura non potevano arrivare; un posto dove eravamo solo io e lei; un posto che avevo bramato nei miei sogni più profondi; un posto che non avremmo mai dimenticato.

 

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Capitolo 32
*** Capitolo 32. ***


Il quinto giorno della vacanza, che fino a quel momento era continuata alla grande, mi svegliai all'alba con l'intenzione di creare il giorno perfetto per la ragazza che dormiva al mio fianco in quel letto che, ormai, sapeva così tanto di noi.

Erano le 7 del mattino e nell'aria si sentiva solo il dolce suono delle onde; aprii piano la porta e respirai l'aria fresca delle Maldive: una leggera brezza portava con sé i profumi di quel meraviglioso posto.

Mi recai verso la reception: avevo appuntamento con una persona dello staff che mi avrebbe aiutato con ciò che avevo in mente. Mi diressi verso il bancone delle accoglienze ed aspettai per un paio di minuti. Una porta si aprì e ne uscì un uomo dalla carnagione scura che mi tese la mano con fare autorevole.

"Paul Labaan." si presentò.

"Leonardo Locket, piacere."

"Allora, signor Locket, ho sentito che ha voglia di realizzare una bella sorpresa per la sua fidanzata. Come posso esserle d'aiuto?" mi chiese sorridendo.

Nei successivi minuti spiegai ciò che avevo intenzione di fare per Sophia; Paul mi guardava con gli occhi che brillavano di emozione, come se partecipasse anche lui, in prima persona, a tutto.

"Credo che non avremo problemi ad aiutarla, signor Locket. Inizieremo con i preparativi a breve, lei si rilassi, ci vediamo qui alle 18 in punto per gli ultimi dettagli." disse infine.

Salutai il signor Labaan stringendogli la mano e mi diressi, di nuovo, verso la stanza; feci solo una piccola deviazione in direzione del ristorante. 

Entrai in camera con il vassoio della colazione, che poggiai sul comodino, e mi fermai un istante a guardare Sophia ancora immersa nel sonno.

Col delicatezza, mi avvicinai al letto e mi stesi al suo fianco e lei, come se avesse percepito la mia presenza, poggiò la testa sul mio petto e si accoccolò su di me.

 

 

"Buongiorno." le sussurrai quando, circa un'oretta dopo, aprì gli occhi.

"Leo.." mormorò lei in risposta.

La cullai ancora un po' tra le mie braccia lasciandola in quello stato di dormiveglia nel quale qualsiasi cosa ti sembra possibile e i sogni appaiono più reali.

"Da quanto sei sveglio?" disse dopo qualche minuto.

"Da un po'. Ti ho portato la colazione." risposi dandole un bacio a fior di labbra.

Mi alzai e le portai il vassoio, lei sorrise e mi attirò a sé per un bacio del "buongiorno" molto più passionale di quello che le avevo dato io poco prima.

"Non avresti dovuto." disse.

"Oh.. non sai quello che ti aspetta oggi." rivelai io con disinvoltura, come se non fosse nulla di speciale.

"Sergente Locket!"

"Dottoressa Johanness, non si preoccupi: sarà tutto di suo gradimento." dissi sorridendo e lasciandole un bacio sulla guancia.

 

 

La giornata continuò nel migliore dei modi: Sophia riceveva un sacco di attenzioni da parte mia e si godeva il momento.

"Sai, dovresti comportarti più spesso così." disse mentre sorseggiava un cocktail che le avevo appena portato.

"Sai che noia poi se dovessi essere sempre così romantico?" risposi io sedendomi al suo fianco.

"Dopo domani si torna a casa." commentò lei guardando verso l'orizzonte.

"Shh.. non ci pensare ora. Abbiamo ancora due giorni da vivere nel migliore dei modi."

"Poi si torna alla realtà: io a New York, tu in Egitto."

"Tornerò presto e starò a West Point."

"Sai quante cose possono accadere in un mese?" chiese lei guardandomi. Vedevo la paura nei suoi occhi scuri e tentai di rassicurarla con un abbraccio.

"Promettimi che non penserai a nulla di negativo fino a quando non accadrà, effettivamente, qualcosa di brutto."

"Ma.."

"Ehi, mi hai chiesto di mettere in pausa il cervello per un po', segui il tuo stesso consiglio."

 

 

Le 18 arrivarono in fretta: lasciai Sophia al centro massaggi e io mi diressi verso l'appuntamento con il signor Labaan. Quest'ultimo, non appena mi vide, mi venne incontro con un sorriso smagliante.

"È tutto pronto, sarà una serata magnifica." disse.

"Lo spero." risposi sorridendo.

Paul mi mostrò tutto quello che lui, in prima persona, e gli altri del personale avevano realizzato.

Tutto era semplicemente perfetto, nell'ora successiva mi dedicai alla cura degli ultimi dettagli e alla distribuzione delle varie, e copiose, mance.

Mi recai in camera, prima che Sophia arrivasse, e mi preparai per la serata.

Dopo una quarantina di minuti ero pronto per la serata che mi attendeva: camicia di lino, pantaloni beige e un paio di mocassini ai piedi. Gettai un'ultima occhiata nello specchio e, prima di uscire, lasciai sul letto un pacco e un biglietto per Sophia.

"Ti aspetto sulla spiaggia."

 

 

Il cuore mi batteva a mille, non ero abituato a situazioni del genere, ero lì, su di una spiaggia delle Maldive, vestito di tutto punto, in attesa di Sophia: le avrei regalato la serata più bella della sua vita.

Con il prezioso aiuto di Labaan, avevo allestito sulla spiaggia un tavolo che avrebbe accolto la nostra cena, intorno a me i camerieri si preparavano per servirci e dei musicisti locali erano pronti per farci da intrattenimento.

Poco dopo, sollevai lo sguardo e vidi la persona che stavo aspettando.

Indossava l'abito che le avevo regalato: un vestito lungo, stile impero, in chiffon arancione, senza spalline, che le scendeva morbido lungo i fianchi. Era bellissima, non avrei trovato altri aggettivi per descriverla. Mi si avvicinò ed una lieve folata di vento portò alle mie narici il suo profumo che mi faceva letteralmente impazzire.

Sorrisi e le tesi la mano per aiutarla a raggiungere il tavolo.

Durante la cena trovammo quell'armonia che era così difficile da trovare nel mondo reale. Parlo del "mondo reale" perché lì tutto sembrava un sogno, un'utopia, un'altra realtà.

Erano ormai passate un paio d'ore quando congedai tutti gli inservienti, che mi avevano aiutato, per creare un po' più di intimità tra me e Sophia.

"Che ne dici di una passeggiata sulla spiaggia?" le proposi.

"E come faccio con tutta la sabbia nelle scarpe?" chiese, di rimando, sorridendo.

"A piedi scalzi non dovremmo avere problemi."

E così iniziammo a camminare, mano nella mano, su quella sabbia che sembrava talco.

"Vorrei che questo durasse per sempre." disse Sophia volgendo lo sguardo verso la Luna.

"Beh.. il 'per sempre' non è altro che un istante. Insomma, nel momento in cui pronunci quelle due parole, esse perdono immediatamente di significato. Non esiste il 'per sempre', lo sappiamo bene entrambi, ma possiamo costruirci un futuro che duri abbastanza a lungo da accompagnarci fino alla morte."

Il rumore delle onde faceva da colonna sonora a quella situazione. Presi un respiro profondo e diedi voce a ciò che il mio cuore e il mio cervello stavano, silenziosamente, urlando.

"Sophia, non voglio essere troppo drammatico o sdolcinato, ma tu rappresenti davvero quanto di più bello mi sia mai capitato in 24 anni di vita. E la mia esistenza, fino ad ora, è stata una giostra senza freni, sono stato catapultato su delle montagne russe senza rendermene conto. Non so cosa succederà in futuro, potrei anche morire in Egitto mentre pulisco la mia attrezzatura, la vita è così strana che fare previsioni è davvero impossibile. Ma una cosa la so bene: non voglio vivere con dei rimpianti. Non voglio perdermi nei meandri di pensieri come 'cosa sarebbe successo se..?'. Voglio vivere appieno e voglio farlo con te."

"Cosa stai cercando di dirmi?" mi interruppe Sophia guardandomi negli occhi.

"Sposami."

 

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Capitolo 33
*** Capitolo 33. ***


Trascorse un mese da quella serata e Sophia non aveva risposto: si era limitata a guardarmi per un po' negli occhi, per poi baciarmi.

Non avevo idea di cosa potesse significare quella sua reazione, ma non ci diedi peso; qualche giorno dopo partì per El Cairo insieme ai miei soliti compagni d'avventura, persino Ben aveva ritrovato quella voglia di vivere che lo aveva abbandonato dopo l'ultima missione.

Nella capitale dell'Egitto faceva molto meno caldo rispetto al clima afoso del deserto afghano. La vita, però, sembrava più dura.

I commilitoni mi guardavano con occhi indiscreti: molti pensavano che le mie promozioni, fino a quel momento, fossero state dettate da decisioni affrettate dagli eventi nei quali mi ero ritrovato. Ero diventato Sergente per pura fortuna ed un pizzico di sangue freddo, i miei compagni pensavano questo ed io non potevo far nulla per far cambiare loro idea se non comportarmi come se quelle critiche non mi toccassero affatto. Ma la verità era un'altra: quelle parole alle mie spalle mi colpivano, eccome. I giorni alla Base in Egitto li trascorsi senza cognizione di causa; non vedevo l'ora di tornare negli Stati Uniti.

Ero a mensa con Sean e Ben quando al nostro tavolo si avvicinò una ragazza dai tratti asiatici che chiese di parlare con me in privato. Mi alzai e la seguì senza pensarci troppo. 

In silenzio mi condusse all'interno della sua tenda, mi guardò negli occhi e, solo dopo qualche secondo, incominciò a parlare.

"Sergente Hyuri Choi. Piacere di conoscerti."

"Leonardo Locket."

"Conosco il tuo nome e la tua fama ti ha preceduto. Ti aspettavamo con ansia."

"Non si direbbe." mi sfuggì.

"Locket, non credo che tu abbia fatto molto per smentire le dicerie, o sbaglio?"

"Ho adottato la tattica della noncuranza."

"E hai sbagliato clamorosamente."

"Tra meno di due settimane tornerò in patria e frequenterò West Point. Non ho bisogno di altro."

"Invece sì." rispose il Sergente sorridendo "E quel qualcosa in più posso offrirtelo io."

Mi fece un cenno con il capo e mi invitò a sedermi ad un tavolo ricoperto di fogli e mappe geografiche.

"Ti va un po' di adrenalina?" chiese.

"Non voglio buttarmi a capofitto in una missione suicida."

"Ti credevo diverso. Credevo che non ti fossi semplicemente ritrovato in quelle situazioni, ma che ne fossi protagonista. Evidentemente mi sono sbagliata anche io." disse con tono di sfida.

Mi fermai un attimo a riflettere: avevo scelto quella vita e dovevo accettarne le conseguenze, avevo scelto di andare in guerra, avevo scelto di mettere a rischio la mia vita.

"Ascoltare cos'hai da dirmi non mi farà del male." sentenziai dopo un paio di minuti.

"Perfetto. Tra 10 giorni tornerai a casa, quindi dobbiamo muoverci in fretta. So che sei amico del Capitano Gallagher, lui ha molta influenza sulle decisioni in questa landa desolata. Devi convincerlo a far sì che il mio piano venga attuato."

"Di che si tratta?" domandai.

"Qualche mese fa il Tenente Derrik è stato rapito. Io credo sia ancora vivo e credo lo nascondano nel bel mezzo di El Cairo, in piena città."

"Non ti sembrano delle conclusioni campate un po' in aria?"

"No." rispose lei facendo cenno alle carte "Ma ti concedo il beneficio del dubbio. Studia un po' questi documenti e poi dimmi cosa ne pensi."

"Non hai ancora detto in cosa consiste davvero la missione."

"Riportare in salvo il Tenente."

La guardai per un attimo: i suoi occhi a mandorla e scuri brillavano, quella scintilla mi convinse a portare alla mia attenzione quei fogli di carta che giacevano di fronte a me.

Passò circa un'ora prima che posai sul tavolo l'ultimo pezzo di carta.

"Potresti aver ragione." dissi dopo un attimo di riflessione "Il Tenente sembra ancora vivo.."

"Viva." mi corresse.

"Derrik è una donna?!"

"Samantha, sì." rispose.

Quel nome mi colpì come un fulmine a ciel sereno, erano anni che non pensavo a lei.

"Tutto bene?" mi chiese il Sergente.

"Il nome 'Samantha' mi è abbastanza familiare."

"Brutta storia?"

"Decisamente."

"Ti racconto la mia, se tu mi racconti la tua." disse la ragazza avvicinandosi a me sorridendo.

Annuì leggermente e lei iniziò a raccontare di come suo padre era fuggito dalla Corea del Sud per cercare fortuna in America. Lì aveva incontrato la donna della sua vita, tutto sembrava andare alla grande. L'armonia venne distrutta dal coming out di Hyuri. La ragazza si dichiarò lesbica a 17 anni, il padre la cacciò di casa e non volle più sapere niente di lei. Hyuri trovò asilo in una famiglia americana benestante che viveva in California: i Derrik. Legò fin da subito con la figlia maggiore: Samantha. Sembrava una semplice amicizia, ma quando Samantha le disse che si sarebbe arruolata, Hyuri le confessò il suo amore e decise di partire con lei per non lasciarla sola. 

"Samantha è fragile, è buona, prese quella decisione perché voleva dimostrare alla sua famiglia di essere in grado di portare in avanti la loro tradizione. Il destino ha voluto che entrambe venissimo spedite qui, ad El Cairo, 7 anni fa. Quello stesso destino bastardo, poi, me l'ha portata via." concluse Hyuri con gli occhi lucidi. 

Quel racconto mi aveva destabilizzato, sentivo che il pianto stava pizzicando i miei occhi.

Il Sergente alzò lo sguardo e disse: "Ecco perché voglio ritrovarla, perché senza di lei non sarei nulla, ma ora tocca a te. Per esperienza so che dietro a qualsiasi uniforme si nasconde una storia avvincente. Sono pronta ad ascoltare la tua." disse asciugandosi le lacrime.

Presi un respiro profondo ed incominciai a raccontare.

"Era una notte di ottobre del 2009, la mia ragazza dell'epoca ed io eravamo appena usciti da un locale. Non avevo bevuto affatto, lei era leggermente brilla. Eravamo fermi ad un semaforo quando Samantha incominciò a baciarmi, la strada era deserta. Mantenni il contatto con le sue labbra andando a bassa velocità. Con un occhio tenevo d'occhio la direzione che dovevo mantenere. Accadde in un attimo: Samantha si staccò da me, una macchina teneva accesi gli abbaglianti e mi accecò per un secondo. Un solo istante. Chiusi gli occhi e poi più nulla. Mi svegliai in ospedale, mi raccontarono che avevo colpito in pieno la macchina che avevo di fronte. Mi ero distratto per un fottutissimo secondo. Samantha non portava la cintura di sicurezza, venne scaraventata fuori dal parabrezza. Morì sul colpo. Da lì iniziò il mio lento declino, mi scavai una fossa da solo e vi rimasi per due lunghissimi anni. Il 4 luglio del 2011, come d'incanto, mi svegliai ammirando i militari che presenziavano la parata. Per la prima volta dopo tanto tempo qualcosa aveva riattivato il mio cuore, sentivo il sangue scorrermi nelle vene: ero di nuovo vivo. La vita non mi ha sorriso spesso in 24 anni, ma mi ha fatto scoprire tante sfaccettature che servono da esperienza. E poi ho incontrato lei, Sophia, ma questa è un'altra storia."

"Insomma.. l'amore ci ha spediti qui. È un paradosso." commentò Hyuri.

"Voglio aiutarti. Andrò subito a parlare con Sean."

Il Sergente Choi mi abbracciò e mi lasciò andare. Mi diressi subito verso la tenda del mio amico: entrai e trovai Sean che beveva birra mano nella mano con Stephan. Sorrisi e tossii lievemente per attirare la loro attenzione.

"Leo!" disse Sean "Non ti aspettavo."

"L'ho notato." risposi divertito.

"Torno alla mia postazione, evidentemente Leonardo deve dirti qualcosa." disse Stephan lasciando un casto bacio al Capitano e salutandomi con un cenno del capo.

"Cosa posso fare per te?" mi chiese Sean.

"Ho una missione da proporti."

"Oddio, Leo. Conosco questo tuo tono. Immagino sia una missione impossibile nella quale metteremo a repentaglio le vite di tutti."

"Mi è stato chiesto di convincerti a portare avanti questa cosa." risposi semplicemente.

"È stato il Sergente Choi? Allora so già di cosa si tratta."

"Come puoi saperlo?"

"Il Colonnello Tower mi ha raccontato la storia della ragazza e del soldato, di nome Samantha Derrik, rapita due mesi fa. So che un legame abbastanza forte legava le due."

"Lega." lo corressi.

"Tu davvero credi che Derrik sia ancora in vita? E dove l'avrebbero portata?"

"Choi suggerisce ad El Cairo."

"Quindi voi due vorreste entrare all'interno della città per cercare alla cieca e tentare la fortuna?"

"Se solo tu dessi un'occhiata a.."

"Zitto." mi interruppe "Mi hai abituato ai tuoi atti di coraggio. Leonardo, so che la vita qui non è semplice, so che molti fanno commenti poco carini su di te. Ma tra 10 giorni torni a casa, da Sophia. Devi completare la tua formazione e voglio che tu lo faccia tutto intero."

"Non costringermi a scavalcarti, Sean."

"Non andare incontro all'insubordinazione, la Corte Marziale può essere abbastanza severa." commentò il Capitano.

"Hai mai prestato ascolto al Sergente Choi?"

"Non ce n'è bisogno, la mia decisione non cambia."

"Capitano.."

"Sergente Locket, ne ho abbastanza, ma voglio darvi una possibilità. Domani a mezzogiorno voglio te e il Sergente Choi qui. Avrete 15 minuti di tempo per convincermi." concluse.

"Grazie."

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Capitolo 34
*** Capitolo 34. ***


Il giorno dopo Hyuri ed io ci ritrovammo a mezzogiorno esatto di fronte alla tenda del capitano Gallagher.

"Pronta?" le chiesi appoggiando una mano sulla sua spalla.

"Non molto."

Entrammo e Sean ci accolse con un sorriso tranquillo, come se volesse metterci a nostro agio. Lasciai parlare il Sergente Choi, lei aveva la priorità di parola in quella situazione; Sean la guardava attento e, ogni tanto, doveva nascondere la commozione di fronte alle parole del soldato.

"Fine della storia. Capitano, so che questa può sembrare una missione senza capo né coda e non vorrei mettere a repentaglio la vita di nessuno, però lei cosa farebbe se avesse il presentimento che la persona che ama abbia solo bisogno del suo aiuto per ritornare da lei?"

Sean non rispose, ma abbassò lo sguardo. Dopo qualche minuto emise la sua sentenza: "La missione avrà luogo tra una settimana esatta. Locket, il tutto sarà orchestrato da te. Potete andare."

Hyuri mi rivolse uno sguardo di vittoria ed uscimmo insieme dalla tenda del Capitano.

"Perfetto, Leo! Però abbiamo solo una settimana per studiare un buon piano e per reclutare qualche uomo.. C'è qualcosa che non va?" mi chiese trattenendomi per un braccio.

"No, spero solo che tutto vada bene. Il mio rientro a casa è previsto tra 9 giorni e vorrei tornare tutto intero."

"Entrambi saremo felici, Leo. Meritiamo un po' di serenità."

"Parlare di serenità in questo luogo è un po' un controsenso."

"Quando si sta con persone che si amano, persino la peggiore delle guerre può avere un risvolto positivo." concluse.

Distolsi lo sguardo dalla ragazza e mi persi nello scrutare l'orizzonte. Il Sole era, ormai, alto nel cielo e faceva abbastanza caldo, nonostante fossimo nel pieno di febbraio.

"Le ho chiesto di sposarmi." dissi, dopo un po'.

"E..?"

"Non ha risposto, poi io sono partito per venire qui."

"Io credo che abbia semplicemente paura."

"Abbiamo affrontato così tante cose da quando ci conosciamo."

"Forse troppe, Leo."

 

 

I giorni trascorsero tra i preparativi, eravamo carichi di adrenalina e pronti ad entrare in azione. Nonostante l'opposizione di Sean, Hyuri ed io avevamo deciso di partire per la missione da soli: sarebbe stato più facile muoversi.

Un fuoristrada ci scortò fino alle porte della capitale. Era la prima volta che vedevo El Cairo dal vivo.

La città era in fremito: i negoziati ai margini delle strade erano assaliti da turisti e cittadini intenti nelle trattative con i mercanti. Le donne camminavano con sguardo basso e passo veloce, come se non avessero il permesso di essere lì, alla luce del Sole. Alcuni bambini giocavano con un pallone fatto di stracci, uno di loro sembrava prevalere sugli altri, sicuramente era il leader del gruppo.

Hyuri ed io camminammo per circa mezz'ora prima di arrivare al centro della città: lì avremmo dovuto chiedere informazioni ad un infiltrato, uno che reputava molto simpatici gli americani. Lo trovammo in una specie di tavola calda, seduto da solo a mangiare del pane accompagnato da un bicchiere di vino rosso.

Ci avvicinammo e l'uomo alzò lo sguardo emettendo un suono rauco, come se aspettasse che fossimo noi a fare la prima mossa.

"Sono Hyuri Choi." disse il Sergente.

L'uomo la guardò senza batter ciglio per un po', poi annuì e consegnò nelle mani della ragazza un foglio di carta che aveva estratto da una tasca interna della sua tunica.

Senza dire altro, Hyuri girò i tacchi e mi fece segno di seguirla.

"È stata una conversazione emozionante." dissi, una volta usciti dal locale.

"Un uomo di poche parole, già. Preferisce restare nell'anonimato. Nessuno di noi conosce il suo nome."

La ragazza si guardò intorno e cominciò a leggere il foglio di carta che le era stato appena consegnato.

"Dobbiamo muoverci verso est." disse semplicemente.

Il tempo andava avanti inesorabile, camminavamo da ore e ancora non eravamo riusciti a trarre alcun vantaggio dalla situazione. Eravamo stanchi, affamati ed io stavo perdendo le speranze.

L'attimo di distrazione durò poco, ma abbastanza affinché Hyuri sparisse dalla mia visuale.

L'ansia prese il sopravvento, cercai di calmarmi respirando a fondo: non volevo che la popolazione si insospettisse. Mi appoggiai ad un muro e chiusi gli occhi per un istante, ma qualcosa mi toccò il braccio e mi fece sobbalzare.

"Mai abbassare la guardia." 

"Dov'eri finita?"

"Ho trovato un passaggio, seguimi." 

La ragazza mi portò in un vicolo cieco.

"Non vedo passaggi qui."

"Osserva bene." mi disse.

Vedendomi perso, mi prese per mano e mi condusse in fondo alla via, dove l'oscurità si faceva più fitta.

Sulla destra, però un bagliore bianco attirò la mia attenzione. Ci dirigemmo verso la fonte di luce.

"Credi sia il posto giusto?" sussurrai.

"Lo scopriremo a breve."

Percorremmo un angusto tunnel che avrebbe dovuto condurci verso quella sorgente luminosa che stavamo seguendo come se fosse l'Orsa Maggiore.

Poco dopo, però, la strada si interruppe: la luce proveniva da un piccolo foro praticato su di una parete di fronte a noi.

"Cazzo." disse Hyuri.

"Siamo bloccati?" chiesi avvicinandomi a lei.

"Così pare. Ma il posto è giusto. Dà un'occhiata." disse riferendosi al buco che avevamo di fronte.

Abbassai la testa e scrutai all'interno di quella piccola apertura. Vidi una stanza dalle pareti scure con una sedia, macchiata di sangue, posta al centro.

"Classica stanza per le torture." commentai.

"Figli di puttana."

"Potrebbe anche non essere stata usata per Samantha. Ora però dobbiamo capire come arrivare dall'altra parte. Su quel foglio non c'è alcuna indicazione?"

"No. Credo che dovremmo usare le maniere forti per raggiungere l'altro lato." disse.

"Sarebbe come un invito a nozze per tutti quelli che odiano i soldati statunitensi."

"Il foglio dice che la casa, a quest'ora, è deserta. Se non per due guardie poste al lato estremo rispetto a dove ci troviamo noi. Dobbiamo entrare, Leonardo."

Dopo un attimo di riflessione, acconsentì all'idea del Sergente. Ai nostri piedi trovammo un masso: lo utilizzai come se fosse un ariete per allargare l'apertura nella parete. Dopo qualche minuto, il cemento crollò e il rumore fu assordante. La facilità con la quale riuscimmo ad abbattere il muro mi fece pensare che fosse stato aggiunto da poco al resto dell'edificio.

"Dobbiamo muoverci." disse Hyuri.

Corremmo a perdifiato esplorando ogni stanza, aprendo ogni porta, controllando ogni minimo spazio, ma di Samantha nessuna traccia. Lo sguardo di Hyuri esprimeva tutto il dolore che stava provando in quel momento.

Un rumore di passi ci avvertì dell'arrivo di ospiti inaspettati; il Sergente Choi ed io ci riparammo dietro ad un angolo che dava su quello che era, molto probabilmente, il corridoio principale.

Un egiziano apparve nella nostra visuale: era giovane, ma armato.

Perlustrava il corridoio in trepidante attesa: sicuramente aveva dato l'allarme e stava semplicemente attendendo i rinforzi.

Presi la pistola, montai il silenziatore e mirai alla sua spalla.

Il colpo lo prese in pieno e il ragazzo urlò dal dolore e fece partire una scarica dal mitra che aveva con sé.

Corsi verso di lui e lo immobilizzai.

"Dov'è la ragazza?" gli chiesi.

"No-n l-lo so." tentò di rispondere in preda agli spasmi.

"Invece credo proprio che tu lo sappia. Posso fermarti l'emorragia e salvarti il braccio, ma devi collaborare. Chiaro?"

"La ragazza è m-orta."

Non riuscì nemmeno a cogliere il significato delle sue parole, che Choi gli aveva puntato una pistola contro la testa e aveva fatto partire un colpo. Il ragazzo morì tra le mie braccia con gli occhi sgranati.

"Che cazzo fai?!" le urlai contro sbattendola contro un muro.

"L'hai sentito, no? È stato tutto inutile!"

"Può averci detto una bugia. Cazzo, l'hai ucciso senza motivo!"

Un rumore indistinto, che proveniva dalla parete alle nostre spalle, interruppe la discussione.

”È lì dietro.." sussurrò Hyuri incamminandosi verso il muro.

Dalla cintura del ragazzo morto, prese un manganello ed incominciò a sferrare colpi contro lo stucco, mentre io mi guardavo attorno in attesa del peggio.

Anche quella parete cedette dopo poco e rivelò una stanza buia, illuminata solo da una candela. La luce del corridoio si insinuò all'interno di quel locale ed illuminò la scena: quella che doveva essere Samantha Derrik era stata legata, in posizione eretta, contro un muro con delle catene che le immobilizzavano i polsi. Il suo corpo era martoriato da ferite fresche e ferite curate male.

La prigioniera sollevò lo sguardo e incontrò quello di Hyuri.

Samantha morì avendo come ultima visione gli occhi scuri della persona che amava.

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Capitolo 35
*** Capitolo 35. ***


Da quel giorno non ebbi più notizie del Sergente Choi, Sean mi disse che si era ritirata dall'esercito nella speranza di voltare pagina su tutti gli orrori che aveva vissuto.

Io, intanto, ero partito alla volta di West Point. Nell'aereo di ritorno nella mia terra natia mi soffermai a pensare alla nuova esperienza che avrei affrontato: in quel luogo molti conoscevano il mio nome e i più anziani riponevano grandi aspettative in me. Chiusi gli occhi e tentai di rilassarmi. Alla mia destra era seduta una ragazza dai capelli rossi che era intenta a leggere, scrutai il libro: si trattava di "Romeo e Giulietta" di Shakespeare.

"Ti piace leggere?" disse lei, all'improvviso, senza sollevare lo sguardo.

"Cosa?"

"Vedo che sei molto attratto dal mio libro." rispose sorridendo e riponendo il tomo sul tavolino posto di fronte a lei.

"Mi interessa sapere da cosa è attratta la gente. Ciò che una persona legge, rivela molte cose."

"Sono d'accordo. Piacere, Elizabeth Wolf." disse tendendo la mano e sorridendo.

"Leonardo Locket."

"Di ritorno da una vacanza?"

"Beh, in realtà sono un militare. Ho appena completato il mio mese di stanza ad El Cairo e sto facendo ritorno in patria per frequentare West Point."

"Ah. Un soldato, quindi. Non accetto molto la legge che domina le forze armate."

"Nemmeno io, fino a qualche anno fa. Ma ero un'altra persona." dissi sorridendo.

"Una persona migliore?" chiese.

"Dipende dai punti di vista. Molte cose che riguardano l'esercito vengono fraintese, spesso siamo semplicemente i cattivi della situazione."

"Vuoi dar torto alle persone che vi dipingono così?"

Preso dalla discussione e pronto a far valere i miei ideali, le raccontai di tutto il bene che avevamo fatto per le popolazioni di Kabul. Elizabeth mi ascoltava attenta.

Mi guardava assorta, ma non appena io incrociavo il suo sguardo, lei lo distoglieva.

"Sai, potresti anche guardarmi negli occhi mentre parlo." dissi sorridendo.

"Alcuni sguardi mi incutono timore, mi fanno sentire piccola. Il tuo non fa eccezione, anzi.."

Continuammo a parlare per il resto del viaggio; scesi dall'aereo camminammo alla volta della zona di recupero dei bagagli, quando fu il momento di salutarci, la ragazza mi tese il libro che stava leggendo in aereo.

"Non so se posso accettare."

"Io l'ho letto tantissime volte, un giorno me lo ridarai." disse e sparì tra la folla dell'aeroporto.

Aprii il libro e sulla prima pagina trovai un indirizzo e un numero di telefono, riposi quel regalo in valigia ed iniziai a guardarmi attorno in cerca di colui che avrebbe dovuto accompagnarmi fino all'Accademia. Qualche minuto dopo notai un uomo, coi capelli brizzolati, che reggeva un cartello con su scritto il mio nome; mi avvicinai e gli tesi la mano.

"Salve." dissi.

"Leonardo Locket! Finalmente ti conosco! Mi hanno parlato molto bene di te. Io sono il Capitano Claude Angel, sarò il tuo punto di riferimento per i primi giorni a West Point."

L'uomo mi scortò fino ad una macchina di lusso da vetri oscurati e con i sedili in pelle, si sedette alla mia destra e diede l'ordine all'autista di partire.

"Mettiti comodo, Leo. Ci vorrà più di un'ora prima di arrivare a destinazione. Dimmi, com'è andato il viaggio?"

"Non male, anche se, poco prima di partire da El Cairo, sono stato protagonista di una missione andata non molto bene."

"Sì, lo so. Tower mi ha informato. Leonardo, so che tu sei una testa calda, insomma: non ti tiri mai indietro in situazioni di pericolo. Sei diventato Sergente abbastanza in fretta, per meriti in battaglia, senza alcuna formazione se non all'inizio della tua carriera a Fort Detrick. Mi sei stato affidato e ho intenzione di prepararti al meglio."

"Grazie, Capitano."

"Ma dovrai ascoltare i miei.. chiamiamoli consigli, non voglio usare la parola 'ordini'. Sarò un po' come uno zio: un misto tra un padre e un fratello. Per qualsiasi cosa dovrai fare affidamento a me."

"Sissignore." risposi serio.

"Ma parliamo di cose più leggere: appena arriverai ti abbiamo preparato una piccola cerimonia. Ringraziando il cielo, arriveremo a West Point giusto in tempo per il pranzo."

"Una cerimonia?" chiesi spiazzato.

"Siamo così felici di averti con noi, Locket. Approfittane: da domani sarai un Sergente qualunque che fa disastri a destra e a manca." rispose sorridendomi e dandomi una pacca sulla spalla.

Sorrisi anche io di rimando, un po' imbarazzato e volsi lo sguardo al di fuori del finestrino: il profilo della città di New York oscurava tutto il resto. Sophia era lì da qualche parte, dopo un mese eravamo uniti sotto lo stesso cielo. E proprio mentre i miei pensieri erano totalmente rivolti verso quella ragazza, il mio telefono squillò.

"Pronto?"

"Leo! Allora sei atterrato!" disse Sophia.

"Sì, scusa se non ti ho chiamato prima, ma sono stato travolto dalla situazione."

"Non ti preoccupare, stai bene?"

"Benissimo. Ho voglia di rivederti." sussurrai nella speranza che il Capitano non mi sentisse, ma Angel si girò verso di me e mi rivolse un sorrisino complice.

"Anche oggi, se vuoi." disse Sophia.

"Non hai un turno in ospedale?"

"Sei fortunato, soldato. Oggi è la mia giornata libera. Anche noi specializzandi abbiamo bisogno di una pausa, ogni tanto."

La sua voce era così spensierata e piena di vitalità che, in quel momento, non pensai alla proposta di matrimonio che aleggiava su di noi in attesa di una risposta. Eppure era lì da poco più di un mese in attesa di un esito. Ed io ero lì, sospeso a mezz'aria, inerme, senza potermi muovere. Senza poter sprofondare nella voragine di una risposta negativa, ma senza nemmeno poter fluttuare sollevato dalla gioia. Ero in stallo, bloccato.

Salutai Sophia e mi concessi un'oretta di sonno, non potevo fare altro e, almeno, avrei potuto evitare le domande imbarazzanti del Capitano al mio fianco.

Mi svegliai con la voce di Claude che mi incitava ad aprire gli occhi. Mi presi qualche minuto per riprendermi dal sonno ed infine scesi dalla macchina. La fredda aria di febbraio mi avvolse e mi scompigliò i capelli, chiusi il cappotto fino all'ultimo bottone e recuperai la valigia all'interno del bagagliaio.

L'Accademia imponeva come un antico castello medievale, il prato che circondava la struttura centrale era di un verde intenso, alcuni soldati, vestiti di grigio, si esercitavano per una parata e io mi soffermai per una manciata di secondi a godermi la vista.

"Soldato, qui non si perde tempo." disse il Capitano sorridendo.

"Stavo cercando di ambientarmi."

"Ne avrai tempo. Seguimi, ti mostrerò la tua stanza e poi andremo alla mensa, il Generale Rowen non vede l'ora di conoscerti."

Mi lasciai trasportare dall'entusiasmo di Angel e lo seguii.

La mia stanza si trovava al terzo piano del Padiglione F, la porta di legno scuro apportava una targhetta di bronzo con incisi i nomi "Locket" e "Note".

"Eccoci arrivati, ti aspetto all'esterno per andare a mangiare, non metterci troppo che ho fame." disse il Capitano dandomi la chiave della porta che avevo di fronte.

Entrai nella camera e fui invaso da un buon profumo: biscotti fatti in casa. Diedi una rapida occhiata in giro: l'arredamento era in stile classico, c'erano due scrivanie dello stesso colore della porta, i muri erano bianchi, con qualche decorazione posta da colui che sarebbe stato il mio compagno di vita accademica, i letti erano disposti a castello e quello in basso era occupato da un ragazzo biondo dalla carnagione scura intento a leggere una rivista di moto. Chiusi la porta e il rumore attirò l'attenzione del ragazzo che si alzò dal letto e cominciò a fissarmi.

Mi tolsi il cappotto e gli tesi la mano.

"Leonardo Locket."

"Philippe Note. Ti aspettavo, anche se mi avevano detto che saresti arrivato in serata."

"Mi dispiace per l'improvvisata, allora." dissi sorridendo.

"Angel ti è già alle calcagna? Fa così con tutti i nuovi arrivati." commentò, infilandosi le scarpe "Li prende sotto la sua ala protettiva e non li lascia mai in pace."

"Beh, in effetti è alquanto assillante, ma sembra un tipo a posto."

"Oh, lo è. Senza dubbio. Ti conviene indossare la divisa, però. È sul tuo letto, in alto, se vuoi posso aspettarti per andare in mensa."

"Grazie, questo posto sembra un labirinto."

"Però dovremo sbarazzarci del caro Claude. Ho dei precedenti con lui non molto simpatici, ma non è il momento per raccontarli."

 

 

Trascorsi il pomeriggio con Philippe: 27 anni, Sergente, madre francese, padre americano, proveniva da Boston. Sapevo le cose basilari di quel ragazzo, ma in cuor mio sapevo che mi nascondeva qualcosa. Non potevo far altro che aspettare che si fidasse abbastanza di me.

Eravamo seduti sotto una quercia secolare quando Philippe cacciò dalla tasca dei pantaloni del tabacco.

"Non credevo si potesse fumare qui." dissi osservandolo.

"Diciamo che non è proprio un vizio visto di buon occhio, ma finché non mi beccano in flagrante.." commentò preparandosi una sigaretta e accendendola qualche secondo dopo "Fumi?"

"Ho provato in passato, ma non mi alletta più di tanto."

Philippe non dispose, ma tirò il fumo dalla sigaretta e chiuse gli occhi poggiando la schiena sul tronco dell'albero.

Il mio telefono squillò pochi minuti dopo: Sophia era arrivata all'Accademia e mi attendeva all'entrata principale.

"Devo andare." dissi alzandomi.

"È arrivata la tua ragazza?" mi chiese.

"Già."

"Divertiti anche per me." disse facendomi l'occhiolino.

Quasi non me ne resi conto, ma iniziai a correre verso il luogo di incontro tra me e Sophia. Il cuore mi batteva a mille e sentivo l'adrenalina che entrava in circolo nel mio sangue.

Poco dopo la vidi: era seduta ad aspettarmi, bella da far paura. Mi sorrise da lontano e si avvicinò a me, mi baciò e mi sussurrò all'orecchio:

"Sì, voglio sposarti."

 

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Capitolo 36
*** Capitolo 36. ***


"Philippe! Alzati, dobbiamo andare!"

"Leo, non ce la faccio." rispose lui con la voce impastata dal sonno e gli occhi ancora chiusi.

"Ti aspetto in mensa." dissi togliendogli la coperta di dosso ed uscendo dalla stanza.

Era ormai passato un mese dal mio arrivo a West Point, un mese durante il quale Sophia ed io avevamo parlato molto spesso del nostro imminente matrimonio.

Sì, la ragazza aveva accettato di sposarmi entro il prossimo anno: almeno avremmo potuto vivere la nostra unione nella tranquillità di un mondo senza guerra.

Arrivai in mensa quando alcune urla attirarono la mia attenzione, volsi lo sguardo verso l'origine di quel suono e vidi due miei colleghi che sbraitavano l'uno contro l'altra.

"Non avevi il diritto di segnarmi per quella missione!" diceva il ragazzo.

"Beh, sai com'è: siamo militari! In teoria dovremmo andare in missione." rispose lei.

Notai che nei pressi dei due ragazzi c'era il Capitano Angel, mi avvicinai a lui e gli chiesi spiegazioni.

"Locket, buongiorno. La ragazza sulla destra, Victoria Roberts, ha appena comunicato al caro Dylan Youth che parteciperà alla prossima missione in Congo."

"È tra le missioni più rischiose." commentai.

"Dylan l'ha presa così male perché sua moglie partorirà a breve." disse il Capitano.

"E Roberts lascia che vada in una missione quasi del tutto suicida?"

"Quando un superiore decide, puoi solo sottostare al suo volere."

Poco dopo Philippe mi raggiunse e gli raccontai della lite alla quale avevo appena assistito.

"Leo, sai che potrebbe accadere anche a te una cosa del genere. Tu e Sophia state insieme da anni: sapete a cosa andate incontro."

"Non voglio condannarla ad una vita di infelicità." dissi.

"Credi che starebbe meglio senza ti te?! Non lasciare che i pensieri negativi abbiano la meglio. Oggi va da lei, ne hai bisogno."

Seguii il consiglio del mio amico e mi misi subito in macchina alla volta di NY.

Il viaggio fu abbastanza tranquillo, trovai con facilità l'ospedale nel quale lavorava Sophia, ma preferii prendermi un attimo per me stesso e mi recai in un bar a pochi isolati di distanza.

Il locale era abbastanza frequentato, soprattutto da giovani intenti a scrivere al computer o a leggere un libro. Il posto era un tipico Caffè Letterario, con divani in pelle e decori dai colori caldi.

La mia attenzione, però, venne attratta da una ragazza dai capelli rossi che sedeva poco distante dall'entrata ed era intenta ad armeggiare con il portatile. Mi avvicinai e mi sedetti di fronte a lei: era talmente concentrata dal suo lavoro che non si rese nemmeno conto della mia presenza, così tossii lievemente per destarla dai suoi pensieri; Elizabeth sollevò lo sguardo e mi sorrise.

"Leonardo, cosa ci fai qui?" mi chiese.

"Mi sono preso un giorno di vacanza dalla vita militare."

"Come procede all'Accademia?"

"Non male. Gli orari sono stressanti, ma ne vale la pena.."

"Qualcosa da bere o da mangiare, caro?" mi chiese una cameriera che si era avvicinata al nostro tavolo.

"Un caffè, grazie."

"Il caffè qui non è male, ma il pezzo forte sono i dolci." commentò Elizabeth, sempre continuando a sorridere.

"E tu che ci fai qui?" chiesi.

"Sto lavorando ad un nuovo articolo per il giornale in cui lavoro."

"Un giornale importante?"

"Il New Yorker." rispose tranquilla, come se fosse una cosa di poco conto.

"Potrei sapere quale argomento ti prende a tal punto dall'estraniarti dal mondo?"

"Beh.. sto scrivendo un racconto che parla di un militare."

Il tempo trascorse senza che nemmeno me ne rendessi conto: erano passate due ore dal mio arrivo nella Grande Mela ed io ero ancora intento a parlare con Elizabeth, per un attimo quella situazione mi spaventò.

Era proprio vero: certe situazioni andavo a cercarmele.

"Io ora devo andare.." dissi, in un momento di silenzio che si era venuto a creare.

"Hai un appuntamento?"

"Con la mia ragazza, sì." fino a quell'istante non avevo nominato nemmeno una volta Sophia e, devo ammetterlo, non avevo pensato molto a lei.

"È qui nei paraggi?" chiese Elizabeth.

"Lavora nell'ospedale poco distante da qui." risposi alzandomi. 

"Vorrei dirti una cosa prima che tu te ne vada." disse lei, alzandosi a sua volta.

Elizabeth mi si avvicinò e mi lasciò un leggero bacio sulle labbra, senza approfondire il contatto, senza andare oltre.

"Io amo Sophia." dissi semplicemente scostandomi e lasciandola lì, immobile.

Uscii all'aria aperta e corsi verso l'ospedale, avevo un disperato bisogno di lei, di vederla.

Mi avvicinai ad un'infermiera e le chiesi dove potessi trovare Sophia.

"La dottoressa Johanness è in camera operatoria ora." rispose la ragazza.

"Sa se ne avrà per molto?"

"Un paio d'ore, massimo tre. Può aspettare qui, se vuole."

Mi sedetti in attesa della fine dell'intervento e mi addormentai cullato dal vociare della gente attorno a me.

Una carezza mi svegliò dopo un po' di tempo, aprii li occhi e mi persi in quelli di Sophia che mi guardava dall'alto. Aveva ancora in testa la cuffietta che i chirurghi indossano per operare, sopra di essa vi era l'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci.

"Non ti aspettavo." disse sorridendo e baciandomi.

"Avevo voglia di vederti e.. devo confessarti una cosa."

"Devo preoccuparmi?" chiese lei, sedendosi.

"No, affatto. Però voglio essere sincero: ricordi quella ragazza di cui ti ho parlato, quella che ho conosciuto in aereo?"

"Una certa Elizabeth?"

"Esatto. Beh.. ecco, oggi l'ho incontrata in un bar qui vicino, ci siamo fermati a parlare e poi mi ha baciato. Ma è stato un attimo, mi sono scansato subito."

"Vieni con me." disse con tono impassibile.

Io la seguii, non potevo fare altrimenti: la sua fermezza d'animo, a volte, mi spaventava a tal punto da lasciarmi impietrito. 

Entrammo in ascensore e lei non disse una parola; dopo qualche minuto capii dove eravamo diretti: nella saletta degli specializzandi. Mi fece cenno di entrare e chiuse la porta alle sue spalle a chiave. Sophia prese un respiro profondo e poi mi tirò a sé baciandomi con foga.

"Leonardo Locket, Quando la smetterai di fare il belloccio con qualsiasi ragazza ti capiti a tiro?" mi chiese sbottonandomi la camicia.

"Non è colpa mia.. io.."

"Sh. Non ti ho detto che puoi parlare." disse continuando a baciarmi "Rispondi muovendo la testa: tu mi ami?"

Annuii.

"Quella ragazza ti è interessata più di me, anche solo per un secondo?"

Scossi la testa.

"Non ho bisogno di sapere altro. Che vada al diavolo Elizabeth."

E facemmo l'amore lì, in quella stanza, con lo skyline di New York che rendeva tutto ancora più magico.

 

 

Qualcuno, poi però, bussò alla porta ed interruppe il nostro idillio amoroso.

"Leo, va ad aprire tu mentre mi rivesto." mi disse Sophia.

Cercai di ricompormi ed aprii la porta ritrovandomi di fronte un ragazzo che non mi stava particolarmente simpatico: Efron Toy.

"Leonardo, giusto?" disse in tono affabile.

"Già." risposi con meno entusiasmo.

"Mi dispiace, devo aver interrotto qualcosa, ma ho bisogno di Sophia."

"Eccomi, Efron." disse lei, ormai del tutto vestita, mentre si avvicinava verso la porta sistemandosi la treccia.

"Devi sostituirmi in un intervento. Almeno per le prime tre ore."

"Come mai?" chiese Sophia.

"Ho degli arretrati in pronto soccorso." disse lui abbassando lo sguardo con fare colpevole "Questa è la cartella."

Sophia prese tra le mani quel plico e gli diede una rapida occhiata. Nel frattempo Toy se la mangiava con lo sguardo e ciò non mi piaceva affatto.

"A te come procede, Leo?" mi chiese Efron, improvvisamente.

"Tutto bene. Un po' in ansia per il nostro imminente matrimonio, ma quando c'è l'amore si supera tutto." dissi sorridendo e beandomi della sua espressione scioccata "Sophia non ti ha detto nulla? Peccato. Sarai comunque invitato."

"Verrò volentieri." rispose, sempre più incline ad andarsene.

Sophia, poi, prese parole: "Ok, accetto. Ma sii puntuale, ho dei pazienti da controllare."

Efron sorrise e si avventò su Sophia abbracciandola e stampandole un bacio sulla guancia proprio sotto al mio naso, poi se ne andrò, senza degnarmi di uno sguardo.

"Potevate anche evitare quel siparietto infantile." commentò Sophia facendomi cenno di uscire.

"Mi ha provocato."

"Lasciamo perdere. Piuttosto: vorrei invitarti ad assistere a questo intervento. Si tratta di chirurgia cardio-toracica, sarà divertente." disse guardandomi.

"Posso assistere ad un'operazione chirurgica?" chiesi.

"In galleria e con un bel camice rubato da qualcuno, sì." rispose sorridendo.

Mi procurò un camice e mi scortò fino al luogo dal quale avrei potuto vederla in azione, mi salutò con un bacio e corse via proprio nel momento in cui il suo cerca-persone incominciò a vibrare. Mi sedetti in prima fila ed osservi gli infermieri che allestivano il tavolo chirurgico: sembravano degli scenografi impegnati nella preparazione del palco per il loro imminente spettacolo. Ero talmente preso che non notai il medico che era seduto al mio fianco e che continuava a fissarmi.

"Non sapevo che la dottoressa Johanness avesse un compagno medico. Credevo stesse con un militare." disse.

"Ecco, lui è morto circa un anno fa." inventai, ma il dottore non smetteva di fissarmi.

"Francis Bolt." disse semplicemente tendendomi la mano "E non credo che tu sia un medico, riconosco un militare quando lo vedo."

"Leonardo Locket." dissi imbarazzato e stringendogli la mano.

"Il camice ti sta bene, ma ho lavorato nell'esercito per 10 lunghi anni. Fiuterei il vostro odore a chilometri di distanza."

"Odore?"

"La guerra impregna il tessuto umano, Locket. Ma siamo qui per vedere il miracolo della vita, non parliamo di morte." concluse, ritornando nel suo silenzio assorto.

Dopo una mezz'ora, l'intervento ebbe inizio: appena Sophia entrò nella sala, sollevò lo sguardo per incrociare il mio e vidi un bagliore nei suoi occhi, una luce che non avrei mai dimenticato.

Nonostante non fosse il primo chirurgo, era sicuramente lei la regina indiscussa tra quelle mura; i suoi gesti erano perfetti, il suo sguardo sereno, ma allo stesso tempo concentrato. La camera operatoria era il suo posto nel mondo.

Passò un'ora e l'intervento continuava, io non capivo assolutamente nulla di quello che stava accadendo a pochi metri da me. Ma il rumore accelerato dei macchinari e l'improvviso fremito tra i chirurghi mi fece capire che, per il paziente, le cose stavano prendendo una piega inaspettata.

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Capitolo 37
*** Capitolo 37. ***


Vedere Sophia alle prese con quella situazione critica era un po' come vedermi allo specchio durante una missione. Solo che, a differenza mia, lei aveva in mano la vita degli altri.. il che era anche peggio.

Passarono un bel po' d'ore, durante le quali, ogni tanto, la ragazza sollevava lo sguardo per incrociare il mio, come se cercasse della sicurezza in quel momento di difficoltà. Non mi mossi dalla mia posizione, misi a tacere ogni istinto da essere umano e mi concentrai solo su quello che avveniva a pochi metri da me, anche se di medicina non ne capivo nulla; ogni tanto chiedevo qualche chiarimento al dottor Bolt che era rimasto al mio fianco.

"Credo sia ora di prendere una boccata d'aria." disse lui.

"In realtà preferisco restare."

"Non era una domanda o un invito, seguimi. Ti farà solo bene."

"Ma Sophia.."

"La dottoressa Johanness se l'è cavata senza di te un sacco di altre volte."

Recuperai il camice che mi ero sfilato e seguii il dottore; quest'ultimo mi portò su di un cortile esterno all'ospedale dal quale c'era una splendida vista della città.

"Non mi stancherò mai di guardare New York. Tu da dove vieni?" mi chiese.

"Frederick, una città del Maryland."

"Sai, Leonardo.. ho viaggiato tanto nella mia vita, tanto da aver capito ormai che le occasioni non vanno gettate. Sophia mi ha parlato di te, della tua paura di lasciarla sola se mai dovessi morire in guerra, del matrimonio e di tutto il resto. La vita è un po' come andare ad un parco dei divertimenti: le giostre sono gli avvenimenti che possono intercorrere nel tuo cammino, ma sta a te scegliere dove buttarti. Sta a te capire se è meglio l'adrenalina, che solo le montagne russe ti possono dare, o la monotona sicurezza del trenino che fa il giro del parco. Tocca a te decidere se lasciarti andare o meno, se tuffarti nel vuoto, o vivere senza brio. Sta a te. Ma alcune giostre, poi, chiudono.. e tu non puoi più tornare indietro."

Senza rendermene conto, mentre ascoltavo le sue parole, sfiorai con il pollice la fedina che portavo al dito, quella che Sophia mi aveva regalato con la promessa di un futuro insieme.

"Quindi, lei crede che io stia aspettando troppo?"

"Oh, caro.. io non credo nulla. So solo che io ho fatto il tuo stesso errore. Ho atteso il momento giusto, ho lasciato che la vita mi scorresse tra le dita senza intervenire, sono stato, il più delle volte, un semplice spettatore. Ma, spesso, le cose vanno afferrate con forza per ottenerle."

Detto questo, spense la sigaretta che si era acceso e tornò all'interno della struttura lasciandomi solo con quel bellissimo paesaggio a fare da sfondo ai miei pensieri.

 

 

"Ti stavo cercando!" mi disse Sophia abbracciandomi.

"Sono andato a fare un giro. Com'è andata l'operazione?"

"Siamo riusciti a salvarlo, ma sono stanchissima. Andiamo a casa a mangiare qualcosa?"

Annuii semplicemente e ci incamminammo verso l'uscita mano nella mano.

Incrociammo il dottor Bolt che mi fece l'occhiolino e sorrise.

"Avete fatto amicizia?" mi chiese Sophia.

"Diciamo che abbiamo trovato un certo feeling."

"Mi ha insegnato tante cose, è un ottimo medico. A volte mi ricorda te.."

Entrammo in macchina e Sophia mi diede indicazioni per come raggiungere il suo appartamento non molto lontano dall'ospedale.

"È la prima volta che vengo a casa tua!" le dissi, mentre eravamo fermi ad un semaforo.

"Non ci avevo pensato. Sei sempre in giro per il mondo a fare l'eroe." disse lei sorridendomi e sporgendosi verso di me per baciarmi. Ci lasciammo un po' troppo prendere dalla situazione, così tanto che nessuno di noi notò che, ormai, il semaforo era diventato verde, ci pensarono gli automobilisti, inferociti per la perdita di tempo, a riportarci alla realtà.

Sophia abitava in un appartamento situato al 37° piano di un grattacielo, la casa era molto luminosa e aveva una splendida vista sul fiume Hudson. L'arredamento era abbastanza moderno, ma nel salone, ciò che faceva da padrone, era l'immensa libreria strapiena di volumi: da libri di medicina a libri fantasy, notai persino l'intera saga di Harry Potter.

Ogni cosa, nell'arredamento, era curata nei minimi dettagli: dal tappeto orientale, al televisore ultra moderno.

Mi stavo ancora guardando intorno quando Sophia si materializzò al mio fianco con un bicchiere di vino rosso in mano.

"Puoi accomodarti tranquillamente. È come se fosse casa tua." disse indicandomi il divano.

Cucinammo insieme, mangiammo e ormai la notte era calata sulla città, guardai l'orologio e notai che era davvero tardi: mezzanotte passata, ma il pensiero di andare via non mi sfiorava nemmeno l'anticamera del cervello.

"C'è ancora una stanza che non hai visto." disse Sophia.

"Quale?"

"La camera da letto." pronunciò quelle parole alzandosi e, invitandomi, con sguardo malizioso a seguirla.

 

 

"Devo dire che anche il letto non è male." dissi mentre lei appoggiava la sua testa sul mio petto.

"È passabile. Certamente è più divertente quando c'è più gente." disse cercando un contatto visivo con me.

Io, per tutta risposta, sorrisi e non riuscii a distogliere lo sguardo da lei.

"Vuoi dirmi qualcosa, Leo?"

"Sposiamoci subito. Che ne dici di.. domani?"

"Domani?! Ma.. non ho un vestito, non abbiamo avvisato le famiglie, non.."

"Ok, calmati." dissi sorridendo "Era solo per farti capire che non mi va di aspettare, non ne posso più. Ho bisogno di vivere la mia quotidianità con te, almeno finché posso permettermi un po' di tranquillità."

"Leo, anche io vorrei.."

"E allora non ci sono problemi! Forse domani è troppo presto, hai ragione! Ma gli amici e i parenti si possono avvisare in poco tempo. Quindi, direi che tra tre giorni potrebbe essere la data ideale."

"Non so che dire.. io.."

"Dimmi solo di sì. Troveremo il vestito, la chiesa. Basta che tu dica 'sì'."

Lei mi baciò con foga, con passione, con amore e, sulle mie labbra, sussurrò un lieve, ma determinato, "sì".

Lasciammo che la notte ci cullasse, dormimmo abbracciati e i nostri cuori sembravano battere insieme, quella sera capii che quell'immagine, di due cuori che palpitano all'unisono, non è solo un semplice modo di dire. È vero: ogni cosa è controllata dal cervello; persino nel cuore, l'organo principe del sentimento, c'è un pizzico di razionalità, ma quando il cuore trova un suo simile e quando batte così all'impazzata solo in sua presenza, allora il cervello non può nulla, la ratio deve arrendersi.

La mattina dopo Sophia si alzò prima di me e uscì di casa senza avvisarmi, lasciandomi un semplice bigliettino:

"Ho fatto dei cambi con i turni in ospedale così da poter andare in giro per cercare il vestito perfetto. A te sta l'organizzazione del resto. Hai solo 3 giorni e ricordati che mi sono fidata di te!

Ti Amo.

P.S.

Alice e Sarah mi aiuteranno nello shopping, arriveranno a NY con Ben e Ricky! 

Ah, ci sono alcuni vestiti per te nell'armadio: sapevo che un giorno saresti piombato a casa mia sprovvisto di cambio! "

Posai quel foglio di carta sul comodino ed incominciai a prepararmi per uscire.

Mentre facevo colazione, il mio cellulare squillò: Richard.

"Ciao Ricky!"

"Leo, noi siamo a NY! Lasciamo le ragazze in ospedale da Sophia e passiamo a prenderti. 10 minuti e arriviamo, tieniti pronto."

Raccolsi le ultime cose ed uscii per incontrare i miei amici.

"Tu sei un pazzo!" mi disse Ben abbracciandomi.

L'ombra scura che aveva oscurato il suo volto per un po', ormai, si era totalmente dissolta, era pronto a rifarsi una vita, anche se non sarebbe ritornato al fronte.

"Dobbiamo organizzare un sacco di cose!" disse Richard, inserendosi nel discorso.

"Prima di tutto: hai già pensato a qualche chiesa?" mi chiese Ben.

"No, ma ho qualche idea. Dovete portarmi all'ospedale, però." dissi.

"Non ti senti bene?" intervenne Ben.

"No, sto benissimo. Ho solo bisogno di una guida: un certo Francis Bolt. È lui il pazzo che mi ha convinto a sposarmi con così poco preavviso."

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Capitolo 38
*** Capitolo 38. ***


Arrivammo in ospedale e chiedemmo informazioni riguardo il dottor Bolt.

"Mi dispiace" disse un'infermiera "ieri era l'ultimo giorno di lavoro per il dottore, la pensione ha raggiunto anche lui."

"Non sa dove potrei trovarlo?" chiesi.

"No, era un tipo molto riservato."

Ringraziai la ragazza e mi fermai un secondo a riflettere.

"Ora che si fa, Leo?" mi chiese Richard.

"Cerchiamo Sophia." risposi.

Non diedi tempo a nessuno di chiedere spiegazioni sul mio comportamento, che iniziai a correre a perdifiato in cerca di Sophia.

La trovai all'ingresso principale in compagnia di Alice e Sarah.

"C'è una chiesa qui?" le chiesi con il fiato corto.

"Sì, certo." rispose lei con tono spaesato.

"Sophia," dissi "non abbiamo bisogno di vestiti, fiori, chiese, folla. Tutto quello che ci serve siamo noi due. Abbiamo perso fin troppo tempo. Io ho perso troppo tempo in cerca del momento giusto. Beh.. il momento è questo. Sposami qui, subito."

"Leo.. ma.."

"Le nostre famiglie capiranno! Io dovrò ripartire a breve per il fronte e.."

Non riuscii a terminare la frase che Sophia mi prese per mano e mi condusse nei meandri dell'ospedale.

Gli altri ci seguivano e, anche loro, erano carichi di adrenalina.

Ci fermammo davanti ad una porta che era in contrasto con il resto dell'ambiente ospedaliero, Sophia la aprì e ci ritrovammo all'interno di una piccola cappella, era semplice, affatto vistosa. Era un luogo di raccoglimento per chiunque ne avesse bisogno: cristiano, musulmano, ateo o chicchessia. 

Una figura era rivolta verso l'altare, in ginocchio e in preghiera. Attirato dal rumore della porta, l'uomo si voltò e sorrise nel vederci. Avrà avuto circa 50 anni, aveva i capelli scuri e una barba folta. Non indossava alcun abito che lasciasse intendere che fosse un prete: portava dei jeans e una semplice camicia azzurra. I suoi occhi marroni ci accolsero con un calore disarmante.

"Benvenuti." disse "Dottoressa Johanness, è da un po' che non la vedo da queste parti."

"Padre Raphael, ho avuto molto da fare recentemente." rispose Sophia avvicinandosi al prete.

"Oh, cara. A Dio non interessa se non vieni a trovarlo spesso nella sua casa, lo sai bene. A cosa devo l'onore, comunque?"

"Dobbiamo sposarci." intervenni io.

"Tutti e sei?" chiese, leggermente sconvolto, il prelato.

"No," rispose Sophia sorridendo "solo io e il mio fidanzato, Leonardo."

"Non è consuetudine sposarsi in un ospedale." disse Raphael.

"La loro relazione non è mai rientrata nei confini della normalità." disse Richard.

"Sophia, io conosco te e so quanto tu sia una brava persona, però non posso sposarvi così su due piedi. Abbiate pazienza e raccontatemi della vostra storia." disse il prete.

"A te l'onore." disse Sophia guardandomi negli occhi.

E così incominciai a raccontare di noi due: di quel giorno di inizio ottobre nel quale ci incontrammo, delle mie missioni in Oriente, di Francesca, di tutte le difficoltà che avevamo affrontato. Raccontai della gioia nel ritrovarci e di stare insieme ogni volta e condivisi con gli altri il mio senso di angoscia al pensiero di poterla lasciare sola. Parlai a lungo, non so per quanto, ma il tempo scivolava sotto le mie parole. A 18 anni non sarei mai stato in grado di condividere così tanto di me, per di più con uno sconosciuto. Ma Sophia mi aveva migliorato, aveva fatto di me una bella persona, era riuscita a trasformare il cupo Locket, senza speranze, in un ragazzo, anzi, in un uomo pronto a prendere decisioni improvvise, ma senza alcuna esitazione.

"Bene" disse Raphael quando smisi di parlare "Datemi 10 minuti, il tempo di prepararmi."

Uscì dal nostro campo visivo e ci lasciò in attesa.

Tornò poco dopo indossando un semplice saio.

"La mia formazione spirituale ha avuto luogo in Italia." spiegò "Sono un francescano e professo la semplicità."

Ci disponemmo di fronte a lui: io e Sophia al centro e i nostri amici al nostro fianco, come se anche loro partecipassero in prima persona all'evento.

La mia mente in quei minuti era totalmente annebbiata, Raphael parlava e io lo ascoltavo ben poco. Mi diedi una scossa solo quando si rivolse direttamente a me.

"Vuoi tu, Leonardo Locket, prendere in sposa la qui presente Sophia Johanness?"

"Sì, lo voglio."

 

 

 

"Siamo sposati.." mormorò Sophia, una volta tornati a casa.

"Ci vorrebbe una Luna di Miele." dissi.

"Avremo tempo per viaggiare. Godiamoci questo momento." rispose baciandomi.

Andammo in camera da letto e lasciammo che la nostra unione non fosse sancita solo dalle fedine che portavamo al dito.

"Non ho neanche avuto modo di regalarti un anello come si deve." le dissi mentre la vedevo posare la testa sul mio petto.

"Beh.. sì, questa è una mancanza alla quale dovrai rimediare."

"Potrai mai perdonarmi?" chiesi sorridendo.

"Dipende dall'anello che mi regalerai."

Passarono alcuni minuti di silenzio, ma non era uno dei nostri soliti silenzi, quello era pesante come un macigno ed incombeva su di noi. Potevo vederlo, quasi; era come la nebbia in una di quelle città del Nord: potevi vedere i contorni degli oggetti, potevi orientarti, ma nulla era definito.

"A che pensi?" chiesi.

"È da qualche giorno che ho un'idea che mi frulla in testa.."

"Vuoi parlarne?"

"Non credo ne saresti molto felice." disse sollevando la testa e guardandomi negli occhi.

"Così mi fai preoccupare. Di che si tratta?"

"Ho deciso di arruolarmi. Non come soldato, ma come medico nell'esercito."

"Sophia, non devi farlo per me.." iniziai a dire, ma lei mi interruppe.

"Non è per te. Anche perché potrebbero, se volessero, mandarmi da tutt'altra parte rispetto a te. Lo faccio perché so che mi arricchirebbe tantissimo sotto il profilo medico e umano. Ho bisogno di quest'esperienza prima di incominciare la specializzazione."

"Io.."

"Leo, devi solo accettare la cosa. So che sarà difficile, sono anni che vivo questa situazione, ma abbiamo affrontato tutti insieme. Non parliamone più ora."

 

 

"Sophia vuole arruolarsi." dissi a Sarah il mattino successivo; avevo deciso di invitarla fuori per colazione per discutere della novità.

"Sì, me ne aveva parlato quando tu eri ancora ad El Cairo."

"Non capisco, non riesco a capire il motivo di questa decisione. Insomma, è in contatto con uno dei migliori ospedali del mondo, è in procinto di iniziare davvero la sua carriera e cosa fa? Decide di partire per andare a fare l'eroina da qualche parte."

"Tu hai scelto di arruolarti per fare l'eroe?" mi chiese Sarah.

"Io non avevo altra scelta. Dovevo cambiare radicalmente la mia vita, lei.."

"Lei ti ha visto in pericolo mortale per anni. Leo, non puoi essere così egoista."

"Lo so, hai ragione." ammisi più a me stesso che a Sarah "Ma ho paura. Ora che le cose sembravano stabilizzarsi per noi.."

"Potrai averla sotto controllo, hai delle conoscenze nell'esercito! Sfruttale."

Seguii il consiglio di Sarah e, quando arrivò il momento di accompagnare Sophia a registrarsi sotto l'esercito americano, feci un paio di telefonate per far sì che partisse con me per la prossima missione.

Uscimmo dall'ufficio di reclutamento di NY e ci mettemmo in macchina pronti a tornare a casa.

"Leonardo.." disse Sophia.

"Dimmi."

"Ti amo."

 

 

I mesi passarono, io mi trasferii definitivamente a casa di Sophia e ogni giorno facevo il pendolare tra NY e West Point; lei, intanto, aveva completato i suoi studi di base e si preparava ad intraprendere gli anni della specializzazione. La vita sembrava aver preso un assetto deciso, nulla sembrava poter far deragliare quel treno che viaggiava spedito verso l'avvenire.

Una mattina di maggio, però, il telefono di Sophia squillò. Lei guardò il numero e, accigliata, uscì dalla cucina.

Attesi il suo ritorno cercando di non dar ascolto ai miei pensieri, ma ogni fibra del mio corpo sapeva che quella era la telefonata che lei aspettava con tanta euforia, io con tanto timore. Era arrivato il momento in cui le nostre parti si sarebbero invertite. Lei sarebbe partita poco prima di me, avrebbe affrontato l'inferno da sola.

"Era un certo Tenente Ross, hanno deciso di farmi partire prima di quanto avessero previsto." disse, una volta rientrata nel mio campo visivo.

"Quando partirai?" chiesi senza troppi giri di parole.

"Tra 5 giorni." rispose.

 

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Capitolo 39
*** Capitolo 39. ***


Sophia partì, la spedirono a Kabul dove l'attendevano Sean, Frankie e Stephan. Almeno sapevo che loro l'avrebbero controllata. Io ero in fermento: per la prima volta nella mia vita non vedevo l'ora di partire.

"Leo." disse Philippe sedendosi al mio fianco, mentre ero intento a sorseggiare un caffè.

"Ehi, come stai?" gli chiesi.

"Tutto bene. Ho avuto una soffiata: oggi dovrebbero dare le nuove assegnazioni per le partenze."

"Senza nuove promozioni?"

"Evidentemente laggiù hanno bisogno di uomini."

La nostra discussione venne interrotta da un annuncio in filodiffusione: tutti i Sergenti e i Tenenti erano stati convocati dal Generale Rowen per parlare dei prossimi incarichi.

"In bocca al lupo, Leo." disse Philippe in seguito all'annuncio "Devo andare."

"Dove vai?"

"Voglio essere tra i primi a parlare col Generale. Non credo ci rivedremo in futuro."

"Ma cosa stai dicendo, Phil?" dissi, alzandomi di scatto e bloccandolo.

"Credo che abbandonerò questa vita, non ne posso più. Voglio trasferirmi in Francia."

"Come mai questa decisione improvvisa?"

"Ho scoperto di avere l'AIDS."

 

 

Fui uno degli ultimi a recarmi verso l'ufficio del Generale, trascorsi la maggior parte del tempo con Philippe. Non parlammo molto, ma volevo essergli vicino in un momento così delicato. Ci salutammo verso le 17 e sapevo che non l'avrei rivisto mai più. Fu destabilizzante, non il fatto di doverlo salutare, ma la consapevolezza che qualsiasi cosa può accaderci nei momenti meno opportuni. Fu assurda quella sensazione che, un giorno, sarebbe capitato anche a me.

Sgombrai la mente e mi preparai a parlare con Rowen.

Bussai alla porta e una voce profonda mi disse di entrare, era il Capitano Angel.

"Locket, ci stavamo chiedendo quando saresti arrivato."

"Scusi, Capitano."

"Accomodati." intervenne il Generale.

Mi sedetti senza proferir parola ed ascoltai Rowen che parlava delle varie missioni in giro per il mondo.

"So che la tua fidanzata è a Kabul." disse.

"Mia moglie, in realtà."

"Certo, certo. Strano il destino, no? Anche tu hai cominciato con quella meta."

"Già." dissi e pensai che sarebbe stato meglio non finire proprio lì.

"Sergente Locket, partirai anche tu per Kabul. Tra due mesi esatti." sancì il Generale.

Uscii dall'ufficio e ritornai verso la mia stanza che, ormai, ospitava solo me.

Mi misi al computer nella speranza di trovare Sophia collegata su Skype; i miei desideri furono esauditi e feci partire la chiamata.

"Leo!" disse.

"Ho delle novità. Mi mandano a Kabul. Parto tra due mesi." dissi.

"Così tanto?"

"Evidentemente non hanno ancora così tanto bisogno di rinforzi, è un bene."

"Proprio ieri abbiamo avuto una brutta emergenza."

"Del tipo?" dissi con tono preoccupato.

"Scontro a fuoco nel bel mezzo del deserto. È stato colpito anche Sean, ma sta bene, non preoccuparti, il proiettile l'ha preso solo di striscio. Purtroppo non abbiamo potuto salvare tre persone."

"Tu come stai?" chiesi.

"Sicuramente meglio di quei tre."

"No, davvero.. so quanto sia difficile tutto questo."

"L'ho scelto io, Leo. Ora devo proprio andare."

 

 

Quei due mesi passarono in fretta, partii alla volta di Kabul e pensai alle parole del Generale: tutto il mio percorso era incominciato proprio lì.

È strano. La vita è strana, è disarmante; a volte fa sì che il tuo percorso sia circolare, come un serpente che si morde la coda. L'inizio e la fine di un viaggio, spesso, coincidono.

Atterrati all'aeroporto, fummo scortati in un pullman blindato verso la Base, ma non riuscivo a stare seduto tranquillamente al mio posto, così mi recai ai posti anteriori per parlare con l'ufficiale che era venuto a prenderci, il Tenente Clarence.

"Posso sedermi?" gli chiesi.

"Certo. Locket, giusto?"

"Esatto."

"So che hai molti contatti nella Base di Kabul."

"Sì, molte mie conoscenze."

"Lei è il marito della dottoressa Johanness?"

"Così sembra."

"Non avrei mai permesso a mia moglie di fare questa vita dannata."

"Ma sua moglie le permette di farla." dissi con una punta di ostilità.

"È diverso, ma non ne parliamo. Evidentemente abbiamo punti di vista diversi. Solo una cosa, Locket: si prepari. Già domani è richiesto per una missione."

"Ma sono appena arrivato."

"Forse non è stato messo al corrente della reale situazione."

 

 

"Ecco l'uomo del momento!" disse Sean appena mi vide.

"Come stai? Mi hanno detto che la situazione qui non è molto felice."

"Caspita, Leo.. sei appena arrivato e già parli di guerra?!" disse sorridendo e abbracciandomi.

"Sai com'è, siamo nel bel mezzo della guerra." risposi.

"Appunto, non possiamo trivellarci il cervello in ogni secondo. Voi, laggiù: portate i bagagli del Sergente nella sua tenda, è la numero 7." aggiunse rivolgendosi a due soldati intenti ad accendersi una sigaretta.

"Vieni con me, credo che qualcuno abbia voglia di vederti."

"Sophia?"

"No, Stephan!"

"Credevo stesse con te." dissi seguendolo verso la tenda/ospedale.

"Il Sergente Locket è di nuovo tra noi!" disse Sean, annunciandomi a coloro che mi stavano aspettando.

"Chi non muore si rivede." disse Frankie voltandosi nella mia direzione.

Ma notai che mancava Sophia, così salutai tutti e chiesi loro dove fosse.

"Ha preso in cura un ragazzo che aspetta di essere rimandato a casa." disse Stephan "Il tipo ha avuto un brutto incidente con un carro armato, brutta giornata." sentenziò con un brivido che gli percorse la spina dorsale.

"Prova alla tenda 18." disse Frankie.

Mi recai subito verso il luogo che mi era stato indicato; mentre camminavo mi guardavo attorno in cerca di ricordi che mi legavano a quel posto. Tutto sembrava parlarmi della mia prima esperienza da militare. Ogni cosa evocava il dolore della perdita di persone a me care. Anche il più misero granello di sabbia portava alla mia mente ricordi ed emozioni.

Mi fermai all'esterno della tenda e cercai di carpire qualsiasi suono provenisse da essa. Sentii, quasi indistintamente, la voce di Sophia, così decisi di aspettarla lì fuori nonostante il caldo.

Uscii qualche minuto dopo e, appena mi vide, mi salto al collo, felice come non mai.

"Avevo tanto bisogno di te." mi sussurrò all'orecchio.

"Sono qui." dissi, cercando di confortarla.

Ci dirigemmo, mano nella mano, verso la mia tenda non curanti della gente che tentava di fermarci per scambiare un saluto con me o chiedere qualche consiglio medico a Sophia.

Come al solito, esistevamo solo noi due. Al di là di ogni barriera, di ogni situazione. L'amore è più forte della guerra. L'amore non si interessa a ciò che lo circonda. L'amore vince, su tutto. È questa la sua forza, è questo che spinge gli esseri umani a rincorrerlo, a cercarlo e a non lasciarlo andare una volta afferrato. Perché quando lo sfiori con un dito e poi lo lasci andare ti senti un po' come Lucifero: l'angelo più luminoso del Paradiso che cade nell'entroterra rimanendoci per sempre. E nessun'altra cosa più farti risalire a quell'altitudine, nulla può farti sentire così vivo. Nessuna cosa dovrebbe ledere l'amore. Ma la vita è crudele, è spietata.. Anzi, in quel caso, nel mio caso, lo fu la morte.

Sophia ed io uscimmo dalla mia tenda dopo esserci inebriati l'uno dell'altra. Eravamo insieme. Ci tenevamo per mano quando quella bomba fece crollare il terreno sotto di noi. La tenevo per mano mentre la vedevo guardarmi, da viva, per un'ultima volta. I suoi occhi, che tanto mi avevano ammaliato, mi scrutavano nel profondo. Il dorato degli occhi di Sophia si congiunse, un'ultima volta, con l'azzurro dei miei.

 

 

Non mi ripresi subito, anzi, non mi ripresi mai del tutto. Ma i primi giorni furono micidiali: ero in stato catatonico, non mangiavo, bevevo a stento e respiravo solo grazie alla maschera per l'ossigeno. La mia vita, ormai senza senso, era appesa ad un filo. Non piangevo, le lacrime non avrebbero risolto nulla; non urlavo, non avevo più voce. Non ero più io.

Mi rispedirono a casa.

Passarono mesi, passò il funerale di Sophia, arrivò il 4 luglio e arrivò anche la rabbia. Perché quella parata fu l'inizio di tutto.

La rabbia, poi, diventò rassegnazione e, un giorno come tanti, mi svegliai con la voglia di ricominciare.

Ricominciare.. Che parola assurda, avevo ricostruito così tante volte sulle macerie della mia esistenza che, in teoria, sarebbe dovuto essere facile.

Ricominciare.. Quando ogni cosa sembra essere perduta non si può fare altro. Di arrendersi non se ne parla, non sono mai stato tipo da gettare la spugna.

Ricominciare.. Solo perché Sophia non avrebbe mai voluto vedermi così.

E ricominciai. Tornai nell'esercito, feci carriera, ebbi qualche relazione sentimentale, ma nulla più. Il mio amore lo riversai nel bambino che adottai: Christian. Aveva poco più di tre mesi quando lo trovai tra le rovine di una casa, i suoi genitori erano stati uccisi davanti ai suoi occhi innocenti.

Sono passati 20 anni da quel giorno, da quando quel bambino mi ha fatto rinascere. 

Christian conosce la mia storia, conosce Sophia.

Non ho mai smesso di amarla e non ho smesso di vivere proprio in suo onore.

Christian somiglia un po' a Sophia, anche se, forse, è tutto frutto della mia suggestione.

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