Gli Angeli dell'Utopia

di Il_Bardo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo -Inno- ***
Capitolo 2: *** Ai Cancelli della Villa ***
Capitolo 3: *** La Biblioteca dell'Angelo di polvere ***
Capitolo 4: *** Le Tre Pagine di Bonaparte ***
Capitolo 5: *** Gli Orrori e la Falce ***



Capitolo 1
*** Prologo -Inno- ***


Fin dalla notte dei tempi..
Sul mondo, gli angeli spiegavano le loro candide ali, proteggendo la vita.
I voli degli angeli erano sempre graditi da chi aveva la fortuna di vederli nel cielo terso e privo di nuvole, le loro ali che si libravano nell'etere, rilasciando scie di piume bianche e immacolate che tingevano ogni alba e ogni tramonto, e si diceva che chi avesse avuto la fortuna di trovarne una, sarebbe stato per sempre protetto dagli incubi nel sonno.
Questi angeli, man mano con il passare dei secoli, iniziavano a sparire, quasi nessuno li avvertiva più, forse perchè una volta, si era più liberi e capaci di sognare, mentre ora, la troppa razionalità, porta ad un mondo grigio come il cemento che lentamente lo sta avvolgendo nella sua morsa, dove il bianco dei sogni viene macchiato.
Anche se nessuno li osservava più, loro erano sempre lì, in silenzio sopra di loro per difenderli dalle tenebre e dalla discordia.
Tutti sanno che le Tenebre MAI avranno la meglio.
Ma ogni cento anni, Le Tenebre colgono l'occasione per tentare di rivalersi e prevalere. Ma a dirsi, cosa impossibile, si potrebbe pensare.
Ma se i mortali, L'Oscurità tenta e corrompe con successo, è un passo avanti, e la luce può farsi più fioca, fino a spegnersi.
Fin dall'alba del mondo però, ogni secolo, gli angeli e gli uomini erano stati capaci di unire le forze e la volontà per sventare questo pericolo,
 attraverso la Mano degli Angeli.
Un umano scelto, che impersonificava una "stretta", fra la mano degli Angeli e la mano degli uomini.
Passati venti secoli, la luce si era indebolita nel respingere i tentativi del male di avere la meglio. Indebolita dalla tristezza della razionalità, dal non riuscire più.. ad immaginare, sognare.

E nel ventunesimo secolo, La ventunesima Mano degli Angeli avrebbe vacillato?

L'Oscurità stessa sapeva, che sarebbe definitivamente riuscita nei suoi intenti.


"Angeli dell'Aurora, ali bianche nel cielo terso, antiche schiere di candidi protettori,
Dal firmamento Discende il vostro tocco angelico, La Mano Angelica
per tutti, dissipi ogni Discordia!"

                                                      Canto della schiera d'Aurora.

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Capitolo 2
*** Ai Cancelli della Villa ***


Questo mondo non è giusto.
Non lo è mai stato, ma chi ha detto che mai lo sarà?
Non riuscivo a rendermene conto se fosse stato per mano del Caso o del Fato, la mia vita, sempre più avvolta e intrecciata a qualcosa di molto più grande e imponente.

Più il tempo passava, più potevo constatare di come le mie vicende personali, si ripercuotevano nel mondo, in un modo o nell'altro, immedesimandosi in un eco che riecheggiava.
Come era solito, ogni mattina di buona o mala lena, ero già in strada verso l'istituto che frequentavo, situato ad una ventina di chilometri dalla mia piccola città, in un'altra più grande e popolata.
Un istituto, per la precisione Agrario, dove ogni conoscenza riguardava la natura stessa e le mille forme in cui si manifestava indomita.
La Natura stessa difatti, fu il mio vero e primo "amore", da quando ebbi la facoltà di formulare pensieri.
Nell'epoca in cui ero nato, se non da tempi immemori, era sempre stata disprezzata, beffeggiata, in un modo o nell'altro.
Non erano rari in casi in cui mi arrivassero all'orecchio, vicende spregevoli: gatti uccisi per divertimento, per pazzia, cani sterminati da chi non possedeva un briciolo di sensibilità. Né i sette mari, né la volta celeste fornivano un sicuro rifugio alle creature, la mano sinistra dell'uomo arrivava ovunque e maligna, raccoglieva anche i frutti che non poteva toccare.
Le foreste man mano sparivano, distrutte per lasciare spazio ai "castelli" di cemento che rappresentavano stupidamente la contorta idea di domare la natura stessa, idea partorita dalla mente umana.
Tutto questo per dimostrare non altro che una grande povertà d'animo. La giustizia, dove si nasconde?
Forse teme, come un debole germoglio, non non riuscire ad arrivare al sole e radicarsi, ottenebrata dalle ombre della corruzione e depravazione.
"Resisti, non cedere, sto venendo a salvarti" mi ripetevo spesso nella testa, più gli anni passavano, più questa frase risuonava, sempre più intensa, nella mia mente.
Frequentando quella scuola, avrei avuto la possibilità di conoscerne ogni sua sfaccettatura, e con volontà e il sapere che avrei raccolto, avrei potuto raggiungere lo scopo che mi ero prefissato.
Avrei guadagnato soldi e potere. Due mali che avvelenavano qualsiasi anima né entrasse in possesso, ma per me era diverso.
Per un ragazzo sedicenne estremamente insicuro di sé quale ero, l'unica certezza che avevo, oltre la morte, era quella.
"Possa il mondo cadere! ogni passo che oggi imprimo nella mia vita, è un frammento dell'Utopia che sto sognando ardentemente"
Con il passare degli anni sembrava sempre più vicina, avrei fatto della mia vita un baluardo per la Verde Signora.
La scuola era inserita, timida, in un versante di una collina. Era soprannominata da tutti "la villa", perchè non era altro che un'antica villa, costruita nel '600, da un marchese.
Storicamente, la storia parla di Napoleone stesso, che mise piede lì per dormirvi due notti.
Non tutti i libri però narravano, che Napoleone scrisse tre pagine, quelle parole si persero nel tempo, ben prima che gli occhi di qualcun'altro potessero leggerle.
Le ombre delle mie gambe si intrecciavano e si slegavano continuamente sull'asfalto usurato illuminato dall'aurora. In un ciclo apparentemente infinito, che si concludeva con il mio arrivo sulla cima.
Ligio e impassibile, ogni giorno acquisivo conoscenze, leggevo quanti più libri mi fossero a disposizione, presi dalla biblioteca dell'istituto.
Questo per tre anni, ne avevo appena compiuti sedici di anni, e avevo da non molto iniziato il terzo anno alla scuola.
Ah.. mai avrei immaginato, in una mattina del primaverile marzo, che in cima a quella collina e da quella ancestrale villa, avrei spiccato il mio primo volo...

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Capitolo 3
*** La Biblioteca dell'Angelo di polvere ***


I Giorni passavano, trascinando con essi i mesi.
Il sole, la luna, danzavano sulle nostre teste, notte e giorno.
Io, sotto di loro, osservavo con stupore questo ciclo infinito che si ripeteva, giorno dopo giorno.
E nonostante i giorni sembrassero a volte interminabili, altre lunghi pochi attimi, il tempo inesorabile scorreva con essi.

nonostante il cammino mi pareva lungo e ostico, ogni giorno era un passo, un lungo passo, che mi portava al mio obbiettivo.

Giungevano continuamente ai miei occhi immagini di animali di ogni specie esistesse al mondo, seviziati, torturati crudelmente.
Non potevo che starmene in silenzio davanti queste immagini, questi racconti sui giornali, un silenzio che colpiva come un pugnale, dritto al petto, e tu, con le mani legate. potevi solo schivarle, ignorandole vigliaccamente. io no di certo avevo quest'ultima intenzione, preferivo un pugnale al petto che mille all'anima.
Un silenzio che significava resa, resa ancor prima di aver combattuto.
Impotenza nel poter fare qualcosa, incapacità di agire,
il non possedere niente per fare qualcosa. Chiudevo i pugni, digrignavo i denti, era quanto più potevo fare.

A volte, stupidamente sognavo.
Magari, da un momento all'altro, la rabbia avesse scatenato qualcosa in me, capacità nascoste, un miracolo vero e proprio per fare qualcosa,
per avere il potere di agire.
Ero assetato di questo, la prima goccia tardò ad arrivare, ma prima o poi stillò dalla fonte.
Uscii di casa una mattina di marzo inoltrato, ancora l'aria era gelida come quell'inverno che quell'anno ritardava la sua dipartita.
Le gemme intimidite dal freddo, non si schiudevano nemmeno con il fiacco tepore del mezzogiorno.

Senza accorgermene, ero già nella mia aula, ma ero arrivato troppo in anticipo, non c'era ancora nessuno.
Decisi di fare un giro per la scuola, per passare il tempo.
Essendo una vecchia villa, i suoi lunghi corridoi, le sue innumerevoli grandi e piccole sale, dipinte ogniuna con la stessa estrema maestria da abili pittori,
avevo l'impressione di trovarmi in qualche antico santuario.
Il silenzio era di pietra, i miei passi risuanavano solitari per i corridoi, né percorsi uno, poi un altro, attraversai la sala a cui portavano, prendendo il corridoio che svoltava a destra, dei due disponibili.
Iniziai a velocizzare il passo, sentivo un sibilo sinistro alle mie spalle, voltandomi più volte non notavo nulla.
Era ancora la mattina più giovane, i primi raggi filtravano dalle finestre di legno scrostate dal tempo.
Decisi di correre, i miei passi erano veloci e producevano un battito inquietante.
Corsi, corsi perdendo fiato, svoltai sale, attraversai corridoi interminabili che mi avevano inevitabilmente perso in quell'arcaico mondo.
I sibili misti ad uno strano ghigno di follia rimbombavano continuamente, li sentivo dietro alle mie orecchie, ma non volevo più voltarmi, continuavo a correre come uno stupido, sperando di poter fuggire da qualcosa o qualcuno che mi inseguisse.
Sapevo che la scuola era collegata ad antiche cripte, utilizzate nella seconda guerra mondiale come rifugi dai soldati per difendersi dalle bombe.
queste cripte tetre terminavano nella pineta poco distante sopra la scuola, la pineta in cima alla collina dove vi era collocata poco sotto anche la scuola come fosse la spalla della collina stessa.
Non volevo certo capitare lì e nemmeno nelle aule degli animali inbalsamati, dove scheletri di cavalli e ogni genere di volatile atrocemente impagliato esprimevano lo sguardo della morte stessa, giunti per mano dell'uomo.
I polmoni stavano cedendo, dovevo voltarmi...


A Tentoni, mentre il fiato si faceva debole, il ragazzo venne accolto da un'ampia stanza.
Le ricamature e i dipinti coronavano le pareti e la cupola sulla cima.
Non si rendeva conto di dove fosse, aveva intuito però  di trovarsi in una biblioteca dentro la scuola, dai grandi scaffali impolverati colmi di libri, grandi e sottili dalle mille fine rilegature. Ma non era la biblioteca dove si recava solitamente per prendere in prestito decine se non centinaia di libri.
Ogni sibilo, ogni risata aberrante che udiva tacquero d'un tratto solo, intimorite dalla "sacralità" del luogo.

La stanza aveva un'enorme finestra, le prime luci dell'alba entravano dai vetri illuminando la polvere, mostrandola come fosse polvere di diamante.
Da quei raggi vividi apparve evanescente un dito leggermente piegato, seguito poi da una mano, infine da un braccio.
Sembrava un'allucinazione, la luce si plasmava in un'arto, a prima vista femminile, la mano composta indicava qualcosa fra gli scaffali della libreria.
Fece poco caso a cosa indicasse di preciso, era più affascinato da quell'apparizione.
Intravide un viso sfumato, poi un battito d'ali dal nulla, finito nel nulla.


Pensai fossero state le ante della finestra ad aprirsi per una forte folata di vento, ma erano sempre rimaste ferme.
Successivamente, quella luce ritornò al sole, in un solo colpo d'ali, immateriali, rapido e raffinato, forgiate dalla luce che filtrava all'interno.
Concentrai poi la mia attenzione sul punto indicato tra scaffali pieni di libri di ogni dimensione.
Un libro?..
con le punte dei polpastrelli lo estrassi fuori, avendo l'accortezza di non far rumore facendo cadere quelli ai fianchi, non sarei dovuto essere lì.
Spolverai la copertina dalla polvere.
Il titolo a grandi caratteri relegato in oro citava -La Mano degli Angeli-
poco sotto, una scritta leggermente più piccola "dalla gloriosa mente di Napoleone Bonaparte".
Aprii la prima pagina, un forte odore di vecchio arrivò al naso.
La prima era bianca, ma appena l'accarezzai per voltarla e leggere il seguito, dove toccai il foglio un'alone nero  apparve, scorrendo sulla carta, verso il centro del foglio come una sinuosa coda di volpe.
Il mio nome si andava formando.. Max..imi..lien ...  Maximilien.
Ma prima del mio nome, tre segni, X... X...I...
mentre sotto, una minuscola scritta in francese che mi sembrava familiare, ma indecifrabile al momento.
La scia d'inchiostro si asciugò in pochi attimi.
Richiusi il libro, attonito, voltandomi per osservare aldilà della finestra e riflettere sul da farsi.
Uno spettacolo che forse nessuno ebbe la fortuna di contemplare, mi parve d'innanzi
I Raggi di un'alba intensa, l'aurora li sfumava in una colorazione aranciata e rosea, segmentavano il cielo, tingevano il blu di una miriade di linee, solchi di luce, schiere di raggi,
Particolarmente intensi, filtravano le nuvole, dissipando quelle poche presenti nel cielo.
Il grande paesaggio ai piedi del firmamento, i monti congiungevano la terra al cielo come mura lontane dove l'occhio non poteva guardare oltre, era di numerose tonalità verdi, prati di tenera erba, gli alberi con i primi germogli, i campi ingialliti dall'inverno, i primi e pochi alberi che fiorivano prematuramente, punteggiavano quella distesa di colori e tonalità primaverili, infastidita solo da quell'ammasso di punti grigi, quali erano palazzi e case.
Nella volta, quattro angeli schieravano le loro ali bianche e surreali sulla città sotto di loro.
Leggeri, impalpabili con una grazia innaturale;
quattro donne con tuniche ricamate d'argento, fluenti ed enormemente lunghe componevano una sorta di coda fluttuando; possedevano  enormi ali bianche che risuonavano nella distesa celeste quale era il cielo, mentre delle piume si staccavano dolcemente e rilucenti coronavano quelle comete.
Fendettero la volta cerulea, dirigendosi verso i raggi dell'alba che erano il loro cammino e la loro meta, nascondendosi poi anche allo sguardo di quei pochi che li mirarono per quei pochi istanti in cui lenti ed aggraziati attraversarono il firmamento.
Notai la brina congelatasi agli angoli dei vetri della finestra, sparire torpidamente, scongelate dal tepore che quella mattina, l'Aurora emanava.
Presi il libro e lo nascosi sotto la giacca, proprio sul petto, e guardingo uscii da una porta che pochi attimi prima non avevo notato, che mi condusse immediatamente fuori dall'edificio.
Perchè mai un eroe storico, Napoleone Bonaparte avrebbe dovuto scrivere un libro ad una persona precisa secoli dopo?!

Avrei avuto la mia occasione di rivalsa, avrei potuto fare qualcosa.
Avrei letto come, quello stesso pomeriggio, sotto i raggi più aranciati del tramonto.
Mi dissi infine, intrepido in cuor mio, forse troppo..

...Per ogni Ramo spezzato, per ogni animale seviziato... un Osso Rotto...

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Capitolo 4
*** Le Tre Pagine di Bonaparte ***


Sebbene fosse passato Marzo, le nubi aggrinfiavano il cielo, tenendoselo stretto nella loro coltre.
Sotto quella coltre, la terra proseguiva la sua lenta crescita e la sua ripresa dal freddo sonno, mentre gli uomini anch'essi, perpetuavano nel tempo un atteggiamento sfacciato nei suoi confronti.
Continuavano i mattoni ad ammassarsi, ad opera di umani avventati, che costruivano ovunque si potesse posizionare una pietra, senza pensare che al primo diluvio le loro dimore sarebbero state distrutte e trascinate via. Continuavano a costruire dove non era loro permesso, e gli alberi più vecchi che raccontavano un passato da nessun'altra creatura vissuto, cadevano al suolo in tonfi soffocati, mentre le loro folte chiome appassivano, lasciate lì a marcire nei giorni.
Quel granello di sabbia nel cosmo, quell'enorme sfera ai nostri occhi, stava lentamente cedendo, eppure non faceva nulla per non arrendersi, ma cedeva ad ogni prepotenza da parte degli uomini. Forse se ne stava impassibile, aspettando l'attimo in cui capiranno di star sbagliando? o semplicemente serviva una lingua, per comprenderla, e una mano, per aiutarla a ribellarsi. Quella mano ero io.

Prima o poi si ribellerà da sola, pensavo stupidamente.
Prima o poi, anche la rosa più fragile estirperà le proprie radici, imbraccierà una frusta di spine e mozzerà qualche testa.

Prima, o poi..
Cose del genere leggevo tra le righe di quel libro,
sottili intrecci di inchiostro che come per volere di un incantesimo si abbracciavano non appena i miei occhi cadevano sulla carta bianca.
Leggevo, e le righe apparivano alla mia volontà, quello che non volevo leggere, scompariva tornando bianco.
Quel libro che scrisse Napoleone qualche secolo prima, arrivato a me, come legittimo destinatario, mi stava narrando il futuro.
Seppur in una lingua diversa, con silenzioso stupore, mi accorgevo di saperla capire, nonostante non avessi mai avuto modo di studiare il francese.
Capivo quelle parole, capivo quel che dicevano, e così narravano :

"Mano degli Angeli,
lascia cadere l'occhio sui capelli fluenti
delle Querce a Nord,
che il cielo bramano, silenti.
Io ti detto il futuro,
ma sarà il tuo braccio ad arrivarvi.
Gli angeli, la tua mano han scelto,
araldo della loro verde sorella
Impugna la falce,
ch'altro non miete che malvagie anime
Porta la Luce
Porta la sete, dell'acqua pura
Accendi l'Alba,
Senza Paura."


Le trame che adornavano i limiti del foglio erano argentee, riflettevano la luce del tramonto che filtravano dalla finestra.
nelle pagine successive, i tratti divenirono neri come la notte,:


"Cadrà il cielo
Sull'inerme terra,
Cadranno, i tuoi ideali,
Neri, sulla tua testa.
Cadrà la notte,
sulle vostre vite.
Dall'avvizzito manto vagheranno le ombre,
l'oscura moneta, pagheranno ritta
I corvi canteranno,
La presunta sconfitta
Uno seguendo l'altro si leveranno,
Orrori corrotti e maligni
malevoli, le loro grinfie avranno, avvolte
alla bianca sfera,
e alla sua sorte.


Dal lento tramonto, durato secoli, l'oscurità più vasta assalirà il mondo."


Da dove mai dovrebbero levarsi, questi orrori? pensai attonito per i tristi versi che avevo letto.
Girai la pagina successiva,
Sull'ultima facciata, c'era un'immagine in uno stile artistico antico,
un'angelo, composto e aggraziato, sotto al quale un piccolo germoglio si alzava senza timore alcuno.
Seguitavano poi qualche piccole strofe, che lessi in un solo fiato :

"I tuoi Ideali, neri e appassiti,
Dalla volontà rinati,
I Cordogli cupi, sono finiti,
I Requiem,
Prima di iniziare
Son già cessati,
La verità, la volontà e i tuoi ideali, tre fili dello stesso filare,
Nell'Aurora di un'Utopia, si andranno a levare.

Dalla più profonda Tenebra, la più luminosa alba, si accenderà."


Mentre ogni sillaba scivolava giù nella mia gola, alcuni intensi brividi mi percorrevano la schiena.
Richiusi il libro, non prima di buttare le pupille su un piccolo nome, in basso a destra del foglio; Diciannovesima Mano D'Angelo.
Fissai il vuoto per qualche secondo, il tempo di riflettere e coricarmi nel letto.
Guardai il soffitto poi, con gli stessi occhi vacui e privi di vita.
Riflettei a lungo, sul perchè, sul come...
e il sonno, non tardò ad arrivare...


Mi alzai dal letto il mattino seguente, preparandomi senza la solita flemma che mi accompagnava ogni mattina al risveglio.
In mezz'ora, ero già pronto e arrivato ai piedi della scuola, o meglio villa,
dopo un lungo viaggio in autobus, tra un sonnecchio e l'altro.
Alzai lo sguardo, con il libro sotto il braccio destro, e passo dopo passo iniziai a risalire la collina.
Mentre quella marea di gente, macchine e motociclette imperversava sulla strada, io nel mio canto camminavo lentamente, continuando a spostare i pezzi dell'enigma che tentavo di risolvere nella mia mente.
A distrarmi da essi, fu un cane, molto probabilmente randagio, che si avvicinò a me con sguardo attento.
Aveva il pelo grigio, zuppo, fradicio e sicuramente non curato da tanto tempo. Era di una corporatura più o meno robusta, e i peli lunghi gli coprivano perfino gli occhi cristallini che possedeva.
Non l'avevo mai visto prima, e non possedendo un collare non apparteneva di certo a qualcuno.
Mi seguiva, con la lingua penzolante all'infuori della bocca aperta che imitava un sorriso,
io non avevo di certo rifiutato la sua compagnia, mi rimaneva al fianco imitando ogni mio cambiamento di direzione.
Tornavo ai miei pensieri, altre volte gli diedi qualche occhiata, per controllare se era lì.
Presi un pezzo di pane dallo zaino, glelo porsi con estrema cautela, per non intimorirlo. si avvicinò senza tante paure, mangiando a grandi bocconi l'intero pezzo.
non ero in ritardo, ma in anticipo, come sempre,
decisi quindi, di dargli qualche coccola.
Sembrava non averne ricevute da molto tempo. Dopo due o tre volte in cui mi fermai per accarezzarlo, mentre percorrevo la salita,
alzò una zampa, senza che io gli diedi alcun comando.
Toccai la sua zampa, come segno di amicizia, comunicandogli di aver gradito la sua compagnia.
Continuammo il nostro viaggio fino alla cima, non era stanco, ma fedele mi stava affianco e al passo.
Molti altri mi guardavano, io cercavo di essere più indifferente possibile, nonostante non fosse roba da tutti i giorni portarsi un cane a spasso a scuola.
Arrivato quasi nelle vicinanze della villa, lui fece marcia indietro. Non si muoveva da quel punto, nemmeno se ero molto distante da lui, fissandomi continuamente. Ero in aula, la professoressa già alla cattedra. Mi sedetti e non feci in tempo a posare lo zaino pesante che mi venne riconsegnato il mio compito.
Sentivo già un brusio generale di scontento, ma non ci feci poi tanto caso e lessi il mio voto:
10.
«come pensavo» dissi a mezzo tono al mio compagno di banco. sbattendo il dorso della mano sul foglio come per dimostrarglelo.
«tutta fortuna» rispose con tono dello scherzo.
La prof. si fece ridare le verifiche e quando le riebbe tutte, le sbatte sul tavolo a due mani per riordinarle.
Battè una volta, e alla seconda, al colpo sulla cattedra si unì un soffocato grido,
...di dolore.



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Capitolo 5
*** Gli Orrori e la Falce ***


Il tempo fluiva lento nella sua clissidra,
ed ogni granello di più, la linea divisoria che separava l'umanità in due parti, si faceva sempre più solcata ed evidente.
Persone buone e persone malvagie, uguali nel corpo, diversi nell'animo.
Non era il caso forse, che gli angeli avessero iniziato a farsi vedere più spesso, volteggiando nel cielo, tenendosi per sé il perchè dei loro voli, le tre pagine che scrisse Napoleone avevano impresse già la storia che il tempo stava percorrendo, retto e preciso.
Non era nemmeno più raro che d'un tratto, ovunque si accusassero casi di aberrazioni che seminavano scompiglio fra le campagne o in cittadelle isolate.
Mi stavo rendendo conto che questa lenta ma rapida divisione, era iniziata da poco prima della mia nascita, sedici anni fa,
Chi diceva di aver visto volare schiere di angeli, o masnade di sgorbi aggirarsi fra i vicoli, veniva considerato folle, dalla razionalità umana radicata in ogni mente, ora, quella razionalità si stava estirpando, radice dopo radice, man mano che questi eventi si andavano a verificarsi sempre più spesso.
Sarei stato io a recidere l'ultima radice,
quando quello stesso giorno uscii da scuola, verso la fermata del bus.

Camminavo a passi lenti, giù per la collina, voltandomi solo una volta, dopo aver udito fruscii fra le frasche. Non notavo nulla, ma capii quando arrivai a pie della collina, che era semplicemente quel cane grigio e goffo che mi aveva diligentemente atteso.
Chi si guardava attorno, intimorito da una probabile presenza degli mostriciattoli scuri dalle lunghe corna ricurve che popolavano il mondo da anni, solo ora emersi dalle viscere della terra, chi portava con sé coltellini, chi amuleti portafortuna, tutti tempestati e ricoperti  d'argento.
Bastava solo che la sorte ti voltasse le spalle per ritrovare il tuo omicidio sui giornali nazionali.
Io non avevo nulla con me, né argento, né oro o qualsiasi altra cosa potesse proteggermi da essi, intanto il meticcio era al mio fianco, completamente tranquillo senza timore di nulla in mia compagnia.

Venne preso e in pochi istanti scaraventato qualche metro più avanti sulla strada.
Un esserino della sua stessa stazza, nero come la pece, solo le corna opache e biancastre indicavano dove fosse il volto, lo prese e rotolò assieme al cane fra le sue grinfie.
Ne arrivarono altri scendendo giù dal dirupo affiancato al marciapiede, tutti della medesima forma e con lo stesso ghigno.
Intravidi macchie di sangue raffermo sui denti marci di quei mostri, a cui si unì il sangue fresco della bestiola.
Avevano, non appena arrivati a lui, iniziato a lacerare le sue membra con gli artigli a loro disposizione, utilizzando a volte anche le corna per provocargli ancora più dolore. il sangue zampillava fuori, quei demoni vi si dissetavano, e il cane a cui non avevo nemmeno dato un nome rimaneva fermo e moribondo sul ciglio.
Nessuno voleva collaborare, molti erano fuggiti fra le urla che facevano da sottofondo ai ghigni di quelle creature, a parte me, nessun'altro voleva intervenire.
Preso dall'ira, presi un ciottolo a disposizione ai bordi del marciapiede, caricai il braccio e lo lanciai verso di loro prima che fosse troppo tardi. Non sapevo neanche cosa avrei fatto dopo, quando avessi avuto la loro attenzione.
Alzarono il viso gocciolante di sangue, la bocca era una voragine rossa contornata da denti lunghi e sottili. Mi sorrisero, io ignorai quel sorriso e mi buttai verso di loro a pugno chiuso, per la prima volta nella mia vita senza timore sulle conseguenze delle mie azioni.
Buttai il pugno, sperai ne bastasse uno perchè morissero, ma mi illudevo.

Quei mostri vennero sventrati da parte a parte. Lacerati da una lama talmente perfetta da tagliare l'aria stessa.
Era ricurva, aveva mozzato i loro bracci schiazzati di rosso e reciso il loro collo.
Le costole erano bene in vista, in entrambe le parti di quegli obrobri oramai fatti a pezzi.
Questa volta, era il loro sangue nero e sporco a macchiare la terra, che sembrava rigettare disgustata.
Era una lama ricurva di una falce, del bianco colore d'alabastro,  incastonata su un bastone color ebano e raffinato fino a sembrare un bastone interamente composto d'ossa che si ammassavano fra loro in una figura affusolata. Sulla cima un teschio, un teschio posizionato fra la base della lama e la cima del bastone d'ebano, forgiato solamente nell'argento.
Solo le orbite di quel teschio erano nere, il resto di quell'arma non lasciava trasparire alcun alone di morte. alcun timore, alcuna paura, solamente per i veri orrori di cui recideva il collo.
Non era minimamente macchiata di quel liquido scuro, sporco, che lasciava pensare a sangue, nonostante li avesse trapassati.

Il sangue rosso del cane formava una macchia che si espandeva in quello sfondo nero.
Anche in quel momento, ero arrivato tardi, proprio quando avevo le capacità di fare qualcosa. Solo la rabbia fluiva dentro di me, ero certo che era morto, troppo presto perchè io potessi salvarlo.
Cercai di reprimere il dolore, troppo lacerante per essere contenuto facilmente, distolsi lo sguardo su quella carneficina.
Ero io stesso, ad aver impugnato quell'arma e ad averli eliminati..
Ma non apparte a me la volontà di far volteggiare leggiadra l'arma, a mezz'aria, integra della sua eleganza, toccò con la punta della lama il corpo del cane, prelevandone una sola goccia di quel sangue dal colore limpido che ribolliva.
Quella stessa goccia cadde sulla roccia, imprimendovi come un martello di un fabbro una runa, un simbolo che stava ad indicare che la vita di quella creatura, non era ancora finita.
Presi la falce, sorreggendola sulla spalla destra e analizzai il risultato di quel rituale:
La pietra era rossa, un solo simbolo raffigurante un cerchio con una linea arricciata all'interno, proveniente da un lato della circonferenza.
Traspariva il pulsare del cuore di quell'animale morto, la sua stessa vita incantata nella pietra stessa.

Mi voltai vedendo un imponente alone alle mie spalle, i fasci di luce come  enormi spilli trasparivano dalla mia figura, illuminando tutto.
Appariva come se il sole stesso fosse proprio dietro le mie spalle, illuminando la mia umana figura.
La luce ricopriva tutto, non vedevo più nulla attorno, solo l'ombra del mio corpo proiettata davanti a me.
Si espanse ai lati, due vaste ali si aprirono simili ad un sipario dalle mie spalle, la loro ombra si unì alla mia, dal nulla.
Si estesero lentamente, baluardo della mia causa.

Mi alzai in aria, battendo imponentemente le ali, la luce stava svanendo, il premio era stato assegnato.
Vidi il centro storico della città, dirigendomi lì con la falce impugnata e pronta al "raccolto".
La pietra emanava riflessi argentei, impaziente di liberare la vita in essa racchiusa.

I colpi fendevano l'aria, rapidamente mi portavano alla destinazione; il sangue mi ribolliva nelle vene, altre volte raggelava per l'impazienza e il freddo dell'alta quota.
La vegetazione scorreva sotto i miei piedi, sostituendosi man mano da case e palazzi.

In pochi minuti raggiunsi i palazzi storici, sorvolai la piazza fermandomi sulla punta di uno dei tanti edifici che vi si affacciava.
Nessuno mi aveva ancora visto, una marea di genti girovagava nella piazza, attratte dai baldacchini di frutta e verdure.
Formiche, inutili formiche avide e corrotte. nemmeno degne di essere chiamate formiche.

Gettai la pietra dall'alto, toccò terra avvolgendosi da una fitta caligine dai riflessi d'indaco.
il fumo si plasmò nella forma dello stesso cane morto poco prima, dalla stessa stazza di un orso, possedeva uno sguardo ottenebrato da poter reggere il confronto con quello umano.
I denti erano lunghi, affilati e reclamavano altro sangue.
Si gettò a capofitto sulla folla, distruggendo i tavoli con la merce esposta, le merci caddero a terra mescolandosi con i piedi della folla in preda al panico, urlando come forsennati.
Chi correva via dalla piazza, chi si nascondeva, chi semplicemente rimaneva inerme ad urlare disperato, la baraonda suonava melodica alle mie orecchie.
Volevo far sì che toccassero con mano la disperazione che potevano provocare alle altre creature, in tutta la loro vita.
Mi gettai da quel tetto, l'aria mi afferrò e mi spostai con le ali, rapido mi calai e con la falce, distruggendo qualsiasi cosa incontrasse il filo della lama.
se una persona capitava nel raggio dell'arma, si accasciava sputando sangue o con qualche osso spezzato, addormentandosi. Chiunque fosse colpito, veniva assalito dal sonno, piombando nell'incubo in cui si trovavano faccia a faccia con la loro coscienza macchiata.
i piccioni si alzavano il volo, intimoriti dalla bolgia, lì raggiunsi sfiorandoli con il teschio.
Il bianco delle loro piume si sostituì al nero delle piume di enormi corvi, con occhi rossi e imponenti artigli che lasciavano presagire qualcosa di sbagliato, si gettarono sulla folla, portando ancora più chaos per le vie della città.
L'oramai angelo dalla bianca falce, iniziò la sua opera di di "purificazione" dello stesso mondo che voleva proteggere dall'avida mano dell'uomo, priva di ritegni.
Recitò delle frasi che sembravano una poesia, fece scorrere più volte a destra e a manca la mano sinistra, scrivendo nell'etere l'incantamento che voleva lanciare. Un lungo filare di parole e simboli arcani comparì come una cupola sull'intera città, espandendosi sempre più.
Gli occhi impotenti di chi nascosto stava osservando le sue gesta, o di chi era appena arrivato, incredulo dalle voci e dalla notizia velocemente giunta ovunque in decine di minuti.
Le nuvole si squarciarono, intimorite dalla troppa luce, per far sopraggiungere la luce ovunque nei paraggi. Quei raggi di luce che si tramutarono in meteore bianche ed incandescenti toccarono il suolo, non ferirono nessuno ma addormentarono tutti e tutto ciò che toccarono senza vita crollò, come un castello di carte.
Musei, negozi, palazzi residenziali.
Tutto si distrusse, in una foschia di polvere, parevano tagliati da una falce, ad ogni meteora schiantata al suolo.
Guardai soddisfatto l'opera che avevo compiuto, ripresi la runa del mio cane e me la infilai in tasca.
Volai via dal quadro che avevo dipinto, mentre qualche incendio divampava qua e la.
Nessun morto, nemmeno la più piccola formica, tutti sprofondati in un sonno arcano,
tutti di fronte a sé stessi e alla loro coscienza che di poco brillava, sporca.
Arrivato lontano dal centro città le mie ali si disfarono per mio stesso volere in un cumulo di piume.
Della falce rimase solo il teschio.

..Forse La XXI Mano degli Angeli arrivò presto, desiderosa di luce, scomparsa da troppo tempo da ogni anima..
..Nonostante lo sbaglio, gli errori possono essere risanati..
-Capitolo 1, seconda parte,
La Mano degli Angeli, di Napoleone Bonaparte-

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