Ritrovarsi nella pioggia

di Lilith Lancaster
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ritrovarsi nella pioggia ***
Capitolo 2: *** Ritrovarsi in uno sguardo ***
Capitolo 3: *** Ritrovarsi in un respiro ***



Capitolo 1
*** ritrovarsi nella pioggia ***


Payson iniziò ad attorcigliarsi nervosamente una ciocca di capelli intorno all’indice. Era nervosa. Non sapeva neanche perché si trovasse in quel posto. Pioveva a dirotto e i capelli le si erano ormai inzuppati, aderendo al suo viso un tantino più sottile di quanto non fosse dieci anni prima.
Non era cambiata molto, Payson, in dieci anni. Da quando aveva smesso con le competizioni e aveva iniziato ad allenare era allungata di un paio di centimetri, il suo corpo era più magro e sottile e anche il suo viso assomigliava di più a quello di una donna. Ancora non era scesa a compromessi con l’utilizzo del make up e presentava al mondo il suo viso acqua e sapone.
“Scusa, il coach Belov è dentro?” domandò ad una ragazzina appena uscita dalla palestra.
La ragazza la guardò per qualche istante, cercando di riconoscerla. Probabilmente era un po’ difficile associare l’immagine di quella donna con jeans blu e maglietta bianca alla ginnasta aggraziata e dal viso perfettamente truccato che aveva vinto l’oro alle Olimpiadi del 2012.
“è ancora dentro” le rispose continuando ad osservarla. Il cuore di Payson perse un battito. Una parte di lei aveva sperato che lui non ci fosse..
“tu sei Payson Keeler per caso?” domandò la ragazza avvicinandosi. Payson annuì, ricambiando l’occhiata. La ragazza aveva capelli nerissimi, ancora stretti in una coda dopo l’allentamento. Gli occhi erano grandi e verdi, la pelle lattea. Doveva avere circa quindici anni e la guardava con una curiosità discreta che a Payson piacque molto.
“Sasha parla sempre di te” buttò lì la ragazza mentre si andava riparare sotto una tettoria. Pyason la seguì, con il cuore sotto le scarpe.
“ah si? E cosa dice il coach Belov?” domandò cominciando a mordicchiarsi le unghia praticamente inesistenti della mano destra. Lo faceva spesso, quando era nervosa.
“dovresti chiederlo a lui” rispose la ragazzina con un largo sorriso. Poi le tese la mano. “Comunque io sono Catherine” Payson strinse le piccole dita della ragazza, avvertendo il familiare contatto con i calli tipici delle ginnaste. Anche le sue mani erano segnate dagli allenamenti, testimoniavano le fatiche che aveva affrontato per arrivare in alto. Ma ne era valsa la pena.
Payson guardò verso la palestra, indecisa se entrare o meno. Fece un passo avanti ma si fermò di colpo. Erano circa quattro ore che questo si ripeteva. Quattro ore passate a guardare l’entrata di quella stupida palestra. In realtà la stupida era lei, che aveva affrontato un volo incredibilmente lungo per arrivare a Londra, e che probabilmente sarebbe ripartita senza avere il coraggio di entrare in quella palestra. Senza avere il coraggio di rivederlo.
“penso che sia il caso di entrare sai” la esortò una vocina alle sue spalle. Payson si era quasi dimenticata di Catherine. La ragazzina la guardava con un sorriso furbo.
“tu dici?” domandò quasi senza volerlo. Mentalmente Payson si diede della stupida. Da quando in qua chiedeva consiglio ad una ragazza sconosciuta? Lei era Payson Keeler, quella che quando si prefiggeva un obiettivo andava avanti incurante di ogni ostacolo. Perché non riusciva a varcare quella semplice porta? Nella sua vita aveva superato di tutto. Problemi economici, familiari, un terribile infortunio alla schiena, la distorsione di una caviglia e tanto altro ancora…cosa poteva essere mai una porta? Ma il problema non era la porta in se, il problema era ciò che l’aspettava dall’altra parte. Qualcosa a cui era totalmente impreparata nonostante non avesse fatto altro dalle olimpiadi che programmare quel momento.
“ma certo che si! Scommetto che non vede l’ora di riabbracciare una vecchia amica” rispose entusiasta Catherine. Vecchia. Già, Payson si sentiva molto più vecchia. Aveva ventisei anni adesso, non più sedici. Era ufficialmente adulta, con il suo carico di responsabilità sulle spalle.
Catherine si alzò in punta di piedi e iniziò a guardare il suo viso in modo strano, con la faccia di un investigatore alla ricerca delle prove di un crimine.
“si può sapere che c’è?” domandò Payson allontanandosi dal visetto della ragazzina, a disagio sotto la sua occhiata. Catherine sorrise enigmatica e iniziò a girarle intorno.
Certo che quella ragazza era proprio strana! Payson per un secondo valutò l’idea di andarsene e basta, lasciando Catherine e Londra senza voltarsi indietro.
“perché hai tanta paura di entrare? Non sarai cotta di Sasha vero?” domandò la piccola insolente, tornando a guardare Payson dritto negli occhi.
“ma che stai dicendo! Ovvio che non sono cotta! Non ci vediamo da dieci anni come potrei avere una cotta per un uomo che non vedo da dieci anni? e l’ultima volta che ci siamo visti ero solo una ragazzina e lui era quasi come un padre per me… È solo che non so se si ricorda ancora di me o se gli farà piacere vedermi. ” strillò mentre le sue guance si imporporavano di rosso e la sua voce di alzava di due ottave. La ragazzina sogghignò, un sorriso terribilmente irrisorio.
“the lady doth protest too much” la apostrofò la ragazza mostrando una sorprendente conoscenza di Shakesperare e un sorriso a trentadue denti. Payson sbuffò. Quella  non era una ragazza normale, doveva essere geneticamente modificata perché era acuta e molesta come una zanzara.
“senti ma non devi andare a casa?” la esortò notando che il sole stava iniziando a tramontare. E che la pioggia non accennava a smettere. Ma ovvio, quella era la piovosa Londra!
Catherine si strinse nelle spalle, continuando a sorridere.
“mi sembrava che avessi bisogno di un angioletto sulla spalla”
Payson avrebbe voluto dirle che più che un angioletto sulla spalla in quel momento era simile ad un riccio nelle scarpe, ma non le sembrò il caso. In fondo non era colpa di Catherine se era così nervosa.
“credo che tu abbia svolto il tuo ruolo, ora puoi anche andare” la liquidò desiderando ardentemente restare da sola. Catherine la guardò per qualche istante, poi le voltò le spalle e iniziò ad incamminarsi verso una strada silenziosa alla sua destra. Si fermò di colpo.
“Sasha dice che sei la persona più forte che lui conosca. Che sei generosa e altruista e che anche nei momenti bui riesci a portare agli altri un sorriso. Dice che ami quello che fai e fai ogni cosa solo perché ami farla. Dice che non ti arrendi mai, che hai il coraggio di affrontare qualunque cosa. Ci dice che sei una persona speciale perché non solo cerchi di essere perfetta nella tua ginnastica ma perché sei leale e onesta, silenziosa e obbediente. Che fai quello che è necessario fare. Dice che hai vinto l’oro perché hai trovato la poesia dentro di te. Dice che hai una determinazione incredibile e che non hai mai capito di essere bella e che proprio questa tua ingenuità ti rendeva speciale.” Tacque per un secondo, lasciando Payson con gli occhi sgranati, il cuore paralizzato.
“chi lo conosce, chi si ferma realmente ad ascoltarlo, sa che prima o poi, ogni giorno, sentirà il tuo nome. Tu ci sei sempre per noi, Payson.” Finì il suo discorso e Payson la vide sparire dietro l’angolo. Quel discorso l’aveva spiazzata. Terrorizzata. Sasha. Quanto tempo non lo vedeva? Dieci anni che non era bastati a cancellarle dalla mente gli attimi passati insieme. Perché lui era stato l’unico a credere in lei fino in fondo, a starle accanto anche quando gli altri avevano lasciato la speranza. Non era stato solo un allenatore, per Payson. Lui le aveva insegnato la vita. E non sarebbe stato fiero di vederla davanti a quella porta, indecisa, come se tutto quello che aveva affrontato, come se tutto quello che avevano affrontato insieme, non fosse mai successo.
Fece un respiro profondo, poi un passo avanti, incurante della pioggia che le martellava il viso. Rabbrividì, non soltanto per il freddo, mentre passo dopo passo, si avvicinava a quella porta. Poggiò una mano su quel portone freddo, cercando di trarre dal metallo immobile la forza per andare avanti. Poi spinse ed entrò.  

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Capitolo 2
*** Ritrovarsi in uno sguardo ***


La pioggia smise di inzupparle i capelli, in un istante fu catapultata nella semioscurità della palestra, sconosciuta eppure così familiare. era come la Rock, come il luogo che lei chiamava casa.
La luce era scarsa, quasi ovattata, solo un paio di lampade al centro illuminavano lo spazio. Il rumore della pioggia giungeva attutito e Payson poteva scorgere le goccioline che si affollavano contro i vetri appannati dalle finestre. Ci mise qualche istante per trovarlo.
Era agli anelli, roteava in aria con la stessa grazia e la stessa perfezione di vent’anni prima, quando ancora gareggiava. Raramente Payson l’aveva visto allenarsi, ma quei momenti erano impressi nella sua mente. E adesso, dopo dieci anni di lontananza, vedeva il suo corpo teso in aria, i muscoli gonfiarsi sotto il velo della pelle. Il suo viso era concentrato, sembrava non vedere niente. I movimenti precisi ed armonici. Sasha si diede un ultimo slancio, poi atterrò perfettamente al centro del materassino. Sollevò lo sguardo. e in quel momento i loro occhi si incontrarono dopo dieci anni. In quegli occhi Payson ritrovò tutto ciò che le era mancato, ritrovò Sasha, il loro rapporto e gli anni che erano trascorsi, ma che in realtà non avevano cambiato niente, che non erano riusciti ad intaccare i ricordi, l'affetto. Si ritrovarono in quello sguardo, o almeno così sembrò a Payson, annegando nei ricordi, negli attimi rubati, in ciò che sarebbe potuto già essere.
Payson rimase immobile, incapace di avanzare o di proferire parola. Riusciva solo a guardarlo. Non era cambiato per niente, appena qualche ruga in più sulla fronte. Ma era lo stesso viso, gli stessi occhi. Era tutto come allora.
Anche lui sembrava incapace di parlare, la fissava quasi non riuscisse a credere che lei fosse davvero lì. Era rimasto congelato nella posizione di atterraggio, i muscoli ancora tesi, il volto ancora concentrato nell’esecuzione dell’esercizio. Ma c’era stupore nei suo occhi. Forse non la riconosceva, si chiedeva chi fosse quella sconosciuta dall’aria vagamente familiare che interrompeva il suo allenamento solitario. In fondo erano passati dieci anni, e lei era cambiata. Sentì lo stomaco contorcersi dolorosamente al pensiero che lui non la ricordasse.
“Payson?” il nome riecheggiò nella palestra con un tono interrogativo, più che perplesso incredulo. Payson rabbrividì nel sentire di nuovo la sua voce. Le era mancata. Le era mancato sentire quella voce guidarla, sussurrarle i consigli giusti, sgridarla e sostenerla.
“ciao Sasha” sussurrò incapace di muovere un passo. Fu lui ad avvicinarsi. Lentamente, quasi con cautela. Lei rimase immobile, cercando di dare un senso alla totale assenza di pulsazioni del suo cuore. Sasha. Da quanto tempo non diceva ad alta voce il suo nome?
“non riesco a credere che tu sia qui” le sussurrò a qualche centimetro di distanza. Non si erano sfiorati. Nessun abbraccio, nessuna stretta di mano, nessun sorriso. Solo sconcerto, incredulità.
“volevo salutarti” mormorò Payson abbassando lo sguardo alle proprie scarpe da ginnastica fradice di pioggia. Attorno a lei si era velocemente formata una pozzanghera, e anche i suoi capelli sgocciolavano sul pavimento lindo della palestra. Payson sentì un brivido di freddo percorrerle la schiena, e un secondo dopo non sentì più nulla. Sasha le aveva stretto le mani intorno alle braccia e l’aveva attirata a se in un abbraccio, precipitoso, irruente, impulsivo.
Come aveva fatto a resistere dieci anni? era un tempo così lungo…
“mi sei mancata” le disse in un bisbiglio quasi inudibile, il respiro caldo tra i suoi capelli e sulla pelle fredda del suo viso bagnato di pioggia.
“anche tu” era un’ammissione che le veniva quasi strappata a forza dalle labbra livide a causa del freddo di dicembre. Londra decisamente non le piaceva, pensò in uno sprazzo di incoerenza mentre iniziava a battere i denti a causa del freddo pungente che le stava penetrando nelle ossa.
Sasha parve accorgersi del suo tremito e si allontanò, fissandola per qualche istante perplesso.
“oh mio dio Payson, starai congelando!” esclamò inorridito notando la condizione dei suoi abiti.
“Londra non fa per me. troppa pioggia” rispose abbozzando un sorriso.
Sasha scosse la testa, le voltò le spalle e salì in quello che doveva essere il suo ufficio. Payson rimase immobile a guardarlo mentre frugava sulla scrivania e quando tornò da lei stringeva un ombrello una giacca e due mazzi di chiavi. le posò con delicatezza la giacca sulle spalle, poi le strinsi il braccio poco sotto il gomito e la guidò in fretta verso l’uscita, spegnendo la luce alle loro spalle. Una volta fuori, poco prima di essere investiti dalla pioggia torrenziale, Sasha si voltò a chiudere le porte della palestra, poi aprì l’ombrello e cercando di ripararla il più possibile la guidò verso un’auto nera e lucida. Si trattava bene Sasha, pensò Payson osservando l’elegante macchina che aveva sostituito quella specie di fuoristrada con cui se ne andava in giro ai tempi della Rock.
“la moto ce l’ho ancora” affermò Sasha, quasi leggendole nel pensiero e rompendo il silenzio che era piombato. Le aprì lo sportello e la fece accomodare, tacitando le proteste di Payson che non voleva bagnare gli eleganti sedili di pelle della sua auto.
L’interno di pelle della costosa macchina era ordinato, asettico e preciso come tutto era sempre stato nella vita di Sasha. In quei particolari quotidiani ed insignificanti Payson aveva sempre visto la devozione, la disciplina e l’esercizio che Sasha aveva preteso da lei, ma che in primo luogo pretendeva da se stesso. C’era rigore, in quei sedili perfettamente curati, privi di qualsiasi macchia, c’era precisione nei tappetini privi di fango e briciole, c’era controllo nello specchietto perfettamente posizionato e nei poggiatesta inclinati in modo da seguire il contorno del collo di lui.
E adesso lei aveva portato la pioggia a infangare quell’auto controllata con precisione, aveva fatto irruzione in quel luogo di rigore, macchiato quella vita costruita sulla fatica.
Sgocciolava nella sua auto così come per anni, in silenzio, costantemente, era fluita nella sua vita, quasi senza che lui, o tanto meno lei se ne accorgessero.
“mi dispiace. Non solo sporcarti la macchina…mi dispiace essere piombata di nuovo nella tua vita.” Sussurrò mentre la macchina si muoveva in mezzo al grigio di Londra.
Lui non la guardava, manteneva la sua concentrazione sulla strada, mettendo nella guida la stessa attenzione che aveva sempre messo nell’allenare lei, nel guidarla mano nella mano verso la grandezza.
“sono felice che tu sia tornata” disse queste parole senza incrociare il suo sguardo, i muscoli del collo tesi, il profilo affilato, rigido. Il profilo che lei conosceva, il volto che l’aveva fatta crescere, la bocca che le aveva dato i consigli giusti, che le aveva detto che lei, nonostante tutto ce l’avrebbe fatta. La bocca che lei, solo per un istante, aveva baciato…
“non ne avevo il diritto. Sono stata egoista.” Fu quasi un bisbiglio ma era sicura che lui l’avrebbe sentita. Aveva sempre sentito anche i suoi silenzi, Sasha, perché semplicemente era sempre stato in grado di capirla. Capire davvero ciò di cui aveva bisogno, che fosse un allenatore severo o un amico che credesse in lei. Sasha era stato tutto per lei, era sempre stato ciò di cui aveva bisogno per diventare adulta, per raggiungere i suoi obiettivi e realizzare i suoi sogni.
“nessuno più di te ne aveva il diritto Payson!” fu la replica di Sasha, ancora concentrato sulla strada. Lei scosse la testa. No, lei non poteva vantare alcun diritto sulla vita di lui. Forse Summer sarebbe potuta tornare da lui, chiamarlo e riprendere i contatti. Lei si, che ne avrebbe avuto il diritto.
Payson non rispose, rimase a tormentarsi il bordo della maglietta con le dita, dure a causa dei calli. Nella mente le rimbombavano le parole di quella ragazzina, Catherine.
“chi lo conosce, chi si ferma realmente ad ascoltarlo, sa che prima o poi, ogni giorno, sentirà il tuo nome. Tu ci sei sempre per noi, Payson.”
Parlava di lei. Sapere che, in un modo o nell’altro, lei era riuscita a rimanergli accanto, come un ricordo, come un fantasma, magari anche come un incubo, era destabilizzante. Era tutto quello che aveva sempre desiderato. Perché anche lui era rimasto presenta nella sua vita, la sua assenza fisica era stata bilanciata dalla presenza dei suoi insegnamenti, di quegli attimi condivisi che Payson custodiva gelosamente.
La conversazione terminò in quel modo. Nessuno dei due era mai stato il tipo da monologhi da melodramma o scene magistrali. Loro comunicavano con i gesti, con la fatica che mettevano nel cercare ciò che amavano. Nel cercarsi l’un l’altra.  



NOTE:
Ho cominciato questa storia senza alcuna pretesa di portarla avanti, ma alla fine mi sono ritrovata a rileggerla e a pensare che Payson e Sasha avevano ancora qualcosa da dire. Non so bene neanche io quanto sarà lunga questa storia, se mi fermerò dopo il terzo capitolo o continuerò ancora per un pò. In ogni caso sarà abbastanza breve. Voglio ringraziare le persone che hanno letto e soprattutto quelle che hanno recensito. Grazie a tutte per il vostro parere e la vostra attenzione, spero questo secondo capitolo possa piacervi come il primo.
su Sasha e Payson ho poco da dire. Non so bene neanche io perchè ami questa coppia. Raramente le storie d'amore con una grande differenza di età mi appassionano, non me ne vogliano i fans di Federico Moccia, ma la tradizione riportata recentemente alla ribalta con il suo "Scusa ma ti chiamo amore" mi da abbastanza l'orticaria. Sasha e Payson li amo perchè sono diversi da qualsiasi coppia abbai mai visto. non è il rapporto alunna-insegnante che può sembrare a prima vista. è un rapporto completo, di crescita. Loro si completano, si aiutano, sono forti insieme. Quello che amo di più è il fatto che Sasha ci sia sempre stato per lei, che sia stato la sua ancora di salvezza dopo l'infortunio ai nazionali e che sempre, anche quando tutto sembrava dire il contrario, lui abbia creduto nella sua forza e sia riuscito a farla andare avanti. se Payson è arrivata dove è arrivata è solo merito di Sasha, quindi mi piace pensare che lei abbia vinto l'oro alle olimpiadi, e che quella medaglia sia un pò anche di Sasha. 
Il titolo del capitolo fa riferimento al momento in cui i loro sguardi si incrociano, che per me è proprio un ritrovare non solo l'altro, ma anche se stessi.
  

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Capitolo 3
*** Ritrovarsi in un respiro ***


La macchina si era fermata dopo circa un quarto d’ora di strada. Sasha ‘aveva guidata in silenzio dentro un bel palazzo elegante, accompagnandola silenzioso dentro l’ascensore. Nessuno dei due aveva trovato niente da dire e Payson aveva iniziato a temerlo, l’imbarazzo che piomba improvviso quando due persone che non hanno niente in comune si rivedono dopo anni. Era stato così con Lauren, con Emily, che era andata a cercare a Las Vegas. Era successo con Kaylie, con Jordan, con Rigo con Max. il pensiero che quell’imbarazzo che sapeva di vita ormai passata potesse adesso contaminare il suo incontro con Sasha la paralizzava. No, non con lui. Con tutti ma non con lui. Non poteva essere imbarazzo e vuoto con l’uomo che le aveva dato la forza di lottare per un sogno. L’uomo che per tanto tempo era stato un sogno a sua volta, un idolo nella mente di una giovane ginnasta. Un uomo che ancora oggi manteneva intatta quella posizione.
Sasha aprì una porta entrando nel suo appartamento. Si muoveva con la stessa agilità scattante di sempre. Movimenti essenziali, secchi e al tempo stesso armonici.
Payson rimase ancora sulla soglia, spaventata, a guardare quei movimenti che aveva studiato per anni, prima in televisione ma che poi, sorprendentemente aveva avuto l’occasione di osservare dal vivo. Vicini.
Così vicini che spesso si era chiesta se lui riuscisse a sentire il suo cuore e i suoi pensieri.
“entra Payson” la invitò lui, aggrottando la fronte mentre la guardava, impietrita sulla soglia di casa sua. Non aveva mai esitato, in passato, prima di entrare nella sua roulotte.
“è così diverso..” si lasciò sfuggire Payson entrando nell’appartamento. Lusso essenziale ed eleganza. Era questo ciò che la circondava. Sembrava l’appartamento di un ricco manager, di un uomo abituato ai lussi. Era così diverso dall’ambiente che era abituata ad associare all’uomo che le stava davanti. Ma erano passati dieci anni, ricordò a se stessa, e tutto era cambiato. I posti, le persone. Lei. Lui.
“Allora perché io vedo tutto uguale” le mormorò quasi sovrappensiero, piegando lievemente il capo a sinistra, studiandola con la stessa attenzione, la stessa cura, con cui aveva studiato i suoi movimenti da atleta. Ma adesso la guardava in modo diverso, la studiava come Payson, come persona, la studiava come se lei fosse una risposta.
“Non guardarmi così, questo rende tutto diverso” si schernì Payson togliendosi una ciocca di capelli umidi dalla guancia. Cercò di sorridere, di fare passare quella frase sfuggita tra un respiro e l’altro per un battuta. Lui non rise, non assecondò il suo gioco di maschere e di inganno, lo stesso gioco che, senza saperlo, preterintenzionalmente, avevano dovuto portare avanti per anni.
“Come vuoi che ti guardi” le domandò senza perplessità. C’era curiosità nella sua voce ma non dubbio. Entrambi sapevano il significato di quelle frasi, l’essenza dietro il modo in cui si guardavano. La verità dietro la maschera degli anni, delle convenzioni, dei ruoli e delle esperienze.
“Come se il tempo non fosse passato. Come se mi conoscessi ancora.” Soffiò incapace di allontanare i suoi occhi da quelli di lui. Le era sempre piaciuto il suo colore. Quell’indefinibile amalgama di grigio e verde, quel contorno appena più scuro dell’iride. Quegli occhi. Lui .
“Io ti conosco da sempre Payson, e anche volendo non potrei smettere di conoscerti. Conoscere te.” Si passò una mano sul viso, stanco. Si erano scambiati appena qualche frase, eppure sembrava esserne provato. Forse, pensò Payson, la mia visita è un fastidio. Non era arrivata fin lì per procurargli sofferenza. L’unica a cui pensava di fare del male era se stessa, rigirando il coltello in quella ferita mai rimarginata, sanguinando di nuovo su un passato rimasto congelato a dieci anni prima, un passato che li vedeva vicini, ma non insieme.
“non vuoi sederti” Non era stata una domanda e lei non si preoccupò di rispondere. Era solo una tregua, una pausa che lui concedeva a lei, a se stesso, per riprendere il fiato, per prepararsi di nuovo a quelle frasi dai contorni sfumati e dai significati profondi.
“Cosa vuoi che ti dice Payson? Che sono felice di vederti? Lo sono. Sono felice di vederti di nuovo. E al tempo stesso odio che tu sia qui, in questa stanza, perché quando domani te ne andrai, ogni singolo oggetto mi parlerà di te e non riuscirò più a guardare ciò che mi circonda. Quando me ne sono andato…ho dovuto cambiare tutto. Ogni singola cosa. La mia casa, il mio lavoro, il mio modo di vivere. Volevo che tutto fosse diverso per non vederti. Per non respirare te ad ogni singolo passo. Era la cosa giusta”
Uno dei due, alla fine, aveva trovato il coraggio di scoprire le carte. Lo aveva fatto lui, con alle spalle i suoi annidi esperienza, di sofferenza e di comprensione, mettendo per la prima volta davanti a Payson cose di cui lei non sospettava l’esistenza.
“ci sei mai riuscito? Perché io, per dieci anni, ad ogni respiro ho sempre sentito te. Solo te. Ed era come annegare e soffocare perché tu non c’eri. Non c’era niente di giusto per me”
Non aveva inteso mettere in quelle parole tanto dolore e tanta rabbia. Risentimento che non aveva mai davvero capito di provare nei suoi confronti. Perché l’aveva lasciata indietro.
“Vuoi delle scuse? Sai che non posso farlo. Non sono pentito di averlo fatto. Se fossi rimasto non saresti arrivata dove sei adesso. Sapevo che da sola potevi farcela. Che saresti stata grande. Non posso pentirmi di aver scelto te Payson. Come allenatore, come amico, come.. qualunque cosa. Sceglierò sempre te, anche se le mie scelte non ti piaceranno” era arrabbiato, arrabbiato e vicino, più vicino di quanto non fosse mai stato davvero. Era vicino perché era sincero, era vicino perché lei era nei suoi discorsi in modo diverso che come allieva e come ginnasta. Era vicino perché in ogni respiro c’era lei come donna.
“e dove sono adesso? A km da casa, inzuppata fradicia, senza nessuna voglia di continuare il mio lavoro, senza nessun sogno, sono svuotata, bloccata a dieci anni fa. Dimmi, Sasha, quanto grande ti sembro in questo momento? Quanto credi che sia andata lontano se sono ancora qui, di fronte a te e non riesco a respirare altro che il tuo odore e non riesco a desiderare atro che respirarlo ancora?”
Non aveva urlato ma le sue parole lo fecero indietreggiare.
“non volevo questo per te. Volevo che avessi il meglio” le bisbigliò muovendo una mano ad accarezzarle una guancia. Pioggia e lacrime si mescolavano e Payson era felice che lui non potesse davvero avere la certezza, di quelle lacrime.
“io volevo te” sussurrò Payson. Poi scostò appena il maglione che indossava, tirando fuori dalla scollatura un nastro rosso, liso per tutte le volte che era stato accarezzato, nel buio di notti in cui lei non era riuscita a dormire.
La sua medaglia. La medaglia che lui le aveva dato come pegno della sua fiducia, del suo affetto, del loro legame speciale. La medaglia che era l’unica pezzo di lui che le era rimasto, la medaglia che per anni aveva giaciuto sul suo seno sinistro, dove pulsava il suo cuore, dove lui non aveva smesso di esistere.
Sasha allungò una mano. Le dita, solitamente forti e ferme, tremavano mentre sfioravano il metallo.
“la rivuoi indietro?”
Adesso si toccavano. Si toccavano i loro respiri, i loro capelli, i loro sguardi.
Sasha lo sapeva, che quello era un punto di non ritorno. Se lui le avesse chiesto indietro a medaglia, avrebbe chiesto quella parte di se che non aveva mai rimpianto di averle lasciato. Avrebbe chiesto quell’unico pensiero che la notte lo aveva aiutato a dormire, pensando che, in un modo o nell’altro, qualcosa di lui era rimasto nella vita di Payson.
“No. Non la vorrò mai indietro” mormorò quasi sulle sue labbra. Forse sarebbe stato meglio per lei allontanarla. Salutarla definitivamente. Ma non poteva, non di nuovo, non quando sentiva il suo sapore sulle labbra, così vicine, con le loro pellicine mangiucchiate e il loro colore naturale, privo di qualsiasi finzione o artificio.
Non distolse lo sguardo dalle labbra di lei mentre sentiva qualcosa di caldo scivolargli intorno al collo, un nastro che chiudeva definitivamente un capitolo del passato, ricollegandosi ad un presente che aveva atteso troppi anni per iniziare.
 “Allora è giusto che adesso tu prenda la mia” mormorò Payson respirando piano, respirando il suo assenso, il loro passato, il suo amore. Loro.


NOTE:

Perdonate i mostruosi errori sicuramente presenti. Non ho davvero avuto il tempo e la pazienza di rileggerlo, anche perchè facendolo avrei trovato mille imperfezioni e avrei deciso di cambiare qualcosa, invece voglio che venga letto così, magari banale o semplicistico, ma spontaneo. Questa storia era iniziata come una One Shot, le parole di un momento, ma poi ho realizzato che non volevo quel tipo di chiusura per loro. Volevo qualcosa che, almeno per me fosse significativo, un loro ritrovarsi in tutti i modi possibili. ritrovarsi fisicamente, attraverso lo sguardo e attraverso il respiro. Ritrovarsi a vicenda ma anche ritrovare se stessi. Perchè per come la vedo io, Payson ha perso molto di chi era, senza Sasha. Sono sicura che per lui sarà stato lo stesso. Per questo ho voluto concludere con il gesto di scambiarsi le medaglie, perchè credo che in amore dopo aver trovato se stessi sia indispensabile donare noi all'altro. Quanto alla scelta del "respiro" come momento finale, ho scelto proprio questo perchè, a differenza dello sguardo o del fisico, il respiro è indistinto. è di Payson e di Sasha insieme, è di tutti gli innamorati e di tutti coloro che semplicemente vivono. L'aria era l'unica cosa che potesse unirli totalmente secondo me.
Scusate questa enorme e delirante nota, ma chiudendo questa breve storia sentivo il bisogno di spiegare l'importanza di alcuni attimi che per me sono stati cruciali, tra Payson e Sasha.
Grazie ha chi ha seguito in silenzio, ha chi ha aggiunto questa storia tra le seguite, le preferite o le ricordate. Grazie a chi ha lasciato un commento e grazie soprattutto a Payson e Sasha, per la loro bellissima storia di amicizia e amore.





  
per chi avesse qualche domanda o volesse semplicemente parlare, questo è il mio profilo facebook:http://www.facebook.com/?sk=welcome#!/lilith.lancaster.7 

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